Atti del convegno 2007 -Un percorso di

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Atti del convegno 2007 -Un percorso di
Prato 6 settembre 2007
Wall Art Hotel & Congress
Viale della Repubblica, 8
8.30/13.30
Convegno
Un percorso di educazione alla cura
Relazione tra differenze
PROGRAMMA
Registrazione dei partecipanti
caffè di benvenuto
Saluti
Giuseppe Gregori, Assessore alle Politiche Educative e dell’ Istruzione Pubblica, Comune
di Prato
Introduce
Linda Pieragnoli, Consigliera Comunale incaricata per le Pari Opportunità, Comune di
Prato
Coordina
Perla Giagnoni, Resp. Coordinamento Pedagogico del Servizio Educazione e Cultura
dell’Infanzia, Comune di Prato
Intervengono
Marina Piazza, Presidente Gender
Marco Deriu, Università degli Studi di Parma
Barbara Mapelli, Università degli Studi di Milano Bicocca
Claudio Vedovati, Associazione “Maschile plurale”, Roma
Antonella Orlandi, Insegnante
Dibattito
Conclude
Susanna Cenni
Assessora alle Pari Opportunità, Regione Toscana
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Saluti
Giuseppe Gregori
Assessore alle Politiche Educative e dell’ Istruzione Pubblica
Ringrazio tutto il personale del Servizio Educazione e Cultura dell’Infanzia e
in particolare ringrazio il Coordinamento Pedagogico che ha organizzato il
Convegno. Mi auguro che dal progetto che prenderà avvio da oggi si
ottengano risultati positivi anche nella pratica.
Sul tema del raggiungimento della parità di genere sono state fatte tante
discussioni ed elaborazioni che sono rimaste sul piano teorico.
Mi torna in mente una frase che era scritta sui muri dell’Università :”..meglio
che il dire è il fare”. Abbiamo bisogno di concretezza. E’ importante riflettere
su questo tema e lavorare con i bambini fin dalla prima infanzia, perché i
bambini sono molto recettivi e sensibili.
A fine anno scolastico, lo scorso giugno, in occasione di visite organizzate
nelle scuole che prevedevano anche il pranzo con i bambini, ero in una
scuola del Centro Storico dove la presenza di bambini stranieri è molto alta.
Avevo accanto un bambino cinese. Il bambino non mangiava. Ho chiesto -“ Ti
piace?” .
Mi ha risposto - “Poco” .
-“Che classe fai?” - “ La I°C “
“Cosa mangeresti ? – “…Ci sto pensando?”
Qualcuno vicino ha detto riferendosi al bambino cinese -“ Lui è bravo in
matematica”.
Anche se frequentava da poco la scuola, aveva imparato bene l’italiano e
soprattutto …la “c” perfettamente….aspirata come i pratesi. Quindi, i bambini
e le bambine sono aperti e ricettivi hanno la possibilità di interiorizzare
modelli diversi di comportamento.
La scuola, grazie alla presenza di personale qualificato e alle attività
specifiche che vengono svolte è capace di insegnare i principi fondamentali
alla base delle relazioni fra le persone e anche fra gli uomini e le donne. In
questo senso, per la mia esperienza di Assessore ma anche per quella di
padre, posso dire che esistono sensibilità e capacità adeguate da parte degli
insegnanti per affrontare questi argomenti; esistono le capacità per realizzare
progetti sperimentali che ci potranno permettere di dare un contributo di
esperienza importante su questo tema. La nostra esperienza potrà essere
presa a modello anche da altri.
L’argomento di cui si parla è delicato e complesso, soprattutto sarà difficile
produrre cambiamenti profondi nella vita quotidiana. Ma sono sicuro che la
concretizzazione di questa esperienza porterà un contributo concreto e sarà
un’esperienza speciale per i bambini.
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Introduzione
Linda Pieragnoli
Ringrazio tutti e tutte le intervenute.
II progetto che abbiamo deciso di realizzare si inserisce nelle iniziative che il
Comune di Prato ha promosso nell'Anno Europeo delle Pari Opportunità e ha
come protagonisti, gli alunni che frequentano le scuole materne del Comune
di Prato. Nel dare vita a questo progetto rivolto ai cittadini più piccoli, ai
bambini delle scuole materne comunali, sull'educazione alla cura, sulla
relazione tra differenze, ci hanno ispirato il lavoro di un'altra amministrazione
toscana, la provincia di Arezzo, che ha avuto come tema "Chi lavora in casa
tua" e quello del partner spagnolo di Alaquas nel progetto Equal "Tempo:
Territorio e Mainstreaming per le Pari Opportunità", nato con l'intento dì
realizzare azioni sperimentali sul territorio che favoriscano una politica dei
tempi che risponda ai bisogni dei cittadini.
II 2007 appunto è l'Anno Europeo delle pari opportunità per tutti. In primo
luogo per le donne, ma non solo.
Possiamo scegliere di dare diverse interpretazioni al principio delle pari
opportunità:
II Consiglio e il Parlamento Europeo ha deciso di leggere quest'anno
attraverso 4 punti di vista: quello dei diritti, quello della rappresentanza, quello
del riconoscimento delle diversità, quello del rispetto, per dire un no fortissimo
alla violenza e agli stereotipi.
Da un lato l'obiettivo è rendere i cittadini europei consapevoli dei propri diritti
e delle proprie possibilità dall'altro lato quest'anno serve per far sì che le
amministrazioni pubbliche perseguano e implementino AZIONI POSITIVE per
rimuovere gli ostacoli alla realizzazione delle persone, di ogni persona.
Credo che la chiave, l'idea di fondo che caratterizza quest'anno, sia legata a
un nuovo modo di affrontare il tema, di renderlo attuale legandolo a stretto filo
al riconoscimento dei TALENTI INDIVIDUALI: per un nuovo modo di attuare
politiche di pari opportunità, non più viste nell'ottica del superamento delle
differenze di genere ma della valorizzazione delle possibilità individuali.
In questo senso occorre proseguire la ricerca di un nuovo sistema di
conciliazione tra uomo e donna, che sia strettamente collegato ad un nuovo
modo di concepire e realizzare il lavoro di cura, che continua troppo spesso
ad essere considerato un compito esclusivamente femminile, e che troppo
spesso si rivela un appesantimento nella vita delle donne, nella loro
possibilità di realizzazione professionale e sociale. Da anni le amministrazioni
promuovono politiche e servizi che cercano di incidere su questo aspetto
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della vita delle donne, per sostenerle e per rispondere alla ricerca di
autonomia. Anche in questo senso abbiamo affrontato nel tempo un percorso
di genere sulla qualità dei tempi e degli spazi di vita. Abbiamo ottenuto
strumenti normativi per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e
l'adolescenza; per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e
servizi sociali di qualità; per il sostegno della maternità e paternità, per la
tutela del diritto alla cura anche attraverso la qualità della città e del territorio.
Pensiamo che compito delle amministrazioni sia quello di realizzare politiche
e progetti che servano a formare, a stimolare i cittadini e la loro crescita, sia
quello di anticipare e non inseguire i cambiamenti della società, sia quello di
dare possibilità in più. Pensiamo che il sistema dei servizi che viene messo a
disposizione, pensato e realizzato debba essere articolato e il più possibile
pensato non su un cittadino x ma tenendo conto delle esigenze particolari
delle persone e chiedendo loro di smontare, discutere modificare modelli
appresi forse per tradizione e cultura, sicuramente non più attuali né
vantaggiosi e appropriati per quello che chiede oggi la nostra società, per la
dinamicità, l'autonomia che sempre più sono richieste. La sfida da vincere per
realizzare politiche di pari opportunità è avere una lettura aggiornata della
città che cambia.
Serve oggi per questo sviluppare un'azione ancora più approfondita,
educativa, e per questo rivolta ai cittadini più giovani, nel momento in cui la
loro visione del mondo non è ancora rigida né consolidata. Tenteremo di
creare i presupposti per una cultura condivisa dei compiti e delle
responsabilità del lavoro di cura familiare e domestico - oltre i ruoli
stereotipati uomo-donna ai quali siamo abituati - lavorando in gruppi composti
da bambini educatori e insegnanti, animatori, e con l'obiettivo di coinvolgere
nei giusti tempo i genitori e le famiglie.
Con questo progetto vorremmo che le bambine e i bambini imparassero a
riconoscere e superare gli stereotipi, a non associare la differenza tra i generi
a destini prestabiliti, a limiti, a divieti, a non identificarsi in ruoli
preconfezionati, rigidi, a affrontare compiti dovuti ma a capire che la loro
libertà e la creatività, il loro essere persone prima di tutto dipende dalla
possibilità di inventarsi, di combinare modelli diversi in un insieme originale.
La condivisione del lavoro di cura, la necessità di pensarsi prima di tutto
come persone, di riconoscere che sono i meriti, i talenti e la loro realizzazione
a far crescere la nostra società sono obiettivi da perseguire e da raggiungere,
perché tutti abbiano davvero pari opportunità di esprimersi a fondo, perché si
oltrepassino i cliché di una società che vogliamo cambi ancora nelle
concezioni dei ruoli.
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La parità di diritti e doveri tra donne e uomini non si può certo dare per
scontata: in questo caso vorremmo che il contributo delle istituzioni facesse in
modo che le abitudini dei grandi non spengano la curiosità dei bambini verso
il mondo, vorremmo appunto che i bambini fossero stimolati a avere una
visione autonoma, a non semplificare né limitarsi mai. E crediamo anche che
parlare di questo con i bambini riesca a fare breccia nelle famiglie, a
cambiare meccanismi squilibrati in cui troppo spesso sono le donne ad
assumersi la responsabilità del lavoro di cura verso i familiari, e questo pur
avendo un lavoro loro.
La distribuzione diseguale dei carichi di lavoro domestico è la prima
discriminazione che si realizza tra uomo e donna. Dobbiamo impegnarci
perché si acquisisca pienamente la coscienza che la differenza tra maschile e
femminile non si sancisce attraverso le limitazioni delle donne, non stanno
insieme l'isolamento culturale e sociale della sfera domestica con il desiderio
di una vita piena e gratificante, con un sistema economico sano e dinamico,
con una socialità più vera. Nessuno deve restare solo o indietro, soprattutto
nessuna donna. Ma dati e statistiche ci dicono che siamo ancora purtroppo
lontani, che troppo spesso dopo la maternità le donne smettono di lavorare, e
questo nonostante da 20 anni è l'aumento delle donne che esercitano un
lavoro a condizionare l'occupazione, che l'Italia per la condizione femminile è
al 25esimo posto in Europa. Negli ultimi tempi un pensiero conservatore che
sta affacciandosi addirittura sembra minacciare il diritto delle donne a
decidere del proprio corpo. Molte delle nostre concittadine vengono da Paesi
nei quali la donna è fortemente penalizzata, e anche qui da noi la loro
emancipazione troppo spesso rimane un miraggio, il diritto di parlare, di
decidere per sé sono per loro spesso impossibili da immaginare. Noi
vogliamo che questo cambi. Sappiamo che le ragazze studiano di più, sono
più brave, determinate, si laureano prima. Ma sappiamo anche che la loro
carriera è più corta, il trattamento economico è più basso, gli sforzi sono di
più degli uomini. L'obiettivo delle iniziative promosse durante l'Anno Europeo
è di rompere certi meccanismi discriminanti, lo penso che molto resterà e
contribuirà a una società di vere pari opportunità per tutti, nel rispetto delle
differenze, delle persone.
Quello che ci auspichiamo è che il progetto che verrà sperimentato nel corso
dell'anno si strutturi e divenga un aspetto dell'offerta formativa. L'educazione
alla cura dovrebbe essere estesa anche a altre fasce d'età, e rivolgersi anche
agli adolescenti. Crediamo che nella scuola dell'autonomia dovrebbe esserci
spazio per un lavoro di questo tipo.
Nella nostra regione sono state promosse in passato altre iniziative di questo
tipo, dando risultati significativi. Crediamo che sarebbe opportuno oggi
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raccogliere e strutturare queste esperienze, pensando a uno specifico
progetto regionale che si rivolga ai bambini toscani, ai cittadini più piccoli,
perché crescano con uno spirito nuovo, rinnovato, moderno, perché
contribuiscano in pieno a una società in cui opportunità, diritti, doveri sono
propri di tutti in misura
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Contrastare gli stereotipi di genere – un progetto per le scuole d’infanzia
comunali
Perla Giagnoni
Il tema dell’educazione di genere porta ad approfondire aspetti che attengono
a valori quali il rispetto delle persone e delle differenze e i diritti di
Cittadinanza promuovendo nuove relazioni fra uomo e donna.
Per favorire un buon sistema di conciliazione fra uomo e donna è importante
ipotizzare anche un nuovo patto di condivisione del lavoro di cura.
E’ un patto che va costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione
condivisa dei ruoli, delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti.
In questo senso la priorità va affidata all’azione educativa condotta nelle
scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la
mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità.
Azione educativa che si può definire di “educazione alla cura”: alla cura di
sé, dell’altro, del mondo, ed essere imperniata a rendere visibile – e a
valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle donne
come “compito dovuto”.
Gli stereotipi
relativi alle differenze fra i generi condizionano il
comportamento degli adulti e dei genitori, ed influiscono anche sulle scelte
nel gioco:
• i maschi tendono a investire maggiormente il corpo (giochi motori,
turbolenti con prevalente fisicità);
• le bambine invece giocano in modo più sedentario, utilizzano
maggiormente l’attività verbale e il gioco simbolico nel quale prevalgono
temi relativi al lavoro domestico e di cura.
Questi stereotipi orientano i bambini e le bambine fin dai primissimi anni di
vita secondo forme di addestramento al ruolo attribuito al proprio sesso di
appartenenza e sono fondamentali nella formazione dell’identità.
La possibilità dei bambini/e fin da piccoli a riconoscersi e inserirsi nella
categoria dei maschi o delle femmine fa parte del processo naturale di
costruzione della propria identità e di una spiccata tendenza
all’autodefinizione e alla categorizzazione. Imparano, quindi, molto
precocemente ad apprendere i comportamenti di genere .
Studi e ricerche dimostrano che a partire dai primi anni di vita prende l’avvio
un processo di acquisizione dell’identità di ruolo, ossia l’acquisizione di
schemi comportamentali, preferenze e valori condizionati dai modelli
presenti in una determinata società. Durante il processo dell’acquisizione di
identità di ruolo bambini e bambine cercano di distinguere cosa è maschio da
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cosa è femmina attraverso quegli atteggiamenti e comportamenti regolati da
convenzioni, divieti, attribuiti ai due sessi.
Quindi, gesti quotidiani compiuti anche senza una esplicita volontà di
insegnamento diventano, per i bambini/e, molto significativi e soprattutto
indicativi di ciò che è maschio e di ciò che è femmina.
La costruzione dell’identità di genere costituisce a pieno titolo fin dai primi
mesi di vita una tematica formativa che, come tale, va ad investire la
progettazione didattica, le relazioni interne, la formazione del personale dei
rapporti con le famiglie.
Insegnanti e genitori, spesso esitano ad affrontare l’argomento per varie
ragioni che possono essere ricondotte ad alcune motivazioni: scarsità di
produzione scientifica in materia e alla sua ancor più scarsa divulgazione,
oltre che a pregiudizi, preoccupazioni e paure. Infatti, il tema comprende
aspetti importanti che hanno un forte impatto emotivo-culturale, quali la
sessualità, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella società, nelle
organizzazioni.
Da uno studio sugli stili comunicativi di uomini e donne nel lavoro di gruppo
(1996) Patricia Wallace afferma:
“E’ interessante notare che le differenze di genere esistono, ma sono minime.
Uomini e donne non sono esattamente sessi opposti [e …omissis…]. Non
siamo specie separate o aliene che provengono gli uni da Marte e le altre da
Venere. “
Questo ci fa ben sperare che anche il progetto intrapreso possa contribuire a
far prosperare nuove relazioni tra donne e uomini, tra bambine e bambini
Il convegno ha l’obiettivo di presentare il percorso di sensibilizzazione e
animazione nelle scuole dell’infanzia di Prato, prima tappa di un percorso che
poi toccherà altri ordini di scuole.
Il progetto “EDUCARE ALLA DIFFERENZA DI GENERE: superare gli
stereotipi di genere alla scuola d’infanzia” è raccontato in modo esteso in
appendice agli atti.
Ringrazio le insegnanti che, senza indecisione e con grande serenità, hanno
aderito al progetto al di là delle nostre aspettative: partecipano tutte le 9
scuole d’infanzia comunali.
Significa che i tempi sono giusti per affrontare queste tematiche e sviluppare
queste iniziative con le nostre bambine, i nostri bambini e i loro genitori.
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Presentazione del progetto
Marina Piazza
Il progetto delle scuole dell’infanzia di Prato si colloca idealmente all’interno
delle misure e delle politiche di conciliazione auspicate dall’Unione Europea,
che prevedono interventi nei luoghi di lavoro per una flessibilità “amica”, nel
territorio per incrementare i servizi, i trasporti, la mobilità, ma anche e direi
soprattutto a livello dei singoli individui, per cercare di trasformare le relazioni
tra uomini e donne all’interno della vita familiare, aumentando la propensione
alla condivisione del lavoro.
Dunque alla base – e come elemento fondante – del sistema di conciliazione
va posto un nuovo patto di condivisione tra uomini e donne del lavoro di cura.
E’ un patto che non può essere suggellato da leggi o da imposizioni, ma
costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione condivisa dei ruoli,
delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti.
In questo senso la priorità va data all’azione educativa da condurre nelle
scuole per impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la
mobilità e la versatilità delle costruzioni individuali dell’identità. Azione
educativa che potrebbe essere definita di “educazione alla cura”: alla cura di
sé, dell’altro, del mondo. Ed essere imperniata sul riuscire a rendere visibile –
e a valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle donne
come “compito dovuto”.
Perché riteniamo che il concetto di cura sia il concetto base?
Si potrebbe definire la cura come una pratica relazionale, la cui essenza è
fondata sulla ricettività, sulla responsabilità di sé e dell’altro, sul rispetto,
sull’empatia, sull’attenzione e anche sull’immaginazione. E’ un’attività umana
irrinunciabile e solo perché è stata delegata alle donne viene svalorizzata
nella nostra società, ma al contrario dovrebbe essere il fondamento di
un’etica della cittadinanza.
Ma è anche lavoro. Possiamo definire il lavoro di cura come un lavoro
multiplo, connotato dalla complessità. E’ lavoro materiale della cura della
casa, lavoro di consumo, lavoro di rapporto tra i membri della famiglia, lavoro
di manutenzione dell’apparato tecnologico domestico, lavoro di mediazione
con le istituzioni e le agenzie del welfare, lavoro di amministrazione,
soprattutto lavoro di organizzazione delle diverse voci che lo compongono.
E’ un lavoro che ritaglia le sue definizioni sui cambiamenti demografici e
quindi ha a che fare sia con il ciclo di vita delle famiglie che degli individui:
meno bambini, ma più seguiti e curati, più anziani esposti , per l’aumento
esponenziale della durata della vita, a rischi molto alti di non autosufficienza.
Dunque un lavoro che non è diminuito nel tempo, ma al contrario è diventato
più complesso, più articolato, più esigente di competenze e saperi.
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Ma è rimasto invisibile e comunque la sua invisibilità è funzionale alle società
che non potrebbero reggere senza l’apporto gratuito delle donne.
Perché la fondamentale caratteristica del lavoro di cura è quella di essere un
lavoro asimmetrico a sfavore delle donne.
L’indagine ISTAT sull’uso del tempo condotta nel 1989 e nel 200-2003
consente di misurare – e confrontare a distanza di 14 anni – il grado di
asimmetria nella distribuzione dei carichi di lavoro familiare all’interno della
coppia.
Per dare un dato sintetico dall’ultima rilevazione emerge che il 77% del carico
di lavoro familiare grava sulle donne, leggermente diminuito rispetto all’85%
del 1989, ma pur sempre prevalente, anche nelle diverse fasce d’età. La
diminuzione però è dovuta più alle strategie individuali delle donne che al
maggiore coinvolgimento degli uomini.
Al di là della realtà, pesano anche moltissimo gli stereotipi legati a una
tradizionale divisione dei ruoli: alle donne il privato, il materno, l’affettività, la
cura; agli uomini il pubblico, il lavoro professionale, la decisionalità.
Se un uomo pensa che occuparsi dei suoi figli o della casa possa essere un
attentato alla sua virilità, se una donna pensa che se non fa “tutto”, se non è
una brava madre, una brava moglie, una brava lavoratrice non è una vera
donna , è molto difficile pensare che si possa arrivare a una buona
condivisione delle responsabilità di cura. E gli stereotipi sono armi
potentissime perché sono strutture congelate di senso, perché rafforzano
identità tradizionali, perché non aiutano a costruire la propria individualità. E
una volta formati, è difficile decostruirli. Anche con i piccoli non si può
affrontarli , ma in qualche modo si devono interrogare, “fino allo sfinimento”,
come dice Letizia Lambertini, in qualche modo “disfare”, cioè liberare energie
e desideri dalla clausura di costruzioni già fatte. Il fatto che entrambi i genitori,
siano coinvolti nella cura e nelle relazioni quotidiane con i figli arricchisce il
registro emotivo e cognitivo dei bambini e offre la possibilità di un accesso a
relazioni e a intimità diversificate.
Il progetto nella sua complessità dovrebbe abbracciare l’intero ordine di
scuole ma, per iniziare con gradualità e sulla base delle risorse disponibili, si
propone di coinvolgere nell’anno 2007/2008 le scuole dell’infanzia e le scuole
materne, con un andamento circolare e sinergico tra i vari attori/soggetti
protagonisti dell’azione educativa: gli alunni/e, il personale insegnante, i
genitori (con particolare riferimento ai padri), il personale ausiliario nelle
scuole materne.
Questo convegno è stato pensato come il primo momento formativo di
apertura del progetto, a cui seguiranno incontri di formazione con gli
educatori/trici, con il personale ausiliario, con i genitori, e momenti di
sperimentazione nelle scuole condotti da animatori e animatrici. La
sperimentazione sarà costantemente supervisionata da un’esperta e filmata.
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Perché è emerso il desiderio di “mostrare” a tutti – genitori, insegnanti non
coinvolti, ecc.- i “prodotti” che si sono costruiti e i filmati che registrano la
sperimentazione, in modo che possa diventare un’esperienza condivisa e
replicabile in altre situazioni.
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La partecipazione degli uomini al lavoro di cura
Marco Deriu
Nel mio intervento vorrei cercare di offrire alcuni elementi di riflessione sulle
difficoltà e sugli ostacoli che rendono difficile la partecipazione degli uomini al
lavoro di cura in modo da trovare qualche spunto sul lavoro educativo che
possiamo fare. Più nello specifico cercherò di toccare velocemente alcuni
punti:
- Qual è la condizione attuale della divisione del lavoro di cura tra donne e
uomini. In altre parole qual è il reale impegno degli uomini?
- Che cosa significa il permanente squilibrio nella distribuzione del carico di
lavoro di cura? Cosa ci dice del modo di pensare degli uomini e della
cultura maschile?
- Quali sono i campi in cui stanno comunque avvenendo dei cambiamenti
importanti?
- Infine che cosa possiamo fare o sperimentare concretamente come
educatori a partire dalle scuole d’infanzia?
La condizione attuale della divisione del lavoro di cura
La prima questione dunque riguarda in che misura quello che era la
“struttura di genere” tradizionale della famiglia è oggi realmente mutata con
i mutamenti culturali (pensiamo alla rivoluzione femminista) ed economici
(pensiamo alla trasformazione del mercato del lavoro) intervenuti negli ultimi
decenni.
Non c’è dubbio che dal punto di vista culturale si è imposto un modello
sostanzialmente più egualitario che afferma – almeno a parole – una
sostanziale uguaglianza e intercambiabilità delle figure femminili e maschili
nel nucleo famigliare.
Allo stesso tempo certamente i mutamenti sociali ed economici che negli
ultimi decenni hanno trasformato la maggior parte delle famiglie europee da
“monoreddito” a “doppio reddito” hanno contribuito a mettere in crisi il modello
tradizionale in cui la divisione dei ruoli ripercorreva rigidamente uno schema
complementare tra un padre responsabile degli introiti familiari e una madre
occupata nelle necessità domestiche. In linea generale certamente
all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è corrisposto anche una
maggiore presenza e partecipazione dei padri nelle dimensioni di cura dei
figli. Ma questo cambiamento è stato tutt’altro che simmetrico e
proporzionale.
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A questo proposito possiamo cercare di desumere qualche dato e qualche
riferimento dagli studi e dalle ricerche effettuati sulla presenza dei padri nello
spazio domestico.
Alcune indicazioni possiamo trarle dall’indagine Multiscopo dell’ISTAT sulle
famiglie “Uso del tempo” che concentra le sue analisi fra l’altro sulle
“differenze di genere nelle attività del tempo libero”. Da questa indagine
emerge in generale che l’Italia è uno dei paesi in Europa con meno tempo
libero a disposizione dei suoi cittadini e per quanto riguarda le donne il tempo
libero scende ancora.
In “Italia la dimensione del tempo libero evidenza un forte e generalizzato
gap di genere: nel corso della giornata le donne dispongono mediamente di
meno tempo libero rispetto agli uomini in tutte le fasi della vita. Questa
differenza si presenta durante l’infanzia, si acuisce con l’ingresso nell’età
adulta e l’assunzione di ruoli di responsabilità familiare, e continua fina alle
età più avanzate”.1
Si può capire dunque come una certa disparità rispetto all’uso del tempo
per sé e per gli altri abbia origini piuttosto profonde e remote. Tra l’altro un
dato noto ma che questa indagine conferma è che comparando la condizione
delle madri la presenza del partner lungi da permettere un alleggerimento del
carico di lavoro e quindi un aumento del tempo libero costituisce un ulteriore
svantaggio per il proprio tempo libero. In effetti le madri sole possono contare
su circa 3h21’ al giorno contro le 2h57’ delle madri con partner.2
Anche tra gli occupati la differenze nella disponibilità di tempo libero
permangono anche se attenuate 2h52’ delle donne contro le 3h48’ degli
uomini.
L’indagine rivela che le donne rimangono penalizzate perfino nel week end
e che a quasi tutte le ore del giorno le donne impegnate nelle attività del
tempo libero sono meno numerose degli uomini.
In termini generali quello che emerge dalle ricerche3 è che in
corrispondenza della nascita dei figli le donne lavoratrici cercano di conciliare
professione e impegno di cura, dunque affrontano un’autolimitazione delle
proprie opportunità lavorative, rinunciando spesso alla propria carriera e
assumendosi un maggior carico di cura nello spazio domestico. Mentre da
parte dei padri non c’è la stessa disponibilità. Il tempo dedicato ai figli e alla
famiglia è comunque residuale rispetto al proprio impegno lavorativo.
1
ISTAT, Le differenze di genere nelle attività del tempo libero. Anni 2002-2003, Roma, aprile 2006, p.
2.
2
Ibid., p. 4.
Vd. per esempio, Fortuna Procentese, Padri in divenire. Nuove sfide per i legami familiari, Franco Angeli,
Milano, 2005, p. 51, dove si afferma che nella ricerca svolta circa metà delle madri (50,8%) dichiara di
aver cambiato orario di lavoro dopo la nascita di un figlio, mentre la maggioranza dei padri padri (63,8%)
dichiara di non aver apportato nessun cambiamento nella propria attività lavorativa.
3
15
Generalmente l’assunzione di responsabilità di fronte alla famiglia e ai figli
non corrisponde ad un autolimitazione o addirittura ad una rinuncia sul piano
delle opportunità di carriera.4 Nel caso dei padri si può parlare solo di un
qualche aggiustamento ma non di una riorganizzazione reale o di una
rivoluzione o di un’interruzione temporanea di carriera come accade alle
madri.
Anzi talvolta si può registrare l’atteggiamento inverso: di fronte alla nascita
dei figli i padri si preoccupano di aumentare le occasioni di lavoro per
accrescere le disponibilità economiche in vista delle nuove necessità della
famiglia. Questo fatto naturalmente non è una colpa, ma tuttavia evidenzia
che di fronte all’allargamento della famiglia padri e madri reagiscono con
modalità in qualche misura determinate dai ruoli e dai modelli di genere
introiettati e suggeriti dalla cultura e dal contesto sociale. Come ha
sottolineato Chiara Saraceno, “l’avere figli accentua innanzitutto il ruolo di
breadwinner del padre, simmetricamente a quanto avviene per le madri in
direzione del ruolo di caregiver”.5
Da questo punto di vista anche le possibilità6 offerte dalla legge 53, 8
marzo 2000 “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità per
il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle
città”, e dal Decreto legislativo 26/3/2001 (Testo Unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) a
norma dell’articolo 15 della legge 53/2000 non sembrano aver apportato
grandi cambiamenti. Certo ci sono anche difficoltà concrete – dall’effettiva
conoscenza di questi strumenti alle difficoltà incontrate nei contesti lavorativi,
all’impossibilità per i lavoratori autonomi di accedere a queste misure – ma il
limitato ricorso7 a questa opportunità segnala quantomeno una scarsa
attenzione da parte dei padri ad assumersi una diretta responsabilità nella
cura fin dal momento della nascita dei figli.
Fino ad oggi il cambiamento non ha finora determinato un sostanziale
superamento delle tradizionali divisioni di genere, e al di là della retorica non
si è affatto manifestata una totale fungibilità dei ruoli materni e paterni.
Come mostra l’indagine dell’ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e
figli secondo un approccio di genere (2006), in termini generali il tempo medio
Si può sottolineare tuttavia, da questo punto di vista, che l’atteggiamento dei padri è favorito anche dal
fatto che, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, la riduzione del tempo di lavoro, nell’ottica di un
regime più flessibile atto a rispondere anche alle necessità familiari, il più delle volte corrisponde
concretamente e senza differenziazioni possibili, al passaggio ad una condizione di precarietà lavorativa. È
possibile immaginare che forme più regolamentate e garantite di flessibilità lavorativa potrebbero risultare più
attraenti e accettabili anche da parte dei nuovi padri.
5
CHIARA SARACENO, “Paternità e maternità. Non solo disuguaglianze di genere”, relazione al convegno
“La paternità in italia” del 20 ottobre 2005, disponibile on line:
http://www.istat.it/istat/eventi/paternita2005/
6
I coniugi possono godere di sei mesi a testa e dieci insieme, ma i padri che decidono di usufruire del
congedo per un periodo di almeno tre mesi possono avere un mese in più (per un totale di undici mesi di
congedo insieme).
7
Per una sintesi di alcune ricerche in merito si veda Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit., pp. 73-83 e
108-112.
4
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impiegato nella cura da parte dei padri negli ultimi quindici anni (1988-2003) è
aumentato mediamente di 18 minuti giornalieri:
“Il confronto con il 1988-89 mette in luce dei mutamenti nella direzione di
un maggiore coinvolgimento dei padri come per le madri, nella cura dei figli:
di fatto, sono aumentati i padri che si prendono cura dei figli (di 17 punti
percentuali: dal 41,8 per cento al 58,6 per cento) ed è aumentato di 18 minuti
il tempo impiegato nella cura (da 27’ a 45’). Anche le durate medie specifiche,
risultano più elevate di 11’, il che significa che non aumenta solo il numero di
padri coinvolto in tali attività, ma anche il tempo che effettivamente i padri vi
dedicano”.8
Per quanto riguarda le altre attività esse sono aumentate solo lievemente
nel caso dei lavori domestici (da 35’ a 38’ = + 3’) o sono rimasti
sostanzialmente stabili nel caso delle attività di acquisti di beni e servizi (16’).
Si può notare tuttavia che queste medie non fanno emergere né la
distribuzione dell’incremento dell’impegno dei padri (per alcuni l’impegno è
aumentato significativamente mentre per altri può essere rimasto
assolutamente invariato), ma anche i diversi investimenti da parte dei padri
nelle differenti attività di cura e di relazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si può osservare che il cambiamento
va misurato anche focalizzando l’attenzione sui cambiamenti generazionali.
In effetti si può presumere che i cambiamenti nei modelli di paternità si
affermino man mano che di generazione in generazione si modificano
mentalità e abitudini.
Nell’indagine ISTAT, La vita di coppia (2006), le donne intervistate
dichiarano che tra le attività più condivise con i propri partner ci sono quelle
svolte assieme ai figli. Complessivamente è aumentata nella graduatoria
delle attività svolte insieme il giocare con i figli che è passato dal 37,4% nel
1998, al 40,2% nel 2003. Mentre l’uscire assieme con i figli è leggermente
diminuito: dal 36,2% al 35,7%. Tra le attività svolte assieme anche l’andare a
fare la spesa assieme è aumentata dal 28,5% del 1998 al 31,2% del 2003.
Queste attività diventano ancora più presenti nelle coppie più giovani.
L’85,5% delle donne fino a 44 anni dichiarano di uscire assieme con i loro
partner e con i figli e addirittura l’88,6% dichiarano di giocare con i figli
assieme al proprio partner. Tale propensione decresce drasticamente col
crescere dell’anzianità della coppia.
Questa trasformazione emerge ancora meglio se si prende in esame la
frequenza di queste attività. Tra le donne più giovani, quelle tra i 35 e i 44
anni, il 29,1% dichiara di andare a far la spesa assieme al proprio compagno
“spesso”, e il 37,9% “qualche volta”, il 56,8% dichiara di giocare “spesso” con
ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, a cura di Alessandro
Rosina e Linda Laura Sabbadini, Roma, Edizione provvisoria, 2006, p. 231.
8
17
il figlio assieme al partner e il 25,8% “qualche volta”, mentre il 61,7% dichiara
di uscire “spesso” con i figli ed il partner e il 25,9% “qualche volta”. Nelle
donne ancora più giovani - di età inferiore ai 34 anni – il dato cresce
ulteriormente: il 35,8% dichiara di andare a far la spessa assieme “spesso”
mentre il 37,1% “qualche volta”, il 71,4% di giocare “spesso” con i figli
assieme e il 73,6% di uscire “spesso” assieme con figli e partner e il 16,8%
“qualche volta”.
Dunque il cambiamento generazionale ha una sua importanza e sottolinea
una tendenza positiva in prospettiva.
Contemporaneamente, tuttavia, per comprendere meglio cosa
effettivamente sta cambiando e cosa invece rimane sostanzialmente
immodificato occorre analizzare più nel dettaglio l’impegno da parte dei padri.
In effetti si può osservare con chiarezza come il cambiamento nel
coinvolgimento da parte dei padri sia un processo sostanzialmente selettivo e
ambivalente. Nelle attività di cura dei figli si può distinguere infatti tra attività
routinarie, ripetitive ma essenziali (far da mangiare, lavare e pulire il bambino,
vestirlo, farlo addormentare) e le attività interattive più aperte e relazionali
(attività educative, attività ludiche e di svago).
La già citata indagine ISTAT Diventare padri in Italia prende in esame a
questo proposito cinque diverse attività di cura di routine o “strumentali”:
i)
ii)
iii)
iv)
v)
vestire il bambino;
preparargli i pasti;
cambiargli il pannolino;
fargli il bagno;
metterlo a letto.
Si nota quindi che i compiti che una quota più cospicua di padri svolge
quotidianamente attività quali mettere a letto il bambino o dargli da mangiare,
mentre ci sono ancora molti padri che non si occupano mai di far loro il bagno
- 37,8% di padri con figli 0-2 anni e il 39% con figli 3-5 anni - o di cambiargli il
pannolino - 31% di padri con figli 0-2 anni e 49,3% di padri con figli 3-5 anni
(ma a questa età naturalmente l’esigenza diminuisce).
Sommando i punteggi delle cinque attività in particolare per i figli più
piccoli, i ricercatori dell’ISTAT notano che solo una piccola minoranza dei
padri, pari a meno del 5% del campione, svolge quotidianamente tutte le
attività essenziali per la cura dei figli.9 Dunque nel complesso ancora oggi la
presenza dei padri nelle attività di cura riguarda il più delle volte un ruolo di
sostegno e di supporto alle madri cui è ancora in gran parte demandato la
continuità delle attività essenziali di cura. In termini generali il coinvolgimento
paterno aumenta quando anche la donna lavora e nelle coppie con più alto
livello di istruzione.
9
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 154.
18
Nei fatti, nonostante il progressivo impegno lavorativo delle donne
“continuano a ricadere sulla giornata della donna oltre i tre quarti (78,3%) del
tempo complessivamente dedicato dalla coppia al lavoro familiare”.10
Generalmente i padri tendono a giustificare la minor presenza nelle attività
di cura rispetto alle madri sulla base della limitata disponibilità di tempo
dovuta all’impegno lavorativo. Tuttavia l’idea che sia il tempo a spiegare la
suddivisione e lo squilibrio nelle attività di cura dei figli tra uomini e donne si
scontra con il fatto che la disponibilità dei padri è fortemente disomogenea
rispetto al tipo di attività. Attualmente relativamente alle coppie in cui
entrambi i genitori sono occupati, si registra infatti una suddivisione
dell’impegno piuttosto equa tra padri e madri solamente nelle attività più
gratificanti quali quelle legate alla comunicazione e al gioco e al tempo libero
ma per tutto il resto (cura del corpo, preparazione dei pasti, pulizia della casa
ecc…) l’asimmetria di presenza e di impegno tra padri e madri permane
molto forte.11
Inoltre al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare il coinvolgimento
dei padri nell’attività di routine non è direttamente proporzionale al tempo
libero. La partecipazione è più alta tra i padri con un orario di lavoro
intermedio (36-40 ore settimanali) mentre è più bassa tra i padri con un orario
lavorativo estremamente breve. Il che significa che con l’aumentare del
tempo libero dei padri il proprio coinvolgimento non va proporzionalmente a
tutte le attività di cura dei figli ma si indirizza comunque alle attività più
ricreative e gradevoli.12
Dunque emerge piuttosto chiaramente che il diverso coinvolgimento dei
padri non è solo funzione del tempo ma anche della propensione e
disponibilità verso specifiche attività.
Per tentare un’interpretazione, lo stato attuale delle ricerche sulla
disponibilità al coinvolgimento dei padri nei confronti dei figli, suggerisce che
il cambiamento è più nella dimensione emotiva e affettiva che in quella
educativa; più in quella educativa che in quella di cura; e più in quella di cura
che in quella della responsabilità e condivisione del lavoro domestico.
Si tratta quindi di registrare il fatto che c’è una selezione e una resistenza
da parte maschile verso alcune pratiche e alcune forme di responsabilità nei
rapporti genitoriali e di cura. Da questo punto di vista si può anzi sottolineare
che l’avversione maschile al lavoro domestico e materiale, confrontando i dati
sull’investimento di tempo del 1988/99 con quelli del 2002/03 sembrerebbe
addirittura aumentata (-2’).13
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 224.
L’indice di asimmetria più bassa tra padri e madri si registra nelle attività di parlare con i bambini (42, 6)
o di parlare e giocare con i bambini (53,1) mentre l’indice di asimmetria più alto si registra nella sorveglianza
e nelle cure fisiche (85,0) e nell’aiutare i bambini nei compiti (79,4). Vd. Tavola 9.3 ISTAT, Diventare padri in
Italia, cit., p. 229.
12
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 189.
13
ISTAT, Diventare padri in Italia, cit., p. 243.
10
11
19
Perfino nel cambiamento sembra dunque agire una specie di griglia o di
grammatica di genere. Alcune attività considerate positivamente e ritenute
onorevoli e gratificanti possono lentamente ma progressivamente essere
assunte dai padri, mentre altre ritenute noiose, faticose, gravose continuano
ad essere evitate e delegate alle madri. Indagini condotte in 14 paesi europei
danno lo stesso risultato: “il padre è più coinvolto nelle attività interattive,
come giocare o aiutare nel fare i compiti scolastici, meno in quelle cosiddette
di sorveglianza. Praticamente ovunque l’attività meno condivisa è preparare i
pasti, quella più frequentemente condivisa è il gioco”.14 Nel contesto europeo,
inoltre, i padri italiani risultano essere tra i più tradizionalisti.
Che cosa ci dice l’attuale sbilanciamento della cultura maschile?
Che significato dare a tutto questo? La persistenza di abitudini culturali, la
resistenza verso le dimensioni meno gratificanti o la presenza di elementi
simbolici non riconosciuti?
Sul piano simbolico si potrebbe dire per un verso i padri sono disposti a
sperimentarsi in rapporti emotivi e relazionali con i figli, ma che attuano
ancora forme di resistenza rispetto ad attività ritenute troppo “materiali” o
“servili”. Questo tuttavia significa che c’è ancora in nuce la tendenza da parte
di alcuni padri di farsi servire dalle proprie compagne. Da questo punto di
vista proviamo a fermarci un attimo a riflettere su quale messaggio implicito i
bambini ricevono osservando il comportamento degli adulti e dei genitori. Il
senso di quel che vedono non è solamente mio papà è pigro e mia madre
lavora il doppio. Nel migliore dei casi possono pensare che la mamma è
generosa e si fa in quattro per far star bene gli altri. Ma uno dei significati, che
potrebbero trarne da quel tipo di pattern relazionale è invece: il papà si fa
servire, il papà non fa cose servili, la mamma serve il papà, la mamma fa
cose servili.
Fatto salvo che queste attività più servili possono essere sempre delegate
a figure esterne alla famiglia. Ed è piuttosto significativo che sempre più
spesso queste figure esterne siano donne immigrate. Qui si rivela un intreccio
forte tra relazioni di potere sessuali e relazioni di potere socio-culturali. In
questo caso il significato implicito che i bambini possono trarre
dall’osservazione delle dinamiche nello spazio domestico può essere ancora
più complesso e insidioso.
Al di là di questo emerge comunque un problema culturale molto forte.
L’idea di cura e di accudimento da parte degli uomini e dei padri è ancora
largamente incompleta e immatura. In generale c’è dunque una
sopravvalutazione dei cambiamenti dei padri. Certamente non è legittimo
parlare oggi di padri nei termini di “padri assenti” negli stessi termini con cui
PAOLA DI GIULIO, SIMONA CARROZZA, Il nuovo ruolo del padre, in Genere e demografia, a cura di
Antonella Pinnelli, Filomena Racioppi, Rosella Rettaroli, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 316.
14
20
se ne parlava in passato, e tuttavia questi dati, confermati in tutte le ricerche,
suggeriscono che ancora oggi siamo di fronte a una situazione familiare nella
quale “il ruolo di cura si caratterizza per la centralità di una delle due figure
parentali e la perifericità dell’altra”.15 Fra le altre cose è probabile che la
scarsa conoscenza del carico di lavoro quotidiano delle donne porti spesso
gli uomini ad accrescere erroneamente la percezione del proprio contributo.
Da questo punto di vista l’organizzazione familiare rimane un terreno
abbastanza forte di resistenza al cambiamento Anzi le differenze tra
aspettative culturali e comportamenti reali rischiano di diventare un nuovo
terreno di conflitto, poiché un atteggiamento completamente delegante non è
più legittimato culturalmente. Bisogna domandarsi allora in che misura i padri
stessi si fanno artefici di questo cambiamento.
Da questo punto di vista si possono riconoscere diversi tipi di cura, io ne
ipotizzo almeno 6, a seconda che il coinvolgimento e la responsabilità
riguardino:
- cura del gioco: dimensioni ludiche, di svago;
- cura degli affetti: dimensioni emotive e relazionali;
- cura dell’educazione: dimensioni dell’apprendimento cognitivo
(linguaggio, esperienze, conoscenze e significati);
- cura della socializzazione: reti di relazioni, incontri, condivisioni;
- cura della salute: sorveglianza, assistenza nei bisogni corporei e
psicologici;
- cura dei contesti: organizzazione degli spazi e dei tempi;
La questione fondamentale di come realizzare un pieno riconoscimento
sociale dei padri si connette dunque con la questione del come
accompagnare, individualmente e socialmente, i padri in questo
cambiamento verso l’assunzione piena di responsabilità e di cura nello spazio
domestico e nel rapporto con i figli. Una responsabilità che non è solamente
riconoscimento del pur fondamentale diritto all’affettività tra padri e figli, o
della eguale “potestà educativa”, ma è anche assunzione di un impegno
quotidiano di cura più complesso e articolato. Un impegno oneroso, faticoso,
e certamente non sempre gratificante ma che forse costituisce veramente un
salto verso una presenza più completa e profonda nelle relazioni familiari che
regala anche una percezione diversa di sé, dei figli e della vita, poiché il
lavoro di cura non è solo fatica “ma anche – come hanno scritto Marina
Piazza e Barbara Mapelli - maggiore costruzione di intelligenza delle cose e
delle persone”.16
In particolare per i padri allargare lo sguardo verso un’immagine di cura
più complessa, che riguarda tutte le dimensioni che abbiamo appena visto
(gioco, affetti, apprendimento, socializzazione, salute ecc.) significa poter
guadagnare per un verso una presenza diversa anche sul piano qualitativo
15
16
Fortuna Procentese, Padri in divenire. cit, p. 60.
PIAZZA, MAPELLI, PERUCCI, Maschi e femmine: la cura... cit., p., 140.
21
nella vita dei propri figli e quindi accedere ad un livello di relazione differente;
ma più in generale significa anche per gli uomini guadagnare per sé una
sensibilità maggiore nell’esserci: avere occhi per vedere e leggere le
relazioni, gli affetti, i bisogni, le forme dello stare insieme, vedere gli spazi, i
luoghi, i contesti, significa riconoscere tutto un universo di cose che spesso si
sottraggono alla consapevolezza maschile. Insomma è una possibilità di
costruire una presenza nel mondo diversa.
Cambiamenti e opportunità
L’importanza anche di piccole sperimentazioni può emergere se pensiamo e
se valorizziamo quello che sta già effettivamente cambiando, soprattutto tra
le nuove generazioni nel rapporto tra padri e figli.
Pensiamo alla maggiore attenzione dei nuovi padri verso il momento della
nascita e una richiesta o una disponibilità crescente di affiancamento e
condivisione dell’evento della nascita. Per alcuni padri la gravidanza, il parto
e la nascita del bambino possono essere un'occasione importante di crescita.
Alcuni padri che ho incontrato hanno raccontato come la possibilità di
assistere al parto, di partecipare fino in fondo, di sostenere la moglie, di
condividere le emozioni, perfino in qualche caso di tagliare il cordone
ombelicale, sia stata un’esperienza fortissima che ricordano come una delle
esperienze più belle della loro vita.
Altri padri, cominciano a condividere maggiormente la cura dei figli in casa.
In molti ruoli i giovani padri di oggi si mostrano capaci di affiancarsi e
all'occorrenza di sostituirsi alle madri per curare i figli in tutti gli aspetti: farli
mangiare, pulirli, cambiarli e accudirli, farli addormentare, alzarsi di notte
quando piangono, accompagnarli al Nido e in qualche caso addirittura
affiancarli nell’ambientamento. Certo siamo ancora ben lungi da registrare
una divisione equilibrata dei lavori di casa e di cura, ma nelle nuove famiglie
che incontro questa tendenza si va sempre più affermando e questo modifica
in maniera profonda le esperienze di paternità.
Emerge chiaramente, per esempio, una maggior confidenza e
condivisione della corporeità tra padri e figli, che comporta una vicinanza ed
un contatto fisico significativamente diversi sia in termini quantitativi che
qualitativi rispetto al passato. I padri si occupano della cura del corpo dei figli,
cambiano il pannolino, fanno il “bagnetto”, li portano dal pediatra e più in
generale li coccolano con più scioltezza e naturalezza. Manifestazioni
d’affetto e di attenzione come baci, abbracci, l’andare a letto assieme o il
prendere in braccio possono sembrare oggi cose del tutto naturali, ma fino a
pochi decenni fa le esternazioni affettive e le cure corporee non costituivano
affatto una modalità comune e diffusa nei rapporti padri-figli. Da questo punto
di vista esse rappresentano un segnale rilevante del forte avvento della
22
corporeità nell’esperienza paterna, in particolare nei primi anni di vita dei
bambini.
Questo rapporto con la corporeità è particolarmente significativo
innanzitutto perché attenua la preminenza della dimensione verbale e
razionale e accentua la comunicazione fisica, non verbale, letteralmente di
pelle.
In secondo luogo il contatto corporeo è senza dubbio un potente mezzo di
comunicazione affettiva, che pur essendo presente anche in passato tuttavia
non veniva facilmente esplicitato o reso pubblico. Evidentemente poi la
diminuzione della distanza fisica porta con sé anche una diminuzione della
distanza psicologica.
In effetti questa corporeità presuppone un’abbassare le barriere tra sé e
l’altro. Inoltre presuppone anche un rapporto di fiducia con il proprio corpo,
cui spesso gli uomini non sono abituati.
Molti dei nuovi papà non a caso investono inoltre molto tempo ed energie
nelle dimensioni ludiche, nel gioco, nel divertimento con i figli e anche questo
in termini sociologici rappresenta certamente una novità. Questa disponibilità
di tempo e di condivisione ludica non era frequente nei rapporti padre-figli in
passato.
Questa innovazione sul piano della presenza corporea e ludica dei padri
comporta dei riflessi importanti anche sul piano della comunicazione e della
complessità della relazione. Di per sé non c’è nulla che vieta ad un padre
tenero e affettuoso di saper essere risoluto ed intransigente, nel momento in
cui le circostanze lo richiedano e nella misura in cui l’asimmetria di
esperienza e di responsabilità manifesta tutta la sua importanza relazionale
ed educativa. Tuttavia dobbiamo sapere che questo comporta qualche
difficoltà in più. Emerge la necessità di utilizzare in modo coerente gli aspetti
comunicativi verbali con quelli non verbali, quelli affettivi assieme a quelli
normativi, quelli amicali vicino a quelli più prettamente genitoriali. In effetti si
tratta prima di tutto di trovare una misura una flessibilità interiore. La capacità
di tenere insieme interiormente e psichicamente due diverse immagini di sé:
quella ludica e scherzosa e quella seria e rigorosa.
Che cosa possiamo fare?
Quali sono dunque le direzioni in cui possiamo lavorare? Provo ad
accennarne alcune e a suggerire anche alcune a partire dalla mia esperienza
e dal lavoro che ho visto in alcune scuole d’infanzia della mia regione (Emilia
Romagna) e dai lavori che ho fatto con loro.
Alcune scuole d’infanzia con la collaborazione anche dei servizi comunali
hanno infatti da qualche anno sviluppato progetti di coinvolgimento dei padri,
23
ovvero hanno mostrato un’attenzione specifica verso i padri. Personalmente
ho fatto focus group con operatrici delle scuole d’infanzia, con padri, madri
incontrandoli in serate diverse e poi infine tutti assieme per fare emergere
esperienze, difficoltà, desideri che valorizzassero diversi punti di vista.
In particolare credo che si possano immaginare attività specifiche per
lavorare con i padri su questi temi:
Le dimensioni della cura
La prima attività a cui alludevo prima potrebbe essere proprio
aiutare i padri a riconoscere la complessità e la molteplicità degli
cura nelle relazioni e nei contesti quotidiani. Si possono creare
proposito di osservazione, di esemplificazione, di racconto, e
sperimentazione diretta.
quello
aspetti
attività
anche
di
di
in
di
Genealogie maschili
Un secondo tema è quello delle genealogie maschili, ovvero del rapporto tra il
modo in cui si vive la propria esperienza di paternità, in relazione al modo in
cui si è vissuta l’esperienza di figli con i propri padri.
Le scuole per l’Infanzia possono lavorare con i padri dei bambini sulla
memoria e sull’illuminazione di questa esperienza padre-figlio attraverso le
diverse generazioni. È fondamentale infatti che nell’interrogarsi sul tipo di
relazione instaurata con i propri figli i padri di oggi si confrontino con la loro
esperienza di bambini lasciando emergere eventuali conflitti e le relative
emozioni: gioia, rabbia, risentimento, affetto, mancanza, nostalgia, rancore. I
padri infatti devono in qualche modo chiedersi: “mentre diveniamo padri
abbiamo chiuso l’esperienza di figli?” “Ci siamo lasciati alle spalle quel modo
di stare nel mondo e di relazionarci?” “Sono rimaste questioni insolute nel
rapporto con nostro padre che ancora ci angustiano e ci condizionano nei
rapporti con i nostri bambini?”
Il rapporto sperimentato con il proprio padre condiziona molto spesso il
rapporto che si instaura con il proprio figlio. E generalmente in maniera
fondamentalmente inconscia. Solamente gli aspetti più superficiali e generali
ci risultano chiari o evidenti, per il resto è molto probabile che taluni di questi
elementi ereditati nella propria carriera di figli si ripresentino e vengano agiti
in maniera automatica, in modo quasi compulsivo senza rendersi conto quali
conflitti si portano dentro, quali conti rimangono da saldare con se stessi e
con la figura interiore del padre.
“Si tende a dare al figlio quello che non hai avuto tu” mi hanno detto diversi
giovani padri. Un po’ è vero ma si tende a dare anche ciò che si è avuto,
appreso e probabilmente interiorizzato. Gli elementi più profondi che si sono
sedimentati nelle parti più inconsce di noi stessi, rimangono il più delle volte
oscuri a noi stessi. Proprio per questo motivo possono essere utili, nel
24
tentativo di supportare e di accompagnare i padri nel loro rapporto e nelle loro
funzioni, quelle attività che si ripropongono, di far emergere questi vissuti
Da questo punto di vista diventa anche importante che insegnanti,
educatori ed operatori sottolineino le possibilità di riletture più riflessive del
proprio padre e delle proprie relazioni e a partire dalla propria nuova
esperienza di genitorialità.
Socializzare le esperienze paterne
Naturalmente in questo percorso di cambiamento, i nuovi padri non hanno
modelli. Devono esplorare e apprendere da se stessi. Talvolta emerge la
difficoltà di trovare un equilibrio, di associare competenze, sensibilità e
atteggiamenti che tradizionalmente venivano associati al femminile. Da
questo punto di vista altre attività che si potrebbero fare con i padri
riguardano proprio l’enfatizzazione della dimensione di esplorazione e
sperimentazione che questi padri possono avere. Bisogna cioè motivarli e
rafforzarli nel loro sentire e sperimentare. Se si sentono esploratori possono
darsi più forza e coraggio per tentare proprie strade e per ricercare forme di
autenticità con se stessi e con i loro bambini. Da questo punto di vista può
essere utile far lavorare i padri sul tema del desiderio. Cosa desiderano
veramente? Quale parte di sé vorrebbero far emergere e mettere in gioco di
più nelle loro relazioni con i figli? O al contrario c’è qualche desiderio che
riguarda il loro ruolo paterno che non riescono a tradurre in pratica?
Un altro modo per affrontare le difficoltà è quello di stimolare questi padri a
socializzare le loro esperienze. In effetti sarebbe interessante sapere con chi
si confrontano di solito. Sentono il bisogno di parlare e confrontarsi e
consigliarsi con altri padri?
Creare occasioni di scambio con altri padri, permette talvolta di affrontare e
diminuire il sentimento di angoscia che può prendere i padri quando non
sanno se quanto fanno e decidono quotidianamente è corretto o sensato. È
importante che questi uomini imparino che si può crescere e maturare nel
proprio ruolo di padre e nelle proprie relazioni mettendosi in gioco e
confrontandosi con l’esperienza di altri padri, costruendo luoghi e tempi di
condivisione e riflessione comune.
Ci sono naturalmente molti altri esempi di attività che si possono fare con i
padri:
- attività di interazione corporea
- attività manuali, come far costruire giochi per i propri figli
- attività all’esterno, in cui i padri devono fare da mediatori nella
conoscenza di uno spazio aperto
- attività di narrazione, in cui i padri devono inventare storie con certi temi
per esempio situazioni di bisogno, difficoltà e di capacità di aiuto
25
Le occasioni e le direzioni di lavoro possono essere tante. Credo che si tratti
solamente di capire che gli educatori, le singole scuole d’Infanzia, o le sezioni
possono sperimentare moltissimo e contribuire in qualche modo a stimolare il
cambiamento nella sensibilizzazione verso il lavoro di cura anche degli
uomini.
26
IL LAVORO EDUCATIVO DELLA CURA
Barbara Mapelli
Tempo fa – mentre lavoravo a un’antologia che raccogliesse i contributi dei
femminismi del Novecento sui temi educativi – mi è capitato di riprendere in
mano il libro di Gianini Bellotti, Dalla parte delle bambine. Libro molto
interessante, che allora ebbe uno straordinario successo. Lo rileggo per
sceglierne alcuni brani e resto molto colpita dal fatto che le parole di allora, il
libro è del 1973, le osservazioni e argomentazioni dell’autrice potrebbero
essere trasferite sulla realtà contemporanea.. Forse non tutte le analisi di
Gianini Bellotti sono condivisibili, ma le sue descrizioni ci dicono di una
realtà educativa - in generale naturalmente, noi qui siamo a testimoniare di
un’eccezione che riguarda anche altre situazioni - poco mutata. Tralascio
tutte le parti del testo che riguardano gli stereotipi che la scuola trasferisce
della cultura diffusa all’ambito educativo, per concentrarmi solo su una
questione che mi sta particolarmente a cuore. Leggo quanto scrive l’autrice.
“Nella scuola materna bambini e bambine trovano la solenne conferma della
situazione sociale e della divisione dei ruoli maschile e femminile, perché
dove ci si occupa di loro gli uomini sono del tutto assenti. E come il lavoro
della madre, così quello delle insegnanti non viene percepito come un lavoro
vero e proprio, ma come una prestazione più o meno autoritaria, più o meno
benevola, ma del tutto gratuita. Questa identificazione della maestra con la
madre danneggia le bambine, anche perché le spinge a identificarsi anche
con l’insegnante. Dalla stessa situazione i maschi trarranno la convinzione
che le donne sono disprezzabili perché non fanno niente di prestigioso
tranne che occuparsi di loro, ben diversamente dagli uomini che dal loro
misterioso e affascinante lavoro fuori casa traggono benessere per la
famiglia e prestigio e considerazione all’interno di essa e del gruppo sociale
di cui fanno parte”.
Alcune frasi andrebbero naturalmente ritoccate, alcune osservazioni
relativizzate, ma la sostanza del discorso mi sembra significativamente
vicina alla realtà attuale.
Facciamo appunto un salto in avanti di più di trent’anni.
2007, Facoltà di Scienze della Formazione di Milano: gli studenti maschi
sono circa il 14%, ma presenti soprattutto negli indirizzi di formatori
aziendali, antropologia ecc., a Scienze della Formazione primaria
rappresentano circa il 3%. I dati della nostra Facoltà sono del tutto simili alla
situazione nazionale e attestano che questo indirizzo di studi è il più
segregato tra tutte le scelte universitarie, ben più della Facoltà di Ingegneria,
in cui naturalmente le presenze di genere sono rovesciate.
Trascuro la riflessione – ma sarebbe utile farla se ce ne fosse il tempo – sui
motivi per i quali tanto si è parlato della segregazione di altri indirizzi di
27
studio, scolastici e universitari, e poco si è discusso e si discute di questa
segregazione, così macroscopica.
Mi concentro piuttosto su questa esiguità di presenze maschili, che sono la
sicura conferma che anche per il futuro i luoghi dell’educazione saranno
luoghi di donne. Perché gli uomini non scelgono questa Facoltà? Perché gli
uomini non ci sono nelle scuole, soprattutto nei primi ordini?
La risposta più ovvia e che mi sento ripetere regolarmente quando pongo la
domanda è legata all’esiguità degli stipendi, che li terrebbe lontani.
Risposta ovvia e straordinariamente fuorviante e chi se ne serve come
spiegazione secondo me fa due errori e commette un peccato.
Primo errore. Si considera ancora l’uomo, soprattutto se ha famiglia, come
colui cui tocca il mantenimento e il suo come lo stipendio principale. Questo,
in particolare tra i giovani, sappiamo che non è più vero, ma resta una
convinzione nell’immaginario sociale diffuso.
Secondo errore. Il mercato delle occupazioni in ambito educativo – al di là
della scuola che ha un sistema di reclutamento diverso – cerca
professionalità al maschile. E le trova poco, tanto che vengono offerti posti di
lavoro anche a non laureati o a uomini con titoli di studio aspecifici. Ma
questo discorso lo riprenderemo.
Il peccato è un peccato di stereotipo e si basa sulla convinzione che le
donne siano per natura e vocazione più adatte al lavoro educativo,
soprattutto se con bambini e bambine.
Aggiungerei ancora la considerazione che si pensa tuttora che gli orari di
queste professioni siano più consoni alle donne, impegnate anche nel lavoro
di cura a casa, e in questo caso gli errori o i peccati sono due insieme: non è
più vero che l’orario di chi insegna sia un mezzo tempo e d’altronde si
perpetua con queste convinzioni l’affidamento principale se non esclusivo
dei lavori casalinghi (un universo complesso e variegato di molteplici
mansioni) alle donne. Per cui chi si prende cura a casa, si prende cura
anche fuori di casa, e la spirale perversa, come usa dire, si chiude
pericolosamente.
Il problema del lavoro educativo, indubbiamente lavoro di cura, e la sua
segregazione di genere è in realtà un problema culturale, un problema
complesso, quindi, che ha radici antiche e lontane, relative alle differenti
competenze di cura su cui si sono specializzati i due sessi e che ha influito
profondamente sul formarsi stesso delle identità di genere. Mi sentirei anzi di
affermare che l’essere, percepirsi ed essere percepite e percepiti come
donne e come uomini si struttura sui differenti compiti di cura in cui i due
sessi si sono specializzati nel tempo.
Le donne specializzate nella cura degli altri. Le donne che possiedono la
capacità riproduttiva e si prendono cura nei primi tempi dalla nascita di figli e
figlie divengono nel tempo coloro che si prendono cura di tutti e tutte, e non
solo dei più deboli, bambini e bambine, anziani, malati, ma anche degli
28
uomini. E si prendono cura non solo delle persone ma delle cose e delle
case e consentono così agli uomini di dedicarsi ad altro, caccia, guerra,
viaggi, imprese, politica o, più semplicemente, attività fuori casa.
Virtù minore, destino delle donne, la cura, quindi, ha sempre vissuto nei
luoghi d’ombra, nelle stanze interne delle case, nel servizio ai più fragili, nel
dolore e nella malattia, ma è anche stata accompagnamento silenzioso e
nascosto alla vita pubblica e alle imprese degli uomini, condizione –
prevalentemente non riconosciuta – perché esse si realizzassero.
“Curare la propria casa, i corpi dei bambini, i corpi dei vecchi insegna molte
cose. La nostra cultura ci dice che questo è un compito ‘naturale’ delle
donne. Invece non è un compito naturale, è un’opera, la grande opera delle
donne”17.
In questa frase di Alessandra Bocchetti sono riassunte le ambiguità e gli
inganni che hanno accompagnato nel tempo la virtù, per eccellenza, delle
donne: una concezione che definisce naturale la vocazione femminile alla
cura degli altri e il naturale che si trasforma in privato rende virtù negletta la
pratica e l’esperienza delle donne, le esclude dal culturale e dal pubblico o in
questi ambiti ritaglia per loro spazi secondari.
Eppure alle donne viene affidato – nel silenzio – il compito del mantenimento
di un’organizzazione sociale in cui le energie, le forze e le intelligenze
femminili sono prevalentemente volte a compiti di affettività, alla
soddisfazione dei bisogni umani di attenzione e cura, condizioni
indispensabili per la vita di un ordine sociale, che pur nel tempo è mutato,
ma ha mantenuto finora – e solo da poco mostra evidenti segni di crisi – la
caratteristica patriarcale.
Compiti, tempi e luoghi di vita diversi per i due sessi: l’esterno, l’agorà e la
prospettiva di orizzonti, fisici e simbolici, sempre in espansione, il pubblico,
come spazio dell’azione e del pensiero, per gli uomini; le case, i luoghi
chiusi, le mansioni, materiali e spirituali, sollecite verso gli altri, il privato, per
le donne.
Questa divisione dei compiti è divenuta norma, che ha dettato regole ai
destini, individuali e collettivi, di donne e uomini, mutata nei secoli, ma
sempre reiterata, essa ha assunto l’aspetto della ‘naturalità’ – è naturale e
giusto che sia così perché è sempre stato così – e, in questo modo,
acquisito quell’autorevolezza che l’ha fatta penetrare nelle vite e nelle
coscienze delle persone, nelle culture sociali, nelle regole fondanti la
convivenza civile e politica, ma anche la percezione di sé, la costruzione di
identità di donne e uomini, come già dicevo.
Il solco profondo che divide le vite e le attività definite femminili e maschili, di
azione e pensiero per gli uni, di conservazione per le altre, segna anche
nella storia la separatezza tra cura e cultura, il loro significarsi in immagini
17
Alessandra Bocchetti, Dell’ammirazione, Incontro al Congresso annuale delle Federazione
nazionale casalinghe, Fiuggi, 13 maggio 1995.
29
oppositive e da qui l’impossibilità – oltre che la non opportunità –
dell’accesso femminile alle attività superiori della mente e, con una mossa
che abbiamo iniziato a saper riconoscere, il passaggio alla loro incapacità.
Questa è una delle due storie della cura, che le donne hanno ormai da
tempo imparato a raccontare criticamente, avviando così il cambiamento. Ma
anche la storia degli uomini racconta di una cultura di cura: la cura di sé.
La cura di sé maschile ha origini nobili, tutta una filosofia greca e romana
che l’ha teorizzata e praticata. La tralascio, ma è stata la matrice culturale
che ha autorizzato e permesso agli uomini, mentre altre si occupavano dei
loro bisogni, certamente non solo materiali, di perfezionare questa
attenzione a sé, tuttora praticata, con naturalezza, anche nelle sue forme più
modeste, banali e quotidiane.
Questa è la storia, che ho naturalmente solo sfiorato, delle due culture di
cura, delle donne e degli uomini, che appartengono a un passato millenario
che ha plasmato le differenti identità di genere, creato regole, rigidità di ruoli
e vive, tuttora potente e normativa, in ciascuno e ciascuna.
Ma le cose hanno iniziato a mutare, dopo decenni di lavoro delle donne su di
sé. “La cura è la grande opera delle donne”, già citavo in precedenza la
frase di Alessandra Bocchetti, e da questa e altre consapevolezze si avvia il
rifiuto femminile della propria irrilevanza come soggetti, individuali e collettivi.
E propone anche agli uomini nuove direzioni di ricerca per non perdere,
come è accaduto a causa delle norme sociali della virilità, il valore della
dimensione privata, la legittimazione all’intimità e alla condivisione,
espressione delle emozioni. E alle donne la necessità dell’apprendimento
alla cura di sé, la sapienza del saper sempre ritornare a sé, con amore,
vincendo le paure, i sentimenti della colpa, che ogni donna prova nel timore
che la cura di sé tolga spazio e attenzione ai suoi compiti tradizionali rivolti
agli altri.
Si propone, dunque, nei cambiamenti che avvengono nel contemporaneo
tra i generi, la possibilità di una tensione positiva e nuova per tutte e per tutti
che legittima a entrare nei luoghi riservati all’altro e all’altra, proibiti dalle
norme di genere, senza confusività ed evitando il pericolo di omologazione
reciproca. Induce piuttosto nuova ricerca intorno ai vissuti, rappresentazioni
e culture delle figure più tradizionali e fondanti le identità di genere, senza
che si stabiliscano, ancora e di nuovo, modelli definiti di maschile e
femminile cui adeguarsi.
La cura, l’ opera delle donne, si diceva, a partire dall’accudimento materiale
dei corpi insegna molte cose, senza segnare separatezze, ma anzi
indicando la necessaria continuità, che deriva dalla cura, nei diversi
ambienti, nelle sollecitazioni e risposte che le situazioni, anche estreme,
della vita, richiedono.
Le molte qualità di cui si compone la cura, poiché si radicano nell’esperienza
vitale, e si formano nella sollecitudine e attenzione ad essa, generano
30
dunque forme diverse di atteggiamenti verso la conoscenza e il sapere, un
pensare associato al prendersi cura che non perde il contatto al contempo
con la concretezza e materialità di cose e persone, con ciò che compone
l’esistenza reale dei soggetti. Conoscenze e saperi che connettono, anziché
separare, permettono l’incontro – lo rendono anzi ineludibile – tra vita e
pensiero. La cura è dunque anche cultura, propone un accesso differente
anche alla conoscenza, ma si apre qui un discorso complesso, che mi limito
solo ad accennare.
Il valore educativo della cura si esprime nelle differenti forme e qualità, che
non sono solo ascolto e sensibilità verso l’altro e l’altra, ma offrono, nella
vicinanza accudente, il rispetto di sé, il senso della propria dignità, a ogni
soggetto. E, con ciò, il coraggio e le iniziali competenze a pensarsi, a
elaborare un progetto di sé che appare, ed è, l’obiettivo più alto dell’
educare.. Esso dà valore ai soggetti nella loro interezza, li forma al compito
di essere e diventare persona e la crescita riguarda non solo bambine e
bambini, le giovani e i giovani, ma adulti e adulte, insegnanti, chi con-cresce
nel luogo educativo: luogo privilegiato di relazioni, in cui il sapere e la pratica
della cultura di cura e di attenzione assume il significato, la responsabilità del
mutamento, che è crescita individuale, crescita comune.
L’attenzione agli altri e alla cura di sé nello spazio educativo sono le prime
prove del sé relazionale che nel luogo collettivo, in cui le persone hanno
compiti e ruoli diversi, apprende i modi del vivere sociale.
Ma occorre perché tutto questo venga riconosciuto, mentre le donne
continuano a praticarlo nei loro lavori di cura educativa, riflettere ancora e
soffermarsi su tre questioni sottese a quanto ho finora detto, ma che
necessitano di ulteriore chiarezza.
La prima. La cura, come ogni attività e pratica che riguarda soprattutto le
donne è stata svalutata nel tempo, e lo è tuttora: attraverso la sua
presunzione di naturalità (per le donne è naturale prendersi cura di ogni
cosa e di ogni persona, visto che si prendono cura dei bambini) le si toglie
valore. In particolare il lavoro educativo, nella sua complessità densa di
competenze materiali, culturali, relazionali, soprattutto il lavoro di chi si
occupa dei più piccoli e più piccole, è considerato come continuum della
maternità – come se anche questa non fosse un lavoro complesso – una
sorta di esercizio istintuale, che non esclude la necessità di preparazione e
formazione, secondarie però rispetto a una vocazione che si considera
naturale e femminile.
La seconda. La cura, così svalutata, è in realtà la condizione principale che
struttura il nostro essere al mondo, l’aver avuto esperienze positive di cura
rende possibile lo sviluppo, la realizzazione di una persona, offre fiducia in
sé e negli altri, potenzia le possibilità di essere e divenire progettuali, di
costruire il proprio personale progetto di esistenza, il proprio progetto di
mondo. La cura riguarda ogni momento della nostra vita, nella quotidianità,
31
nello svolgersi della nostra biografia. L’aver ricevuto attenzioni positive e
intelligenti di cura rende le persone capaci a loro volta di dare cura.
E’ quindi possibile – ed è la terza questione - anche un’esperienza maschile
di cura degli altri; gli uomini, soprattutto quelli giovani, paiono ora ricercarla,
forse nella sua forma più facile, in quelle che ora si definiscono le nuove
paternità. Su questo lascio la parola agli uomini stessi, ma desidero
condividere con loro – vi faccio solo un accenno – la preoccupazione che
queste tanto celebrate nuove paternità non si trasformino in nuovi stereotipi,
in immagini carine e patinate, davanti alle quali tutte e tutti ci incantiamo,
togliendo spazio e profondità a una ricerca che credo sia ancora all’inizio.
Mi interessa ora tornare ai temi iniziali, all’assenza maschile nei luoghi della
cura educativa.
Proprio a causa dei dati sconfortanti di cui parlavo all’inizio abbiamo svolto
nella nostra Facoltà una piccola ricerca, intervistando, a questo proposito,
alcuni docenti, alcuni testimoni del mondo del lavoro e, soprattutto, studenti
maschi. Accenno ad alcuni risultati, brevemente.
Il/la docente intervistati riconoscono questa esiguità di presenze, la valutano
nella sua significatività e negatività anche in relazione al lavoro formativo in
Università, ma, ci chiediamo noi che abbiamo fatto ricerca, come mai non si
è mai pensato di muoversi per ovviare a questa mancanza? Come mai non
si sono fatte, ad es., azioni orientative in particolare verso i maschi? Non si è
strutturata un’offerta formativa che si svolgesse in questa direzione? La
nostra è stata in assoluto, intendo su tutto il territorio nazionale, la prima, ma
anche l’unica ricerca su questo tema. La naturalità di questa assenza ha
paralizzato, ha fatto considerare come superfluo ogni intervento conoscitivo
e correttivo. L’accademia rispecchia e sembra non mettere in discussione la
cultura diffusa.
I/le testimoni privilegiati del mondo del lavoro verificano le stesse mancanze
e dichiarano invece la necessità di figure maschili in educazione, anzi la
necessità della presenza delle due figure di genere e confermano che si
tratta di un mercato aperto, accogliente le professionalità maschili, una
domanda di lavoro che supera l’offerta.
Gli studenti, infine. Loro ci dicono molte cose, sono generalmente soddisfatti
e compiaciuti della scelta fatta, certamente si considerano un’eccezione,
uomini diversi, alla ricerca di una diversa identità di genere, di valori differenti
per la loro vita e realizzazione da quelli conclamati dalla virilità dominante18.
E sono alla ricerca, più o meno consapevolmente, dei significati di un lavoro
18
Tra le risposte più frequenti alla domanda sul perché della scelta sono nettamente
prevalenti quelle attengono a una sfera di significato che potrei così semplificare, “perché
penso che questo lavoro, di prendermi cura, mi fa/farà star bene”. La risposta può apparire
molto ingenua, ma in realtà credo che tocchi il senso più profondo delle pratiche e culture
di cura educativa: prendersi cura di qualcuno per facilitare, rendere possibile che possa
crearsi gli strumenti per stare il più possibile bene al mondo, è qualcosa che dà benessere
anche a chi dà cura. Per questo considero necessarie e profondamente intrecciate le due
pratiche della cura degli altri e della cura di sé, artificiosamente separate nella diversa
attribuzione di compiti ai due sessi.
32
di cura al maschile. Certamente l’ambiente accademico non li aiuta, nella
sua profonda ignoranza delle tematiche e problematiche di genere.
Le nostre interviste li sollecitano a pensarsi come uomini nel loro percorso
formativo, nelle esperienze educative che alcuni già hanno, nelle attese del
lavoro che svolgeranno. La diversità della cura maschile è per il momento
nelle loro parole più che altro un dichiarato, che non sanno ancora riempire
di contenuti e significati, ma vi è una tensione, un desiderio – almeno in
questi pochi – innegabile, che con altre ricerche, altri lavori, le sollecitazioni
che propongo nel mio corso (Pedagogia delle differenze di genere)
cercheremo nel tempo di sviluppare.
Sono certa che partire dall’educazione sia essenziale per affrontare il tema
più complessivo della cura, liberare bambini e bambine dai vincoli, rigidità
che le norme di genere impongono alle scelte, alle vite, creando stereotipi
limitativi per gli uni e le altre. Ma anche se una buona formazione delle
docenti può aiutare in questo lavoro educativo, la perenne ed esclusiva
presenza delle donne nel lavoro educativo e di cura, appare però come
conferma di quegli stessi stereotipi sui quali si cerca di lavorare.
Avere a scuola un uomo che si prende cura è un grande insegnamento e
un’esperienza che segna positivamente. Certamente non risolve tutti i
problemi, ma sollecita a porseli.
Ne elenco alcuni, per concludere, su cui mi piacerebbe si avviasse
discussione e mi scuso se il mio elenco non è completo e rischia di mettere
insieme temi tra loro anche differenti. Ma la cura e il lavoro educativo sono,
come già dicevo, qualcosa che permea tutte le nostre vite, fuori e dentro la
scuola, le nostre identità di genere, professionali e personali.
Un quesito innanzitutto: la scuola, in ogni suo ordine, è un grande
contenitore e garanzia di lavoro femminile: sollecitare un’apertura agli uomini
non è allora controproducente? Pensare che, forse, una maggiore presenza
maschile, potrebbe ridare maggior valore alle professioni dell’educare, non è
umiliante per le donne che da sole, finora – ed è proprio vero – hanno
sostenuto, dato senso e dignità, per quanto possibile, a questo edificio
traballante?
Fino a che punto una maggiore presenza maschile in educazione può
avviare riflessione e cambiamento sui temi della cura, sulla divisione di
genere dei compiti della cura più in generale?
E se gli uomini non hanno nel tempo sviluppato una cultura di cura, come
possono essere, divenire buoni educatori? Ci vuole per loro una
preparazione specifica?
Si può immaginare di stabilire alleanze, cercare testimonianze tra il maschile
che sta fuori dalla scuola: padri, uomini che fanno lavori di cura, uomini che
si cercano al di fuori delle norme più tradizionali del maschile dominante?
33
E se pensiamo che il futuro possa essere rappresentato da questi bambini e
bambine che cerchiamo di educare in modo diverso, quanto tempo per il
cambiamento?
Queste e molte altre ancora sono domande vere, sulle quali io stessa potrei
argomentare, ma non dare risposte. Mentre lavorerete a questo progetto
queste domande e altre saranno presenti, al vostro lavoro, ma anche nella
vostra vita, pervasa tutta, come già dicevo, in ogni età, in ogni luogo, in ogni
momento del quotidiano e in ogni relazione dal tema, dalle pratiche della
cura, dalle differenti culture, atteggiamenti e comportamenti che donne e
uomini propongono, spesso inconsapevolmente, rispetto alla cura. Già la
consapevolezza di tutto ciò muove cambiamento in ciascuna e ciascuno,
renderà attente e intenzionali al mutamento non solo, credo inevitabilmente,
nel lavoro.
34
IL LAVORO DI CURA E IL DESIDERIO DI UN UOMO
Claudio Vedovati
La divisione tra il fare e il non fare, come anche tra il poter fare e il non poter
fare, nell’ambito del lavoro di cura evoca altre grandi gerarchie e divisioni del
lavoro. La prima di questa è la divisione di genere del lavoro, da cui
discendono anche la distinzione tra pubblico e privato e quella tra lavoro
produttivo e quello riproduttivo, il lavoro che garantisce la produzione di beni
e quello che garantisce la vita.
Per questo motivo, sia che si voglia intendere il lavoro di cura come una
forma di schiavitù a cui le donne sono state storicamente costrette (dunque
parte di un modello in cui il maschile ha controllato in diversi modi il corpo e la
libertà femminile) sia come una forma di lavoro che rimane fuori dallo
scambio monetario (e che quindi richiama saperi e competenze di reciprocità,
empatia, ascolto, disponibilità, gratuità da rivendicare), bisogna fare i conti
con il fatto che queste distinzioni rimandano al modo in cui il “maschile” –
inteso come modello normativo e “ordine simbolico” – ha imparato a stare al
mondo, ha guardato a se stesso e alle proprie relazioni, ha pensato e
costruito un mondo intorno a sé. Se mettiamo in discussione la divisione di
genere del lavoro mettiamo in discussione tutto questo mondo, con tutte le
sue contrapposizioni e le sue gerarchie. Ma – e da qui voglio partire - da
quale desiderio e punto di vista lo facciamo?
Io lo faccio dal mio punto di vista, che è quello di un uomo che riflette sulla
propria appartenenza di genere e che ha un rapporto critico con la storia del
maschile, perché sente il bisogno di fare qualcos’altro di sé.
Per questo motivo, io credo, affrontare la questione del lavoro di cura, cioè
quei modelli con i quali si tramanda una diversità di ruoli tra uomini e donne,
deve andare oltre una generica richiesta di responsabilità che le donne fanno
agli uomini. Il modello della “responsabilità” rimanda, in questo caso come in
altri, ad una idea di solidarietà, di aiuto, di supporto, che invece di rimettere in
discussione i modelli sociali di genere li conferma. La condivisione di
responsabilità, in particolare, non fa emergere in alcun modo i vantaggi che
un uomo avrebbe per sé a mettere in discussione le gerarchie di genere, cioè
il posto che ha pensato per sé nel mondo. Nasconde ad esempio il vantaggio
che ci sarebbe, per il maschile, di uscire dall’identificazione con il lavoro
produttivo e con quell’area l’area in cui ogni scambio è mercificato e reso
astratto (dallo scambio economico alla rappresentanza politica, dalla
trasmissione dei saperi all’organizzazione degli spazi di vita).
Per me, quindi, la questione del lavoro di cura investe le grandi questioni
attraverso cui è possibile decostruire la storia dello stesso maschile, avendo
l’obiettivo non solo di riequilibrare o smontare le gerarchie di genere ma di
35
trovare anche spazi di libertà maschili per sé e di costruire una diversa qualità
delle relazioni di genere.
Ciò significa in particolare affrontare – proprio in relazione alla “cura” – alcune
questioni. Mi riferisco in particolare al rapporto che il maschile ha:
- con il generare (delle donne) e il (proprio) non generare;
- con le rappresentazioni – molto misere - che ha fatto di sé, del proprio
corpo e delle proprie forme di socialità;
- con la virilità intesa come modello normativo che segna il “diventare un
uomo”;
- con la nozione di sapere che deriva dalla consuetudine di rimuovere il
proprio corpo e di usarlo come una protesi;
- con la tendenza a biologizzare e naturalizzare le differenze e a ridurre la
donna al proprio corpo e quel corpo a natura da controllare.
In questo senso io voglio chiarire meglio che non “mi occupo”
“professionalmente” di lavoro di cura, ma di me, del mio essere un uomo. La
mia competenza è lavoro politico che faccio su di me, insieme ad altri uomini
(oggi il gruppo Maschile Plurale), sul maschile. E’ una competenza di genere
che fa leva sulla consapevolezza della propria parzialità e sul fatto che il
maschile non è l’unico soggetto possibile e che contemporaneamente si nutre
della relazione con i saperi delle donne su di sé. Questa competenza nasce
da un mio bisogno di rottura con i modelli storici del genere maschile che non
si è fermato alla “denuncia” (ad esempio della violenza sessuale) ma che ha
cercato, proprio nel conflitto con la storia del mio genere e con i modelli più
poveri che esso ha prodotto, una occasione di ricchezza e di libertà.
La questione del generare e del non generare è sempre centrale, come
dimostra anche il recente conflitto sulla legge 40. Ciò che va interrogato è il
fatto che il maschile ha percepito la propria posizione nei ruoli riproduttivi
come uno scacco, un limite da recuperare attraverso il controllo del corpo
delle donne (e dei figli). Questo scacco si fa oggi nell’immaginario maschile
ancora più grande a causa della comparsa sulla scena di nuove tecnologie
riproduttive.
In questo scenario – una rappresentazione – va inscritta anche quella fuga e
rimozione dal corpo che caratterizza la storia maschile.
Quale corpo? Un corpo da cui si può prescindere, che può quindi essere
rimosso e messo da parte (nel lavoro, in guerra, nella politica). Un corpo
percepito come un naturale portatore di tensioni, desideri e di una idea della
sessualità (i “bassi istinti”) da controllare, da civilizzare, da governare, da
subliminale.
E ancora. Un corpo che viene vissuto come non desiderabile (ad esempio,
che può accedere alla relazione sessuale solo pagando o con la violenza,
come se non esistesse anche un desiderio femminile, un altro sguardo su
quello stesso corpo) e che a partire da questa idea segna tutti gli spazi sociali
36
con il solo proprio desiderio. Un corpo che gli uomini usano come metafora (il
“fare corpo”) di grandi e “potenti” aggregazioni sociali (lo Stato, l’Esercito, le
appartenenza politiche, ecc.) ma che gli stessi uomini non possono usare per
affidarsi l’uno all’altro (il corpo di un padre, di un figlio, di un fratello, di un
amico). Un corpo che è quindi segnato anche dall’omofobia e che esso non
sia una possibile risorsa di relazione (se non quella della competizione, della
complicità che esclude o delle “pacche sulle spalle”). E un corpo che è
vincolato dalla necessità della prestazione ed è portatore di una identità
sessuale instabile che va continuamente riaffermata (non si dice, forse,
“comportati da uomo”? Non accade, forse, che un uomo che crede di aver
subito un offesa senta anche di aver perso l’onore e la virilità?).
Per tornare al lavoro di cura, dobbiamo chiederci quali sono i costi sociali di
quest’idea che il maschile ha costruito nel tempo di sé e che continua ad
usare per riprodurre la propria identità di genere. Costi che il maschile stesso
paga in termini di qualità delle proprie relazioni e che segnano le relazioni di
genere anche sul terreno del lavoro di cura.
Io mi chiedo quale lavoro di cura può fare un soggetto sessuato che si è
presenta nella scena delle relazioni con queste rappresentazioni di sé?
Il lungo percorso che porta gli uomini a fare di se stessi degli “uomini”, a
“diventare uomini”, quel percorso che è regolato dal modello normativo della
virilità, è lo stesso che si riproduce la divisione di genere del lavoro.
Quale uomo non si è sentito incalzare da bambino a essere “uomo”, a
comportarsi da “uomo”? Quante volte ci si è sentiti chiamare “femminucce”
per aver usato parti “impreviste” dell’espressione di sé, come il piangere?
Quanti uomini non hanno conosciuto la fatica di adeguare se stessi ad un
modello di virilità che è assolutamente indefinito e contemporaneamente
ferreo nelle sue capacità di esclusione? Quanti non hanno sentito l’abisso
sociale e di identità personale in cui si può precipitare se non si corrisponde
ai canoni della mascolinità dominante? Chi non ha visto corpi maschili esibirsi
in tutta la loro esuberanza, fare giochi pericolosi, godere dell’eccesso, sfidare
il rischio e i limiti, sfidarsi l’uno con l’altro e poi ribadire come qualità virile la
propria capacità di autocontrollo, di emancipazione dalle emozioni, di
neutralizzazione di sé?
Direi che il recupero del maschile al lavoro di cura comporta una faticosa
decostruzione di quel vero e proprio disciplinamento che il maschile ha fatto
di sé, disciplinamento che passa attraverso questa continua oscillazione tra
trasgressione e ritorno all’ordine. Oscillazione? Diciamo che è una una
prigione.
Il lavoro di cura è un sapere. Ma quale sapere di sé ha un uomo? E quale
sapere di sé ha un corpo che non genera?
La storia maschile è caratterizzata da un eccesso di parola e da un silenzio
su di sé, due facce della stessa medaglia. La parola maschile si presenta
sulla scena con una maschera, quella di discipline, di saperi astratti e
37
costituiti, che si danno valore proprio dal prendere le distanze dal partire da
sé. Il potere di parola che gli uomini si sono dati ha storicamente fatto ricorso
proprio all’autorità di tecniche e di saperi presentati come neutri ed esterni a
sé, come il diritto, la politica, la scienza, l’economia, la medicina. Il maschile
ha costruito questi saperi come protesi del proprio corpo e li ha usati per
celare la propria parzialità. Con essi ha anche ha esercitato il controllo sul
corpo della donna e sulla sua soggettività.
C’è un ulteriore nesso tra corpi e saperi: proprio la riduzione dei corpi
maschili a strumento ha prodotto saperi ridotti a strumento (e forme estreme
di violenza). E’ invece possibile per noi uomini, ora, pensare ai saperi come
competenze su di sé, a partire dal fatto di avere un corpo maschile? Come si
formano queste competenze, in quali relazioni si creano e in quali relazioni le
usiamo? Come ne facciamo esperienza?
Io penso che il lavoro di cura è l’universo che apre a queste domande un
mondo di possibilità. Il luogo di un fare che libera gli uomini da un destino che
essi hanno voluto vedere iscritto nel proprio corpo e che hanno a forza iscritto
anche nel corpo delle donne. La materialità dei nostri corpi ha una storia e
quotidianamente questi nostri corpi sono attraversati e costituiti dal piacere,
dal desiderio, dal potere, dalla politica, dai limiti biologici, da ogni forma di
relazione. Il lavoro di cura e le relazioni che attraverso di esso si costituiscono
sono per un uomo l’occasione per riguadagnare la libertà di risignificare la
propria storia e con essa costruire un’altra qualità delle relazioni.
Qui, ogni uomo deve imparare ad agire una propria libertà. E per incontrare
quel sapere di sé che le donne hanno sviluppato anche – ma non solo - nella
dimensione più coatta della cura, laddove la divisione di genere del lavoro
non ha lasciato possibilità di scelta, è necessario che un uomo dica cosa
porta di sé e cosa fa per sé.
Io penso che è il partire da questo desiderio non astratto di trasformare il
mondo che si può fare delle relazioni di cura il luogo di una relazione
trasformativi e desiderata tra i generi (e tra le generazioni); e quindi fare in
modo che questa relazione possa ricomporre diversamente l’ordine che si
nasconde nell’antica contrapposizione tra pubblico e privato, tra lavoro
produttivo e riproduttivo.
38
Suggestioni e impressioni da esperienze
Antonella Orlandi
……...non vola perché è un maschio
……..volano le donne perché sono più fantasiose
…..lei vola perché balla; le donne volano perché diventano fate
……..volano le donne perché è più naturale
…..lei vola perché tiene la mano a lui. Lui non ha fatto il salto, lei sì
…a me fa pensare quando io e Gianmarco saremo grandi
Alice
Mattia
Beatrice
Duccio
M.Elena
Anna
Sono un’insegnante delle scuole comunali di Arezzo.
Partecipo a questo incontro, così interessante e ricco, come esperta di
laboratorio e ho voluto iniziare questo mio breve intervento con le parole di
commento dei bambini di 4-5 anni mentre osservavano questa opera di
Chagall.
Già da tempo nella nostra scuola era sorto interesse ed attenzione alle
diversità come bisogno di riconoscere l’altro/a e come necessità di essere
riconosciute nel nostro speciale,soggettivo modo di essere.
Con piacere e direi anche con divertimento abbiamo partecipato al
progetto”Grembiuli e poltrone” che la provincia di Arezzo aveva promosso per
la sensibilizzazione al lavoro di cura con il coordinamento di Marina Piazza e
oggi vorrei raccontare a voi alcune considerazioni ed alcuni interessanti punti
di vista dei bambini.
Nell’esplorare i temi dell’identità di genere,inevitabilmente abbiamo
dovuto riflettere sul nostro modo di essere donne ed insegnanti per
interrogarci su come esprimiamo il femminile e in che modo lo
rappresentiamo come modello imitativo ai bambini ed alle bambine.
Abbiamo capito che i nostri comportamenti non sono neutri, perché
veicolano significati dell’esistenza che viene da noi interpretata e poi
restituita. Ci siamo rese consapevoli che attraverso
gesti e parole
rappresentiamo una nostra realtà interiore che racconta quali pensieri,
desideri, aspettative, sogni abbiamo nei confronti di bambini e bambine.
Questo processo non è semplice perché richiede una profonda
trasformazione personale e professionale. Entrano in gioco non solo i nostri
saperi, ma i nostri personali comportamenti pubblici e privati, le nostre scelte
di vita, i nostri affetti. Ma proprio per questo il nido e la scuola dell’infanzia
possono essere i luoghi per loro natura particolarmente predisposti per una
elaborazione significativa del tema e per la sperimentazione di percorsi
riproducibili.
39
Abbiamo iniziato dalle piccole grandi cose, come ad esempio il lessico
che usavamo nel parlare o scrivere di bambini/e pensando così di
rappresentare entrambi i generi; da un certo momento non è stato allora più
possibile usare unicamente il maschile come forma omologante per tutti. Le
bambine sono entrate nelle nostre parole, sono state viste, hanno avuto un
riconoscimento del loro essere.
Maestra:
Alessia:
Maestra:
Tommaso:
Alessia:
da che cosa vuoi la maschera?
la voglio da Zorro
va bene…
ma Zorro è un maschio!!!.....
senti io non voglio essere Zorra ……me la fai da principessa?
Alice:
Christian:
Tommaso:
Maestra:
Andrea:
Duccio:
lo sai che mi sono truccata da Uomo-ragno?
da ragna!!!
maestra, guarda che l’Uomo-ragno è un maschio!!!
ci potrebbe essere la storia di una Donna-ragna?
nooo!!! Non può esistere la donna-ragna perché è un uomo e basta!
si potrebbe scrivere la storia della Donna-robot-ragna
Da tempo poniamo una particolare attenzione anche alla letteratura da
presentare ai bambini/e.Abbiamo cercato tra le fiabe tradizionali di proporre
tipologie di personaggi sia al maschile che al femminile, “il furbo”…”il
grullo”….”l’audace”…fino alla “principessa che voleva diventare cavaliere”
crcando di trovare finali diversi da solito”si sposarono e vissero felici e
contenti”. Vi ricordate la forza d’animo della sorella nei “12 cigni”? oppure la
furbizia della saggia “Ghita”? O l’intuito e l’istinto di “Vassilissa”? Oltre alla
fiaba tradizionale cerchiamo di nutrire l’immaginario dei bambini/e con testi di
autori che propongano un senso del vivere più creativo e solidale. Abbiamo
cercato nella mitologia e abbiamo incontrato personaggi coraggiosi;
Artemide, intelligenze risolutive, Arianna, donne curiose,Pandora, e non
disperiamo di trovare un’eroina che possa stare al pari di Ulisse. Anche nella
filmologia abbiamo proposto pellicole dove si possono trovare rotture dello
stereotipo di cura, ad esempio Nemo è accudito e cresciuto dal padre, Mulan
è un’eroina che comanda un esercito.
Questa attenzione l’abbiamo avuta anche nell’utilizzo dell’ambiente
differenziando l’uso dei bagni tra bambini e bambine, non già come selezione
sessista o moralista, ma per accogliere una richiesta venuta espressamente
dalle bambine.
“alcune bambine si sono lamentate di trovare al bagno i water
sempre bagnati dalla pipì dei maschi. Abbiamo proposto di andare al
bagno in due posti distinti e contrassegnati da un simbolo cercato
40
insieme e votato a maggioranza. Per entrare in argomento si è
riproposta la domanda: “ In che cosa sono diversi maschi e femmine?”
….i maschi hanno il tagliaerba e imbiancano
….i maschi hanno le scarpe più nere
….gli uomini hanno più muscolo
….le donne hanno le calze lunghe
….i maschi non hanno la gonna
….le donne hanno i piedi profumati, i maschi no
….le donne hanno più il vestito rosa ….
….i maschi portano il burro cacao , ma quello bianco …
Matteo
Edoardo
Gianmarco
Jacopo
Erica
Anna
Giovanni
Chiara
Nel fare questo lavoro abbiamo colto nelle parole e nei segni dei
bambini/e che loro vivono esattamente le nostre difficoltà a cambiare, i nostri
bisogni ad essere nuovi/e, le nostre contraddizioni. Spesso infatti si conserva
lo stereotipo di genere….
…..il babbo e la mamma litigano sempre perché la mamma fa i lavori in casa
e il babbo lì ….fuori con quella motosega …. .tira fuori quel filo per
accenderla …… la mamma vorrebbe che il babbo l’aiutasse a sparecchiare
…… a spazzare….. Angelica
…..il mio babbo studia e sa anche cucinare…
Mattia
…..anche il mio babbo cucina quando la mia mamma è al lavoro…..Duccio
Ci sono babbi che cuociono i tortellini ed altri che cuociono “anche”
l’uovo in padella, chi fa gli spaghetti con le vongole e anche chi, mentre la
mamma va alla Coop, fa le coccole con il babbo. Mentre ci sembra diffusa la
collaborazione, alcuni dati di analisi ci fanno pensare che la tecnologia è
ancora tutta maschile, mentre la cultura appartiene al femminile.
…..i libri li usano le femmine, io li guardo sempre
M.Elena
….l’aereo lo usano solo i maschi
Federica
….voglio imparare a lavare la macchina al lavaggio con l’idropulitrice Matteo
….io voglio imparare a disegnare un quadro
Erica
….io a fare i numeri
Asia
….io, invece, voglio imparare a giocare al computer
Francesco
Il dato che emerge, è che a livello di definizione teorica, permangono
ancora modelli culturali ancorati allo stereotipo della divisione dei ruoli uomodonna, mentre nella pratica quotidiana, nelle famiglie con i bambini piccoli, si
ripartiscono in forme non ruolizzate gran parte dei compiti di cura.
Di fronte alla richiesta di definire maschile e femminile attraverso un
gioco di collages, le immagini vengono ripartite in modo da richiamare ruoli e
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funzioni : coltelli, moto, armi, astronavi vanno sul cartellone del maschile,
mentre bambini, cibo, ornamenti sul cartellone del femminile. Ma quando si
passa al racconto di quello che ogni giorno mamma e papà fanno
concretamente, viene fuori che tutti e due accudiscono i figli, li
accompagnano a scuola, si occupano di varie incombenze e assolvono
insieme alle responsabilità sociali. La differenziazione diventa pressoché
totale quando si parla di pulizie della casa:quasi nessun padre se ne fa
carico!
Un’ultima brevissima nota. Progettare e operare nel nido e nella scuola
dell’infanzia significa essere in rapporto costante con il mondo delle emozioni:
quello dei bambini e quello personale.
Emozioni è una parola che spesso fa paura, qualche volta crea
imbarazzo, e comunque non è un termine da poco.
Troppo poco nella scuola si parla o addirittura si tengono in conto le
emozioni; ma parlando di donne e di uomini, parliamo, ascoltiamo,
percepiamo emozioni e dalle emozioni che proviamo siamo identificati.
i bambini fanno sempre più piagnistei perché la maestra li brontola
Federica
da piccola io piangevo…..e piangi, piangi, piangi….e la mamma e il
babbo ridevano e dopo quella belata ridevo anch’io …. Beatrice
capirai i bambini sono più beloni perché le bambine sono più gentili. Lo
sai quanto è che piango? Da quando so’ nato che piango! …..Duccio
Quello che mi pare fondamentale sottolineare a chiusura di questo
intervento, è che il tema dell’educazione di genere, così come ogni altro che
pone questioni cruciali che attengono ai valori, può essere correttamente
affrontato nella scuola dei piccolissimi, e solo all’interno di una metodologia
che pratichi concretamente la valorizzazione delle diversità, l’ascolto, il
confronto dei punti di vista diversi.
Concludendo vi voglio salutare con parole prese in prestito da un grande
poeta Pablo Neruda che è riuscito da par suo a dire ciò che noi possiamo
vivere quotidianamente nella scuola.
Ho imparato la vita
dalla vita,
e ho potuto insegnare solo quello
che io stesso ho vissuto,
quanto ho avuto in comune con altri uomini.
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Educazione di genere per spezzare gli stereotipi
Susanna Cenni
Questo seminario rappresenta una occasione importante per riflettere sulle
possibilità di intervenire a livello preventivo per una educazione all’equità di
genere e alla cura, per rompere gli stereotipi e uscire dai ruoli prefissati. Non
dobbiamo affrontare le necessità di realizzazione di strutture per
l’educazione solo da un punto di vista quantitativo, ma anche e soprattutto
qualitativo, in termini di contenuti e formazione professionale adeguata degli
insegnanti ed educatori”. La costruzione di una identità di genere inizia dai
progetti educativi sui quali si basano le istituzioni scolastiche, sulle relazioni
interne, sulla formazione del personale e sui rapporti con le famiglie.
Al progetto “Pari opportunità e differenza di genere, stereotipi nella scuola
d’infanzia”, realizzato dai Servizi Qualità Totale e Educazione e cultura
dell’infanzia del Comune di Prato, con la supervisione scientifica di Marina
Piazza e Antonella Orlandi partecipa anche la Regione Toscana attraverso
un ciclo di seminari che coinvolgeranno sia figure maschili che femminili;
saranno approfonditi aspetti quali il rispetto delle persone e delle differenze,
il radicamento di valori come il diritto di cittadinanza e la promozione di
nuove relazioni fra uomo e donna, ponendo le basi per un nuovo patto di
conciliazione e di condivisione del lavoro di cura da costruire pazientemente
ridefinendo ruoli, funzioni e modelli culturali preesistenti”.
Fondamentale da questo punto di vista è – a mio parere - un’azione
educativa da condurre nelle scuole per impedire e contrastare il sorgere di
stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità delle costruzioni
individuali dell’identità. La possiamo chiamare ‘educazione alla cura’: alla
cura di sé, dell’altro, del mondo, per rendere visibile – e valorizzare – quel
lavoro sommerso e spesso invisibile che viene affidato alle donne come
compito dovuto”.
Sono alcune delle grandi priorità che la Regione Toscana si è data,
assumendo tra le sfide del programma regionale di sviluppo 2006-2010
proprio l’affermazione di un pieno diritto di cittadinanza delle donne e dei
giovani e la promozione della dimensione di genere in tutte le proprie
politiche. Quindi, l’unica prospettiva possibile è quella di un cambiamento
culturale forte, che parta dall’educazione delle prossime generazioni e si
sviluppi attraverso politiche e norme che non siano mere enunciazioni di
principio, ma che sostengano concretamente uomini e donne nella creazione
di una società più equa in cui le opportunità di lavoro, carriera e vita privata
siano legate non all’appartenenza di genere, ma alle effettive capacità del
singolo individuo, uomo o donna che sia. Nel dialogo con le scuole e con i
ragazzi va data particolare attenzione al tema della conciliazione dei tempi di
vita e di lavoro e a quello della lotta contro la violenza sulle donne”.
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44
APPENDICE
PROGETTO
“EDUCARE ALLA DIFFERENZA DI GENERE
SUPERARE GLI STEREOTIPI DI GENERE ALLA SCUOLA D’INFANZIA”
Anno 2007-2008
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Soggetto
Titolare
Servizio Qualità Totale
Servizio Educazione e Cultura dell’Infanzia
Equipe di
progetto
Ufficio Tempi e Spazi e Pari Opportunità
Coordinamento Pedagogico e Organizzativo
Collaborazioni Insegnanti ed educatrici delle sezioni aderenti
Supervisione
scientifica
Premessa
(contesto e
motivazioni)
Marina Piazza – Antonella Orlandi
Il tema dell’educazione di genere porta ad approfondire aspetti che attengono a valori
quali il rispetto delle persone e delle differenze, ad accertare valori come il diritto di
Cittadinanza promuovendo nuove relazioni fra uomo e donna.
Per favorire un nuovo sistema di conciliazione fra uomo e donna è importante
ipotizzare anche un nuovo patto di condivisione del lavoro di cura.
E’ un patto che va costruito pazientemente sulla base di una ridefinizione condivisa dei
ruoli, delle funzioni e delle strutture culturali preesistenti.
In questo senso la priorità va data all’azione educativa da condurre nelle scuole per
impedire e contrastare il sorgere di stereotipi che irrigidiscono la mobilità e la versatilità
delle costruzioni individuali dell’identità. Azione educativa che potrebbe essere definita
di “educazione alla cura”: alla cura di sé, dell’altro, del mondo, ed essere imperniata a
rendere visibile – e a valorizzare – il lavoro di cura, spesso reso invisibile e affidato alle
donne come “compito dovuto”.
Gli stereotipi relativi alle differenze fra i generi condizionano il comportamento degli
adulti e dei genitori in particolare, per cui influiscono anche nel gioco: i maschi
tendono a investire maggiormente il corpo (giochi motori, turbolenti con prevalente
fisicità); le bambine invece giocano in modo più sedentario utilizzano maggiormente
l’attività verbale e il gioco simbolico nel quale prevalgono temi relativi al lavoro
domestico e di cura.
Questi stereotipi condizionano i bambini e le bambine fin dai primissimi anni di vita
secondo forme di addestramento al ruolo attribuito al proprio sesso di appartenenza e
sono fondamentali nella formazione dei ruoli.
La possibilità dei bambini fin da piccoli a riconoscersi e inserirsi nella categoria dei
maschi o delle femmine fa parte del processo naturale di costruzione della propria
identità e di una spiccata tendenza all’autodefinizione e alla categorizzazione.
Imparano, quindi, molto precocemente ad apprendere i comportamenti di genere
Studi e ricerche dimostrano che a partire dai tre anni di vita prende l’avvio un
processo di acquisizione dell’identità di ruolo, ossia l’acquisizione di schemi
comportamentali, preferenze e valori condizionati dai modelli presenti in una
determinata società. Durante il processo dell’acquisizione di identità di ruolo bambini e
bambine cercano di distinguere cosa è maschio da cosa è femmina attraverso quegli
atteggiamenti e comportamenti regolati da convenzioni, divieti, attribuiti ai due sessi.
Quindi, gesti quotidiani compiuti anche senza una esplicita volontà di insegnamento
diventano, per i bambini, molto significativi e soprattutto indicativi di ciò che è
maschio e di ciò che è femmina.
La costruzione dell’identità di genere costituisce a pieno titolo fin dai primi mesi di vita
una tematica formativa che, come tale, non può non investire la progettazione
didattica, le relazioni interne, la formazione del personale dei rapporti con le famiglie.
Insegnanti e genitori, spesso esitano ad affrontare l’argomento per varie ragioni che
possono essere ricondotte ad alcune motivazioni: scarsità di produzione scientifica in
materia e alla sua ancor più scarsa divulgazione, oltre che a pregiudizi, preoccupazioni
e paure. Infatti, il tema comprende aspetti importanti che hanno un forte impatto
emotivo-culturale, quali la sessualità, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella
società ecc.
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Finalità
Obiettivi
Metodologia
-
Scoprire le differenze affrontando gli stereotipi di genere ed educando alla
relazione a partire proprio dalla differenza maschile-femminile intesa come
confronto originario e per questo come chiave di accesso a tutte le
differenze/relazioni.
- Progettare con le scuole d’infanzia percorsi di sperimentazione; le scuole
d’infanzia per loro natura possono essere un luogo predisposto per
un’elaborazione significativa perché affrontano costantemente il mondo
delle emozioni
- Stimolare la riflessione degli adulti che, in questa fase dello sviluppo dei
bambini, si mostrano molto coinvolti nel processo formativo.
- Formazione del personale centrata sia sull’acquisizione di conoscenze che
sulla osservazione, documentazione e riflessione attiva intorno al pensiero e
ai comportamenti dei bambini e degli adulti sul tema;
- Costruzione della relazione con le famiglie da coinvolgere nelle varie fasi
del progetto;
- Predisposizione delle attività, organizzazione dell’ambiente e dei materiali
per il lavoro da fare con i bambini;
Le metodologie saranno diversificate secondo i soggetti coinvolti:
Incontri previsti per gli adulti (formazione, monitoraggio, incontri con genitori
ecc.):
- Esposizione e approfondimento teorico attraverso lezioni frontali;
- focus group;
- Racconto, come metodo per far emergere il proprio vissuto;
- Role play e simulate ;
- Tecniche di osservazione
- Ascolto dei bambini
Per i bambini di 5 anni a piccoli gruppi
- Laboratori di drammatizzazione
- Manipolazione
- Gioco dello scambio dei ruoli
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Tempi
Anno scolastico 2007-2008
Progettazione
¾ Giugno 2007 stesura definitiva progetto con il contributo delle insegnanti
Presentazione progetto
¾ Settembre 2007 presentazione del progetto giornata di lancio 6 settembre 07
¾ Conferenza stampa (6 settembre, a conclusione giornata di presentazione)
Convegno del 6 settembre 2007
¾ 5 ore di formazione per insegnanti, educatori, ausiliarie, coordinamento
comunali, e aperto ad altre scuole infanzia e nidi e comuni esterni
Formazione personale scuola infanzia (insegnanti e ausiliarie) e
laboratoristi :
¾ I – incontro 10 settembre ore 10.30-13.30 (condotto da Marina Piazza) su
Linguaggio e Stereotipi
¾ II – Incontro il 13 settembre ore 16.30-19.30 (Condotto da Antonella Orlandi)
su come aggirare lo stereotipo
Incontri di monitoraggio delle attività laboratoriali :
N. 4 incontri di due ore ciascuno condotti da Antonella Orlandi per la condivisione
di una comune metodologia di azione e la valutazione dei risultati che si ottengono
durante la sperimentazione nei laboratori (10 ore per ciascun laboratorista).
Gli incontri saranno così divisi:
• I incontro – preparazione materiali per i laboratori – partecipano soltanto i
laboratoristi.
• II incontro - prima dell’avvio dell’attività laboratoriale – partecipano
insegnanti e laboratoristi (i primi di ottobre)
• III incontro – durante lo svolgimento dei laboratori – partecipano soltanto i
laboratoristi.
• IV incontro – conclusivo: valutazione e individuazione delle azioni per
proseguire l’esperienza nel gruppo classe.
Laboratori per bambini :
sperimentazione nei piccoli gruppi di circa 12 bambini (un’ora di attività per ciascun
gruppo-laboratorio) di specifici percorsi di comprensione ed elaborazione della
differenza e di costruzione condivisa di nuove proposte relazionali
• 5 incontri da tenersi fra Ottobre e Dicembre al massimo entro Gennaio 08
(in accordo e secondo le esigenze degli insegnanti e laboratoristi)
• Incontri con i bambini o settimanali o quindicinali.
3 Incontri con i genitori:
Finalizzati a sensibilizzare gli adulti sulle differenze di genere, partendo da ciò che
emerge dalle esperienze dei bambini – conducono gli incontri i laboratoristi.
Negli incontri va seguita la metodologia di laboratoriale-esperenziale
• I tempi saranno concordati con insegnanti e laboratoristi, comunque in
parallelo a quegli per i bambini, tra ottobre e dicembre.
• Gli incontri con i genitori sono di norma svolti il dopocena.
Le insegnanti e le ausiliarie interessate possono partecipare a questi incontri.
Restituzione dell’esperienza
nella prima metà di marzo o di aprile –
restituzione dei risultati della
sperimentazione con impegno breve (max 2 ore ) – mostra dei materiali elaborati e
del video. A villa Fiorelli – se disponibile – piccolo convegno
Soggetti
coinvolti
Vari Settori del Comune
Personale Insegnante e Ausiliario
Genitori
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Esperti
-
Descrizione
del progetto
e Modalità di
svolgimento
Il progetto è complesso e articolato in varie fasi:
(chi sono e cosa fa
ciascuno)
-
Utenza
Il
Formatori e relatori per le giornate di restituzione
Esperti di laboratorio per i bambini
Presentazione bozza progetto alle insegnanti di scuola infanzia comunale, per la
raccolta di adesioni
Elaborazione definitiva del progetto in accordo anche con le insegnanti;
Giornata di Studio e Formazione per la presentazione delle linee culturali del
progetto e racconto ragionato delle esperienze simili avviate nella Comune di
Arezzo;
Corso di formazione per insegnanti, operatori e laboratoristi coinvolti;
Monitoraggio in itinere dell’esperienza;
Attività di laboratorio nelle classi con esperti e bambini per le scuole d’infanzia;
Incontri con genitori
Riprese Video e
Iniziativa per la restituzione e presentazione dei risultati e dei materiali elaborati
durante l’esperienza con i bambini.
Progetto è rivolto a Scuole d’infanzia del Comune
BAMBINI/E (di 5 anni di scuole d’infanzia)
INSEGNANTI
AUSILIARIE
GENITORI
Benefici attesi Riflessione da parte dei partecipanti adulti sugli stereotipi, volta ad ottenere una
modifica del proprio comportamento:
per l’utenza
-
-
Tutoring
maggiore distribuzione in famiglia dei tempi di cura, come tempo da dedicare ai
figli
ricerca di equilibrio e disponibilità
amore e considerazione
rispetto delle differenze individuali
Per le scuole
Elaborazione di progetti e percorsi didattici da poter riproporre negli anni successivi
(attraverso filmati e power point)
Coordinamento Pedagogico e Organizzativo
Coordinamento Pedagogico e collaboratori
Incontri di valutazione
Valutazione
Indicatori da decidere con il gruppo di lavoro (C.P. -laboratoristi e insegnanti)
Documentazion Ogni fase del progetto prevede un percorso di raccolta della documentazione prodotta.
- La giornata della presentazione prevede la raccolta dei materiali del convegno;
e e diffusione
- Durante il convegno potranno essere presentati lavori (multimediali o cartacei)
eventualmente prodotti dalle scuole;
- Raccolta dei materiali del corso di formazione;
- Documentazione con foto, cartelloni, disegni ecc. dei laboratori con i bambini;
- Tali documenti potranno essere presentati nella giornata finale di restituzione;
Monitoraggio
Sviluppo
futuro
Progetti permanenti nelle scuole
Proposta del progetto nell’ambito delle iniziative previste ogni anno di Continuità fra
scuola d’infanzia e scuola primaria.
Piano
finanziario
Il piano finanziario è stato elaborato in un documento a parte,
nel quale sono inserite anche le riprese video
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