Atti del convegno 2007 -Un percorso di
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Atti del convegno 2007 -Un percorso di
Prato 6 settembre 2007 Wall Art Hotel & Congress Viale della Repubblica, 8 8.30/13.30 Convegno Un percorso di educazione alla cura Relazione tra differenze PROGRAMMA Registrazione dei partecipanti caffè di benvenuto Saluti Giuseppe Gregori, Assessore alle Politiche Educative e dell’ Istruzione Pubblica, Comune di Prato Introduce Linda Pieragnoli, Consigliera Comunale incaricata per le Pari Opportunità, Comune di Prato Coordina Perla Giagnoni, Resp. Coordinamento Pedagogico del Servizio Educazione e Cultura dell’Infanzia, Comune di Prato Intervengono Marina Piazza, Presidente Gender Marco Deriu, Università degli Studi di Parma Barbara Mapelli, Università degli Studi di Milano Bicocca Claudio Vedovati, Associazione “Maschile plurale”, Roma Antonella Orlandi, Insegnante Dibattito Conclude Susanna Cenni Assessora alle Pari Opportunità, Regione Toscana 1 2 Saluti Giuseppe Gregori Assessore alle Politiche Educative e dell’ Istruzione Pubblica Ringrazio tutto il personale del Servizio Educazione e Cultura dell’Infanzia e in particolare ringrazio il Coordinamento Pedagogico che ha organizzato il Convegno. Mi auguro che dal progetto che prenderà avvio da oggi si ottengano risultati positivi anche nella pratica. Sul tema del raggiungimento della parità di genere sono state fatte tante discussioni ed elaborazioni che sono rimaste sul piano teorico. Mi torna in mente una frase che era scritta sui muri dell’Università :”..meglio che il dire è il fare”. Abbiamo bisogno di concretezza. E’ importante riflettere su questo tema e lavorare con i bambini fin dalla prima infanzia, perché i bambini sono molto recettivi e sensibili. A fine anno scolastico, lo scorso giugno, in occasione di visite organizzate nelle scuole che prevedevano anche il pranzo con i bambini, ero in una scuola del Centro Storico dove la presenza di bambini stranieri è molto alta. Avevo accanto un bambino cinese. Il bambino non mangiava. Ho chiesto -“ Ti piace?” . Mi ha risposto - “Poco” . -“Che classe fai?” - “ La I°C “ “Cosa mangeresti ? – “…Ci sto pensando?” Qualcuno vicino ha detto riferendosi al bambino cinese -“ Lui è bravo in matematica”. Anche se frequentava da poco la scuola, aveva imparato bene l’italiano e soprattutto …la “c” perfettamente….aspirata come i pratesi. Quindi, i bambini e le bambine sono aperti e ricettivi hanno la possibilità di interiorizzare modelli diversi di comportamento. La scuola, grazie alla presenza di personale qualificato e alle attività specifiche che vengono svolte è capace di insegnare i principi fondamentali alla base delle relazioni fra le persone e anche fra gli uomini e le donne. In questo senso, per la mia esperienza di Assessore ma anche per quella di padre, posso dire che esistono sensibilità e capacità adeguate da parte degli insegnanti per affrontare questi argomenti; esistono le capacità per realizzare progetti sperimentali che ci potranno permettere di dare un contributo di esperienza importante su questo tema. La nostra esperienza potrà essere presa a modello anche da altri. L’argomento di cui si parla è delicato e complesso, soprattutto sarà difficile produrre cambiamenti profondi nella vita quotidiana. Ma sono sicuro che la concretizzazione di questa esperienza porterà un contributo concreto e sarà un’esperienza speciale per i bambini. 3 4 Introduzione Linda Pieragnoli Ringrazio tutti e tutte le intervenute. II progetto che abbiamo deciso di realizzare si inserisce nelle iniziative che il Comune di Prato ha promosso nell'Anno Europeo delle Pari Opportunità e ha come protagonisti, gli alunni che frequentano le scuole materne del Comune di Prato. Nel dare vita a questo progetto rivolto ai cittadini più piccoli, ai bambini delle scuole materne comunali, sull'educazione alla cura, sulla relazione tra differenze, ci hanno ispirato il lavoro di un'altra amministrazione toscana, la provincia di Arezzo, che ha avuto come tema "Chi lavora in casa tua" e quello del partner spagnolo di Alaquas nel progetto Equal "Tempo: Territorio e Mainstreaming per le Pari Opportunità", nato con l'intento dì realizzare azioni sperimentali sul territorio che favoriscano una politica dei tempi che risponda ai bisogni dei cittadini. II 2007 appunto è l'Anno Europeo delle pari opportunità per tutti. In primo luogo per le donne, ma non solo. Possiamo scegliere di dare diverse interpretazioni al principio delle pari opportunità: II Consiglio e il Parlamento Europeo ha deciso di leggere quest'anno attraverso 4 punti di vista: quello dei diritti, quello della rappresentanza, quello del riconoscimento delle diversità, quello del rispetto, per dire un no fortissimo alla violenza e agli stereotipi. Da un lato l'obiettivo è rendere i cittadini europei consapevoli dei propri diritti e delle proprie possibilità dall'altro lato quest'anno serve per far sì che le amministrazioni pubbliche perseguano e implementino AZIONI POSITIVE per rimuovere gli ostacoli alla realizzazione delle persone, di ogni persona. Credo che la chiave, l'idea di fondo che caratterizza quest'anno, sia legata a un nuovo modo di affrontare il tema, di renderlo attuale legandolo a stretto filo al riconoscimento dei TALENTI INDIVIDUALI: per un nuovo modo di attuare politiche di pari opportunità, non più viste nell'ottica del superamento delle differenze di genere ma della valorizzazione delle possibilità individuali. In questo senso occorre proseguire la ricerca di un nuovo sistema di conciliazione tra uomo e donna, che sia strettamente collegato ad un nuovo modo di concepire e realizzare il lavoro di cura, che continua troppo spesso ad essere considerato un compito esclusivamente femminile, e che troppo spesso si rivela un appesantimento nella vita delle donne, nella loro possibilità di realizzazione professionale e sociale. Da anni le amministrazioni promuovono politiche e servizi che cercano di incidere su questo aspetto 5 della vita delle donne, per sostenerle e per rispondere alla ricerca di autonomia. Anche in questo senso abbiamo affrontato nel tempo un percorso di genere sulla qualità dei tempi e degli spazi di vita. Abbiamo ottenuto strumenti normativi per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza; per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali di qualità; per il sostegno della maternità e paternità, per la tutela del diritto alla cura anche attraverso la qualità della città e del territorio. Pensiamo che compito delle amministrazioni sia quello di realizzare politiche e progetti che servano a formare, a stimolare i cittadini e la loro crescita, sia quello di anticipare e non inseguire i cambiamenti della società, sia quello di dare possibilità in più. Pensiamo che il sistema dei servizi che viene messo a disposizione, pensato e realizzato debba essere articolato e il più possibile pensato non su un cittadino x ma tenendo conto delle esigenze particolari delle persone e chiedendo loro di smontare, discutere modificare modelli appresi forse per tradizione e cultura, sicuramente non più attuali né vantaggiosi e appropriati per quello che chiede oggi la nostra società, per la dinamicità, l'autonomia che sempre più sono richieste. La sfida da vincere per realizzare politiche di pari opportunità è avere una lettura aggiornata della città che cambia. Serve oggi per questo sviluppare un'azione ancora più approfondita, educativa, e per questo rivolta ai cittadini più giovani, nel momento in cui la loro visione del mondo non è ancora rigida né consolidata. Tenteremo di creare i presupposti per una cultura condivisa dei compiti e delle responsabilità del lavoro di cura familiare e domestico - oltre i ruoli stereotipati uomo-donna ai quali siamo abituati - lavorando in gruppi composti da bambini educatori e insegnanti, animatori, e con l'obiettivo di coinvolgere nei giusti tempo i genitori e le famiglie. Con questo progetto vorremmo che le bambine e i bambini imparassero a riconoscere e superare gli stereotipi, a non associare la differenza tra i generi a destini prestabiliti, a limiti, a divieti, a non identificarsi in ruoli preconfezionati, rigidi, a affrontare compiti dovuti ma a capire che la loro libertà e la creatività, il loro essere persone prima di tutto dipende dalla possibilità di inventarsi, di combinare modelli diversi in un insieme originale. La condivisione del lavoro di cura, la necessità di pensarsi prima di tutto come persone, di riconoscere che sono i meriti, i talenti e la loro realizzazione a far crescere la nostra società sono obiettivi da perseguire e da raggiungere, perché tutti abbiano davvero pari opportunità di esprimersi a fondo, perché si oltrepassino i cliché di una società che vogliamo cambi ancora nelle concezioni dei ruoli. 6 La parità di diritti e doveri tra donne e uomini non si può certo dare per scontata: in questo caso vorremmo che il contributo delle istituzioni facesse in modo che le abitudini dei grandi non spengano la curiosità dei bambini verso il mondo, vorremmo appunto che i bambini fossero stimolati a avere una visione autonoma, a non semplificare né limitarsi mai. E crediamo anche che parlare di questo con i bambini riesca a fare breccia nelle famiglie, a cambiare meccanismi squilibrati in cui troppo spesso sono le donne ad assumersi la responsabilità del lavoro di cura verso i familiari, e questo pur avendo un lavoro loro. La distribuzione diseguale dei carichi di lavoro domestico è la prima discriminazione che si realizza tra uomo e donna. Dobbiamo impegnarci perché si acquisisca pienamente la coscienza che la differenza tra maschile e femminile non si sancisce attraverso le limitazioni delle donne, non stanno insieme l'isolamento culturale e sociale della sfera domestica con il desiderio di una vita piena e gratificante, con un sistema economico sano e dinamico, con una socialità più vera. Nessuno deve restare solo o indietro, soprattutto nessuna donna. Ma dati e statistiche ci dicono che siamo ancora purtroppo lontani, che troppo spesso dopo la maternità le donne smettono di lavorare, e questo nonostante da 20 anni è l'aumento delle donne che esercitano un lavoro a condizionare l'occupazione, che l'Italia per la condizione femminile è al 25esimo posto in Europa. Negli ultimi tempi un pensiero conservatore che sta affacciandosi addirittura sembra minacciare il diritto delle donne a decidere del proprio corpo. Molte delle nostre concittadine vengono da Paesi nei quali la donna è fortemente penalizzata, e anche qui da noi la loro emancipazione troppo spesso rimane un miraggio, il diritto di parlare, di decidere per sé sono per loro spesso impossibili da immaginare. Noi vogliamo che questo cambi. Sappiamo che le ragazze studiano di più, sono più brave, determinate, si laureano prima. Ma sappiamo anche che la loro carriera è più corta, il trattamento economico è più basso, gli sforzi sono di più degli uomini. L'obiettivo delle iniziative promosse durante l'Anno Europeo è di rompere certi meccanismi discriminanti, lo penso che molto resterà e contribuirà a una società di vere pari opportunità per tutti, nel rispetto delle differenze, delle persone. Quello che ci auspichiamo è che il progetto che verrà sperimentato nel corso dell'anno si strutturi e divenga un aspetto dell'offerta formativa. L'educazione alla cura dovrebbe essere estesa anche a altre fasce d'età, e rivolgersi anche agli adolescenti. Crediamo che nella scuola dell'autonomia dovrebbe esserci spazio per un lavoro di questo tipo. Nella nostra regione sono state promosse in passato altre iniziative di questo tipo, dando risultati significativi. Crediamo che sarebbe opportuno oggi 7 raccogliere e strutturare queste esperienze, pensando a uno specifico progetto regionale che si rivolga ai bambini toscani, ai cittadini più piccoli, perché crescano con uno spirito nuovo, rinnovato, moderno, perché contribuiscano in pieno a una società in cui opportunità, diritti, doveri sono propri di tutti in misura 8 Contrastare gli stereotipi di genere – un progetto per le scuole d’infanzia comunali Perla Giagnoni Il tema dell’educazione di genere porta ad approfondire aspetti che attengono a valori quali il rispetto delle persone e delle differenze e i diritti di Cittadinanza promuovendo nuove relazioni fra uomo e donna. Per favorire un buon sistema di conciliazione fra uomo e donna è importante ipotizzare anche un nuovo patto di condivisione del lavoro di cura. E’ un patto che va costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione condivisa dei ruoli, delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti. In questo senso la priorità va affidata all’azione educativa condotta nelle scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità. Azione educativa che si può definire di “educazione alla cura”: alla cura di sé, dell’altro, del mondo, ed essere imperniata a rendere visibile – e a valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle donne come “compito dovuto”. Gli stereotipi relativi alle differenze fra i generi condizionano il comportamento degli adulti e dei genitori, ed influiscono anche sulle scelte nel gioco: • i maschi tendono a investire maggiormente il corpo (giochi motori, turbolenti con prevalente fisicità); • le bambine invece giocano in modo più sedentario, utilizzano maggiormente l’attività verbale e il gioco simbolico nel quale prevalgono temi relativi al lavoro domestico e di cura. Questi stereotipi orientano i bambini e le bambine fin dai primissimi anni di vita secondo forme di addestramento al ruolo attribuito al proprio sesso di appartenenza e sono fondamentali nella formazione dell’identità. La possibilità dei bambini/e fin da piccoli a riconoscersi e inserirsi nella categoria dei maschi o delle femmine fa parte del processo naturale di costruzione della propria identità e di una spiccata tendenza all’autodefinizione e alla categorizzazione. Imparano, quindi, molto precocemente ad apprendere i comportamenti di genere . Studi e ricerche dimostrano che a partire dai primi anni di vita prende l’avvio un processo di acquisizione dell’identità di ruolo, ossia l’acquisizione di schemi comportamentali, preferenze e valori condizionati dai modelli presenti in una determinata società. Durante il processo dell’acquisizione di identità di ruolo bambini e bambine cercano di distinguere cosa è maschio da 9 cosa è femmina attraverso quegli atteggiamenti e comportamenti regolati da convenzioni, divieti, attribuiti ai due sessi. Quindi, gesti quotidiani compiuti anche senza una esplicita volontà di insegnamento diventano, per i bambini/e, molto significativi e soprattutto indicativi di ciò che è maschio e di ciò che è femmina. La costruzione dell’identità di genere costituisce a pieno titolo fin dai primi mesi di vita una tematica formativa che, come tale, va ad investire la progettazione didattica, le relazioni interne, la formazione del personale dei rapporti con le famiglie. Insegnanti e genitori, spesso esitano ad affrontare l’argomento per varie ragioni che possono essere ricondotte ad alcune motivazioni: scarsità di produzione scientifica in materia e alla sua ancor più scarsa divulgazione, oltre che a pregiudizi, preoccupazioni e paure. Infatti, il tema comprende aspetti importanti che hanno un forte impatto emotivo-culturale, quali la sessualità, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella società, nelle organizzazioni. Da uno studio sugli stili comunicativi di uomini e donne nel lavoro di gruppo (1996) Patricia Wallace afferma: “E’ interessante notare che le differenze di genere esistono, ma sono minime. Uomini e donne non sono esattamente sessi opposti [e …omissis…]. Non siamo specie separate o aliene che provengono gli uni da Marte e le altre da Venere. “ Questo ci fa ben sperare che anche il progetto intrapreso possa contribuire a far prosperare nuove relazioni tra donne e uomini, tra bambine e bambini Il convegno ha l’obiettivo di presentare il percorso di sensibilizzazione e animazione nelle scuole dell’infanzia di Prato, prima tappa di un percorso che poi toccherà altri ordini di scuole. Il progetto “EDUCARE ALLA DIFFERENZA DI GENERE: superare gli stereotipi di genere alla scuola d’infanzia” è raccontato in modo esteso in appendice agli atti. Ringrazio le insegnanti che, senza indecisione e con grande serenità, hanno aderito al progetto al di là delle nostre aspettative: partecipano tutte le 9 scuole d’infanzia comunali. Significa che i tempi sono giusti per affrontare queste tematiche e sviluppare queste iniziative con le nostre bambine, i nostri bambini e i loro genitori. 10 Presentazione del progetto Marina Piazza Il progetto delle scuole dell’infanzia di Prato si colloca idealmente all’interno delle misure e delle politiche di conciliazione auspicate dall’Unione Europea, che prevedono interventi nei luoghi di lavoro per una flessibilità “amica”, nel territorio per incrementare i servizi, i trasporti, la mobilità, ma anche e direi soprattutto a livello dei singoli individui, per cercare di trasformare le relazioni tra uomini e donne all’interno della vita familiare, aumentando la propensione alla condivisione del lavoro. Dunque alla base – e come elemento fondante – del sistema di conciliazione va posto un nuovo patto di condivisione tra uomini e donne del lavoro di cura. E’ un patto che non può essere suggellato da leggi o da imposizioni, ma costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione condivisa dei ruoli, delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti. In questo senso la priorità va data all’azione educativa da condurre nelle scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità. Azione educativa che potrebbe essere definita di “educazione alla cura”: alla cura di sé, dell’altro, del mondo. Ed essere imperniata sul riuscire a rendere visibile – e a valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle donne come “compito dovuto”. Perché riteniamo che il concetto di cura sia il concetto base? Si potrebbe definire la cura come una pratica relazionale, la cui essenza è fondata sulla ricettività, sulla responsabilità di sé e dell’altro, sul rispetto, sull’empatia, sull’attenzione e anche sull’immaginazione. E’ un’attività umana irrinunciabile e solo perché è stata delegata alle donne viene svalorizzata nella nostra società, ma al contrario dovrebbe essere il fondamento di un’etica della cittadinanza. Ma è anche lavoro. Possiamo definire il lavoro di cura come un lavoro multiplo, connotato dalla complessità. E’ lavoro materiale della cura della casa, lavoro di consumo, lavoro di rapporto tra i membri della famiglia, lavoro di manutenzione dell’apparato tecnologico domestico, lavoro di mediazione con le istituzioni e le agenzie del welfare, lavoro di amministrazione, soprattutto lavoro di organizzazione delle diverse voci che lo compongono. E’ un lavoro che ritaglia le sue definizioni sui cambiamenti demografici e quindi ha a che fare sia con il ciclo di vita delle famiglie che degli individui: meno bambini, ma più seguiti e curati, più anziani esposti , per l’aumento esponenziale della durata della vita, a rischi molto alti di non autosufficienza. Dunque un lavoro che non è diminuito nel tempo, ma al contrario è diventato più complesso, più articolato, più esigente di competenze e saperi. 11 Ma è rimasto invisibile e comunque la sua invisibilità è funzionale alle società che non potrebbero reggere senza l’apporto gratuito delle donne. Perché la fondamentale caratteristica del lavoro di cura è quella di essere un lavoro asimmetrico a sfavore delle donne. L’indagine ISTAT sull’uso del tempo condotta nel 1989 e nel 200-2003 consente di misurare – e confrontare a distanza di 14 anni – il grado di asimmetria nella distribuzione dei carichi di lavoro familiare all’interno della coppia. Per dare un dato sintetico dall’ultima rilevazione emerge che il 77% del carico di lavoro familiare grava sulle donne, leggermente diminuito rispetto all’85% del 1989, ma pur sempre prevalente, anche nelle diverse fasce d’età. La diminuzione però è dovuta più alle strategie individuali delle donne che al maggiore coinvolgimento degli uomini. Al di là della realtà, pesano anche moltissimo gli stereotipi legati a una tradizionale divisione dei ruoli: alle donne il privato, il materno, l’affettività, la cura; agli uomini il pubblico, il lavoro professionale, la decisionalità. Se un uomo pensa che occuparsi dei suoi figli o della casa possa essere un attentato alla sua virilità, se una donna pensa che se non fa “tutto”, se non è una brava madre, una brava moglie, una brava lavoratrice non è una vera donna , è molto difficile pensare che si possa arrivare a una buona condivisione delle responsabilità di cura. E gli stereotipi sono armi potentissime perché sono strutture congelate di senso, perché rafforzano identità tradizionali, perché non aiutano a costruire la propria individualità. E una volta formati, è difficile decostruirli. Anche con i piccoli non si può affrontarli , ma in qualche modo si devono interrogare, “fino allo sfinimento”, come dice Letizia Lambertini, in qualche modo “disfare”, cioè liberare energie e desideri dalla clausura di costruzioni già fatte. Il fatto che entrambi i genitori, siano coinvolti nella cura e nelle relazioni quotidiane con i figli arricchisce il registro emotivo e cognitivo dei bambini e offre la possibilità di un accesso a relazioni e a intimità diversificate. Il progetto nella sua complessità dovrebbe abbracciare l’intero ordine di scuole ma, per iniziare con gradualità e sulla base delle risorse disponibili, si propone di coinvolgere nell’anno 2007/2008 le scuole dell’infanzia e le scuole materne, con un andamento circolare e sinergico tra i vari attori/soggetti protagonisti dell’azione educativa: gli alunni/e, il personale insegnante, i genitori (con particolare riferimento ai padri), il personale ausiliario nelle scuole materne. Questo convegno è stato pensato come il primo momento formativo di apertura del progetto, a cui seguiranno incontri di formazione con gli educatori/trici, con il personale ausiliario, con i genitori, e momenti di sperimentazione nelle scuole condotti da animatori e animatrici. La sperimentazione sarà costantemente supervisionata da un’esperta e filmata. 12 Perché è emerso il desiderio di “mostrare” a tutti – genitori, insegnanti non coinvolti, ecc.- i “prodotti” che si sono costruiti e i filmati che registrano la sperimentazione, in modo che possa diventare un’esperienza condivisa e replicabile in altre situazioni. 13 La partecipazione degli uomini al lavoro di cura Marco Deriu Nel mio intervento vorrei cercare di offrire alcuni elementi di riflessione sulle difficoltà e sugli ostacoli che rendono difficile la partecipazione degli uomini al lavoro di cura in modo da trovare qualche spunto sul lavoro educativo che possiamo fare. Più nello specifico cercherò di toccare velocemente alcuni punti: - Qual è la condizione attuale della divisione del lavoro di cura tra donne e uomini. In altre parole qual è il reale impegno degli uomini? - Che cosa significa il permanente squilibrio nella distribuzione del carico di lavoro di cura? Cosa ci dice del modo di pensare degli uomini e della cultura maschile? - Quali sono i campi in cui stanno comunque avvenendo dei cambiamenti importanti? - Infine che cosa possiamo fare o sperimentare concretamente come educatori a partire dalle scuole d’infanzia? La condizione attuale della divisione del lavoro di cura La prima questione dunque riguarda in che misura quello che era la “struttura di genere” tradizionale della famiglia è oggi realmente mutata con i mutamenti culturali (pensiamo alla rivoluzione femminista) ed economici (pensiamo alla trasformazione del mercato del lavoro) intervenuti negli ultimi decenni. Non c’è dubbio che dal punto di vista culturale si è imposto un modello sostanzialmente più egualitario che afferma – almeno a parole – una sostanziale uguaglianza e intercambiabilità delle figure femminili e maschili nel nucleo famigliare. Allo stesso tempo certamente i mutamenti sociali ed economici che negli ultimi decenni hanno trasformato la maggior parte delle famiglie europee da “monoreddito” a “doppio reddito” hanno contribuito a mettere in crisi il modello tradizionale in cui la divisione dei ruoli ripercorreva rigidamente uno schema complementare tra un padre responsabile degli introiti familiari e una madre occupata nelle necessità domestiche. In linea generale certamente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è corrisposto anche una maggiore presenza e partecipazione dei padri nelle dimensioni di cura dei figli. Ma questo cambiamento è stato tutt’altro che simmetrico e proporzionale. 14 A questo proposito possiamo cercare di desumere qualche dato e qualche riferimento dagli studi e dalle ricerche effettuati sulla presenza dei padri nello spazio domestico. Alcune indicazioni possiamo trarle dall’indagine Multiscopo dell’ISTAT sulle famiglie “Uso del tempo” che concentra le sue analisi fra l’altro sulle “differenze di genere nelle attività del tempo libero”. Da questa indagine emerge in generale che l’Italia è uno dei paesi in Europa con meno tempo libero a disposizione dei suoi cittadini e per quanto riguarda le donne il tempo libero scende ancora. In “Italia la dimensione del tempo libero evidenza un forte e generalizzato gap di genere: nel corso della giornata le donne dispongono mediamente di meno tempo libero rispetto agli uomini in tutte le fasi della vita. Questa differenza si presenta durante l’infanzia, si acuisce con l’ingresso nell’età adulta e l’assunzione di ruoli di responsabilità familiare, e continua fina alle età più avanzate”.1 Si può capire dunque come una certa disparità rispetto all’uso del tempo per sé e per gli altri abbia origini piuttosto profonde e remote. Tra l’altro un dato noto ma che questa indagine conferma è che comparando la condizione delle madri la presenza del partner lungi da permettere un alleggerimento del carico di lavoro e quindi un aumento del tempo libero costituisce un ulteriore svantaggio per il proprio tempo libero. In effetti le madri sole possono contare su circa 3h21’ al giorno contro le 2h57’ delle madri con partner.2 Anche tra gli occupati la differenze nella disponibilità di tempo libero permangono anche se attenuate 2h52’ delle donne contro le 3h48’ degli uomini. L’indagine rivela che le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e che a quasi tutte le ore del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono meno numerose degli uomini. In termini generali quello che emerge dalle ricerche3 è che in corrispondenza della nascita dei figli le donne lavoratrici cercano di conciliare professione e impegno di cura, dunque affrontano un’autolimitazione delle proprie opportunità lavorative, rinunciando spesso alla propria carriera e assumendosi un maggior carico di cura nello spazio domestico. Mentre da parte dei padri non c’è la stessa disponibilità. Il tempo dedicato ai figli e alla famiglia è comunque residuale rispetto al proprio impegno lavorativo. 1 ISTAT, Le differenze di genere nelle attività del tempo libero. Anni 2002-2003, Roma, aprile 2006, p. 2. 2 Ibid., p. 4. Vd. per esempio, Fortuna Procentese, Padri in divenire. Nuove sfide per i legami familiari, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 51, dove si afferma che nella ricerca svolta circa metà delle madri (50,8%) dichiara di aver cambiato orario di lavoro dopo la nascita di un figlio, mentre la maggioranza dei padri padri (63,8%) dichiara di non aver apportato nessun cambiamento nella propria attività lavorativa. 3 15 Generalmente l’assunzione di responsabilità di fronte alla famiglia e ai figli non corrisponde ad un autolimitazione o addirittura ad una rinuncia sul piano delle opportunità di carriera.4 Nel caso dei padri si può parlare solo di un qualche aggiustamento ma non di una riorganizzazione reale o di una rivoluzione o di un’interruzione temporanea di carriera come accade alle madri. Anzi talvolta si può registrare l’atteggiamento inverso: di fronte alla nascita dei figli i padri si preoccupano di aumentare le occasioni di lavoro per accrescere le disponibilità economiche in vista delle nuove necessità della famiglia. Questo fatto naturalmente non è una colpa, ma tuttavia evidenzia che di fronte all’allargamento della famiglia padri e madri reagiscono con modalità in qualche misura determinate dai ruoli e dai modelli di genere introiettati e suggeriti dalla cultura e dal contesto sociale. Come ha sottolineato Chiara Saraceno, “l’avere figli accentua innanzitutto il ruolo di breadwinner del padre, simmetricamente a quanto avviene per le madri in direzione del ruolo di caregiver”.5 Da questo punto di vista anche le possibilità6 offerte dalla legge 53, 8 marzo 2000 “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, e dal Decreto legislativo 26/3/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) a norma dell’articolo 15 della legge 53/2000 non sembrano aver apportato grandi cambiamenti. Certo ci sono anche difficoltà concrete – dall’effettiva conoscenza di questi strumenti alle difficoltà incontrate nei contesti lavorativi, all’impossibilità per i lavoratori autonomi di accedere a queste misure – ma il limitato ricorso7 a questa opportunità segnala quantomeno una scarsa attenzione da parte dei padri ad assumersi una diretta responsabilità nella cura fin dal momento della nascita dei figli. Fino ad oggi il cambiamento non ha finora determinato un sostanziale superamento delle tradizionali divisioni di genere, e al di là della retorica non si è affatto manifestata una totale fungibilità dei ruoli materni e paterni. Come mostra l’indagine dell’ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere (2006), in termini generali il tempo medio Si può sottolineare tuttavia, da questo punto di vista, che l’atteggiamento dei padri è favorito anche dal fatto che, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, la riduzione del tempo di lavoro, nell’ottica di un regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari, il più delle volte corrisponde concretamente e senza differenziazioni possibili, al passaggio ad una condizione di precarietà lavorativa. È possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa potrebbero risultare più attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri. 5 CHIARA SARACENO, “Paternità e maternità. Non solo disuguaglianze di genere”, relazione al convegno “La paternità in italia” del 20 ottobre 2005, disponibile on line: http://www.istat.it/istat/eventi/paternita2005/ 6 I coniugi possono godere di sei mesi a testa e dieci insieme, ma i padri che decidono di usufruire del congedo per un periodo di almeno tre mesi possono avere un mese in più (per un totale di undici mesi di congedo insieme). 7 Per una sintesi di alcune ricerche in merito si veda Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit., pp. 73-83 e 108-112. 4 16 impiegato nella cura da parte dei padri negli ultimi quindici anni (1988-2003) è aumentato mediamente di 18 minuti giornalieri: “Il confronto con il 1988-89 mette in luce dei mutamenti nella direzione di un maggiore coinvolgimento dei padri come per le madri, nella cura dei figli: di fatto, sono aumentati i padri che si prendono cura dei figli (di 17 punti percentuali: dal 41,8 per cento al 58,6 per cento) ed è aumentato di 18 minuti il tempo impiegato nella cura (da 27’ a 45’). Anche le durate medie specifiche, risultano più elevate di 11’, il che significa che non aumenta solo il numero di padri coinvolto in tali attività, ma anche il tempo che effettivamente i padri vi dedicano”.8 Per quanto riguarda le altre attività esse sono aumentate solo lievemente nel caso dei lavori domestici (da 35’ a 38’ = + 3’) o sono rimasti sostanzialmente stabili nel caso delle attività di acquisti di beni e servizi (16’). Si può notare tuttavia che queste medie non fanno emergere né la distribuzione dell’incremento dell’impegno dei padri (per alcuni l’impegno è aumentato significativamente mentre per altri può essere rimasto assolutamente invariato), ma anche i diversi investimenti da parte dei padri nelle differenti attività di cura e di relazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, si può osservare che il cambiamento va misurato anche focalizzando l’attenzione sui cambiamenti generazionali. In effetti si può presumere che i cambiamenti nei modelli di paternità si affermino man mano che di generazione in generazione si modificano mentalità e abitudini. Nell’indagine ISTAT, La vita di coppia (2006), le donne intervistate dichiarano che tra le attività più condivise con i propri partner ci sono quelle svolte assieme ai figli. Complessivamente è aumentata nella graduatoria delle attività svolte insieme il giocare con i figli che è passato dal 37,4% nel 1998, al 40,2% nel 2003. Mentre l’uscire assieme con i figli è leggermente diminuito: dal 36,2% al 35,7%. Tra le attività svolte assieme anche l’andare a fare la spesa assieme è aumentata dal 28,5% del 1998 al 31,2% del 2003. Queste attività diventano ancora più presenti nelle coppie più giovani. L’85,5% delle donne fino a 44 anni dichiarano di uscire assieme con i loro partner e con i figli e addirittura l’88,6% dichiarano di giocare con i figli assieme al proprio partner. Tale propensione decresce drasticamente col crescere dell’anzianità della coppia. Questa trasformazione emerge ancora meglio se si prende in esame la frequenza di queste attività. Tra le donne più giovani, quelle tra i 35 e i 44 anni, il 29,1% dichiara di andare a far la spesa assieme al proprio compagno “spesso”, e il 37,9% “qualche volta”, il 56,8% dichiara di giocare “spesso” con ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, a cura di Alessandro Rosina e Linda Laura Sabbadini, Roma, Edizione provvisoria, 2006, p. 231. 8 17 il figlio assieme al partner e il 25,8% “qualche volta”, mentre il 61,7% dichiara di uscire “spesso” con i figli ed il partner e il 25,9% “qualche volta”. Nelle donne ancora più giovani - di età inferiore ai 34 anni – il dato cresce ulteriormente: il 35,8% dichiara di andare a far la spessa assieme “spesso” mentre il 37,1% “qualche volta”, il 71,4% di giocare “spesso” con i figli assieme e il 73,6% di uscire “spesso” assieme con figli e partner e il 16,8% “qualche volta”. Dunque il cambiamento generazionale ha una sua importanza e sottolinea una tendenza positiva in prospettiva. Contemporaneamente, tuttavia, per comprendere meglio cosa effettivamente sta cambiando e cosa invece rimane sostanzialmente immodificato occorre analizzare più nel dettaglio l’impegno da parte dei padri. In effetti si può osservare con chiarezza come il cambiamento nel coinvolgimento da parte dei padri sia un processo sostanzialmente selettivo e ambivalente. Nelle attività di cura dei figli si può distinguere infatti tra attività routinarie, ripetitive ma essenziali (far da mangiare, lavare e pulire il bambino, vestirlo, farlo addormentare) e le attività interattive più aperte e relazionali (attività educative, attività ludiche e di svago). La già citata indagine ISTAT Diventare padri in Italia prende in esame a questo proposito cinque diverse attività di cura di routine o “strumentali”: i) ii) iii) iv) v) vestire il bambino; preparargli i pasti; cambiargli il pannolino; fargli il bagno; metterlo a letto. Si nota quindi che i compiti che una quota più cospicua di padri svolge quotidianamente attività quali mettere a letto il bambino o dargli da mangiare, mentre ci sono ancora molti padri che non si occupano mai di far loro il bagno - 37,8% di padri con figli 0-2 anni e il 39% con figli 3-5 anni - o di cambiargli il pannolino - 31% di padri con figli 0-2 anni e 49,3% di padri con figli 3-5 anni (ma a questa età naturalmente l’esigenza diminuisce). Sommando i punteggi delle cinque attività in particolare per i figli più piccoli, i ricercatori dell’ISTAT notano che solo una piccola minoranza dei padri, pari a meno del 5% del campione, svolge quotidianamente tutte le attività essenziali per la cura dei figli.9 Dunque nel complesso ancora oggi la presenza dei padri nelle attività di cura riguarda il più delle volte un ruolo di sostegno e di supporto alle madri cui è ancora in gran parte demandato la continuità delle attività essenziali di cura. In termini generali il coinvolgimento paterno aumenta quando anche la donna lavora e nelle coppie con più alto livello di istruzione. 9 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 154. 18 Nei fatti, nonostante il progressivo impegno lavorativo delle donne “continuano a ricadere sulla giornata della donna oltre i tre quarti (78,3%) del tempo complessivamente dedicato dalla coppia al lavoro familiare”.10 Generalmente i padri tendono a giustificare la minor presenza nelle attività di cura rispetto alle madri sulla base della limitata disponibilità di tempo dovuta all’impegno lavorativo. Tuttavia l’idea che sia il tempo a spiegare la suddivisione e lo squilibrio nelle attività di cura dei figli tra uomini e donne si scontra con il fatto che la disponibilità dei padri è fortemente disomogenea rispetto al tipo di attività. Attualmente relativamente alle coppie in cui entrambi i genitori sono occupati, si registra infatti una suddivisione dell’impegno piuttosto equa tra padri e madri solamente nelle attività più gratificanti quali quelle legate alla comunicazione e al gioco e al tempo libero ma per tutto il resto (cura del corpo, preparazione dei pasti, pulizia della casa ecc…) l’asimmetria di presenza e di impegno tra padri e madri permane molto forte.11 Inoltre al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare il coinvolgimento dei padri nell’attività di routine non è direttamente proporzionale al tempo libero. La partecipazione è più alta tra i padri con un orario di lavoro intermedio (36-40 ore settimanali) mentre è più bassa tra i padri con un orario lavorativo estremamente breve. Il che significa che con l’aumentare del tempo libero dei padri il proprio coinvolgimento non va proporzionalmente a tutte le attività di cura dei figli ma si indirizza comunque alle attività più ricreative e gradevoli.12 Dunque emerge piuttosto chiaramente che il diverso coinvolgimento dei padri non è solo funzione del tempo ma anche della propensione e disponibilità verso specifiche attività. Per tentare un’interpretazione, lo stato attuale delle ricerche sulla disponibilità al coinvolgimento dei padri nei confronti dei figli, suggerisce che il cambiamento è più nella dimensione emotiva e affettiva che in quella educativa; più in quella educativa che in quella di cura; e più in quella di cura che in quella della responsabilità e condivisione del lavoro domestico. Si tratta quindi di registrare il fatto che c’è una selezione e una resistenza da parte maschile verso alcune pratiche e alcune forme di responsabilità nei rapporti genitoriali e di cura. Da questo punto di vista si può anzi sottolineare che l’avversione maschile al lavoro domestico e materiale, confrontando i dati sull’investimento di tempo del 1988/99 con quelli del 2002/03 sembrerebbe addirittura aumentata (-2’).13 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 224. L’indice di asimmetria più bassa tra padri e madri si registra nelle attività di parlare con i bambini (42, 6) o di parlare e giocare con i bambini (53,1) mentre l’indice di asimmetria più alto si registra nella sorveglianza e nelle cure fisiche (85,0) e nell’aiutare i bambini nei compiti (79,4). Vd. Tavola 9.3 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 229. 12 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 189. 13 ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 243. 10 11 19 Perfino nel cambiamento sembra dunque agire una specie di griglia o di grammatica di genere. Alcune attività considerate positivamente e ritenute onorevoli e gratificanti possono lentamente ma progressivamente essere assunte dai padri, mentre altre ritenute noiose, faticose, gravose continuano ad essere evitate e delegate alle madri. Indagini condotte in 14 paesi europei danno lo stesso risultato: “il padre è più coinvolto nelle attività interattive, come giocare o aiutare nel fare i compiti scolastici, meno in quelle cosiddette di sorveglianza. Praticamente ovunque l’attività meno condivisa è preparare i pasti, quella più frequentemente condivisa è il gioco”.14 Nel contesto europeo, inoltre, i padri italiani risultano essere tra i più tradizionalisti. Che cosa ci dice l’attuale sbilanciamento della cultura maschile? Che significato dare a tutto questo? La persistenza di abitudini culturali, la resistenza verso le dimensioni meno gratificanti o la presenza di elementi simbolici non riconosciuti? Sul piano simbolico si potrebbe dire per un verso i padri sono disposti a sperimentarsi in rapporti emotivi e relazionali con i figli, ma che attuano ancora forme di resistenza rispetto ad attività ritenute troppo “materiali” o “servili”. Questo tuttavia significa che c’è ancora in nuce la tendenza da parte di alcuni padri di farsi servire dalle proprie compagne. Da questo punto di vista proviamo a fermarci un attimo a riflettere su quale messaggio implicito i bambini ricevono osservando il comportamento degli adulti e dei genitori. Il senso di quel che vedono non è solamente mio papà è pigro e mia madre lavora il doppio. Nel migliore dei casi possono pensare che la mamma è generosa e si fa in quattro per far star bene gli altri. Ma uno dei significati, che potrebbero trarne da quel tipo di pattern relazionale è invece: il papà si fa servire, il papà non fa cose servili, la mamma serve il papà, la mamma fa cose servili. Fatto salvo che queste attività più servili possono essere sempre delegate a figure esterne alla famiglia. Ed è piuttosto significativo che sempre più spesso queste figure esterne siano donne immigrate. Qui si rivela un intreccio forte tra relazioni di potere sessuali e relazioni di potere socio-culturali. In questo caso il significato implicito che i bambini possono trarre dall’osservazione delle dinamiche nello spazio domestico può essere ancora più complesso e insidioso. Al di là di questo emerge comunque un problema culturale molto forte. L’idea di cura e di accudimento da parte degli uomini e dei padri è ancora largamente incompleta e immatura. In generale c’è dunque una sopravvalutazione dei cambiamenti dei padri. Certamente non è legittimo parlare oggi di padri nei termini di “padri assenti” negli stessi termini con cui PAOLA DI GIULIO, SIMONA CARROZZA, Il nuovo ruolo del padre, in Genere e demografia, a cura di Antonella Pinnelli, Filomena Racioppi, Rosella Rettaroli, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 316. 14 20 se ne parlava in passato, e tuttavia questi dati, confermati in tutte le ricerche, suggeriscono che ancora oggi siamo di fronte a una situazione familiare nella quale “il ruolo di cura si caratterizza per la centralità di una delle due figure parentali e la perifericità dell’altra”.15 Fra le altre cose è probabile che la scarsa conoscenza del carico di lavoro quotidiano delle donne porti spesso gli uomini ad accrescere erroneamente la percezione del proprio contributo. Da questo punto di vista l’organizzazione familiare rimane un terreno abbastanza forte di resistenza al cambiamento Anzi le differenze tra aspettative culturali e comportamenti reali rischiano di diventare un nuovo terreno di conflitto, poiché un atteggiamento completamente delegante non è più legittimato culturalmente. Bisogna domandarsi allora in che misura i padri stessi si fanno artefici di questo cambiamento. Da questo punto di vista si possono riconoscere diversi tipi di cura, io ne ipotizzo almeno 6, a seconda che il coinvolgimento e la responsabilità riguardino: - cura del gioco: dimensioni ludiche, di svago; - cura degli affetti: dimensioni emotive e relazionali; - cura dell’educazione: dimensioni dell’apprendimento cognitivo (linguaggio, esperienze, conoscenze e significati); - cura della socializzazione: reti di relazioni, incontri, condivisioni; - cura della salute: sorveglianza, assistenza nei bisogni corporei e psicologici; - cura dei contesti: organizzazione degli spazi e dei tempi; La questione fondamentale di come realizzare un pieno riconoscimento sociale dei padri si connette dunque con la questione del come accompagnare, individualmente e socialmente, i padri in questo cambiamento verso l’assunzione piena di responsabilità e di cura nello spazio domestico e nel rapporto con i figli. Una responsabilità che non è solamente riconoscimento del pur fondamentale diritto all’affettività tra padri e figli, o della eguale “potestà educativa”, ma è anche assunzione di un impegno quotidiano di cura più complesso e articolato. Un impegno oneroso, faticoso, e certamente non sempre gratificante ma che forse costituisce veramente un salto verso una presenza più completa e profonda nelle relazioni familiari che regala anche una percezione diversa di sé, dei figli e della vita, poiché il lavoro di cura non è solo fatica “ma anche – come hanno scritto Marina Piazza e Barbara Mapelli - maggiore costruzione di intelligenza delle cose e delle persone”.16 In particolare per i padri allargare lo sguardo verso un’immagine di cura più complessa, che riguarda tutte le dimensioni che abbiamo appena visto (gioco, affetti, apprendimento, socializzazione, salute ecc.) significa poter guadagnare per un verso una presenza diversa anche sul piano qualitativo 15 16 Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit, p. 60. PIAZZA, MAPELLI, PERUCCI, Maschi e femmine: la cura... cit., p., 140. 21 nella vita dei propri figli e quindi accedere ad un livello di relazione differente; ma più in generale significa anche per gli uomini guadagnare per sé una sensibilità maggiore nell’esserci: avere occhi per vedere e leggere le relazioni, gli affetti, i bisogni, le forme dello stare insieme, vedere gli spazi, i luoghi, i contesti, significa riconoscere tutto un universo di cose che spesso si sottraggono alla consapevolezza maschile. Insomma è una possibilità di costruire una presenza nel mondo diversa. Cambiamenti e opportunità L’importanza anche di piccole sperimentazioni può emergere se pensiamo e se valorizziamo quello che sta già effettivamente cambiando, soprattutto tra le nuove generazioni nel rapporto tra padri e figli. Pensiamo alla maggiore attenzione dei nuovi padri verso il momento della nascita e una richiesta o una disponibilità crescente di affiancamento e condivisione dell’evento della nascita. Per alcuni padri la gravidanza, il parto e la nascita del bambino possono essere un'occasione importante di crescita. Alcuni padri che ho incontrato hanno raccontato come la possibilità di assistere al parto, di partecipare fino in fondo, di sostenere la moglie, di condividere le emozioni, perfino in qualche caso di tagliare il cordone ombelicale, sia stata un’esperienza fortissima che ricordano come una delle esperienze più belle della loro vita. Altri padri, cominciano a condividere maggiormente la cura dei figli in casa. In molti ruoli i giovani padri di oggi si mostrano capaci di affiancarsi e all'occorrenza di sostituirsi alle madri per curare i figli in tutti gli aspetti: farli mangiare, pulirli, cambiarli e accudirli, farli addormentare, alzarsi di notte quando piangono, accompagnarli al Nido e in qualche caso addirittura affiancarli nell’ambientamento. Certo siamo ancora ben lungi da registrare una divisione equilibrata dei lavori di casa e di cura, ma nelle nuove famiglie che incontro questa tendenza si va sempre più affermando e questo modifica in maniera profonda le esperienze di paternità. Emerge chiaramente, per esempio, una maggior confidenza e condivisione della corporeità tra padri e figli, che comporta una vicinanza ed un contatto fisico significativamente diversi sia in termini quantitativi che qualitativi rispetto al passato. I padri si occupano della cura del corpo dei figli, cambiano il pannolino, fanno il “bagnetto”, li portano dal pediatra e più in generale li coccolano con più scioltezza e naturalezza. Manifestazioni d’affetto e di attenzione come baci, abbracci, l’andare a letto assieme o il prendere in braccio possono sembrare oggi cose del tutto naturali, ma fino a pochi decenni fa le esternazioni affettive e le cure corporee non costituivano affatto una modalità comune e diffusa nei rapporti padri-figli. Da questo punto di vista esse rappresentano un segnale rilevante del forte avvento della 22 corporeità nell’esperienza paterna, in particolare nei primi anni di vita dei bambini. Questo rapporto con la corporeità è particolarmente significativo innanzitutto perché attenua la preminenza della dimensione verbale e razionale e accentua la comunicazione fisica, non verbale, letteralmente di pelle. In secondo luogo il contatto corporeo è senza dubbio un potente mezzo di comunicazione affettiva, che pur essendo presente anche in passato tuttavia non veniva facilmente esplicitato o reso pubblico. Evidentemente poi la diminuzione della distanza fisica porta con sé anche una diminuzione della distanza psicologica. In effetti questa corporeità presuppone un’abbassare le barriere tra sé e l’altro. Inoltre presuppone anche un rapporto di fiducia con il proprio corpo, cui spesso gli uomini non sono abituati. Molti dei nuovi papà non a caso investono inoltre molto tempo ed energie nelle dimensioni ludiche, nel gioco, nel divertimento con i figli e anche questo in termini sociologici rappresenta certamente una novità. Questa disponibilità di tempo e di condivisione ludica non era frequente nei rapporti padre-figli in passato. Questa innovazione sul piano della presenza corporea e ludica dei padri comporta dei riflessi importanti anche sul piano della comunicazione e della complessità della relazione. Di per sé non c’è nulla che vieta ad un padre tenero e affettuoso di saper essere risoluto ed intransigente, nel momento in cui le circostanze lo richiedano e nella misura in cui l’asimmetria di esperienza e di responsabilità manifesta tutta la sua importanza relazionale ed educativa. Tuttavia dobbiamo sapere che questo comporta qualche difficoltà in più. Emerge la necessità di utilizzare in modo coerente gli aspetti comunicativi verbali con quelli non verbali, quelli affettivi assieme a quelli normativi, quelli amicali vicino a quelli più prettamente genitoriali. In effetti si tratta prima di tutto di trovare una misura una flessibilità interiore. La capacità di tenere insieme interiormente e psichicamente due diverse immagini di sé: quella ludica e scherzosa e quella seria e rigorosa. Che cosa possiamo fare? Quali sono dunque le direzioni in cui possiamo lavorare? Provo ad accennarne alcune e a suggerire anche alcune a partire dalla mia esperienza e dal lavoro che ho visto in alcune scuole d’infanzia della mia regione (Emilia Romagna) e dai lavori che ho fatto con loro. Alcune scuole d’infanzia con la collaborazione anche dei servizi comunali hanno infatti da qualche anno sviluppato progetti di coinvolgimento dei padri, 23 ovvero hanno mostrato un’attenzione specifica verso i padri. Personalmente ho fatto focus group con operatrici delle scuole d’infanzia, con padri, madri incontrandoli in serate diverse e poi infine tutti assieme per fare emergere esperienze, difficoltà, desideri che valorizzassero diversi punti di vista. In particolare credo che si possano immaginare attività specifiche per lavorare con i padri su questi temi: Le dimensioni della cura La prima attività a cui alludevo prima potrebbe essere proprio aiutare i padri a riconoscere la complessità e la molteplicità degli cura nelle relazioni e nei contesti quotidiani. Si possono creare proposito di osservazione, di esemplificazione, di racconto, e sperimentazione diretta. quello aspetti attività anche di di in di Genealogie maschili Un secondo tema è quello delle genealogie maschili, ovvero del rapporto tra il modo in cui si vive la propria esperienza di paternità, in relazione al modo in cui si è vissuta l’esperienza di figli con i propri padri. Le scuole per l’Infanzia possono lavorare con i padri dei bambini sulla memoria e sull’illuminazione di questa esperienza padre-figlio attraverso le diverse generazioni. È fondamentale infatti che nell’interrogarsi sul tipo di relazione instaurata con i propri figli i padri di oggi si confrontino con la loro esperienza di bambini lasciando emergere eventuali conflitti e le relative emozioni: gioia, rabbia, risentimento, affetto, mancanza, nostalgia, rancore. I padri infatti devono in qualche modo chiedersi: “mentre diveniamo padri abbiamo chiuso l’esperienza di figli?” “Ci siamo lasciati alle spalle quel modo di stare nel mondo e di relazionarci?” “Sono rimaste questioni insolute nel rapporto con nostro padre che ancora ci angustiano e ci condizionano nei rapporti con i nostri bambini?” Il rapporto sperimentato con il proprio padre condiziona molto spesso il rapporto che si instaura con il proprio figlio. E generalmente in maniera fondamentalmente inconscia. Solamente gli aspetti più superficiali e generali ci risultano chiari o evidenti, per il resto è molto probabile che taluni di questi elementi ereditati nella propria carriera di figli si ripresentino e vengano agiti in maniera automatica, in modo quasi compulsivo senza rendersi conto quali conflitti si portano dentro, quali conti rimangono da saldare con se stessi e con la figura interiore del padre. “Si tende a dare al figlio quello che non hai avuto tu” mi hanno detto diversi giovani padri. Un po’ è vero ma si tende a dare anche ciò che si è avuto, appreso e probabilmente interiorizzato. Gli elementi più profondi che si sono sedimentati nelle parti più inconsce di noi stessi, rimangono il più delle volte oscuri a noi stessi. Proprio per questo motivo possono essere utili, nel 24 tentativo di supportare e di accompagnare i padri nel loro rapporto e nelle loro funzioni, quelle attività che si ripropongono, di far emergere questi vissuti Da questo punto di vista diventa anche importante che insegnanti, educatori ed operatori sottolineino le possibilità di riletture più riflessive del proprio padre e delle proprie relazioni e a partire dalla propria nuova esperienza di genitorialità. Socializzare le esperienze paterne Naturalmente in questo percorso di cambiamento, i nuovi padri non hanno modelli. Devono esplorare e apprendere da se stessi. Talvolta emerge la difficoltà di trovare un equilibrio, di associare competenze, sensibilità e atteggiamenti che tradizionalmente venivano associati al femminile. Da questo punto di vista altre attività che si potrebbero fare con i padri riguardano proprio l’enfatizzazione della dimensione di esplorazione e sperimentazione che questi padri possono avere. Bisogna cioè motivarli e rafforzarli nel loro sentire e sperimentare. Se si sentono esploratori possono darsi più forza e coraggio per tentare proprie strade e per ricercare forme di autenticità con se stessi e con i loro bambini. Da questo punto di vista può essere utile far lavorare i padri sul tema del desiderio. Cosa desiderano veramente? Quale parte di sé vorrebbero far emergere e mettere in gioco di più nelle loro relazioni con i figli? O al contrario c’è qualche desiderio che riguarda il loro ruolo paterno che non riescono a tradurre in pratica? Un altro modo per affrontare le difficoltà è quello di stimolare questi padri a socializzare le loro esperienze. In effetti sarebbe interessante sapere con chi si confrontano di solito. Sentono il bisogno di parlare e confrontarsi e consigliarsi con altri padri? Creare occasioni di scambio con altri padri, permette talvolta di affrontare e diminuire il sentimento di angoscia che può prendere i padri quando non sanno se quanto fanno e decidono quotidianamente è corretto o sensato. È importante che questi uomini imparino che si può crescere e maturare nel proprio ruolo di padre e nelle proprie relazioni mettendosi in gioco e confrontandosi con l’esperienza di altri padri, costruendo luoghi e tempi di condivisione e riflessione comune. Ci sono naturalmente molti altri esempi di attività che si possono fare con i padri: - attività di interazione corporea - attività manuali, come far costruire giochi per i propri figli - attività all’esterno, in cui i padri devono fare da mediatori nella conoscenza di uno spazio aperto - attività di narrazione, in cui i padri devono inventare storie con certi temi per esempio situazioni di bisogno, difficoltà e di capacità di aiuto 25 Le occasioni e le direzioni di lavoro possono essere tante. Credo che si tratti solamente di capire che gli educatori, le singole scuole d’Infanzia, o le sezioni possono sperimentare moltissimo e contribuire in qualche modo a stimolare il cambiamento nella sensibilizzazione verso il lavoro di cura anche degli uomini. 26 IL LAVORO EDUCATIVO DELLA CURA Barbara Mapelli Tempo fa – mentre lavoravo a un’antologia che raccogliesse i contributi dei femminismi del Novecento sui temi educativi – mi è capitato di riprendere in mano il libro di Gianini Bellotti, Dalla parte delle bambine. Libro molto interessante, che allora ebbe uno straordinario successo. Lo rileggo per sceglierne alcuni brani e resto molto colpita dal fatto che le parole di allora, il libro è del 1973, le osservazioni e argomentazioni dell’autrice potrebbero essere trasferite sulla realtà contemporanea.. Forse non tutte le analisi di Gianini Bellotti sono condivisibili, ma le sue descrizioni ci dicono di una realtà educativa - in generale naturalmente, noi qui siamo a testimoniare di un’eccezione che riguarda anche altre situazioni - poco mutata. Tralascio tutte le parti del testo che riguardano gli stereotipi che la scuola trasferisce della cultura diffusa all’ambito educativo, per concentrarmi solo su una questione che mi sta particolarmente a cuore. Leggo quanto scrive l’autrice. “Nella scuola materna bambini e bambine trovano la solenne conferma della situazione sociale e della divisione dei ruoli maschile e femminile, perché dove ci si occupa di loro gli uomini sono del tutto assenti. E come il lavoro della madre, così quello delle insegnanti non viene percepito come un lavoro vero e proprio, ma come una prestazione più o meno autoritaria, più o meno benevola, ma del tutto gratuita. Questa identificazione della maestra con la madre danneggia le bambine, anche perché le spinge a identificarsi anche con l’insegnante. Dalla stessa situazione i maschi trarranno la convinzione che le donne sono disprezzabili perché non fanno niente di prestigioso tranne che occuparsi di loro, ben diversamente dagli uomini che dal loro misterioso e affascinante lavoro fuori casa traggono benessere per la famiglia e prestigio e considerazione all’interno di essa e del gruppo sociale di cui fanno parte”. Alcune frasi andrebbero naturalmente ritoccate, alcune osservazioni relativizzate, ma la sostanza del discorso mi sembra significativamente vicina alla realtà attuale. Facciamo appunto un salto in avanti di più di trent’anni. 2007, Facoltà di Scienze della Formazione di Milano: gli studenti maschi sono circa il 14%, ma presenti soprattutto negli indirizzi di formatori aziendali, antropologia ecc., a Scienze della Formazione primaria rappresentano circa il 3%. I dati della nostra Facoltà sono del tutto simili alla situazione nazionale e attestano che questo indirizzo di studi è il più segregato tra tutte le scelte universitarie, ben più della Facoltà di Ingegneria, in cui naturalmente le presenze di genere sono rovesciate. Trascuro la riflessione – ma sarebbe utile farla se ce ne fosse il tempo – sui motivi per i quali tanto si è parlato della segregazione di altri indirizzi di 27 studio, scolastici e universitari, e poco si è discusso e si discute di questa segregazione, così macroscopica. Mi concentro piuttosto su questa esiguità di presenze maschili, che sono la sicura conferma che anche per il futuro i luoghi dell’educazione saranno luoghi di donne. Perché gli uomini non scelgono questa Facoltà? Perché gli uomini non ci sono nelle scuole, soprattutto nei primi ordini? La risposta più ovvia e che mi sento ripetere regolarmente quando pongo la domanda è legata all’esiguità degli stipendi, che li terrebbe lontani. Risposta ovvia e straordinariamente fuorviante e chi se ne serve come spiegazione secondo me fa due errori e commette un peccato. Primo errore. Si considera ancora l’uomo, soprattutto se ha famiglia, come colui cui tocca il mantenimento e il suo come lo stipendio principale. Questo, in particolare tra i giovani, sappiamo che non è più vero, ma resta una convinzione nell’immaginario sociale diffuso. Secondo errore. Il mercato delle occupazioni in ambito educativo – al di là della scuola che ha un sistema di reclutamento diverso – cerca professionalità al maschile. E le trova poco, tanto che vengono offerti posti di lavoro anche a non laureati o a uomini con titoli di studio aspecifici. Ma questo discorso lo riprenderemo. Il peccato è un peccato di stereotipo e si basa sulla convinzione che le donne siano per natura e vocazione più adatte al lavoro educativo, soprattutto se con bambini e bambine. Aggiungerei ancora la considerazione che si pensa tuttora che gli orari di queste professioni siano più consoni alle donne, impegnate anche nel lavoro di cura a casa, e in questo caso gli errori o i peccati sono due insieme: non è più vero che l’orario di chi insegna sia un mezzo tempo e d’altronde si perpetua con queste convinzioni l’affidamento principale se non esclusivo dei lavori casalinghi (un universo complesso e variegato di molteplici mansioni) alle donne. Per cui chi si prende cura a casa, si prende cura anche fuori di casa, e la spirale perversa, come usa dire, si chiude pericolosamente. Il problema del lavoro educativo, indubbiamente lavoro di cura, e la sua segregazione di genere è in realtà un problema culturale, un problema complesso, quindi, che ha radici antiche e lontane, relative alle differenti competenze di cura su cui si sono specializzati i due sessi e che ha influito profondamente sul formarsi stesso delle identità di genere. Mi sentirei anzi di affermare che l’essere, percepirsi ed essere percepite e percepiti come donne e come uomini si struttura sui differenti compiti di cura in cui i due sessi si sono specializzati nel tempo. Le donne specializzate nella cura degli altri. Le donne che possiedono la capacità riproduttiva e si prendono cura nei primi tempi dalla nascita di figli e figlie divengono nel tempo coloro che si prendono cura di tutti e tutte, e non solo dei più deboli, bambini e bambine, anziani, malati, ma anche degli 28 uomini. E si prendono cura non solo delle persone ma delle cose e delle case e consentono così agli uomini di dedicarsi ad altro, caccia, guerra, viaggi, imprese, politica o, più semplicemente, attività fuori casa. Virtù minore, destino delle donne, la cura, quindi, ha sempre vissuto nei luoghi d’ombra, nelle stanze interne delle case, nel servizio ai più fragili, nel dolore e nella malattia, ma è anche stata accompagnamento silenzioso e nascosto alla vita pubblica e alle imprese degli uomini, condizione – prevalentemente non riconosciuta – perché esse si realizzassero. “Curare la propria casa, i corpi dei bambini, i corpi dei vecchi insegna molte cose. La nostra cultura ci dice che questo è un compito ‘naturale’ delle donne. Invece non è un compito naturale, è un’opera, la grande opera delle donne”17. In questa frase di Alessandra Bocchetti sono riassunte le ambiguità e gli inganni che hanno accompagnato nel tempo la virtù, per eccellenza, delle donne: una concezione che definisce naturale la vocazione femminile alla cura degli altri e il naturale che si trasforma in privato rende virtù negletta la pratica e l’esperienza delle donne, le esclude dal culturale e dal pubblico o in questi ambiti ritaglia per loro spazi secondari. Eppure alle donne viene affidato – nel silenzio – il compito del mantenimento di un’organizzazione sociale in cui le energie, le forze e le intelligenze femminili sono prevalentemente volte a compiti di affettività, alla soddisfazione dei bisogni umani di attenzione e cura, condizioni indispensabili per la vita di un ordine sociale, che pur nel tempo è mutato, ma ha mantenuto finora – e solo da poco mostra evidenti segni di crisi – la caratteristica patriarcale. Compiti, tempi e luoghi di vita diversi per i due sessi: l’esterno, l’agorà e la prospettiva di orizzonti, fisici e simbolici, sempre in espansione, il pubblico, come spazio dell’azione e del pensiero, per gli uomini; le case, i luoghi chiusi, le mansioni, materiali e spirituali, sollecite verso gli altri, il privato, per le donne. Questa divisione dei compiti è divenuta norma, che ha dettato regole ai destini, individuali e collettivi, di donne e uomini, mutata nei secoli, ma sempre reiterata, essa ha assunto l’aspetto della ‘naturalità’ – è naturale e giusto che sia così perché è sempre stato così – e, in questo modo, acquisito quell’autorevolezza che l’ha fatta penetrare nelle vite e nelle coscienze delle persone, nelle culture sociali, nelle regole fondanti la convivenza civile e politica, ma anche la percezione di sé, la costruzione di identità di donne e uomini, come già dicevo. Il solco profondo che divide le vite e le attività definite femminili e maschili, di azione e pensiero per gli uni, di conservazione per le altre, segna anche nella storia la separatezza tra cura e cultura, il loro significarsi in immagini 17 Alessandra Bocchetti, Dell’ammirazione, Incontro al Congresso annuale delle Federazione nazionale casalinghe, Fiuggi, 13 maggio 1995. 29 oppositive e da qui l’impossibilità – oltre che la non opportunità – dell’accesso femminile alle attività superiori della mente e, con una mossa che abbiamo iniziato a saper riconoscere, il passaggio alla loro incapacità. Questa è una delle due storie della cura, che le donne hanno ormai da tempo imparato a raccontare criticamente, avviando così il cambiamento. Ma anche la storia degli uomini racconta di una cultura di cura: la cura di sé. La cura di sé maschile ha origini nobili, tutta una filosofia greca e romana che l’ha teorizzata e praticata. La tralascio, ma è stata la matrice culturale che ha autorizzato e permesso agli uomini, mentre altre si occupavano dei loro bisogni, certamente non solo materiali, di perfezionare questa attenzione a sé, tuttora praticata, con naturalezza, anche nelle sue forme più modeste, banali e quotidiane. Questa è la storia, che ho naturalmente solo sfiorato, delle due culture di cura, delle donne e degli uomini, che appartengono a un passato millenario che ha plasmato le differenti identità di genere, creato regole, rigidità di ruoli e vive, tuttora potente e normativa, in ciascuno e ciascuna. Ma le cose hanno iniziato a mutare, dopo decenni di lavoro delle donne su di sé. “La cura è la grande opera delle donne”, già citavo in precedenza la frase di Alessandra Bocchetti, e da questa e altre consapevolezze si avvia il rifiuto femminile della propria irrilevanza come soggetti, individuali e collettivi. E propone anche agli uomini nuove direzioni di ricerca per non perdere, come è accaduto a causa delle norme sociali della virilità, il valore della dimensione privata, la legittimazione all’intimità e alla condivisione, espressione delle emozioni. E alle donne la necessità dell’apprendimento alla cura di sé, la sapienza del saper sempre ritornare a sé, con amore, vincendo le paure, i sentimenti della colpa, che ogni donna prova nel timore che la cura di sé tolga spazio e attenzione ai suoi compiti tradizionali rivolti agli altri. Si propone, dunque, nei cambiamenti che avvengono nel contemporaneo tra i generi, la possibilità di una tensione positiva e nuova per tutte e per tutti che legittima a entrare nei luoghi riservati all’altro e all’altra, proibiti dalle norme di genere, senza confusività ed evitando il pericolo di omologazione reciproca. Induce piuttosto nuova ricerca intorno ai vissuti, rappresentazioni e culture delle figure più tradizionali e fondanti le identità di genere, senza che si stabiliscano, ancora e di nuovo, modelli definiti di maschile e femminile cui adeguarsi. La cura, l’ opera delle donne, si diceva, a partire dall’accudimento materiale dei corpi insegna molte cose, senza segnare separatezze, ma anzi indicando la necessaria continuità, che deriva dalla cura, nei diversi ambienti, nelle sollecitazioni e risposte che le situazioni, anche estreme, della vita, richiedono. Le molte qualità di cui si compone la cura, poiché si radicano nell’esperienza vitale, e si formano nella sollecitudine e attenzione ad essa, generano 30 dunque forme diverse di atteggiamenti verso la conoscenza e il sapere, un pensare associato al prendersi cura che non perde il contatto al contempo con la concretezza e materialità di cose e persone, con ciò che compone l’esistenza reale dei soggetti. Conoscenze e saperi che connettono, anziché separare, permettono l’incontro – lo rendono anzi ineludibile – tra vita e pensiero. La cura è dunque anche cultura, propone un accesso differente anche alla conoscenza, ma si apre qui un discorso complesso, che mi limito solo ad accennare. Il valore educativo della cura si esprime nelle differenti forme e qualità, che non sono solo ascolto e sensibilità verso l’altro e l’altra, ma offrono, nella vicinanza accudente, il rispetto di sé, il senso della propria dignità, a ogni soggetto. E, con ciò, il coraggio e le iniziali competenze a pensarsi, a elaborare un progetto di sé che appare, ed è, l’obiettivo più alto dell’ educare.. Esso dà valore ai soggetti nella loro interezza, li forma al compito di essere e diventare persona e la crescita riguarda non solo bambine e bambini, le giovani e i giovani, ma adulti e adulte, insegnanti, chi con-cresce nel luogo educativo: luogo privilegiato di relazioni, in cui il sapere e la pratica della cultura di cura e di attenzione assume il significato, la responsabilità del mutamento, che è crescita individuale, crescita comune. L’attenzione agli altri e alla cura di sé nello spazio educativo sono le prime prove del sé relazionale che nel luogo collettivo, in cui le persone hanno compiti e ruoli diversi, apprende i modi del vivere sociale. Ma occorre perché tutto questo venga riconosciuto, mentre le donne continuano a praticarlo nei loro lavori di cura educativa, riflettere ancora e soffermarsi su tre questioni sottese a quanto ho finora detto, ma che necessitano di ulteriore chiarezza. La prima. La cura, come ogni attività e pratica che riguarda soprattutto le donne è stata svalutata nel tempo, e lo è tuttora: attraverso la sua presunzione di naturalità (per le donne è naturale prendersi cura di ogni cosa e di ogni persona, visto che si prendono cura dei bambini) le si toglie valore. In particolare il lavoro educativo, nella sua complessità densa di competenze materiali, culturali, relazionali, soprattutto il lavoro di chi si occupa dei più piccoli e più piccole, è considerato come continuum della maternità – come se anche questa non fosse un lavoro complesso – una sorta di esercizio istintuale, che non esclude la necessità di preparazione e formazione, secondarie però rispetto a una vocazione che si considera naturale e femminile. La seconda. La cura, così svalutata, è in realtà la condizione principale che struttura il nostro essere al mondo, l’aver avuto esperienze positive di cura rende possibile lo sviluppo, la realizzazione di una persona, offre fiducia in sé e negli altri, potenzia le possibilità di essere e divenire progettuali, di costruire il proprio personale progetto di esistenza, il proprio progetto di mondo. La cura riguarda ogni momento della nostra vita, nella quotidianità, 31 nello svolgersi della nostra biografia. L’aver ricevuto attenzioni positive e intelligenti di cura rende le persone capaci a loro volta di dare cura. E’ quindi possibile – ed è la terza questione - anche un’esperienza maschile di cura degli altri; gli uomini, soprattutto quelli giovani, paiono ora ricercarla, forse nella sua forma più facile, in quelle che ora si definiscono le nuove paternità. Su questo lascio la parola agli uomini stessi, ma desidero condividere con loro – vi faccio solo un accenno – la preoccupazione che queste tanto celebrate nuove paternità non si trasformino in nuovi stereotipi, in immagini carine e patinate, davanti alle quali tutte e tutti ci incantiamo, togliendo spazio e profondità a una ricerca che credo sia ancora all’inizio. Mi interessa ora tornare ai temi iniziali, all’assenza maschile nei luoghi della cura educativa. Proprio a causa dei dati sconfortanti di cui parlavo all’inizio abbiamo svolto nella nostra Facoltà una piccola ricerca, intervistando, a questo proposito, alcuni docenti, alcuni testimoni del mondo del lavoro e, soprattutto, studenti maschi. Accenno ad alcuni risultati, brevemente. Il/la docente intervistati riconoscono questa esiguità di presenze, la valutano nella sua significatività e negatività anche in relazione al lavoro formativo in Università, ma, ci chiediamo noi che abbiamo fatto ricerca, come mai non si è mai pensato di muoversi per ovviare a questa mancanza? Come mai non si sono fatte, ad es., azioni orientative in particolare verso i maschi? Non si è strutturata un’offerta formativa che si svolgesse in questa direzione? La nostra è stata in assoluto, intendo su tutto il territorio nazionale, la prima, ma anche l’unica ricerca su questo tema. La naturalità di questa assenza ha paralizzato, ha fatto considerare come superfluo ogni intervento conoscitivo e correttivo. L’accademia rispecchia e sembra non mettere in discussione la cultura diffusa. I/le testimoni privilegiati del mondo del lavoro verificano le stesse mancanze e dichiarano invece la necessità di figure maschili in educazione, anzi la necessità della presenza delle due figure di genere e confermano che si tratta di un mercato aperto, accogliente le professionalità maschili, una domanda di lavoro che supera l’offerta. Gli studenti, infine. Loro ci dicono molte cose, sono generalmente soddisfatti e compiaciuti della scelta fatta, certamente si considerano un’eccezione, uomini diversi, alla ricerca di una diversa identità di genere, di valori differenti per la loro vita e realizzazione da quelli conclamati dalla virilità dominante18. E sono alla ricerca, più o meno consapevolmente, dei significati di un lavoro 18 Tra le risposte più frequenti alla domanda sul perché della scelta sono nettamente prevalenti quelle attengono a una sfera di significato che potrei così semplificare, “perché penso che questo lavoro, di prendermi cura, mi fa/farà star bene”. La risposta può apparire molto ingenua, ma in realtà credo che tocchi il senso più profondo delle pratiche e culture di cura educativa: prendersi cura di qualcuno per facilitare, rendere possibile che possa crearsi gli strumenti per stare il più possibile bene al mondo, è qualcosa che dà benessere anche a chi dà cura. Per questo considero necessarie e profondamente intrecciate le due pratiche della cura degli altri e della cura di sé, artificiosamente separate nella diversa attribuzione di compiti ai due sessi. 32 di cura al maschile. Certamente l’ambiente accademico non li aiuta, nella sua profonda ignoranza delle tematiche e problematiche di genere. Le nostre interviste li sollecitano a pensarsi come uomini nel loro percorso formativo, nelle esperienze educative che alcuni già hanno, nelle attese del lavoro che svolgeranno. La diversità della cura maschile è per il momento nelle loro parole più che altro un dichiarato, che non sanno ancora riempire di contenuti e significati, ma vi è una tensione, un desiderio – almeno in questi pochi – innegabile, che con altre ricerche, altri lavori, le sollecitazioni che propongo nel mio corso (Pedagogia delle differenze di genere) cercheremo nel tempo di sviluppare. Sono certa che partire dall’educazione sia essenziale per affrontare il tema più complessivo della cura, liberare bambini e bambine dai vincoli, rigidità che le norme di genere impongono alle scelte, alle vite, creando stereotipi limitativi per gli uni e le altre. Ma anche se una buona formazione delle docenti può aiutare in questo lavoro educativo, la perenne ed esclusiva presenza delle donne nel lavoro educativo e di cura, appare però come conferma di quegli stessi stereotipi sui quali si cerca di lavorare. Avere a scuola un uomo che si prende cura è un grande insegnamento e un’esperienza che segna positivamente. Certamente non risolve tutti i problemi, ma sollecita a porseli. Ne elenco alcuni, per concludere, su cui mi piacerebbe si avviasse discussione e mi scuso se il mio elenco non è completo e rischia di mettere insieme temi tra loro anche differenti. Ma la cura e il lavoro educativo sono, come già dicevo, qualcosa che permea tutte le nostre vite, fuori e dentro la scuola, le nostre identità di genere, professionali e personali. Un quesito innanzitutto: la scuola, in ogni suo ordine, è un grande contenitore e garanzia di lavoro femminile: sollecitare un’apertura agli uomini non è allora controproducente? Pensare che, forse, una maggiore presenza maschile, potrebbe ridare maggior valore alle professioni dell’educare, non è umiliante per le donne che da sole, finora – ed è proprio vero – hanno sostenuto, dato senso e dignità, per quanto possibile, a questo edificio traballante? Fino a che punto una maggiore presenza maschile in educazione può avviare riflessione e cambiamento sui temi della cura, sulla divisione di genere dei compiti della cura più in generale? E se gli uomini non hanno nel tempo sviluppato una cultura di cura, come possono essere, divenire buoni educatori? Ci vuole per loro una preparazione specifica? Si può immaginare di stabilire alleanze, cercare testimonianze tra il maschile che sta fuori dalla scuola: padri, uomini che fanno lavori di cura, uomini che si cercano al di fuori delle norme più tradizionali del maschile dominante? 33 E se pensiamo che il futuro possa essere rappresentato da questi bambini e bambine che cerchiamo di educare in modo diverso, quanto tempo per il cambiamento? Queste e molte altre ancora sono domande vere, sulle quali io stessa potrei argomentare, ma non dare risposte. Mentre lavorerete a questo progetto queste domande e altre saranno presenti, al vostro lavoro, ma anche nella vostra vita, pervasa tutta, come già dicevo, in ogni età, in ogni luogo, in ogni momento del quotidiano e in ogni relazione dal tema, dalle pratiche della cura, dalle differenti culture, atteggiamenti e comportamenti che donne e uomini propongono, spesso inconsapevolmente, rispetto alla cura. Già la consapevolezza di tutto ciò muove cambiamento in ciascuna e ciascuno, renderà attente e intenzionali al mutamento non solo, credo inevitabilmente, nel lavoro. 34 IL LAVORO DI CURA E IL DESIDERIO DI UN UOMO Claudio Vedovati La divisione tra il fare e il non fare, come anche tra il poter fare e il non poter fare, nell’ambito del lavoro di cura evoca altre grandi gerarchie e divisioni del lavoro. La prima di questa è la divisione di genere del lavoro, da cui discendono anche la distinzione tra pubblico e privato e quella tra lavoro produttivo e quello riproduttivo, il lavoro che garantisce la produzione di beni e quello che garantisce la vita. Per questo motivo, sia che si voglia intendere il lavoro di cura come una forma di schiavitù a cui le donne sono state storicamente costrette (dunque parte di un modello in cui il maschile ha controllato in diversi modi il corpo e la libertà femminile) sia come una forma di lavoro che rimane fuori dallo scambio monetario (e che quindi richiama saperi e competenze di reciprocità, empatia, ascolto, disponibilità, gratuità da rivendicare), bisogna fare i conti con il fatto che queste distinzioni rimandano al modo in cui il “maschile” – inteso come modello normativo e “ordine simbolico” – ha imparato a stare al mondo, ha guardato a se stesso e alle proprie relazioni, ha pensato e costruito un mondo intorno a sé. Se mettiamo in discussione la divisione di genere del lavoro mettiamo in discussione tutto questo mondo, con tutte le sue contrapposizioni e le sue gerarchie. Ma – e da qui voglio partire - da quale desiderio e punto di vista lo facciamo? Io lo faccio dal mio punto di vista, che è quello di un uomo che riflette sulla propria appartenenza di genere e che ha un rapporto critico con la storia del maschile, perché sente il bisogno di fare qualcos’altro di sé. Per questo motivo, io credo, affrontare la questione del lavoro di cura, cioè quei modelli con i quali si tramanda una diversità di ruoli tra uomini e donne, deve andare oltre una generica richiesta di responsabilità che le donne fanno agli uomini. Il modello della “responsabilità” rimanda, in questo caso come in altri, ad una idea di solidarietà, di aiuto, di supporto, che invece di rimettere in discussione i modelli sociali di genere li conferma. La condivisione di responsabilità, in particolare, non fa emergere in alcun modo i vantaggi che un uomo avrebbe per sé a mettere in discussione le gerarchie di genere, cioè il posto che ha pensato per sé nel mondo. Nasconde ad esempio il vantaggio che ci sarebbe, per il maschile, di uscire dall’identificazione con il lavoro produttivo e con quell’area l’area in cui ogni scambio è mercificato e reso astratto (dallo scambio economico alla rappresentanza politica, dalla trasmissione dei saperi all’organizzazione degli spazi di vita). Per me, quindi, la questione del lavoro di cura investe le grandi questioni attraverso cui è possibile decostruire la storia dello stesso maschile, avendo l’obiettivo non solo di riequilibrare o smontare le gerarchie di genere ma di 35 trovare anche spazi di libertà maschili per sé e di costruire una diversa qualità delle relazioni di genere. Ciò significa in particolare affrontare – proprio in relazione alla “cura” – alcune questioni. Mi riferisco in particolare al rapporto che il maschile ha: - con il generare (delle donne) e il (proprio) non generare; - con le rappresentazioni – molto misere - che ha fatto di sé, del proprio corpo e delle proprie forme di socialità; - con la virilità intesa come modello normativo che segna il “diventare un uomo”; - con la nozione di sapere che deriva dalla consuetudine di rimuovere il proprio corpo e di usarlo come una protesi; - con la tendenza a biologizzare e naturalizzare le differenze e a ridurre la donna al proprio corpo e quel corpo a natura da controllare. In questo senso io voglio chiarire meglio che non “mi occupo” “professionalmente” di lavoro di cura, ma di me, del mio essere un uomo. La mia competenza è lavoro politico che faccio su di me, insieme ad altri uomini (oggi il gruppo Maschile Plurale), sul maschile. E’ una competenza di genere che fa leva sulla consapevolezza della propria parzialità e sul fatto che il maschile non è l’unico soggetto possibile e che contemporaneamente si nutre della relazione con i saperi delle donne su di sé. Questa competenza nasce da un mio bisogno di rottura con i modelli storici del genere maschile che non si è fermato alla “denuncia” (ad esempio della violenza sessuale) ma che ha cercato, proprio nel conflitto con la storia del mio genere e con i modelli più poveri che esso ha prodotto, una occasione di ricchezza e di libertà. La questione del generare e del non generare è sempre centrale, come dimostra anche il recente conflitto sulla legge 40. Ciò che va interrogato è il fatto che il maschile ha percepito la propria posizione nei ruoli riproduttivi come uno scacco, un limite da recuperare attraverso il controllo del corpo delle donne (e dei figli). Questo scacco si fa oggi nell’immaginario maschile ancora più grande a causa della comparsa sulla scena di nuove tecnologie riproduttive. In questo scenario – una rappresentazione – va inscritta anche quella fuga e rimozione dal corpo che caratterizza la storia maschile. Quale corpo? Un corpo da cui si può prescindere, che può quindi essere rimosso e messo da parte (nel lavoro, in guerra, nella politica). Un corpo percepito come un naturale portatore di tensioni, desideri e di una idea della sessualità (i “bassi istinti”) da controllare, da civilizzare, da governare, da subliminale. E ancora. Un corpo che viene vissuto come non desiderabile (ad esempio, che può accedere alla relazione sessuale solo pagando o con la violenza, come se non esistesse anche un desiderio femminile, un altro sguardo su quello stesso corpo) e che a partire da questa idea segna tutti gli spazi sociali 36 con il solo proprio desiderio. Un corpo che gli uomini usano come metafora (il “fare corpo”) di grandi e “potenti” aggregazioni sociali (lo Stato, l’Esercito, le appartenenza politiche, ecc.) ma che gli stessi uomini non possono usare per affidarsi l’uno all’altro (il corpo di un padre, di un figlio, di un fratello, di un amico). Un corpo che è quindi segnato anche dall’omofobia e che esso non sia una possibile risorsa di relazione (se non quella della competizione, della complicità che esclude o delle “pacche sulle spalle”). E un corpo che è vincolato dalla necessità della prestazione ed è portatore di una identità sessuale instabile che va continuamente riaffermata (non si dice, forse, “comportati da uomo”? Non accade, forse, che un uomo che crede di aver subito un offesa senta anche di aver perso l’onore e la virilità?). Per tornare al lavoro di cura, dobbiamo chiederci quali sono i costi sociali di quest’idea che il maschile ha costruito nel tempo di sé e che continua ad usare per riprodurre la propria identità di genere. Costi che il maschile stesso paga in termini di qualità delle proprie relazioni e che segnano le relazioni di genere anche sul terreno del lavoro di cura. Io mi chiedo quale lavoro di cura può fare un soggetto sessuato che si è presenta nella scena delle relazioni con queste rappresentazioni di sé? Il lungo percorso che porta gli uomini a fare di se stessi degli “uomini”, a “diventare uomini”, quel percorso che è regolato dal modello normativo della virilità, è lo stesso che si riproduce la divisione di genere del lavoro. Quale uomo non si è sentito incalzare da bambino a essere “uomo”, a comportarsi da “uomo”? Quante volte ci si è sentiti chiamare “femminucce” per aver usato parti “impreviste” dell’espressione di sé, come il piangere? Quanti uomini non hanno conosciuto la fatica di adeguare se stessi ad un modello di virilità che è assolutamente indefinito e contemporaneamente ferreo nelle sue capacità di esclusione? Quanti non hanno sentito l’abisso sociale e di identità personale in cui si può precipitare se non si corrisponde ai canoni della mascolinità dominante? Chi non ha visto corpi maschili esibirsi in tutta la loro esuberanza, fare giochi pericolosi, godere dell’eccesso, sfidare il rischio e i limiti, sfidarsi l’uno con l’altro e poi ribadire come qualità virile la propria capacità di autocontrollo, di emancipazione dalle emozioni, di neutralizzazione di sé? Direi che il recupero del maschile al lavoro di cura comporta una faticosa decostruzione di quel vero e proprio disciplinamento che il maschile ha fatto di sé, disciplinamento che passa attraverso questa continua oscillazione tra trasgressione e ritorno all’ordine. Oscillazione? Diciamo che è una una prigione. Il lavoro di cura è un sapere. Ma quale sapere di sé ha un uomo? E quale sapere di sé ha un corpo che non genera? La storia maschile è caratterizzata da un eccesso di parola e da un silenzio su di sé, due facce della stessa medaglia. La parola maschile si presenta sulla scena con una maschera, quella di discipline, di saperi astratti e 37 costituiti, che si danno valore proprio dal prendere le distanze dal partire da sé. Il potere di parola che gli uomini si sono dati ha storicamente fatto ricorso proprio all’autorità di tecniche e di saperi presentati come neutri ed esterni a sé, come il diritto, la politica, la scienza, l’economia, la medicina. Il maschile ha costruito questi saperi come protesi del proprio corpo e li ha usati per celare la propria parzialità. Con essi ha anche ha esercitato il controllo sul corpo della donna e sulla sua soggettività. C’è un ulteriore nesso tra corpi e saperi: proprio la riduzione dei corpi maschili a strumento ha prodotto saperi ridotti a strumento (e forme estreme di violenza). E’ invece possibile per noi uomini, ora, pensare ai saperi come competenze su di sé, a partire dal fatto di avere un corpo maschile? Come si formano queste competenze, in quali relazioni si creano e in quali relazioni le usiamo? Come ne facciamo esperienza? Io penso che il lavoro di cura è l’universo che apre a queste domande un mondo di possibilità. Il luogo di un fare che libera gli uomini da un destino che essi hanno voluto vedere iscritto nel proprio corpo e che hanno a forza iscritto anche nel corpo delle donne. La materialità dei nostri corpi ha una storia e quotidianamente questi nostri corpi sono attraversati e costituiti dal piacere, dal desiderio, dal potere, dalla politica, dai limiti biologici, da ogni forma di relazione. Il lavoro di cura e le relazioni che attraverso di esso si costituiscono sono per un uomo l’occasione per riguadagnare la libertà di risignificare la propria storia e con essa costruire un’altra qualità delle relazioni. Qui, ogni uomo deve imparare ad agire una propria libertà. E per incontrare quel sapere di sé che le donne hanno sviluppato anche – ma non solo - nella dimensione più coatta della cura, laddove la divisione di genere del lavoro non ha lasciato possibilità di scelta, è necessario che un uomo dica cosa porta di sé e cosa fa per sé. Io penso che è il partire da questo desiderio non astratto di trasformare il mondo che si può fare delle relazioni di cura il luogo di una relazione trasformativi e desiderata tra i generi (e tra le generazioni); e quindi fare in modo che questa relazione possa ricomporre diversamente l’ordine che si nasconde nell’antica contrapposizione tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo. 38 Suggestioni e impressioni da esperienze Antonella Orlandi ……...non vola perché è un maschio ……..volano le donne perché sono più fantasiose …..lei vola perché balla; le donne volano perché diventano fate ……..volano le donne perché è più naturale …..lei vola perché tiene la mano a lui. Lui non ha fatto il salto, lei sì …a me fa pensare quando io e Gianmarco saremo grandi Alice Mattia Beatrice Duccio M.Elena Anna Sono un’insegnante delle scuole comunali di Arezzo. Partecipo a questo incontro, così interessante e ricco, come esperta di laboratorio e ho voluto iniziare questo mio breve intervento con le parole di commento dei bambini di 4-5 anni mentre osservavano questa opera di Chagall. Già da tempo nella nostra scuola era sorto interesse ed attenzione alle diversità come bisogno di riconoscere l’altro/a e come necessità di essere riconosciute nel nostro speciale,soggettivo modo di essere. Con piacere e direi anche con divertimento abbiamo partecipato al progetto”Grembiuli e poltrone” che la provincia di Arezzo aveva promosso per la sensibilizzazione al lavoro di cura con il coordinamento di Marina Piazza e oggi vorrei raccontare a voi alcune considerazioni ed alcuni interessanti punti di vista dei bambini. Nell’esplorare i temi dell’identità di genere,inevitabilmente abbiamo dovuto riflettere sul nostro modo di essere donne ed insegnanti per interrogarci su come esprimiamo il femminile e in che modo lo rappresentiamo come modello imitativo ai bambini ed alle bambine. Abbiamo capito che i nostri comportamenti non sono neutri, perché veicolano significati dell’esistenza che viene da noi interpretata e poi restituita. Ci siamo rese consapevoli che attraverso gesti e parole rappresentiamo una nostra realtà interiore che racconta quali pensieri, desideri, aspettative, sogni abbiamo nei confronti di bambini e bambine. Questo processo non è semplice perché richiede una profonda trasformazione personale e professionale. Entrano in gioco non solo i nostri saperi, ma i nostri personali comportamenti pubblici e privati, le nostre scelte di vita, i nostri affetti. Ma proprio per questo il nido e la scuola dell’infanzia possono essere i luoghi per loro natura particolarmente predisposti per una elaborazione significativa del tema e per la sperimentazione di percorsi riproducibili. 39 Abbiamo iniziato dalle piccole grandi cose, come ad esempio il lessico che usavamo nel parlare o scrivere di bambini/e pensando così di rappresentare entrambi i generi; da un certo momento non è stato allora più possibile usare unicamente il maschile come forma omologante per tutti. Le bambine sono entrate nelle nostre parole, sono state viste, hanno avuto un riconoscimento del loro essere. Maestra: Alessia: Maestra: Tommaso: Alessia: da che cosa vuoi la maschera? la voglio da Zorro va bene… ma Zorro è un maschio!!!..... senti io non voglio essere Zorra ……me la fai da principessa? Alice: Christian: Tommaso: Maestra: Andrea: Duccio: lo sai che mi sono truccata da Uomo-ragno? da ragna!!! maestra, guarda che l’Uomo-ragno è un maschio!!! ci potrebbe essere la storia di una Donna-ragna? nooo!!! Non può esistere la donna-ragna perché è un uomo e basta! si potrebbe scrivere la storia della Donna-robot-ragna Da tempo poniamo una particolare attenzione anche alla letteratura da presentare ai bambini/e.Abbiamo cercato tra le fiabe tradizionali di proporre tipologie di personaggi sia al maschile che al femminile, “il furbo”…”il grullo”….”l’audace”…fino alla “principessa che voleva diventare cavaliere” crcando di trovare finali diversi da solito”si sposarono e vissero felici e contenti”. Vi ricordate la forza d’animo della sorella nei “12 cigni”? oppure la furbizia della saggia “Ghita”? O l’intuito e l’istinto di “Vassilissa”? Oltre alla fiaba tradizionale cerchiamo di nutrire l’immaginario dei bambini/e con testi di autori che propongano un senso del vivere più creativo e solidale. Abbiamo cercato nella mitologia e abbiamo incontrato personaggi coraggiosi; Artemide, intelligenze risolutive, Arianna, donne curiose,Pandora, e non disperiamo di trovare un’eroina che possa stare al pari di Ulisse. Anche nella filmologia abbiamo proposto pellicole dove si possono trovare rotture dello stereotipo di cura, ad esempio Nemo è accudito e cresciuto dal padre, Mulan è un’eroina che comanda un esercito. Questa attenzione l’abbiamo avuta anche nell’utilizzo dell’ambiente differenziando l’uso dei bagni tra bambini e bambine, non già come selezione sessista o moralista, ma per accogliere una richiesta venuta espressamente dalle bambine. “alcune bambine si sono lamentate di trovare al bagno i water sempre bagnati dalla pipì dei maschi. Abbiamo proposto di andare al bagno in due posti distinti e contrassegnati da un simbolo cercato 40 insieme e votato a maggioranza. Per entrare in argomento si è riproposta la domanda: “ In che cosa sono diversi maschi e femmine?” ….i maschi hanno il tagliaerba e imbiancano ….i maschi hanno le scarpe più nere ….gli uomini hanno più muscolo ….le donne hanno le calze lunghe ….i maschi non hanno la gonna ….le donne hanno i piedi profumati, i maschi no ….le donne hanno più il vestito rosa …. ….i maschi portano il burro cacao , ma quello bianco … Matteo Edoardo Gianmarco Jacopo Erica Anna Giovanni Chiara Nel fare questo lavoro abbiamo colto nelle parole e nei segni dei bambini/e che loro vivono esattamente le nostre difficoltà a cambiare, i nostri bisogni ad essere nuovi/e, le nostre contraddizioni. Spesso infatti si conserva lo stereotipo di genere…. …..il babbo e la mamma litigano sempre perché la mamma fa i lavori in casa e il babbo lì ….fuori con quella motosega …. .tira fuori quel filo per accenderla …… la mamma vorrebbe che il babbo l’aiutasse a sparecchiare …… a spazzare….. Angelica …..il mio babbo studia e sa anche cucinare… Mattia …..anche il mio babbo cucina quando la mia mamma è al lavoro…..Duccio Ci sono babbi che cuociono i tortellini ed altri che cuociono “anche” l’uovo in padella, chi fa gli spaghetti con le vongole e anche chi, mentre la mamma va alla Coop, fa le coccole con il babbo. Mentre ci sembra diffusa la collaborazione, alcuni dati di analisi ci fanno pensare che la tecnologia è ancora tutta maschile, mentre la cultura appartiene al femminile. …..i libri li usano le femmine, io li guardo sempre M.Elena ….l’aereo lo usano solo i maschi Federica ….voglio imparare a lavare la macchina al lavaggio con l’idropulitrice Matteo ….io voglio imparare a disegnare un quadro Erica ….io a fare i numeri Asia ….io, invece, voglio imparare a giocare al computer Francesco Il dato che emerge, è che a livello di definizione teorica, permangono ancora modelli culturali ancorati allo stereotipo della divisione dei ruoli uomodonna, mentre nella pratica quotidiana, nelle famiglie con i bambini piccoli, si ripartiscono in forme non ruolizzate gran parte dei compiti di cura. Di fronte alla richiesta di definire maschile e femminile attraverso un gioco di collages, le immagini vengono ripartite in modo da richiamare ruoli e 41 funzioni : coltelli, moto, armi, astronavi vanno sul cartellone del maschile, mentre bambini, cibo, ornamenti sul cartellone del femminile. Ma quando si passa al racconto di quello che ogni giorno mamma e papà fanno concretamente, viene fuori che tutti e due accudiscono i figli, li accompagnano a scuola, si occupano di varie incombenze e assolvono insieme alle responsabilità sociali. La differenziazione diventa pressoché totale quando si parla di pulizie della casa:quasi nessun padre se ne fa carico! Un’ultima brevissima nota. Progettare e operare nel nido e nella scuola dell’infanzia significa essere in rapporto costante con il mondo delle emozioni: quello dei bambini e quello personale. Emozioni è una parola che spesso fa paura, qualche volta crea imbarazzo, e comunque non è un termine da poco. Troppo poco nella scuola si parla o addirittura si tengono in conto le emozioni; ma parlando di donne e di uomini, parliamo, ascoltiamo, percepiamo emozioni e dalle emozioni che proviamo siamo identificati. i bambini fanno sempre più piagnistei perché la maestra li brontola Federica da piccola io piangevo…..e piangi, piangi, piangi….e la mamma e il babbo ridevano e dopo quella belata ridevo anch’io …. Beatrice capirai i bambini sono più beloni perché le bambine sono più gentili. Lo sai quanto è che piango? Da quando so’ nato che piango! …..Duccio Quello che mi pare fondamentale sottolineare a chiusura di questo intervento, è che il tema dell’educazione di genere, così come ogni altro che pone questioni cruciali che attengono ai valori, può essere correttamente affrontato nella scuola dei piccolissimi, e solo all’interno di una metodologia che pratichi concretamente la valorizzazione delle diversità, l’ascolto, il confronto dei punti di vista diversi. Concludendo vi voglio salutare con parole prese in prestito da un grande poeta Pablo Neruda che è riuscito da par suo a dire ciò che noi possiamo vivere quotidianamente nella scuola. Ho imparato la vita dalla vita, e ho potuto insegnare solo quello che io stesso ho vissuto, quanto ho avuto in comune con altri uomini. 42 Educazione di genere per spezzare gli stereotipi Susanna Cenni Questo seminario rappresenta una occasione importante per riflettere sulle possibilità di intervenire a livello preventivo per una educazione all’equità di genere e alla cura, per rompere gli stereotipi e uscire dai ruoli prefissati. Non dobbiamo affrontare le necessità di realizzazione di strutture per l’educazione solo da un punto di vista quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo, in termini di contenuti e formazione professionale adeguata degli insegnanti ed educatori”. La costruzione di una identità di genere inizia dai progetti educativi sui quali si basano le istituzioni scolastiche, sulle relazioni interne, sulla formazione del personale e sui rapporti con le famiglie. Al progetto “Pari opportunità e differenza di genere, stereotipi nella scuola d’infanzia”, realizzato dai Servizi Qualità Totale e Educazione e cultura dell’infanzia del Comune di Prato, con la supervisione scientifica di Marina Piazza e Antonella Orlandi partecipa anche la Regione Toscana attraverso un ciclo di seminari che coinvolgeranno sia figure maschili che femminili; saranno approfonditi aspetti quali il rispetto delle persone e delle differenze, il radicamento di valori come il diritto di cittadinanza e la promozione di nuove relazioni fra uomo e donna, ponendo le basi per un nuovo patto di conciliazione e di condivisione del lavoro di cura da costruire pazientemente ridefinendo ruoli, funzioni e modelli culturali preesistenti”. Fondamentale da questo punto di vista è – a mio parere - un’azione educativa da condurre nelle scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità. La possiamo chiamare ‘educazione alla cura’: alla cura di sé, dell’altro, del mondo, per rendere visibile – e valorizzare – quel lavoro sommerso e spesso invisibile che viene affidato alle donne come compito dovuto”. Sono alcune delle grandi priorità che la Regione Toscana si è data, assumendo tra le sfide del programma regionale di sviluppo 2006-2010 proprio l’affermazione di un pieno diritto di cittadinanza delle donne e dei giovani e la promozione della dimensione di genere in tutte le proprie politiche. Quindi, l’unica prospettiva possibile è quella di un cambiamento culturale forte, che parta dall’educazione delle prossime generazioni e si sviluppi attraverso politiche e norme che non siano mere enunciazioni di principio, ma che sostengano concretamente uomini e donne nella creazione di una società più equa in cui le opportunità di lavoro, carriera e vita privata siano legate non all’appartenenza di genere, ma alle effettive capacità del singolo individuo, uomo o donna che sia. Nel dialogo con le scuole e con i ragazzi va data particolare attenzione al tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e a quello della lotta contro la violenza sulle donne”. 43 44 APPENDICE PROGETTO “EDUCARE ALLA DIFFERENZA DI GENERE SUPERARE GLI STEREOTIPI DI GENERE ALLA SCUOLA D’INFANZIA” Anno 2007-2008 45 Soggetto Titolare Servizio Qualità Totale Servizio Educazione e Cultura dell’Infanzia Equipe di progetto Ufficio Tempi e Spazi e Pari Opportunità Coordinamento Pedagogico e Organizzativo Collaborazioni Insegnanti ed educatrici delle sezioni aderenti Supervisione scientifica Premessa (contesto e motivazioni) Marina Piazza – Antonella Orlandi Il tema dell’educazione di genere porta ad approfondire aspetti che attengono a valori quali il rispetto delle persone e delle differenze, ad accertare valori come il diritto di Cittadinanza promuovendo nuove relazioni fra uomo e donna. Per favorire un nuovo sistema di conciliazione fra uomo e donna è importante ipotizzare anche un nuovo patto di condivisione del lavoro di cura. E’ un patto che va costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione condivisa dei ruoli, delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti. In questo senso la priorità va data all’azione educativa da condurre nelle scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità. Azione educativa che potrebbe essere definita di “educazione alla cura”: alla cura di sé, dell’altro, del mondo, ed essere imperniata a rendere visibile – e a valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle donne come “compito dovuto”. Gli stereotipi relativi alle differenze fra i generi condizionano il comportamento degli adulti e dei genitori in particolare, per cui influiscono anche nel gioco: i maschi tendono a investire maggiormente il corpo (giochi motori, turbolenti con prevalente fisicità); le bambine invece giocano in modo più sedentario utilizzano maggiormente l’attività verbale e il gioco simbolico nel quale prevalgono temi relativi al lavoro domestico e di cura. Questi stereotipi condizionano i bambini e le bambine fin dai primissimi anni di vita secondo forme di addestramento al ruolo attribuito al proprio sesso di appartenenza e sono fondamentali nella formazione dei ruoli. La possibilità dei bambini fin da piccoli a riconoscersi e inserirsi nella categoria dei maschi o delle femmine fa parte del processo naturale di costruzione della propria identità e di una spiccata tendenza all’autodefinizione e alla categorizzazione. Imparano, quindi, molto precocemente ad apprendere i comportamenti di genere Studi e ricerche dimostrano che a partire dai tre anni di vita prende l’avvio un processo di acquisizione dell’identità di ruolo, ossia l’acquisizione di schemi comportamentali, preferenze e valori condizionati dai modelli presenti in una determinata società. Durante il processo dell’acquisizione di identità di ruolo bambini e bambine cercano di distinguere cosa è maschio da cosa è femmina attraverso quegli atteggiamenti e comportamenti regolati da convenzioni, divieti, attribuiti ai due sessi. Quindi, gesti quotidiani compiuti anche senza una esplicita volontà di insegnamento diventano, per i bambini, molto significativi e soprattutto indicativi di ciò che è maschio e di ciò che è femmina. La costruzione dell’identità di genere costituisce a pieno titolo fin dai primi mesi di vita una tematica formativa che, come tale, non può non investire la progettazione didattica, le relazioni interne, la formazione del personale dei rapporti con le famiglie. Insegnanti e genitori, spesso esitano ad affrontare l’argomento per varie ragioni che possono essere ricondotte ad alcune motivazioni: scarsità di produzione scientifica in materia e alla sua ancor più scarsa divulgazione, oltre che a pregiudizi, preoccupazioni e paure. Infatti, il tema comprende aspetti importanti che hanno un forte impatto emotivo-culturale, quali la sessualità, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella società ecc. 46 Finalità Obiettivi Metodologia - Scoprire le differenze affrontando gli stereotipi di genere ed educando alla relazione a partire proprio dalla differenza maschile-femminile intesa come confronto originario e per questo come chiave di accesso a tutte le differenze/relazioni. - Progettare con le scuole d’infanzia percorsi di sperimentazione; le scuole d’infanzia per loro natura possono essere un luogo predisposto per un’elaborazione significativa perché affrontano costantemente il mondo delle emozioni - Stimolare la riflessione degli adulti che, in questa fase dello sviluppo dei bambini, si mostrano molto coinvolti nel processo formativo. - Formazione del personale centrata sia sull’acquisizione di conoscenze che sulla osservazione, documentazione e riflessione attiva intorno al pensiero e ai comportamenti dei bambini e degli adulti sul tema; - Costruzione della relazione con le famiglie da coinvolgere nelle varie fasi del progetto; - Predisposizione delle attività, organizzazione dell’ambiente e dei materiali per il lavoro da fare con i bambini; Le metodologie saranno diversificate secondo i soggetti coinvolti: Incontri previsti per gli adulti (formazione, monitoraggio, incontri con genitori ecc.): - Esposizione e approfondimento teorico attraverso lezioni frontali; - focus group; - Racconto, come metodo per far emergere il proprio vissuto; - Role play e simulate ; - Tecniche di osservazione - Ascolto dei bambini Per i bambini di 5 anni a piccoli gruppi - Laboratori di drammatizzazione - Manipolazione - Gioco dello scambio dei ruoli 47 Tempi Anno scolastico 2007-2008 Progettazione ¾ Giugno 2007 stesura definitiva progetto con il contributo delle insegnanti Presentazione progetto ¾ Settembre 2007 presentazione del progetto giornata di lancio 6 settembre 07 ¾ Conferenza stampa (6 settembre, a conclusione giornata di presentazione) Convegno del 6 settembre 2007 ¾ 5 ore di formazione per insegnanti, educatori, ausiliarie, coordinamento comunali, e aperto ad altre scuole infanzia e nidi e comuni esterni Formazione personale scuola infanzia (insegnanti e ausiliarie) e laboratoristi : ¾ I – incontro 10 settembre ore 10.30-13.30 (condotto da Marina Piazza) su Linguaggio e Stereotipi ¾ II – Incontro il 13 settembre ore 16.30-19.30 (Condotto da Antonella Orlandi) su come aggirare lo stereotipo Incontri di monitoraggio delle attività laboratoriali : N. 4 incontri di due ore ciascuno condotti da Antonella Orlandi per la condivisione di una comune metodologia di azione e la valutazione dei risultati che si ottengono durante la sperimentazione nei laboratori (10 ore per ciascun laboratorista). Gli incontri saranno così divisi: • I incontro – preparazione materiali per i laboratori – partecipano soltanto i laboratoristi. • II incontro - prima dell’avvio dell’attività laboratoriale – partecipano insegnanti e laboratoristi (i primi di ottobre) • III incontro – durante lo svolgimento dei laboratori – partecipano soltanto i laboratoristi. • IV incontro – conclusivo: valutazione e individuazione delle azioni per proseguire l’esperienza nel gruppo classe. Laboratori per bambini : sperimentazione nei piccoli gruppi di circa 12 bambini (un’ora di attività per ciascun gruppo-laboratorio) di specifici percorsi di comprensione ed elaborazione della differenza e di costruzione condivisa di nuove proposte relazionali • 5 incontri da tenersi fra Ottobre e Dicembre al massimo entro Gennaio 08 (in accordo e secondo le esigenze degli insegnanti e laboratoristi) • Incontri con i bambini o settimanali o quindicinali. 3 Incontri con i genitori: Finalizzati a sensibilizzare gli adulti sulle differenze di genere, partendo da ciò che emerge dalle esperienze dei bambini – conducono gli incontri i laboratoristi. Negli incontri va seguita la metodologia di laboratoriale-esperenziale • I tempi saranno concordati con insegnanti e laboratoristi, comunque in parallelo a quegli per i bambini, tra ottobre e dicembre. • Gli incontri con i genitori sono di norma svolti il dopocena. Le insegnanti e le ausiliarie interessate possono partecipare a questi incontri. Restituzione dell’esperienza nella prima metà di marzo o di aprile – restituzione dei risultati della sperimentazione con impegno breve (max 2 ore ) – mostra dei materiali elaborati e del video. A villa Fiorelli – se disponibile – piccolo convegno Soggetti coinvolti Vari Settori del Comune Personale Insegnante e Ausiliario Genitori 48 Esperti - Descrizione del progetto e Modalità di svolgimento Il progetto è complesso e articolato in varie fasi: (chi sono e cosa fa ciascuno) - Utenza Il Formatori e relatori per le giornate di restituzione Esperti di laboratorio per i bambini Presentazione bozza progetto alle insegnanti di scuola infanzia comunale, per la raccolta di adesioni Elaborazione definitiva del progetto in accordo anche con le insegnanti; Giornata di Studio e Formazione per la presentazione delle linee culturali del progetto e racconto ragionato delle esperienze simili avviate nella Comune di Arezzo; Corso di formazione per insegnanti, operatori e laboratoristi coinvolti; Monitoraggio in itinere dell’esperienza; Attività di laboratorio nelle classi con esperti e bambini per le scuole d’infanzia; Incontri con genitori Riprese Video e Iniziativa per la restituzione e presentazione dei risultati e dei materiali elaborati durante l’esperienza con i bambini. Progetto è rivolto a Scuole d’infanzia del Comune BAMBINI/E (di 5 anni di scuole d’infanzia) INSEGNANTI AUSILIARIE GENITORI Benefici attesi Riflessione da parte dei partecipanti adulti sugli stereotipi, volta ad ottenere una modifica del proprio comportamento: per l’utenza - - Tutoring maggiore distribuzione in famiglia dei tempi di cura, come tempo da dedicare ai figli ricerca di equilibrio e disponibilità amore e considerazione rispetto delle differenze individuali Per le scuole Elaborazione di progetti e percorsi didattici da poter riproporre negli anni successivi (attraverso filmati e power point) Coordinamento Pedagogico e Organizzativo Coordinamento Pedagogico e collaboratori Incontri di valutazione Valutazione Indicatori da decidere con il gruppo di lavoro (C.P. -laboratoristi e insegnanti) Documentazion Ogni fase del progetto prevede un percorso di raccolta della documentazione prodotta. - La giornata della presentazione prevede la raccolta dei materiali del convegno; e e diffusione - Durante il convegno potranno essere presentati lavori (multimediali o cartacei) eventualmente prodotti dalle scuole; - Raccolta dei materiali del corso di formazione; - Documentazione con foto, cartelloni, disegni ecc. dei laboratori con i bambini; - Tali documenti potranno essere presentati nella giornata finale di restituzione; Monitoraggio Sviluppo futuro Progetti permanenti nelle scuole Proposta del progetto nell’ambito delle iniziative previste ogni anno di Continuità fra scuola d’infanzia e scuola primaria. Piano finanziario Il piano finanziario è stato elaborato in un documento a parte, nel quale sono inserite anche le riprese video 49