leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
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ad est dell’equatore extras 34 le attese opificio di letteratura reale / 2 a cura di elisabetta abignente e emanuele canzaniello un progetto ideato e diretto da francesco de cristofaro e giovanni maffei ad est dell’equatore © 2015 ad est dell’equatore centro direzionale isola E5 80143 napoli www.adestdellequatore.com [email protected] questo libro Il lettore ci perdonerà se non abbiamo considerato superfluo spendere poche righe in più per indicargli la doppia ambizione in cui perdura e riposa il volume ipertrofico che ha in mano. Perdura innanzitutto perché Le attese sono il fratello minore di un altro libro. Il presente volume dovrà quindi chiarire che rapporti intrattiene con esso e poi accettare il fatto di essere un nuovo tentativo – o se si vuo le un nuovo azzardo, più ambizioso e più esteso. Risalendo a quell’i nizio se ne scorgerà fin dalle «soglie» la dichiarata matrice comune. Innanzitutto perché Le attese, come Delle coincidenze, è il risultato del lavoro di molti, di un intero Opificio di letteratura reale; la numerazione dei due lavori ne tradisce la natura seriale e ammette una continuità. Prima di presentare questo libro andranno quindi fatti scorrere dei titoli di apertura per illuminare al meglio la natura e le compo nenti di quest’Opificio. Si dovrà poi ammettere di essere chiamati a delle precisazioni sui termini scelti. Perché è un opificio e non un altro luogo, perché coinvolgere la letteratura e addirittura il reale? Se l’Opificio è un seminario permanente e dislocato, un luogo, esso è nel contempo (secondo la felice definizione di Eutopia) l’assenza di un luogo che lo determini e lo strutturi. La prima opera realizzata nell’officina non è stato il bigger book intitolato Delle coincidenze; la prima opera è stato già l’impulso a immaginare che potesse esistere, riconoscersi e interrogarsi, una comunità di giovani studenti, studiosi, 6 dottori di ricerca e ricercatori, tutti legati, in modo più o meno diretto, con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Quest’impulso a incontrarsi intorno a un progetto comune proviene intero e diviso da Francesco de Cristofaro e da Giovanni Maffei, primi “utopici” ideatori dell’Opificio, coordinatori scientifici del gruppo e di questo libro. L’energia sprigionata nella fortunata stagione delle Coincidenze – e subito convogliata in un libro che, grazie alla fiducia di un editore come Carlo Ziviello, è giunto oggi alla sua seconda edizione firmata ad est dell’equatore: Delle coincidenze, a cura dello stesso de Cristofaro e di Chiara De Caprio, ad est dell’equatore, Napoli 2015 – non poteva certamente andare dispersa. Nell’autunno del 2012, raccogliendo per la seconda volta l’invito delle associazioni Soup e A voce alta e potendo contare sull’appoggio e l’incoraggiamento della Fondazione Premio Napoli, l’Opificio si è riunito intorno ad un nuovo tema – quello del le Attese – ampio, pericolosamente sfuggente, quanto estremamente stimolante per chi voglia occuparsi, a vario titolo, della complessa e affascinante relazione tra letteratura e realtà. Tema letterario fecondo e intramontabile, l’attesa si configura, nei testi, non soltanto come il riflesso di uno stato d’animo condiviso dall’uomo di ogni tempo e sviluppato in infinite varianti a livello individuale e collettivo, ma an che come strategia messa in campo dall’autore per catturare l’atten zione del lettore, al fine di coinvolgerlo nel misterioso meccanismo della trama. Riflettere sui modi in cui l’attesa entra nelle pagine della letteratura e si fa testo ci offriva così la possibilità di porci proprio lungo quella irresistibile soglia tra letteratura e realtà, tra testo e mon do, che anima sin dai suoi albori i lavori dell’Opificio. Nel tentativo di incanalare i molteplici spunti di ricerca che un ar gomento così ampio metteva inevitabilmente in moto e nello stesso tempo di arginare un concreto rischio di dispersione, Francesco de Cristofaro e Giovanni Maffei hanno progettato un marchingegno più complesso di quello sperimentato, in forma quasi del tutto sponta nea, nella stagione precedente. Nella primavera del 2013, la storica Aula Piovani del Dipartimento di Studi Umanistici, allora diretto da un amico della prima ora dell’Opificio, Arturo De Vivo, è stata lo 7 scenario di una fitta serie di incontri: sei per la precisione, preceduti da una tripla introduzione (Penelope e Maria, con le letture speculari, a opera di Marino Niola e di Elisabetta Moro, di due mitologie femmi nili dell’attesa; Apocalisse, andata in scena di 12.12.12 e culminata in una straordinaria performance di Mimmo Borrelli; Godot, impreziosita dalla lezione magistrale di Aldo Masullo) e seguiti da una doppia con clusione di workshop. Incontri lungo i quali sono stati forniti, della macrocategoria dell’attesa, dapprima una semantica storica e una fe nomenologia, poi una serie di approfondimenti sulle relative declina zioni storiche, teologiche, erotiche, narrative, estetiche. Protagonisti di queste intense giornate-evento, in cui la riflessione sui testi letterari si è alternata con la proposta di contributi audio visivi e performances di attori, nell’idea di una continua e necessaria intersezione con altri saperi, linguaggi, esperienze, sono stati da un lato i membri dell’Opificio (laureandi, dottori e dottorandi di ricerca riuniti in gruppi coordinati da coppie di tutors già dottori di ricerca); dall’altro i numerosi ospiti di prestigio ai quali siamo riconoscenti per aver voluto arricchire e sistematizzare, con la loro maturità e profes sionalità, le riflessioni, talvolta acerbe, di noi studenti e giovani stu diosi. È con sincera gratitudine che ricordiamo la partecipazione alle nostre giornate di Gabriele Frasca, Francesco Storti, Giuseppe Merli no, Domenico Conte, Matteo Palumbo, Andrea Mazzucchi, Antonio Gargano, Francesco Saponaro, Paolo Amalfitano, Giancarlo Alfano, Tomaso Montanari, Corrado Calenda, Ugo Maria Olivieri, Valerio Petrarca, Stefano Manferlotti, Gennaro Carillo, Orsetta Innocenti, Antonio Saccone e Romano Luperini e di alcuni giovani ricercatori come Virginia Di Martino, Elvira Godono, Annalisa Carbone, Ange la Leonardi e Pasquale Palmieri. Ma da quella primavera d’incontri sono in effetti trascorsi più di due anni, e non sarà certo solo questo libro così ponderoso a giustifi carli, anzi. Il seguito dei progetti attuati o ancora in corso che lo affian cano, se non riescono a ridimensionarlo nella mole, certo lo alleggeri scono di qualche responsabilità. Il volume di lavoro sviluppato, primo criterio per registrare e misurare lo stato di salute dell’Opificio, ben più dell’opera in sé conclusa, si è articolato in almeno tre diramazioni. 8 La prima e più vasta ha raccolto, nel segno di The Bourgeois. Between History and Literature di Franco Moretti, sette Approssimazioni al siste ma-nebulosa che definiamo Borghesia. Sette approssimazioni significa sette diversi tentativi di accerchiamento per far apparire la Cosa, la Borghesia. Sette gruppi di studio che hanno elaborato un approccio seminariale al problema, alle sue declinazioni, e alla sua sterminata bibliografia critica ormai di diversa gestione per forze individuali. Il primo dei laboratori ha affrontato la categoria secondo un approccio iniziale di abbecedario e ricognizione lessicale del problema e delle sue definizioni. La seconda approssimazione ha delimitato l’area filo sofica a cui appartiene la costellazione borghesia. Il terzo approccio ha iscritto la categoria entro i suoi confini storici, il quarto entro i sacri recinti dell’antropologia, il quinto entro i profani reticoli del la sociologia, il sesto entro il perimetro metallico della linguistica, il settimo e ultimo sigillo è stato quello della riconfigurazione e della rappresentazione letteraria. Lontani dal farne tavole della legge, o una nuova narrazione hegeliana, questa complicata numerologia ha pro dotto più semplicemente degli ebook per ognuna di queste articola zioni. Libri per un avvicinamento al più indefinibile dei corpi stabili che abitano o hanno abitato lo spazio del reale, il corpo borghese e la borghesia come corpo o come stato della socialità. La seconda diramazione di quest’unica narrazione fluviale dell’epos borghese è stata forse la più aperta, la più apertamente seducente e benevola col pubblico. Si è trattato, dal vivo dell’oralità, di Accoppiamenti giudiziosi, presto si tratterà in volume, di una serie di appuntamenti che hanno discusso e messo a confronto due romanzi, riuniti o separati dal coniugium borghese, accostati e fatti brillare di volta in volta dalle illumi nanti conversazioni avute con i nostri ospiti. Ospiti che arricchiscono ulteriormente la fortunata lista accennata in precedenza, aggiungendo nomi, anche qui in rigoroso ordine di apparizione, che vanno da Sergio De Santis a Riccardo Martina, da Francesco De Sanctis a Francesco Fiorentino, da Aldo Mazzacane a Clotilde Bertoni, da Pierluigi Pellini a Guido Mazzoni, Valerio Magrelli e molti altri ancora. A questo punto il lettore sarà già saturo e spaventato a sufficienza, sia dalla mole del volume che abbraccia, sia dalle diramazioni 9 numerologiche dei lavori squadernati finora. Ci limiteremo ad aggiungere soltanto un cenno all’allestimento permanente in corso di due differenti workshop intorno ai Soggetti e agli Oggetti articolati dal discorso borghese e nel discorso sulla borghesia. Ora, appressandoci alla conclusione di questo preambolo, possia mo concederci di chiarire lo scopo primario di questa soglia al testo, o meglio ai testi di questo volume composito per statuto, e non solo per architettura interna. Al primo sguardo siamo orientati in questo libro dalle cinque sezioni che lo strutturano e che il lettore conoscerà presto. Ognuna di esse è introdotta dalle parole dei tutors curatori delle rispettive giornate, ai quali è affidato il compito di esplicitare la precisa angolazione critica dalla quale ogni gruppo di lavoro ha guar dato al macrotema dell’attesa. In chiusura di volume non troveremo invece i lavori maturati nelle due giornate di workshop sotto la guida di Vittorio Celotto e Antonio Del Castello, solo perché il loro lavoro e quello di quanti parteciparono al workshop è confluito all’interno delle cinque sezioni principali. A sigillo conclusivo accogliamo l’o maggio inatteso di Arrigo Stara, ideale introduzione a una psicanalisi dell’attesa, mai separabile dal sigillo nuziale finale, ironia borghese e sublimazione dell’attesa, nelle parole di de Cristofaro e Maffei. L’eterogeneo e il molteplice, dall’eutopia fondativa dell’Officina alle polifonie del romanzo, non possono che essere la condizione non prescindibile anche di questo libro, inatteso per due anni e fi nalmente in-compiuto. Un libro per sua ragione interna legato a una modalità di produzione che potremmo paragonare a quei rari tentativi di catturare il suono esatto di un ensemble di strumentisti diversi: di versi per strumenti, timbro, attitudini, allenamento, tempi, lasciati lì a suonare senza troppi interventi o indicazioni, con lo scopo di fissarne il suono intatto, espresso e non nascosto da tentazioni successive di riallineare, perfezionare, uniformare tutto. Il 99% di come doveva “suonare” questo libro era già stato stabilito, condiviso e creativa mente formalizzato due anni fa durante la stesura di ogni singolo intervento. Il nostro compito finale di curatori è stato quello di “regi strare” in una forma quanto più stabile possibile, uno stato dei lavori non stabile per sua natura e per lo statuto che si è dato. Le peculiarità, 10 le debolezze, il timbro e le preferenze di ogni lavoro, e di ciascun autore, sono stati rispettati, cercando di ottenerne un libro unitario attraverso la minima incidenza visibile che si possa sperimentare in un’ipotesi editoriale con questi numeri e queste misure. Per quanto il tempo ci sia stato per assimilare le riflessioni spontanee delle giornate di Opificio, abbiamo voluto comunque lasciare, per quanto possibile, il senso, tatto e sapore, non di un’opera rifinita ma di un manufatto artigianale e perfettibile. Napoli, 30 settembre 2015 Elisabetta Abignente e Emanuele Canzaniello I and nothing is but what is not (yet) coordinamento scientifico di emanuele canzaniello e paola di gennaro My thought, whose murder yet is but fantastical, Shakes so my single state of man That function is smothered in surmise, And nothing is but what is not. W. Shakespeare, Macbeth, I.3 And Nothing is but What is Not (Yet): «E niente è se non ciò che non è». Macbeth dà il titolo a questa prima sezione del volume, con un’affermazione cui è stato aggiunto un ambiguo, incidentale «ancora», visionario e positivistico al tempo stesso. Questa allusione messianica è la premessa sottesa ai saggi che seguiranno, dedicati all’attesa storica e mitologica, religioso-messianica e apocalittica, e le sovrapposizioni tra queste, che sono spesso rivelazioni di uno stesso principio. Sono entrambe, quasi sempre, attese di un bene – il progresso, la luce, la verità, la salvezza – ma che in alcune distorsioni realizzano ambiguità e articolazioni più complesse. Così come la immaginiamo, l’attesa storica nasce dall’attesa della modernità, che fu costruita – e poi in qualche modo ricostruita – dall’Illuminismo e successivamente dalla discussione sull’Illuminismo stesso. È l’attesa di un comandante, di un re, di un uomo politico, della repubblica. L’attesa messianica è, d’altro canto, quella di un Salvatore, 12 paola di gennaro di un profeta, o, volendo spingere la definizione sino alle sue estreme propaggini, proprio della rivelazione apocalittica. A questo punto è forse pertinente mettere in campo tre suggestioni per estendere questi temi oltre schematismi troppo facili. 1. Nelle successive sezioni del volume leggeremo per lo più di attese escatologiche: attesa di fasi della vita, attesa d’amore. Ma emergerà forse anche che, in qualche modo, l’attesa può consistere anche di una circolarità, di una coazione a ripetere che parrebbe essere proprio l’aspetto tipico di colui che attende: ci si potrebbe quindi chiedere, nella circolarità, nella ripetizione, sia essa strutturale o tematica – su tutti, Waiting for Godot – nell’annullamento dell’aspetto teleologico, l’attesa come cambia di forma e significato? È questo il caso in cui realmente l’attesa è tale, più che negli altri? In letteratura l’attesa si perde o si rafforza nella ciclicità? 2. Come si è modificata l’immagine del “Salvatore” nei testi letterari, ma in generale, nelle assiologie culturali occidentali, nel corso del tempo? Prima era, nella Bibbia, il Messia; poi è diventato il re, poi il cavaliere, e poi il rivoluzionario, da Masaniello e Robespierre a Che Guevara; poi l’uomo comune che però ha una caratteristica vincente; infine, direi, in una delle sue manifestazioni più moderne, è diventato l’uomo geneticamente superiore, che riesce a scampare incolume alle epidemie del novel fantascientifico e dei film hollywoodiani, salvando il resto dell’umanità – come ad esempio nel film dal titolo paradigmatico I Am Legend (2007), tratto dall’omonimo romanzo di Richard Matheson del 1954, e di cui erano stati già prodotti due adattamenti, nel 1964 e nel 1971. Evidente quindi un radicale cambiamento di direzione nell’immaginario collettivo: la salvezza non è più ideologica ma fisiologica, il Salvatore è diventato colui che è immune. A oggi, l’Occidente dopo Cristo ha selezionato naturalmente le virtù per la sua salvezza partendo dalla carità del Messia, passando per la forza (morale) del cavaliere, per arrivare alla chimica medica. 3. Più che una suggestione, è un memorandum: i saggi che seguono prendono in esame quasi unicamente testi di attese del e sull’Occidente: ma sarebbe interessante parlare di Asia, ad esempio, dove è evidente che l’attesa ha culturalmente delle valenze opposte; and nothing is 13 semplificando al minimo, l’attesa di buona parte dell’Oriente è priva proprio di quella spinta teleologica che invece caratterizza quella occidentale: dalla ruota karmica, che si oppone alla finalità apocalittica – il Nirvana stesso è sì una meta da raggiungere, ma questa meta più che un radicale cambiamento si manifesta nell’azzeramento del tutto, quasi un’attesa eterna e benefica, si potrebbe dire – alla filosofia zen, ma anche al kamasutra, per il quale il piacere è l’attesa stessa. Una sospensione antifinalistica, in netta contrapposizione alla società occidentale, almeno quella moderna, liquefatta da consumo e target, dall’ossessione del raggiungimento della felicità, citata nella stessa costituzione americana, o del possesso, sia esso arrivismo, snobismo, stalking, o groupismo. Il saggio introduttivo di questa sezione, la Nostalgia dell’inorganico di Emanuele Canzaniello, affronta la relazione etica ed estetica tra attesa e nostalgia del nulla, e fornisce poi uno schema che possa mettere a sistema le relazioni tra attesa e storia, l’individuale e il collettivo. Snodi da attesa ed escatologia, «biforcata a sua volta in escatologia sacra ed escatologia politica o mondana». Seguono due ragionamenti intorno al rapporto tra attesa e mito in letteratura, attese che rispecchiano tempi e temporalità delle società che le producono. Bruna Corradini analizza il mito arturiano, come riscritto in più versioni, liriche e in prosa; riscritture che implicano motivazioni politiche per scelte di attesa che devono essere traman date dalla letteratura, in nome di un popolo e per esso. Elena Munafò tocca invece l’attesa mitologico-messianica nel T. S. Eliot della Waste Land, in cui il mito fa nascere l’attesa di una rinascita, e si mescola con l’attesa-incontro di Emmaus, e infine con le immagini dell’apo calisse cristiana. Il deserto, sterile, diventa l’Apocalisse – ponendo nella manifestazione di una fine desiderata la positività che è propria dell’attesa stessa, contraria alla sterilità descritta nel poema e prece dentemente rappresentata dalla profezia vuota del poeta-veggente. Francesco Serao articola poi un discorso sull’attesa di libertà – intesa come «la capacità di creare varianti» tra presente, passato e futuro – che è viva soprattutto tra i carcerati; un discorso modulato soprattutto attraverso una lettura delle Memorie della casa dei morti di Dostoevskij (1861), in cui sono i Vangeli a offrire una possibilità di attesa che si opponga alla morte. Nel saggio successivo Ernesto Severino, prendendo in esame Il deserto dei Tartari (1940) di Dino 14 paola di gennaro Buzzati e il racconto L’attesa (1949) di Jorge Luis Borges, costruisce un percorso attraverso diverse declinazioni dell’attesa narrativa, tra caso e necessità, laddove questi «si alleano dando al destino stesso un senso (il senso della vita)», oppure disegnano un ordito volutamente sterile, «un destino di vuoto in cui l’accordo tra caso e necessità non avviene». Seguono studi che trattano un’attesa vista e scritta da un punto di vista diverso, ovvero, attesa messianica e/o apocalittica; attesa, kermodianamente parlando, di una fine, o, in maniera meno teleologica, di un profeta, di un salvatore, di una figura politica che cambi lo stato delle cose. Così come nell’ouverture del film di Lars von Trier, Melancholia, in cui il mondo viene schiacciato dal suo stesso peso, fisico e psicologico, questi saggi, tutti di ambito sudamericano, raccontano di libri che ruotano interamente intorno a un’attesa più o meno esplicitamente apocalittica. Quello di Viviana Pezzullo analizza il racconto di Gabriel García Márquez Nessuno scrive al colonnello (1958), in cui si attende, si espera, cibo, una lettera, una pensione, il combattimento di un gallo, e rinnovamento sociale, collettivo. Segue l’attesa apocalittica dei testi letterari e cinematografici esaminati da Isabella Puca: quella rivelatrice delle Bave del diavolo (1959) di Julio Cortázar, adattato poi nel 1966 da Michelangelo Antonioni in Blow-up, e poi del racconto autobiografico Apocalisse di Solentiname, nel tentativo di identificare i contorni di metafore e allusioni nella rappresentazione fantastica della fine. A seguire, il saggio di Mara Imbrogno sul romanzo del 2000 dello scrittore messicano Jorge Volpi, El juego del Apocalipsis, il cui titolo allusivo fa riferimento al gioco dissacrante intorno al tock, per dirla ancora con Kermode, nella società contemporanea, nel tentativo di sfuggire a un destino per poi andarvi incontro; attesa di una fine già scritta, il rifiuto di una profezia e quindi attesa mancata, un’attesa non desiderata. Infine, Francesco Sielo ci conduce nel campo della riflessione filosofica con Simone Weil e i suoi Cahiers, dalla premessa di un’attesa che è sempre del vuoto, «inevitabilmente mancata», fino al riconoscimento del doppio genitivo dell’attesa di Dio, all’attesa della bellezza – unica forma della sua esistenza –, della verità e del significato, e alla rivelazione che ogni attesa è una doppia attesa, «una dinamica, un campo di reciproche attese che coinvolge ogni singolo uomo all’interno di un disegno complessivo, che potremmo weilianamente definire come la creazione di Dio». and nothing is 15 Per concludere con un’ultima suggestione, e per riprendere il tema dell’Opificio della scorsa edizione, una coincidenza linguistica che ha che fare con l’attesa, per la gioia dei traduttori dal giapponese: benché si scriva con caratteri diversi, in giapponese matsu significa sia “pino” che “aspettare” – la poesia classica giapponese si è divertita molto con questi omofoni, utilizzandoli retoricamente come kakekotoba, “parole perno”. Ecco, coincidenza ha voluto che in inglese la parola “pine” possa significare, oltre all’albero di pino, qualcosa che se non significa esattamente “aspettare”, è forse qualcosa che affiora ancor più nelle attese che si leggeranno, in varie declinazioni, nelle pagine a seguire: è la brama di qualcosa di inarrivabile, “agognare”, “struggersi”, “languire di desiderio”. Paola Di Gennaro