Microsoft PowerPoint - I PARTE filos lavoro
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FILOSOFIA e LAVORO Aspetti di storia della filosofia del lavoro e di pratica filosofica per il lavoro Matteo Bonifacio Dottore in Filosofia Corso di formazione interna per i dipendenti della Provincia di Asti – Servizio Agricoltura Esiste un luogo comune/pregiudizio nei confronti della filosofia, secondo cui la filosofia non ha nulla a che vedere con la vita reale. Questa disciplina è totalmente avulsa dalla vita di tutti i giorni, totalmente astratta e non serve per risolvere i problemi quotidiani. Infatti spesso alcuni chiedono :“ma che cosa si fa con la filosofia?”. Questa domanda poggia su un assioma invalso ormai da almeno due secoli, per il quale tutto ciò che non produce non ha valore. E quindi tutte le discipline che non producono un oggetto concreto – filosofia, poesia, musica – vengono bollate come “inutili”. Lo scopo di questo corso è di dimostrare che la filosofia offre la possibilità di riflettere su molte questioni dirimenti per l’esistenza dell’uomo e gli esiti di questa riflessione possono avere ricadute concrete e materiali sulla vita di tutti i giorni. Questo sarà molto evidente nel nostro caso, poiché volgeremo la nostra attenzione ad un concetto col quale ciascuno di noi avrà, ha o ha avuto a che fare: il concetto di «LAVORO». Questo corso si articola in due parti: La prima è più teorica e mira ad una sintetica ricostruzione del concetto di lavoro nella storia delle idee La seconda, invece, propone alcuni problemi del lavoratore contemporaneo e le risposte che la filosofia del lavoro offre I PARTE IL LAVORO NELLA STORIA DELLE IDEE Articoliamo questa parte in 6 capitoli: a) «lavoro»: alcune considerazioni etimologiche b) Il lavoro nel messaggio cristiano c) Il lavoro nel pensiero greco d) Il lavoro dall’Umanesimo e) Il lavoro nell’età moderna (dal XVII al XIX sec.) f) Il lavoro nell’età contemporanea (XX sec.) CHE COS’È IL LAVORO? È buona prassi, prima di iniziare di riflettere sopra una questione, definire i termini di cui ci occuperemo. In questo caso chiediamoci cosa significa la parola lavoro? Lavoro viene dal latino labor. Labor indica fatica, sforzo, pena, travaglio, dlore e talvolta anche sventura. Da labor dipende anche l’aggettivo laboriosus e il verbo laborare. E labor deriva da un altro verbo latino labare che significa vacillare, scivolare, cadere. Quindi il termine labor ha un’accezione negativa. In greco lavoro si traduce con πόνος che indica, anche in questo caso, sia lavoro sia fatica, sofferenza, dolore, fisico. πόνος ci porta a πένομαι = mi affanno, mi affaccendo, sono povero, lavoro per guadagnare da vivere ecc. e infine è evidente che la radice di πόνος ritorna nel sostantivo πενία = povertà, indigenza, bisogno. Quindi sia in greco sia in latino al termine lavoro è legato il senso della pena e della sofferenza. Questo senso si riflette anche nelle lingue moderne: 1. In francese: travail letteralmente vuol dire travaglio, che deriva dal tardo latino tripaliare, ovvero torturare con il tripalium. 2. In tedesco: abbiamo la parola Werk, da cui poi deriva la parola inglese work, e il verbo wirken. Ma lavoro e lavorare si esprimono soprattutto con Arbeit e arbeiten. Sono termini questi che non sono connotati negativamente come accade nell’italiano (lavoro), nel latino (labor), nel greco (πόνος), nello spagnolo (trabajo). Però forse anche Arbeiten nascde un’accezione che si ricollega al campo semantico della sofferenza. Secondo la filosofa tedesca Hannah Arendt Arbeit e Armut (povertà, miseria) derivano entrambi dal germanico arbm- che significa negletto, abbandonato (cfr. H. Arendt, Vita activa). quindi abbiamo già individuato un primo elemento fondamentale per la nostra ricerca: dal punto di vista etimologico la parola “lavoro” appartiene a un universo semantico ben preciso: quello della sofferenza e del dolore. Il messaggio cristiano Prima di vedere i contributi offerti dalla filosofia greca al concetto di lavoro, soffermiamoci su un testo non filosofico ma fondamentale per la cultura occidentale. «quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo –; allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. […]. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, vv. 4-15). Quindi: l’uomo sin dalla sua nascita deve lavorare. Uomo in ebraico è adàm e terra è adamath. Coltiva e custodisce un giardino collocato in una regione chiamata eden, dal sumerico edin = piana stepposa, desertica. Il giardino occupa una zona orientale; anche questo nome, in ebraico gan, è propriamente sumerico e significa un terreno irrigato e coltivato; in greco è stato tradotto con paràdeisos, da cui il nome di paradiso terrestre. Il paradiso è un giardino. «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi … . Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse “Dove sei?”. Rispose: “ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto. Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? Rispose l’uomo: “la donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato. Il Signore Dio di esse alla donna: “che hai fatto?”. Rispose la donna: “il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”. Allora il Signore Dio disse al serpente […]. Alla donna disse: “moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze con dolore partorirai i figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. All’uomo disse: “poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: non ne dee mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: potere tu sei e in polvere tornerai! […] Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il solo da dove era stato tratto». (Gen, 3, vv. 6-25). «Il Signor Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (Gen., 3, v. 23) Il pensiero greco Scegliamo di parlare di Esiodo e Aristotele – sebbene non siano entrambi filosofi - perché hanno due concezioni del lavoro opposte. Esiodo (VII a.C.) il poema didascalico di Esiodo dà molto spazio al lavoro dell’uomo. Esiodo divide la storia del mondo in cinque età: • • • • • Età dell’oro Età dell’argento Età del bronzo Età degli eroi Età del ferro Nell’età dell’oro gli uomini: «come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c'era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, ricchi d'armenti, cari agli dèi beati» in seguito si sono succedute altre stirpi, l’ultima è quella vive nell’età del ferro: «[…] né mai di giorno cesseranno da fatiche e affanni, né mai di notte, affranti; e aspre pene manderanno a loro gli dèi» Perché nella nostra età siamo costretti a soffrire = lavorare ? Esiodo risponde – sempre in quest’opera – con il celebre mito del vaso di Pandora Per punire Prometeo, che aveva osato rubare il fuoco per donarlo agli uomini, Zeus ordina la creazione di una donna, Pandora, e la manda in moglie al fratello di Prometeo, Epimeteo, il quale la accoglie. Pandora recava con sé un vaso, che per nessun motivo avrebbe mai dovuto aprire. Pandora era ricca di doni, tra cui quello della curiosità e pertanto aprì il vaso; immediatamente il suo contenuto uscì. Il vaso era stato riempito da Zeus con molti tipi diversi di mali. Scrive Esiodo: «ed Epimeteo non volle porre mente, come a lui Prometeo diceva, a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali: però solo dopo che l'ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì. Prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva lontano e al riparo dal male, e lontano dall'aspra fatica, da malattie dolorose che agli uomini portan la morte - veloci infatti invecchiano i mortali nel male -. Ma la donna, levando con la sua mano dall'orcio il grande coperchio, li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto. Solo Speranza, come in una casa indistruttibile, dentro all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell'orcio per volere di Zeus egioco che aduna le nubi. E infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n'è il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano, ai mortali mali portando, in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus. Così non è possibile ingannare la mente di Zeus». «a partire dal V secolo a.C., il messaggio esiodeo si appanna. L’antichità viene egemonizzata da un’idea che rimane costante, sia nel mondo greco che in quello latino: la vita degna di essere vissuta è quella che si può scegliere “in piena indipendenza dalle necessità della vita e dalle relazioni da esse originate”(Arendt, Vita activa)» [Peretti, 2008] ARISTOTELE Con Aristotele si radica con forza l’opposizione tra 1. Lavoro 2. Contemplazione Coloro che lavorano lo fanno perché costretti o dalla necessità o dalla loro condizione (schiavi). L’uomo è libero se e solo se può non lavorare, cioè non è costretto a dedicare il suo tempo a quelle attività finalizzate alla sua mera sopravvivenza biologica, ma può invece spendere il suo tempo per la meditazione e la politica. «La Politica è piena di argomentazioni volte a denigrare il lavoro manuale, espressione di schiavitù, di avvilimento della dignità umana e di menomazione dei diritti civili» «i cittadini non devono praticare una vita da operai o commerciante (vite ignobili e contrarie alla virtù) né dovranno essere contadini quelli che aspirano a diventare cittadini (perché la nascita della virtù e l’esercizio delle funzioni politiche esigono libertà dagli impegni di lavoro quotidiano» [cfr. Pol, VII, 9, 1328 b 40 sgg.] IL PENSIERO CRISTIANO «la filosofia e la prassi del cristianesimo, nei confonti della tradizione ellenica, riabilitano il lavoro, in quanto lo riscattano facendone uno strumento di penitenza e di merito morale; ma il lavoro non può mai, secondo questa dottrina, sottrarsi alla sua necessaria funzione strumentale e subordinata rispetto ai valori spirituali e religiosi» [Dizionario delle idee, Lavoro] Ricordiamo questa bella pagina di Sant’Agostino che valorizza il lavoro manuale contro coloro che si arricchiscono senza faticare (imprenditori e politici): «Una cosa è lavorare manualmente con animo sgombro, come l’operaio; un’altra cosa è tenere l’animo occupato dall’affanno di accumulare soldi senza lavoro manuale, come fanno gli affaristi o gli amministratori o gli imprenditori; infatti, si danno affannosamente da fare, ma non lavorano manualmente e, perciò, ingombrano il proprio animo del tormentoso desiderio di possedere» [De opere monachorum XVI] RINASCIMENTO Il Rinascimento è “innanzi tutto, un fatto di cultura, una concezione della vita e della realtà che opera nelle arti, nelle lettere, nelle scienze e nel costume” (E. Garin, La cultura del Rinascimento, pp. 9-10). Durante il Rinascimento, in altri termini, assistiamo alla nascita di una nuova antropologia, in forte contrapposizione con quella largamente diffusa nel medioevo. L’uomo acquista consapevolezza del suo valore, della sua dignitas e quindi «non si limita a contemplare, ma vuole anche agire» [A. Negri, p. 181]. In definitiva la terrra diventa Regnum hominis. non dimentichiamo che questi mutamenti a livello culturale rispecchiano profondi cambiamenti economici e produttivi. l’uomo diventa homo faber Nell’antropologia cristiana dedicare la propria vita alla contemplazione e all’ascesi costituiva uno stile di vita alto e nobile. Col rinascimento questo paradigma si infrange. L’ideale di vita a cui l’uomo rinascimentale aspira contempla tanto l’agere quanto l’intelligere. l’uomo rinascimentale ha in sé molte caratteristiche dell’uomo moderno: «l’antiascetismo umanistico giunge alla scoperta della realtà politoc-socialeeconomica del mondo moderno». La dignitas dell’uomo non è un concetto astratto che viene rispolverato a seguito della riscoperta dei classici, bensì è un concetto denso e concreto: «la dignità dell’uomo è … il lavoro per il quale ci si rende utili alla società». Gli autori da citare sono molti: Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Bartolomeo Fazio, Matteo Palmieri, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti. Soffermiamoci almeno su uno di questi umanisti, forse il più noto: Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). Egli è autore di una celebre oratio che può essere considerata il “manifesto” del Rinascimento: ORATIO DE HOMINIS DIGNITATE. Prese pertanto l'uomo, fattura priva di un'immagine precisa e, postolo in mezzo al mondo, così parlò «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, nι un'immagine propria, nι alcuna peculiare prerogativa, perché tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell'immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso. Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz'essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell'arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.» LA RESPUBLICA CHRISTIANA SI FRANTUMA: LA RIFORMA LUTERANA Prima di avvicinarci all’età moderna e contemporanea, vorrei spendere qualche parola sul ruolo non di secondo piano che ha avuto l’etica del Protestantesimo per quanto riguarda il lavoro. La “rivoluzione” luterana ha proposto un paradigma del lavoro che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo del capitalismo europeo. Ricordiamo almeno due elementi del contributo luterano alla riflessione sul lavoro: 1) Lutero introduce il ripudio del monachesimo e esalta lo svolgimento di occupazioni normali. Già durante l’attività lavorativa l’individuo serve dio. È Lutero che sposta il concetto di “vocazione” dall’ambito ecclesiastico a quello lavorativo e mondano. Svolgere il proprio lavoro significa ascoltare una vocazione divina: in questo modo Lutero dà un fondamento etico all’attività industriosa. 2) In secondo luogo, Lutero condanna l’inoperosità e la mendicità, ovvero tutte quelle forme di parassitismo ai danni della società. Chi poteva doveva lavorare. Età moderna (il Seicento) Nella modernità prosegue e aumenta lo sviluppo economico e scientifico, le cui radici già si rintracciano nel Quattrocento e nel Cinquecento. I grandi autori della modernità (Bacone, Cartesio, Hobbes, Locke) non si dedicano espressamente alla tematica del lavoro, ma valorizzano enormemente le arti pratiche (ad es. la meccanica) e di conseguenza i lavoro degli artigiani è fortemente rivalutato. Per esempio Cartesio pare volesse «costituire grandi sale per artigiani; destinare ogni sala per ciascun gruppo di mestieri …, rintracciare fondi sufficienti non solo alle spese richieste dalle esperienze, ma anche a compensare maestri o professori il cui numero sarebbe stato uguale a quello delle arti da insegnare. Questi professori dovevano essere esperti di matematica e di fisica per poter rispondere a tutte le domande degli artigiani, render loro ragione di ogni cosa e illuminarli al fine di compiere nuove scoperte nelle arti» (Baillet, La vie de M. Des Cartes, 1691) In sintesi: nel XVII secolo assistiamo alla fondazione di una salda alleanza tra teoria e pratica Età moderna (il Settecento) VOLTAIRE: si fa esaltatore del pregresso e dell’attività, raccomandando ad ognuno il proprio lavoro, imponendo a ognuno di coltivare il proprio giardino: il lavoro, infatti, elimina tre grandi mali del mondo: 1. La noia 2. Il vizio 3. Il bisogno Età moderna (l’Ottocento) Nell’Ottocento vediamo almeno: MARX (1818-1883) Il problema del lavoro subisce una profonda trasformazione nella seconda metà del XIX secolo a causa dello sviluppo del sistema capitalistico di produzione. Il pensiero marxista sul lavoro, come è noto, è molto corposo e una sua analisi sommaria richiederebbe molto tempo. Ci limiteremo in questa sede a evocare i grandi problemi sollevati da Marx in merito alla situazione lavorativa da lui osservata. IN PRIMO LUOGO: cosa vedeva Marx? Marx ha di fronte l’emergere di una forte divaricazione tra due classi sociali: coloro che lavorano nelle fabbriche (proletari) e coloro che possiedono i mezzi di produzione (capitalisti). All’interno dei questo rapporto sbilanciato a favore dei capitalisti, Marx ritiene giusto analizzare la condizione dei proletari e proporre una soluzione per annullare questa divaricazione. IN SECONDO LUOGO: qual è la risposta offerta da Marx per migliorare la situazione lavorativa? a) Marx ritiene che gli economisti non si siano mai soffermati ad analizzare i rapporti tra l’operaio e il suo lavoro e la sua produzione. Marx, invece, decide di analizzarli e individua in essi la presenza di un elemento essenziale: l’ALIENAZIONE. b) Alienazione = riguarda il rapporto dell’operaio con il prodotto del suo lavoro: tale prodotto è per lui un ente estraneo, ovvero appartiene al capitalista. Inoltre l’alienazione avviene anche durante l’attività produttiva ovvero l’operaio NON considera il proprio lavoro come parte della sua vita reale. c) Inoltre il lavoro viene trasfigurato: il lavoro dovrebbe essere quella attività peculiare che contraddistingue l’uomo dall’animale. Nel sistema capitalistico il lavoro diventa unicamente un mezzo di sopravvivenza individuale. d) La scissione tra uomo-lavoro è causata dalla proprietà. Il prodotto e i mezzi di produzione appartengono al capitalista e non all’operaio, il quale perde il senso della sua attività. e) Ergo per risolvere questa antitesi, occorre ABOLIRE LA PROPRIETA’ PRIVATA. La soluzione dell’alienazione coincide con il COMUNISMO, inteso non in senso primitivo, bensì come superamento della scissione tra uomo-lavoro. Il comunismo sarà non un regresso, ma un progresso della storia. Con il comunismo, al posto del capitalismo, l’uomo ritroverà se stesso nel lavoro: lavorare vorrà dire esprimere davvero se stessi. Invece nel sistema capitalistico l’operaio non altro che un “pezzo” del sistema produttivo. f) Il superamento del capitalismo può avvenire solo quando gli operai prenderanno coscienza della loro situazione coscienza di classe. Occorre allora sovvertire l’assetto capitalistico e pervenire a una nuova formazione economico-sociale. g) La prima fase di questo sovvertimento sarà caratterizzata, temporaneamente, dalla “dittatura del proletariato”. Questa cesserà nel momento in cui verranno meno le classi sociali e ognuno avrà secondo le sue capacità, e secondo i suoi bisogni. Questo è il motto del comunismo pienamente realizzato. Età contemporanea Nel corso del Novecento il problema del lavoro è stato affrontato da molteplici punti di vista. Esistono infatti diversi approcci: 1. 2. 3. 4. 5. Approccio antropologico; Approccio psicologico, psicosociologico, psicoanalitico; Approccio economico; Approccio giuridico: infine l’approccio filosofico. In questa sede è evidente che stiamo seguendo l’ultimo approccio e sarà altrettanto evidente che non si tratta di un interesse nato nel Novecento. La filosofia ha vivacemente interloquito con il lavoro sin dalle sue origini e questa discussione continua anche nel Novecento. le correnti filosofiche novecentesche sono molte e la maggior parte di loro si è dedicata al problema del lavoro. Vorrei soffermarmi su: 1 BERGSON (spiritualismo francese) 2 SCHELER (fenomenologia) 3 JASPERS (esistenzialismo) Bergson celebra l’homo faber: «se potessimo spogliarci di ogni orgoglio, se, per definire la nostra specie, ci attenessimo strettamente a ciò che la storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’uomo e dell’intelligenza, non diremmo, forse, affatto homo sapiens, ma homo faber» (L’évolution créatrice 1907). l’uomo è un homo faber: ovvero è l’uomo che compie atti intelligenti. Ma cos’è l’intelligenza? «è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali» . In ogni individuo è presente la capacità, o per usare le parole di Bergson lo slancio, di creare e produrre. Questo spirito di invenzione va, però, incontro a dei limiti: «senza contestare i servigi resi all’uomo, sviluppando largamente i mezzi per soddisfare i bisogni reali, gli rimprovereremo di averne incoraggiati troppo di artificiali, di avere spinto al lusso, di aver favorito le città a detrimento della campagna, da ultimo di aver allargato le distanze e trasformato i rapporti tra padrone ed operaio, tra capitale e lavoro» MAX SCHELER (1874-1929): figura centrale all’interno della Fenomenologia (corrente filosofica inaugurata da Brentano e Husserl). A partire con la fenomenologia e poi ancora di più con l’esistenzialismo assistiamo a una lenta, ma progressiva, svalutazione dell’attività tecnicooperativa dell’uomo. Per Scheler l’uomo contemporaneo non conosce i valori autentici dell’esistenza. Il lavoro è ha un enorme importanza in sé, ma viene esercitato solo in funzione del guadagno. Il valore del lavoro esiste a prescindere dalla ricchezza che può essere prodotta. il rapporto che l’uomo ha instaurato col lavoro è sbagliato e produce effetti pericolosi sul piano della volontà. Per Scheler vi è un mutamento profondo nella volontà di lavorare. La volontà si fonda unicamente su motivi relativi, terreni, instabili”. Occorre riacquistare una concezione spirituale del lavoro (Scheler era un pensatore attraversato da profonde inquietudini religiose). E per arrivare a possedereuna concezione spiritualistica del lavoro occorre molto “tempo libero”: per tempo libero Scheler non è un “riposo necessario in funzione della ripresa del lavoro”, bensì è un otium, ovvero uno spazio ritirato dal mondo concreto dei processi produttivi e lavorativi durante il quale ricercare il senso profondo del mio fare nel mondo. Per l’esistenzialismo, ovvero quella corrente filosofica nata dopo la prima guerra mondiale che ha al centro della sua indagine il significato dell’esistenza, vorrei soffermarmi per quanto riguarda l’ambito tedesco su KARL JASPERS. Egli è sì un esistenzialista, ma intrattiene con il lavoro un dialogo fecondo e propositivo. Scrive Jasper in un’opera del 1959: «quando nel lavoro quotidiano si perde il senso dell’intero in quanto suo motivo ed orizzonte, la tecnica degenera in una sorta di attività infinitamente molteplice, insensata per i lavoratori, in una spoliazione della vita. Quando quell’elemento essenziale del fare tecnico apprendibile attraverso l’esercizio diventa routine soddisfatta di sé, anzi che arricchimento di vita che procura ed assicura nozioni e servizi, ne costituisce, piuttosto, un impoverimento. Senza sforzo spirituale, indispensabile mezzo per il rafforzamento della coscienza, il lavoro diventa fine a se stesso. L’uomo sprofonda nell’incoscienza o nello smarrimento della coscienza». Per Jaspers il lavoro: «è l’essenza fondamentale dell’uomo»: è un’attività attraverso la quale «l’uomo diventa cosciente di sé e dello stesso essere, della trascendenza e della propria essenza». Quindi non è negativo, ma occorre “farlo più umano”. Si conclude qui questa rapida sintesi storico-filosofica. Riassumiamo alcuni concetti-chiave: 1) Per il mondo antico il lavoro è proprio della condizione dello schiavo. Occorre avere tempo libero per esercitare la filosofia o l’impegno politico. 2) Anche per il mondo cristiano il lavoro non è centrale nella vita dell’uomo, in quanto ciò che conta è contemplare dio. 3) Con il Rinascimento abbiamo una rottura: si esalta l’homo faber e lo si pone al centro dell’universo. A partire dal XVI secolo inizia una lenta ascesa dei ceti produttivi, ovvero la borghesia, che acquisterà sempre più peso sia in campo economico-politico sia in campo ideologico e culturale. 4) Con il nuovo assetto economico, ovvero il sistema capitalistico, nasce una nuova categoria: il proletario, colui che non possiede altro che la propria prole e lavora nelle fabbriche. Queste categorie, subordinate al padrone, devono secondo Marx comprendere la loro situazione e impegnarsi a cambiarla. 4) Col Novecento assistiamo al fallimento del progetto utopistico di Marx. Il capitalismo è ancora la forma economica imperante e gli intellettuali, appartenenti a diverse correnti filosofiche, convergono nel sottolineare l’urgenza di “umanizzare” il lavoro. Nella seconda parte di questo corso, affronteremo una delle più recenti applicazioni della filosofia al mondo reale: il counseling filosofico (consulenza filosofica). Questa metodologia, nata in Germania negli anni Ottanta del XXI secolo, fa dialogare la filosofia con la vita quotidiana e prova a rispondere alle domande e alle difficoltà di quest’ultima. Uno dei grandi problemi dell’uomo contemporaneo è il lavoro. All’interno del contesto lavorativo emergono spesso conflitti, tensioni e malesseri. La filosofia del lavoro, intesa come attività di consulenza, cerca di offrire ai lavoratori alcuni strumenti concettuali per vivere meglio il loro “esserelavoratori”. Sarzanini Silvia – Responsabile SND Qualità e Tutor Stage