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Diego Fusaro?
ESSERE MICHAEL JORDAN
Radio Càos su Il qualunquismo feroce e infantile
di Matteo Salvini
di Gabriele Santoro pubblicato venerdì, 7 agosto 2015 · 1 Commento Jolanda su Che cosa abbiamo fatto per meritarci
Diego Fusaro?
«Quando dice che “spiccò” il volo intende dire che scappò, vero? Fuggì?»
«No, intendo dire che volò via. Oh, sono tutte sciocchezze, sa, ma secondo la storia non scappò. Volò
Il qualunquismo feroce e infantile di Matteo
Salvini | OverTheDoors News Stream su Il
qualunquismo feroce e infantile di Matteo Salvini
via. Solomon sapeva volare. Sa, come un uccello. Un giorno in cui era nei campi prese, corse in cima
alla collina, fece un paio di giri su se stesso e si librò nell’aria. Tornò là da dove veniva. Lassù c’è un
CATEGORIE
grande masso con due cocuzzoli che domina la vallata: porta il suo nome».
approfondimenti
arte
cercato la risposta a lungo, invano, donandoci la grazia e i brividi dell’illusione propria del volo umano.
calcio
Walter Ioos, fotografo di Sports Illustrated, ha provato a catturare lo spazio di quel secondo in sospeso.
cinema
A Chicago, durante la gara delle schiacciate dell’All-Star Game 1988, bastò un cenno complice. Ioos era
cultura
insoddisfatto degli scatti in archivio dall’anno precedente. Lo avvicinò tre ore prima del decollo:
design
«Vorrei conoscere in anticipo la direzione che prenderai». Volle ritrarre il disegno delle contrazioni del
economia
suo volto. «Certo, te la indicherà il mio dito indice sul ginocchio. Te ne ricorderai?», gli disse. Poi lo fece
editoria
spostare leggermente a destra per la condivisione di una fotografia che vantava la pretesa dei segreti.
esteri
Il campo da basket è stato il rifugio della coscienza e dell’orizzonte di senso più alto di Jordan.
S’innalzava dalla linea del tiro libero per disegnare con elegante supremazia atletica parabole mai osate.
Non è una storia semplice. È una storia imperfetta, dunque viva. È una storia da ultimo tiro, che affonda
le radici nell’ultimo decennio dell’Ottocento sulle sponde di un villaggio fluviale. Dalla schiavitù razzista
alla costruzione di un impero sportivo, economico, che ha segnato in profondità la cultura popolare
americana novecentesca.
estratti
fiction
filosofia
fotografia
fumetto
giornalismo
inchieste
Il giornalista e docente universitario Roland Lazenby, che da vent’anni scruta e interroga l’alfabeto del
interventi
mito, restituisce la giusta misura di un’icona globale con il suggestivo, pregevole studio Michael
interviste
Jordan, la vita (66thand2nd, 784 pagine, 23 euro, traduzione di Giulio Di Martino). L’autore non ha la
lavoro
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Quand’è che saltare diventa volare? Michael Jordan amava che gli ponessero questa domanda. Ha
architettura
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Canto di Salomone, Toni Morrison
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presunzione della definitività. Esaudisce l’ambizione propria di una ricerca dettagliata, empatica, che
non ha misteri da svelare. Questo libro, fondato su una bibliografia sostanziosa e moltissime interviste,
non è un’intervista impossibile. Lazenby apre soprattutto uno squarcio interessante sulla formazione
del campione, sull’adolescenza del più forte giocatore di pallacanestro di sempre. Non è la celebrazione
di un supereroe.
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letteratura
libri
mondo
musica
non fiction
In North Carolina il bisnonno Dawson sopravvisse alla selezione naturale di un mondo primordiale, in
obituary
cui il padrone bianco credeva di poter continuare a praticare impunemente la sopraffazione. Le zattere
poesia
assemblate da Dawson per il commercio del legname erano resistenti quanto il suo corpo e la sua anima.
politica
Imparò a leggere e a scrivere nello stanzone della “Scuola comune per gente di colore”, gettando il seme
racconti
di una famiglia nuova. Michael, il bisnipote, lo ha ricordato spesso con commozione: «Era forte. Sì, lo
recensioni
era. Eccome». La fibra era la stessa. Phil Jackson, mente e guida dei Bulls sei volte campioni Nba, la
religione
sapeva lunga. Per Natale era solito regalare ai propri giocatori un libro. Non a caso il primo testo
destinato a Jordan è stato Canto di Salomone di Toni Morrison. Milkman, il giovane protagonista,
compie un viaggio alla conquista della propria identità, così ricca di spiritualità e sogni, che coincide
con l’origine della storia afroamericana. Dalla piantagione lo schiavo Solomon aveva spezzato le catene,
spiccando il volo verso la terra madre, l’Africa. Il “mito degli africani volanti”. Michael, a modo suo, ha
risalito il corso del fiume. Anch’egli ha invertito la rotta della storia.
reportage
ritratti
riviste
scienza
scrittura
scuola
“Possano i padri alzarsi in volo. E i figli conoscere il proprio nome”.
Nel 1954 James Raymond Jordan e Deloris Peoples, ancora adolescenti, s’incontrarono a una partita di
pallacanestro, dove si accese la scintilla. Cavalcarono l’onda dei movimenti per i diritti civili e il clima
di una radicale trasformazione culturale. Il 17 febbraio 1963 Michael nacque, perdendo sangue dal
Senza categoria
società
sport
storia
naso, in una famiglia del ceto medio, che aveva già acquisito la solidità economica. Un nucleo, che
teatro
assecondò l’ascesa del prodigio, per poi essere frantumato da sentimenti feroci, dalle denunce post
televisione
datate di presunti abusi sessuali perpetrati dal padre sulla sorella Sis, da conflitti sulla gestione del
traduzione
patrimonio. Deloris, protettiva e determinatissima, ha avuto un ruolo strategico decisivo nel percorso
urbanistica
del figlio minore. All’età di nove anni Michael, avviato al baseball, promise di rimediare alla sconfitta
video
olimpica, in piena Guerra Fredda, degli Usa contro la Russia a Monaco ’72. Promise di impossessarsi
della “zona” dell’ultimo tiro di Sergej Alexandrovic Belov. Due anni dopo James gli comprò la prima
palla e allestì un campetto casalingo, teatro di interminabili uno contro uno con il fratello Larry,
ARCHIVIO
Archivio Seleziona mese
anch’egli cestista promettente.
Lazenby individua in questa competizione, e nella predilezione del padre per il primogenito, una delle
fonti dell’inesauribile competitività e voglia di dominare di Michael. Nel cuore degli anni Settanta il
ragazzino odiava i bianchi come sedimento di una rabbia e di un dolore antichi. Uno “sporco negro” di
troppo provocò la reazione pagata con l’espulsione da scuola: «Mi consideravo un razzista. Mi volevo
ribellare». Curò il rancore con l’amore per il gioco e la consapevolezza del talento. Il perdono è
un’energia da coltivare lungo la propria strada, quanto la forza di amare. Love of the game, proprio
così, fece chiamare una clausola al primo contratto professionistico. Lui, solo lui, avrebbe potuto
rispettare la passione, giocando a pallacanestro ovunque. Al rischio di patire infortuni sarebbe potuto
scendere in campo a sua discrezione.
L’attendibile cronista Lacy Banks sottolinea come neanche Muhammad Ali sprigionasse la medesima
mostruosa quantità di energia di Jordan. Erano storie distanti con attenzioni diverse alla giustizia
sociale e alla politica. Gelò chi gli propose di sostenere la candidatura del democratico afroamericano
Harvey Gantt, in corsa per il seggio in Senato quale rappresentante del North Carolina: «Anche i
repubblicani comprano scarpe. Non sono un politico». Trasversale in quanto libero dalle implicazioni
politiche, interessato agli affari, alla carriera o indifferente alle cause sociali?
Non andò mai allo scontro frontale con le contraddizioni, le ipocrisie della società statunitense. Le fece
esplodere nelle esultanze e riverenze di chi, magari il giorno successivo alla partita, riprendeva ad
alimentare i propri razzismi quotidiani. Le fece implodere, appropriandosi del business della
multinazionale che sull’intuizione del mercante visionario Sonny Vaccaro lo aveva reso un oggetto.
Michael Jordan trascese la razza, come nessun altro atleta nero. Post racial per usare il termine del suo
Accorgersi e valorizzare il talento è un esercizio necessario, che sfugge ai più. Le qualità, per quanto
abbaglianti, spesso sfumano nell’indifferenza della moltitudine. Jordan ha ascoltato la propria fortuna:
gli allenatori, o meglio i maestri, e i contesti di squadra che seppero decostruire l’egoismo del più forte,
codificare per quanto possibile la sua indecifrabilità. «Il mio talento più grande era di essere pronto a
imparare. Anche se pensavo che il coach si sbagliasse, provavo ad ascoltare e imparare».
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tanto da renderlo un’icona della cultura popolare di massa.
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manager, deus ex machina, David Falk. L’estetica era rassicurante, il lessico mass-mediale ben educato,
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Nell’autunno 1979 Pop Herring prese carta e penna per il suo liceale. Una lettera, un gesto inusuale, per
attirare l’interesse di University of North Carolina su un ragazzo, che non aveva indossato ufficialmente
la canotta della Laney High School, ma del quale aveva intuito l’attitudine. L’adolescente sognava Magic
Johnson, mentre nella selezione della prima squadra venne tenuto fuori dai centimetri di Leroy Smith.
Allora la disciplina ruotava intorno ai centri di gravità. Herring lo portava all’alba in palestra, prima
della scuola. Spese il proprio impegno per la formazione di quella guardia dall’atletismo straripante,
versatile, elegante, tremendamente efficace per gli equilibri difensivi. Lì scelse il numero 23, ma
soprattutto apprese la matematica dei grandi incontri.
Herring creò le condizioni affinché Jordan partecipasse all’elitario camp estivo Five Star, una vetrina
dove implementare la propria reputazione. Pensavano fosse acerbo, che sarebbe rimasto in panchina:
«Saltava sopra alla gente e aveva quel tocco. Emergeva la sua natura competitiva», ricorda lo scout
d’eccezione Tom Konchalski. Lì Michael capì che tutto era possibile.
Mike Krzyzewski intendeva inserirlo a qualsiasi costo nel suo mirabile progetto a Duke. Tuttavia il
destino era North Carolina, che con l’assistente Bill Guthridge si era messa da tempo sulle sue tracce.
Trovò una squadra pronta per vincere e un allenatore che non aveva vinto mai. «Se Michael non fosse
stato allievo di Dean Smith non sarebbe diventato così bravo nel gioco di squadra», ricorda Tex Winter.
C’era un sistema, un’alchimia, dove il talento si traduceva nella pietra angolare dell’altruismo. Mai più
di ventiquattro tiri a serata nei tre anni a NC.
Jordan si adattò alla radicalità di Smith, consolidando il proprio bagaglio di fondamentali. Guadagnò lo
spazio senza particolari timidezze. «Buttala dentro Michael!», mormorò alla matricola. Correva l’anno
1982 e Smith comprese che quella era la volta buona. Stavolta l’ultima curva non l’avrebbe tradito. Al
Louisiana Superdome North Carolina e Georgetown diedero spettacolo. Si assegnava qualcosa di più del
titolo Ncaa. Venne scritto l’incipit della rivoluzione. All’epilogo mancavano una manciata di secondi.
Michael andò su con la lingua fuori, morbido il rilascio della palla e il fruscio della retina per la vittoria.
Non aveva capito quell’ultimo schema, ma tant’è: «Era già tutto deciso. Dal momento in cui ho segnato
quel tiro, qualsiasi altra cosa mi è piovuta tra le mani. Se quel tiro non fosse entrato, non credo che
sarei arrivato dove mi trovo oggi».
Gli allenatori, i rispettivi assistenti, seppero trovare le parole, i gesti che valgono la fiducia nel
compagno, perché la vittoria è anche una questione di solidarietà. «Michael, chi è libero?» Il serafico
Jackson lo ripeté tre volte. Quella volta si era spazientito sul serio. In gara cinque, contro i Lakers di
Magic Johnson, la posta in palio era grossa: il primo titolo Nba che aprì il varco all’epopea di Chicago.
«Paxson!», rispose dopo un silenzio imbarazzato. «Bene. Allora dagli quella cazzo di palla». Dopo il time
out piovvero assist per i cinque canestri decisivi di Paxson. Sette anni di sconfitte ai Bulls avevano
composto un mosaico di significati, elaborato un linguaggio comune: «Nella mia vita ho sbagliato più di
novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro
decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto».
I can accept failure, everyone fails at something. But I can’t accept not trying.
In allenamento Jordan giocò buona parte della sua pallacanestro migliore. Dagli esordi all’immortalità
sportiva, l’etica del lavoro in palestra è stata la sua arte della gioia e della creatività. Non era facile
sostenere il suo grado di perfezione, stare al fianco delle sue urgenze motivazionali, della sua
competitività. Non era facile accettare il trattamento riservato alle matricole e ai nuovi arrivati. «Era
dura avere a che fare con un ragazzo che non volesse vincere a tutti i costi. Li torturavo per verificare la
resistenza. Se si ribellavano, allora potevo fidarmi che ce l’avrebbero fatta in partita». Memorabile la
scazzottata, senza evidenze di ragioni, con il malcapitato Steve Kerr, che saldò l’unione dei Bulls e ribadì
la leadership per il secondo ciclo di tre titoli consecutivi. Memorabili le guerre psicologiche
jacksoniane, la sfida mentale con Mike, quanto le sfide interne con l’alter ego Scottie Pippen, al quale
instillò la fame per il successo.
«Il tempo dell’allenamento. Uno spazio per definire quello che eravamo come gruppo e persone.
Michael, lontano dalla folla, costretto a rompere il suo guscio più esterno», dice Phil. L’intangibile di
un minuto, aveva indicato un sentiero. L’impresa è far sentire tutti fondamentali.
«Ci piacerebbe che Jordan fosse alto 2.13, ma non lo è. Non c’era un centro disponibile. Cosa ci
possiamo fare! Jordan non rivoluzionerà questa franchigia, né gli chiedo di farlo. È un ottimo giocatore
offensivo, ma non è devastante». Quanto spesso Thorn, allora direttore generale dei Bulls, avrà
rimuginato questa improvvida dichiarazione? Il 12 settembre 1984 Jordan, scelta numero 3 al Draft,
firmò il contratto più sostanzioso mai offerto a un pari ruolo: sei milioni di dollari per sette anni. Il
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proibendo a Sports Illustrated di sbattere in copertina una promessa che non aveva ancora disputato
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questa avventura era materia collettiva, qualcosa che apparteneva solo alla squadra. Già Dean Smith,
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tempo di scatenare la rivalità con le stelle Nba affermate e incantare su scala mondiale alle Olimpiadi,
per poi calarsi in un contesto complesso. Chicago annaspava nei bassifondi, ignorata anche dal
palinsesto televisivo. L’agonismo dell’esordiente scosse il gruppo. Era fotogenico, affascinante,
magnetico: per il solo debutto aveva creato un’atmosfera tale da far raddoppiare la presenza dei tifosi.
Durante una lunga stagione di fede assoluta fece registrare cinquecento sold out consecutivi. Tutti
sapevano ancora poco di lui.
Destò la meraviglia dei più forti. Loro, i Celtics, avevano un record casalingo di 50 vittorie e una
sconfitta. Lui, Jordan, era reduce da un grave infortunio. Nell’autunno 1985 si era fratturato l’osso
navicolare del tarso del piede sinistro. Una laurea e sessantaquattro partite guardate in televisione.
Dalle partite segrete, proibite, per provare le sensazioni al rientro anticipato: sette minuti a tempo, non
di più. Condusse i Bulls nello sprint playoff. Prima contro ottava, gara due. Due tempi supplementari,
una sconfitta (135-131) sulla quale edificare i trionfi a venire. Ne segnò 63: record di tutti i tempi in una
partita dei playoff nella Nba. Con Larry Bird e i Celtics sembrava avere un conto in sospeso, roba di uno
sgarbo in un’amichevole di preparazione all’Olimpiade. «Quello era Dio travestito da Michael Jordan.
(…) Pagheranno solo per vedere lui. Io gli metto una mano sul braccio, faccio fallo e lui segna lo stesso.
Il tutto mentre era in aria», la benedizione di Bird.
The Legend, quando era un giocatore di Indiana State, apparve sulla copertina di SI con un paio di Nike
in bella evidenza. E Vaccaro comprese che la semina di denari stava trasformandosi in raccolto.
Lazenby dedica correttamente molte pagine a questo personaggio, fra i fautori della
commercializzazione dello sport contemporaneo. La Nike, che aveva un fatturato da 25 milioni di
dollari, gli affidò un budget da investire sul basket giovanile. Lui reclutava allenatori di spicco come
testimonial, che consigliavano ai propri atleti le calzature della creatura di Philip Knight.
Vaccaro s’infatuò del carisma di Jordan, ideale per il marketing. Convinse la Nike ad agganciare il
proprio sviluppo all’esistenza di quell’astro nascente. Un azzardo, investire tutte le proprie risorse su
un ventunenne afroamericano, lungi dall’essere iconizzato: due milioni e mezzo di dollari per cinque
anni, più il 25% su ogni scarpa venduta. Il factotum Falk il nome della linea l’aveva in tasca: Air Jordan.
Deloris negoziò la vita che Michael avrebbe vissuto. Nel 1985 la Nike affermò sul mercato il primo
modello di Air Jordan, rossonere, eludendo le regole Nba che prescrivevano il colore bianco. In un
triennio quelle scarpette produssero ricavi del valore di 150 milioni di dollari.
Alla progressiva, martellante, presenza sotto i riflettori si accompagnò l’alienazione di una quotidianità
apparentemente dorata, da rubare nelle stanze d’albergo, e l’invidia dei veterani messi sempre più
nell’ombra. Le multinazionali si accapigliavano per il suo volto. La stessa Nike, che con la sua immagine
espanse spaventosamente la propria influenza, era intimorita dal potere assunto da quell’ascesa così
rapida e inarrestabile. Il campione diviene di per se stesso un marchio. Nessun atleta era stato mai
commercializzato in quella maniera. Il 40% del merchandising ufficiale della Nba era legato ai Bulls. Il
suo approdo stravolse il business della Lega: gli incassi annuali schizzarono dai 150 milioni di dollari del
1984 agli oltre 2 miliardi di metà anni Novanta. Paradossalmente il suo contratto sportivo era
accessorio, novanta milioni di dollari complessivi: nel 2012 risultò ottantaseiesimo nella classifica dei
guadagni di tutti i tempi. L’ultimo ingaggio con i Bulls sfiorò i 33 milioni di dollari. Scavò il solco per i
contratti faraonici della nuova generazione. Fu un comparto dell’economia urbana di Chicago: «United
Center, the building that MJ built».
L’autore riporta una statistica nota. L’80% dei giocatori ex Nba nell’arco di un decennio dalla
conclusione dell’attività agonistica finiscono sul lastrico, dopo aver dilapidato gli ingenti ingaggi. Per
l’impero Jordan potremmo adottare l’espressione Too big to fail. Le scommesse milionarie sul golf, il
gioco d’azzardo e le carte, il divorzio milionario dall’amata Juanita Vanoy, le inchieste dalle quali venne
sfiorato a causa dei debiti da gioco, gli investimenti errati del padre, le notti ai casinò di Atlantic City tra
un’impresa sul campo e l’altra, gli spifferi dalla famiglia dei Bulls non hanno compromesso
violentemente l’equilibrio tra persona e personaggio. E la ragione di ciò la troviamo nei suoi diciotto
mesi senza pallacanestro, all’apice della gloria della prima sequenza di tre titoli vinti dai Bulls
(1991-’93). La ritroviamo nell’amore per la radice del gioco.
pieno petto, uccise James Raymond. Due teenager arrestati, una rapina andata male o chissà cos’altro:
«Non mi capacito di chi sparge sale sulle mie ferite aperte, insinuando che i miei errori personali siano
in qualche modo connessi alla sua morte». A trentuno anni suonati non c’era alcuna possibilità che
potesse rientrare nella lista dei White Sox per la Major League.
Lasciò la pallacanestro per il baseball, per un legame paterno ormai tra terra e cielo. Si espose
all’umano rischio del fallimento. Lo girarono ai Birmingham Barons. Ripartire dagli ultimi, da quelli che
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in avanzato stato di decomposizione in un torrente paludoso in South Carolina. Un proiettile, esploso in
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Il 3 agosto 1993 la polizia collegò il ritrovamento di una macchina abbandonata a quello di un cadavere
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lottano per il posto dell’anima: «Negli ultimi nove anni ho vissuto con il mondo ai miei piedi. Ora sono
solo uno dei tanti giocatori delle leghe minori che prova a entrare in quelle maggiori. Questi giocatori
meritano il vostro rispetto autentico. All’inizio il baseball era un’idea di mio padre. “Hai talento”,
diceva. Ripensavo a mio padre, a quanto amasse il baseball e a come ne parlassimo sempre. Sapevo che
quella cosa lo faceva felice. Anch’io ero felice». L’abnegazione in allenamento fu una riscoperta
esemplare, tuttavia la norma del tempo è ineludibile.
I am back.
Avevano ritirato la canotta 23. Era pronta una statua bronzea, The Spirit, antistante all’arena United
Center. Il 10 marzo 1995, alla notizia dell’addio al diamante, il valore azionario delle aziende di cui era
testimonial s’impennò di due miliardi di dollari. «Nel giro di pochi giorni era in divisa ad allenarsi con
l’energia sufficiente a deviare una tempesta». Al Berto Center aveva già riabbracciato i Bulls. Dove ci
eravamo lasciati? Più veloce di lui solo Wilt Chamberlain, che ventimila punti li aveva segnati in 499 partite. L’otto
gennaio 1993 Jordan, al settimo anno di fila miglior realizzatore Nba, ne aveva disputate 620. In quegli
anni, oltre a pregare, l’unica strategia adottabile dagli avversari per limitarlo consisteva nel
costringerlo a giocare da solo. Oppure per dirla con il bostoniano Jerry Sichting avrebbero dovuto
arruolare Clint Eastwood. Qualcuno aveva paventato già il paragone con Pete “Pistol” Maravich, che a
dispetto di un talento immenso un titolo non lo vinse mai.
La differenza la possiamo comprendere in due partite indimenticabili sopracitate. In quella dei 63 punti
contro i Celtics i canestri sono essenzialmente il prodotto di tanti palleggi, di uno contro uno e uno
contro cinque pazzeschi, irripetibili. Una furia che ha il sapore della solitudine. Nella seconda, gara 5
della finale 1991, ammiriamo l’armonia di una difesa che toglie il fiato e anima un attacco collettivo,
vincente, perché la palla circola in modo rapido. Il tiratore ha sempre lo spazio utile con un’alta
possibilità di realizzazione, proporzionale alla qualità della costruzione. Una pallacanestro efficace e
spettacolare. Il saggio Tex Winter, dopo l’ennesimo record (23 punti consecutivi contro Atlanta)
consegnato agli albi, glielo disse con incisiva franchezza: «There’s no I in team». «Sì, ma nella vittoria
l’Io c’è. Ho vinto». MJ prendeva un terzo dei tiri complessivi Bulls. Nei primi tre anni il bilancio ai
playoff recitava nove sconfitte, una vittoria. Jordan, amarezza su amarezza, levigò gli scogli di regni progressivamente al tramonto: i Celtics di Bird, i
Lakers di Johnson affetto dall’Hiv, i Pistons di Thomas e Dumars. Gliel’aveva giurata all’istrionico Isiah
Thomas, a quel basket ruvido. La difesa dettò il tempo all’attacco con la crescente fiducia corroborata
dalla striscia di trenta vittorie casalinghe. E nel 1991 alla terza Finale dell’Eastern Conference ebbero la
meglio sui Detroit Pistons con un secco 4-0: «La gente che conosco è felice che tra poco non saranno
più loro i campioni in carica. La gente vuole che il loro tipo di basket sparisca. Quando vinceva Boston,
lo faceva giocando davvero. Hanno vinto e nessuno può togliergli le vittorie, ma non hanno giocato un
basket pulito», aveva preannunciato. Uccisero gli dei col pensiero. Nella primavera del 1985 Jerry Reinsdorf, il proprietario dei Bulls, aveva
riposizionato sul ponte di comando dirigenziale il plenipotenziario Jerry Krause. Quest’ultimo andò a
ripescare Tex Winter, che credeva in un sistema, il Triangolo, di cui era il profeta e al quale aveva
dedicato molti anni per il suo sviluppo. In attacco il disegno di un triangolo, formato dai giocatori,
creava spaziature e scompaginava le difese, garantendo il bilanciamento difensivo, la copertura a
rimbalzo e la pressione alta della squadra. L’80% del tempo l’attaccante giocava senza la palla in mano.
Negli anni a venire, con Jackson determinato a giocare con un attacco in cui la palla e gli uomini si
muovessero continuamente, Winter assunse un potere rilevante in palestra per giungere alla piena
applicazione della sua filosofia, che esigeva la lettura del comportamento delle difese, movimenti
potenti e rapidi. Il triangolo esigeva che la palla fosse sempre passata all’uomo libero: bucare la difesa
tramite i passaggi. Jordan, tra odio e amore, dialogò con quell’idea, quella struttura flessibile, che lo
rendeva determinante anche in post medio e basso e stimolava l’interazione con i compagni. Il Triple
Post Offense era nato per esaltare e non imbrigliare le qualità individuali in un senso di squadra.
presentò con la barba lunga, in sandali, sfoggiando un cappello di paglia. Figlio della controcultura anni
Sessanta ammise di aver consumato droghe, LSD su tutte. Da giocatore ai Knicks, con i quali vinse un
titolo, girava in bici e fumava marijuana. «È stato quello l’anno in cui abbiamo cominciato a costruire le cose», sintetizzò Krause.
Lazenby tratteggia con cura le figure degli assistenti allenatori, perlopiù disconosciuti alla nostra
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anche l’assistente Phil Jackson, figlio di predicatori pentecostali, con un buon curriculum in Cba. Lui si
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Krause aveva inserito nello staff di allenatori, col mandato di osservatore delle squadre avversarie,
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latitudine. Jordan legò con un altro assistente Johnny Bach, approdato nel 1986 al fianco del giovane ed
emotivo capo allenatore Doug Collins. L’appassionavano i suoi racconti sulla Seconda guerra mondiale,
ma in realtà amava la sua capacità di ascoltare e motivare. «Attacca il ferro Mike!» In quell’annata lo
prese subito alla lettera: ventotto volte a segno con più di 40 punti, sei oltre quota 50. Collins mostrava
una certa reticenza verso Winter e il suo Triangolo, lasciato nell’ombra. Il 6 luglio 1989 subì un esonero
duro da digerire. Dopo quattordici anni di assenza i Bulls erano tornati in una finale di conference.
Phil Jackson stava pescando in Montana, quando Krause gli comunicò la promozione a primo
allenatore. Difesa e Triangolo la ricetta. Già nel 1988 il direttore generale aveva messo la coppia
Jackson-Winter alla guida della versione estiva dei Bulls. Tex avrebbe dovuto insegnare gli elementi del
suo sistema a Phil. Organizzare la pressione difensiva da esercitare sulla palla, sugli avversari: dal primo
ritiro di preparazione Jackson puntò tutto sulla difesa. Il mosaico andava componendosi con la scelta al
Draft 1987 di Scottie Pippen: «Anche se il suo corpo ancora non c’era, potevi vedere dei segnali»,
secondo Michael. Diverrà un fratello minore. Pippen costituiva una coppia micidiale di ali con Horace
Grant, mentre in post basso Bill Cartwright valse il sacrificio di Oakley. La dinastia di Chicago si resse sulla geometria di tre poteri, che Lazenby descrive magnificamente ed è
un trattato di psicologia del lavoro. Krause, Jackson e Jordan tiravano la corda fra contrasti furibondi
senza smarrire l’obiettivo comune. L’allenatore, con il suo approccio psicologico allo sport sui generis,
non difese la bugia che tutti sono uguali. Pose Jordan al vertice della gerarchia interna, ben definita, e
gli impose dei limiti. «Jackson, con i suoi rituali ispirati ai nativi americani, nutriva un grande amore
per la propria squadra, senza mai cercare il suo affetto». Suonava il tamburo, per chiamare a raccolta
prima della competizione, e proteggeva la squadra dalle potenzialità distruttive della sua stella e della
sua esistenza mediatica. Occorreva demolire parte di quel mondo cresciuto intorno al campione e
rafforzare l’identità di squadra: «La sua vita lo allontanava dai compagni. C’erano molte cose che
potevamo fare per integrare meglio Michael nella squadra».
Gli ultimi cinque minuti del primo trionfo a Los Angeles rappresentano l’istantanea di un’idea che si fa
corpo: «Non ho mai perso la speranza», Michael piangeva e abbracciava il padre.
L’anno seguente i Bulls contro la solida Portland di Drexler oltrepassarono il confine che distingue
l’episodio dalla serie: «Vincere due campionati di fila è il marchio di una grande squadra». Con il mito
dell’infanzia, Johnson, rinnovò l’appuntamento. Storie da Dream Team, anche a Barcellona la partita era
interna, affacciati da una camera d’albergo sul mondo. In allenamento con Pippen, Ewing, Malone e Bird
dalla sua parte Michael inflisse un’altra rimonta furiosa a Magic. Nella finale per l’oro la Croazia di
Petrovic ottenne nella sconfitta lo scarto minore del torneo, meno 32.
Il giocattolo può rompersi? Nella stagione ’92-’93 il percorso è più accidentato, ma in campo gli ostacoli
non sono tali dall’impedire la prima tripletta di titoli. La Phoenix di Barkley s’arrese ai 41 punti di media
di MJ nelle finali, che infranse il record detenuto da Rick Barry dal lontano 1967.
Del gioco non bisognerebbe approfittarsene, sosteneva Michael. Il sentimento deve essere onesto.
Onesta fu la sua scelta di rimettersi in discussione dopo l’evento del 6 ottobre 1993, quando
annunciarono al mondo il suo ritiro. La ricerca della felicità per quasi due anni aveva imboccato una
strada secondaria. Sulle spalle un numero diverso, il 45 di Larry alla Laney High School. Aleggiava la
domanda: è finito il tempo del sovrano assoluto? L’ottima Orlando di Shaquille O’Neal, Grant, Hardaway
e Anderson avvalorò la tesi.
L’estate del ’95 a Hollywood fu particolare. C’era un film da girare. Space Jam aggiunse un capitolo
inedito al rapporto di massa di Michael con la società americana e la sua dimensione globale. Un incasso
da quattrocento milioni di dollari e il campo d’allenamento, lì, nel bel mezzo degli Studios. Con Harper e
Pippen gettarono le basi dell’annata perfetta della squadra più forte di tutti i tempi: il giocatore più
forte, Pippen miglior giocatore stagionale e il miglior rimbalzista. Sì, nel frattempo aveva firmato Dennis
Rodman, un pagliaccio con entusiasmo, muscoli ed energia da vendere. Il preparatore Tim Grover
rimodellò il corpo e restituì l’efficienza di un atleta ormai trentatreenne. Il massacrante programma
estivo fu protratto per l’anno intero. Michael debuttò con 42 punti e i Bulls inanellarono cinque vittorie
Al Draft 1996 sbarcò sul pianeta Nba una nuova generazione di talenti straordinari: Allen Iverson, Kobe
Bryant e Ray Allen. Be like Mike non lo vendeva solo la Gatorade. Riempiva le cronache, ma l’originale,
la vecchia scuola e il cuore dei Bulls avevano appena ricominciato a pulsare in ritmo.
Flu game
Si presentò al campo con la consueta eleganza, ciondolando quasi a favore di telecamera. Sostennero
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difesa del tostissimo Gary Payton l’unico argine sommerso con la forza del gruppo per il quarto anello.
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consecutive: la migliore partenza nella storia del club. Chiusero con 72 vittorie e dieci sconfitte. La
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07-08-2015
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che avesse vissuto una delle sue nottate. La versione ufficiale parlava di un malessere fisico. Non si
reggeva in piedi. In quella gara cinque di finale bisognava ridimensionare l’intraprendenza dei Jazz,
Stockton to Malone, dopo essere rimasti sugli standard dell’annata precedente con 69 vittorie. Utah
scappò sul +16, salvo poi farsi riprendere a ogni strappo dall’influenzato. Spalmato sulla sedia, i time
out sono utili a mettere la borsa del ghiaccio sul collo.
Non lo tengono proprio. Viaggio in lunetta; ne realizza uno su due. Il rimbalzo è di squadra a 40” dalla
conclusione, 85-85. La circolazione perimetrale della palla è rapida. Michael è in punta, fuori dalla linea
da tre punti. Pippen è in post basso, spalle a canestro. Dialogano con due passaggi. Poi lui si alza, 88-85.
Dopo l’errore per il pareggio, i Jazz non riescono a bloccare il tempo col fallo sistematico, perché la
palla fra i Bulls gira ancora velocissima. Pippen poi lo scorta in panchina. Lo solleva. Due pugni al cielo
per Mike. Il sorriso composto e consapevole di Jackson. I Jazz cedono partita e nella successiva il
quinto titolo.
«Non sono i giocatori a vincere i campionati, ma le società».
L’equilibrio dei poteri ormai s’era rotto. Jackson aveva eretto un muro tra giocatori e società, il mondo
fuori, per tenere in un pugno la situazione. Krause reclamava il primato dirigenziale. Per Michael quella
era una squadra senza tempo, che tanto ancora avrebbe potuto dare. Dovevano rinnovare il rapporto
con Phil Jackson e adeguare lo stipendio di Pippen. Reinsdorf e Krause sull’altra riva volevano
accelerare il ricambio. Mettersi alle spalle l’era Jordan, spietato nell’invettiva contro il suo dirigente,
per favorire il rinnovamento. Sarebbe stata l’ultima volta insieme. Steve Kerr, oggi coach, fresco
campione in carica con Golden State, rievoca uno di quei momenti destinati a restare nello spazio
mistico dello spogliatoio. Alla fine della stagione regolare 1998 Jackson assegnò un compito ai propri
giocatori: scrivere qualche riga sulla propria esperienza nella squadra. Michael scrisse una poesia,
qualcosa che restasse nel vento. «Tra i tanti momenti potenti che Phil ci ha lasciato in eredità, quello è
stato di gran lunga il più forte. Ci aveva fatto comunicare e unito in tanti modi diversi».
The Shot
L’ultimo atto per il sesto titolo ha un prologo, narrato dal protagonista nel discorso di introduzione alla
Hall of fame. Nel 1994, a Chicago, non aveva alcuna intenzione di tornare sul parquet. L’ala dei Jazz
Bryon Russell lo importunò imprudentemente: «Perché hai lasciato? Sapevi che ti avrei potuto
marcare. Posso spegnerti». Nel 1996 quando lo rincontrò, al centro del campo, Michael lo invitò a
mantenere il proposito. Correva l’anno 1998, gara 6 a Salt Lake City. Manca un passo solo. Malone in
post basso è stretto nel raddoppio dei Bulls, palla recuperata da Jordan. Russell è in ritardo sullo
scivolamento difensivo, una frazione che lo sbilancia e l’occasione si vanifica. Michael muove l’attacco a
8.6 secondi dalla fine: partenza in palleggio, passo indietro. Ha creato la solita giusta distanza. Russell è
giù per terra, 87-86. Lui è stato elegante, pulito, nell’esecuzione, come la prima volta nel 1982. Con le
mani urla che sono sei. Poi cerca Phil per l’abbraccio definitivo. Il resto è storia dell’oggi, del tempo da impiegare e delle sue rughe. È il proprietario dei Charlotte
Hornets. Ogni occasione appare propizia per annunciare una qualche forma di ritorno sul proscenio,
dove ha mimetizzato la gioia e i dolori più intensi. «Potreste alzare lo sguardo e vedermi giocare a
cinquanta anni. Non ridete. Dico a voi, non ridete. Mai dire mai. I limiti, come la paura, sono spesso
un’illusione». Che cosa pensi di me papà?
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Dennis Rodman, Doug Collins, Gabriele Santoro, Giulio Di Martino, H a r v e y G a n t t, H o r a c e G r a n t, J a m e s
R a y m o n d, James Raymond Jordan, J e r r y K r a u s e, Jerry Reinsdorf, J u a n i t a V a n o y, L a c y B a n k s, L a r r y B i r d,
L e r o y S m i t h, Magic Johnson, Michael Jordan, Mike Krzyzewski, M u h a m m a d A l i, Phil Jackson, Philip
K n i g h t, Pop Herring, Roland Lazenby, Scottie Pippen, Sergej Alexandrovic Belov, Shaquille O'Neal, S o n n y
V a c c a r o, S t e v e K e r r, T e x W i n t e r, T i m G r o v e r, Tom Konchalski, Toni Morrison, Walter Ioos, W i l t
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