Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Ispirato a una storia vera, è solo uno dei numerosi film dedicati in questo periodo a giovani o addirittura adolescenti che, a prescindere dallo stato sociale ed economico, per motivi diversi, scelgono strade inaspettatamente 'cattive', senza peraltro somigliare alle generazioni che in passato hanno intrapreso contestazioni e forme di ribellione: da Giovane e bella di Ozon, ad Apache di Thierry de Peretti, passando per Foxfire – Ragazze cattive di Cantet: storie diverse, che sembrano convergere l'attenzione su una gioventù bruciata di inedite 'qualità'. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: soggetto e sceneggiatura: fotografia: montaggio: costumi: scenografia: musica: distribuzione: 90 MINUTI USA 2013 SOFIA COPPOLA SOFIA COPPOLA HARRIS SAVIDES, CHRISTOPHER BLAUVELT SARAH FLACK STACEY BATTAT ANNE ROSS BRIAN REITZELL LUCKY RED interpreti: KATIE CHANG (Rebecca), ISRAEL BROUSSARD (Marc), EMMA WATSON (Nicki), LESLIE MANN (Madre di Nicki), TAISSA FARMIGA (Sam), ERIN DANIELS (Shannon), HALSTON SAGE (Amanda), NINA SIEMASZKO (Vegas Detective), GAVIN ROSSDALE (Ricky), STACY EDWARDS (Debbie), CLAIRE JULIEN (Chloe). Sofia Coppola Regista, sceneggiatrice e attrice nata a New York nel 1971) è figlia di Francis Ford Coppola, nonché sorella del regista Roman Coppola, nipote dell'attrice Talia Shire e cugina di Nicolas Cage. Esordisce quasi in fasce, quando suo padre la porta sul set de Il Padrino (1972), e prende parte anche agli altri due capitoli della saga Corleone nel 1974 e nel 1990, oltre che ad altri film del padre. Giovanissima inizia a collaborare con il padre anche come sceneggiatrice e costumista. Dopo varie esperienze come stilista, presentatrice televisiva e fotografa, debutta alla regia con il cortometraggio Lick the Star (1998). Il suo primo lungometraggio è un grande successo: si tratta dell'intrigante, raffinato e malinconico Il giardino delle vergini suicide (1999), nel quale la Coppola si distingue per lo stile originale con cui riesce a rendere intima e accattivante l'atmosfera che permea la vicenda tragica delle cinque sorelle Lisbon. Nel cinema come nei videoclip viene presto identificata con un gusto e una sensibilità nuovi, che precorrono tendenze visive e narrative e la pongono decisamente più a la page di altri registi quanto a gusti musicali. Amica di Wes Anderson, Alexander Payne, sposa Spike Jonze: il matrimonio dura solo quattro anni, ma è probabilmente di stimolo alla sua creatività. La sua vita, comoda e lussuosa fin dall'infanzia, è sempre uno spunto per la rappresentazione di caratteri - soprattutto femminili - che faticano a trovare la loro identità nel mondo che pure le ha riempite di beni materiali. Dopo le adolescenti soffocate dal nido famigliare è il turno della giovane sposa incerta e dell'uomo di mezza età che s'incontrano in un lussuoso hotel di Tokyo: è Lost in translation (2003), altra pellicola di successo internazionale, densa di sottili atmosfere che seducono lo spettatore anche in quasi assenza di azioni, questa volta su un versante più tenero e umoristico, ma con una simile presenza dello smarrimento identitario e dell'intimismo silenzioso che avevano caratterizzato la prima opera. Il film fa incetta di premi, tra cui l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale. A sorpresa, la terza pellicola della Coppola è un film in costume, che trasfigura la vicenda di Maria Antonietta ponendola al di sopra della Storia e travestendola con panni da videoclip. Marie Antoinette (2006) è il ritratto di una regina adolescente rivisitata in chiave fantasiosamente pop. Per la colonna sonora chiama The Strokes, New Order e i Phoenix. Kirsten Dunst interpreta una regina annoiata, capricciosa e malinconica "una ragazza come tante" secondo Sofia. Nel 2010 Sofia presenta alla Mostra del Cinema di Venezia Somewhere, opera ancora una volta parzialmente autobiografica che racconta l'apatica vita di un attore di Hollywood cui solo la visita della figlia riesce a imporre un cambiamento. Il film vince il Leone d'Oro. La parola ai protagonisti Intervista alla regista Gli eventi a cui il film fa riferimento sono realmente avvenuti tra il 2008 e il 2009 In effetti quando ho saputo della cosa non mi ha suscitato alcun interesse, fino a quando non ho letto un articolo su Vanity Fair che ha stimolato la mia curiosità. Riportava molte frasi dette dai ragazzi protagonisti della faccenda. In genere sono atratta dale storie di adolescenti e giovani che si cacciano nei guai, ma questa aveva qualcosa di particolarmente assurdo. Da allora, è cambiato qualcosa per quanto riguarda il fascino che i ragazzi provano nei confronti dell'ambiente delle celebrities? Per quanto io ne sappia, complice anche il successo riscosso dai reality show, il fascino che i ragazzi provano nei confronti di quel mondo non fa altro che crescere. Ero molto interessata ad analizzare questo aspetto della nostra cultura, che ora sembra avere raggiunto livelli decisamente estremi. Nel film si avverte in maniera forte l'assenza dei genitori. Questi giovani americani sono veramente così piatti e privi di valori? La storia che ho voluto raccontare nel mio film parla anche di questo aspetto, dell'assenza dei genitori. Ma non voglio generalizzare sui giovani americani, perché vi sono anche quelli che, invece, sono seguiti dai propri genitori. Da Il giardino delle vergini suicide a Bling ring è cambiato qualcosa per quanto riguarda i giovani? Sicuramente, le protagoniste de Il giardino delle vergini suicide erano innocenti, quelle di Bling ring no. Si tratta di due epoche diverse e m'interessava analizzare proprio questa moderna cultura pop. Negli ultimi tempi pare vi sia una vera e propria tendenza di film riguardanti le moderne generazioni alle prese con il decadimento morale... Sicuramente, del disagio dei giovani si parla un po' in tutte le generazioni; tramite il mio film volevo dare uno sguardo all'attuale cultura pop. E' vero che, per prepararli al film, gli attori sono stati anche introdotti di nascosto in casa di amici? Sì, perché prima di iniziare le riprese abbiamo cercato di creare lo spirito di gruppo tra i ragazzi e li abbiamo anche fatti introdurre di nascosto in casa di un amico che si è prestato al "gioco". Lo abbiamo fatto per far provare loro cosa si prova nel fare una cosa del genere. Entrare nelle case delle celebrità, in America, è veramente facile come viene mostrato nel film? Lasciare le case incustodite in quel modo credo sia una cosa tipica di determinati quartieri di Los Angeles che sono come comunità felici in cui tutti si sentono tranquilli e protetti. Certo, a New York penso che la situazione sia del tutto diversa. In che modo è stato studiato per il film questo mondo degli adolescenti? Innanzitutto, ho parlato moltissimo con Nancy Jones, giornalista di Vanity fair che ha scritto l'articolo sui fatti accaduti. Lei mi ha dato tutte le trascrizioni delle interviste ai ragazzi e i verbali della polizia. Mi sono servita molto delle frasi originali dette dai protagonisti reali, sono state il mio punto di partenza. Poi, la figlia adolescente di una mia carissima amica mi ha aiutato a capire il mondo dei suoi coetanei. Inoltre, ho letto tutte le registrazioni e le trascrizioni della polizia nei giorni dell'arresto dei ragazzi e ho anche incontrato uno di loro. Molti dettagli non mi sarebbero venuti in mente se non mi fossero stati suggeriti dai veri protagonisti della storia. I veri protagonisti della vicenda hanno visto il film? In realtà, io ho incontrato solo il ragazzo prima delle riprese, ma non ho voluto sapere troppo proprio per fare il film a modo mio. Il film è solo ispirato a fatti reali e, per questo, non ho usato i nomi veri, altrimenti avrei scelto di fare un documentario. Come hanno reagito alla celebrità che la stampa e poi soprattutto il film hanno procurato loro? Non sembrano molto consapevoli. Ho parlato con Alexis Neiers, che ha ispirato il personaggio di Emma Watson. Si è risentita, dice che il film è spazzatura inaccurata, sostiene di non aver avuto un ruolo così coinvolto nella vicenda. Ma quando era intervistata dai giornalisti e finalmente otteneva quella fama tanto desiderata, appariva un po' delusa: evitava di parlare dei furti e sembrava che ritenesse di essere intervistata per il suo stile alla moda o qualcosa del genere. Il ragazzo nelle interviste parlava dei suoi fan di Facebook in aumento. Ho pensato che la loro reazione mostrasse ancora meglio quanto siano avvoltolati, incastrati nella celebrità. Quella parte della nostra cultura prima era meno sviluppata, ora sembra che non possa smettere di crescere. Si tratta dunque semplicemente di ragazzi stupidi e superficiali? Io non direi. È difficile provare simpatia per loro, ma in realtà sono solo mal-educati. E sono ancora giovani. Stanno costruendo la loro cultura acquisendola del tutto dalla 'pop culture', che è un po' come essere sottoposti a una pessima dieta. Nel prossimo eventuale film fino a dove potranno spingersi questi giovani scapestrati? Non saprei, in realtà sono curiosa di saperlo anche io perché sono madre di due figlie. Non ho idea se questa cultura pop andrà avanti o se, magari, vi sarà una reazione che cambierà tutto. Recensioni Giancarlo Zappoli. Mymovies Los Angeles, un gruppo di adolescenti si dedica a un'attività piuttosto inconsueta. Irresistibilmente attratti dal glamour della vita delle star individuano le loro abitazioni e, in loro assenza, rubano tutti gli oggetti che, ai loro occhi, appaiono come status symbols. Prima di essere individuati dagli investigatori avevano già accumulato una refurtiva di più di tre milioni di dollari; tra le loro vittime ci sono stati (si tratta di fatti realmente accaduti) Paris Hilton e Orlando Bloom. Sofia Coppola al suo quinto lungometraggio conferma la propria attrazione, che possiamo ormai definire autoriale, per il mondo dell'adolescenza. Dopo le vergini suicide e la giovane Scarlett Johansson lost in una translation esistenziale. Dopo l'inedito e coloratissimo ritratto di Marie Antoinette e la struggente solitudine della Cloe di Somewhere questa volta il suo sguardo si sposta su un gruppo di 4 fanciulle della City of Angels che coinvolgono un loro coetaneo, arrivato da fuori, nelle loro imprese. Forse il motivo è da ricercarsi nell'ombra che papà Francis Ford ha gettato con la sua imponente presenza sulla sua fase di passaggio dall'infanzia all'età adulta. (…) Lo sguardo della sempre più adulta Sofia non condanna i propri protagonisti. Compie un'azione ancor più dolente e incisiva: li osserva e descrive con il senso di impotenza di chi ha ben chiare le cause dell'amoralità che li pervade e al contempo si chiede se e come si possa tornare alla 'sana' trasgressione che ha segnato in tutte le epoche la fase dell'adolescenza. Perché ciò che più sconcerta, insieme alle loro dichiarazioni a posteriori desolatamente 'vere', è il compulsivo bisogno di Nicki, Sam, Mark, Chloe e Rebecca non di opporsi al mondo degli adulti ma di conformarvisi attraverso quegli oggetti e quei gadget che ne identificano a livello comunicativo il potere. È come se il potere ilusionistico dell'omologazione non avesse più dinanzi a sé alcun ostacolo nella propria marcia universale. Perché le vicende che qui si raccontano sono accadute negli Stati Uniti ma avrebbero potuto trovare cittadinanza pressoché ovunque. Da quando il desiderio di avere ha di gran lunga surclassato quello di essere, un virus sembra essersi annidato in ciò che resta delle coscienze. Sofia Coppola ce ne mostra una manifestazione utilizzando uno stile che sa, anche questa volta, adattare alla storia che ha deciso di raccontare. Abbandonati i tempi dilatati di Somewhere in The Bling Ring a dominare è il ritmo, quasi sempre incalzante e dettato dalla musica, di una coazione a ripetere la cui meta finale è il vuoto pneumatico interiore. Rivestito però dalle migliori griffes. Curzio Maltese. La Repubblica Per chi ha visto e rivisto alcune centinaia di volte i film del grande Francis, dalla saga de "Il Padrino" in poi, non è stato facile prendere sul serio il talento di Sofia Coppola, almeno senza paragonarlo al genio del padre. Ma al quinto film non dovrebbero più esserci dubbi sul fatto che la quarantenne Coppola sia una delle migliori registe della sua generazione. "Bling Ring", in uscita questa settimana, non ha forse il tratto sublime di " Lost in translation" o di "Somewhere", ma è uno dei film più interessanti e divertenti che capiterà di vedere nelle nostre sale in questo autunno. I fatti sono veri, tratti da un celebre articolo di “Vanity Fair”. I “Bling Ring” erano una banda di teenager californiani, quattro ragazze e un ragazzo fra i 18 e 1 20 anni, che per un paio d’anni hanno svaligiato le ville delle star di Hollywood — Paris Hilton, Orlando Bloom, Lindsay Lohan, Megan Fox, Audrina Patridge — rubando soldi e oggetti di valore per oltre tre milioni di dollari. Il sistema era molto semplice. Si trovava tutto sui siti di pettegolezzi in Internet. Era scritto quando i divi non erano in casa, impegnati in feste o a girare un film, e gli indirizzi delle abitazioni. Nella California felix le ville, perfino le più ricche, non sono mai chiuse e non hanno sistemi d’allarme, al massimo occorre cercare la chiave sotto lo zerbino. (...) Paris Hilton ha impiegato quasi un anno e subito otto visite dei ladri, prima di realizzare che qualcosa nel guardaroba non tornava. Le scene dei furti sono magnifiche, quasi fiabesche. Nella notte le ville del lusso hollywoodiano si trasformano per questa banda di ragazzini in luoghi incantati, segrete isole del tesoro, dove basta allungare una mano per sentirsi parte di un mondo di sogno, di moderne favole di marca: Prada, Chanel, Dolce & Gabbana, Louis Vuitton, Tiffany. E’ la sicurezza dell’impunità a tradire i ragazzi, fino all’inevitabile brutta fine. Una volta scoperti, il gruppo si sfalda nei tradimenti reciproci, a cominciare dal nucleo della banda, la leader Rebecca (Katie Chang) e l’amico del cuore Marc (Israel Broussard), per passare alle quasi sorelle Nicky (Emma Watson) e Sam (Taissa Farmiga) e alla squinternata Chloe (Cliare Julien). Tutti bravissimi e in particolare la nostra cara Hermione Granger, Emma Watson, che disegna con un misto di autoironia e sex appeal il personaggio più ipocrita e disperato della compagna. La cosa più bella del film è lo sguardo della regista, sospeso fra pietà e umorismo, senza mai giudicare questi piccoli fatui criminali spinti comunque al furto dalla voglia di assoluto e di bellezza di qualsiasi adolescente. Costretti a muoversi in un luccicante vuoto di valori, senza mai incontrare un adulto meno che orrendo o inutile, in ogni caso incapace di schiudere loro altri orizzonti. In alcuni dialoghi straordinariamente comici, il modello cinematografico di Sofia Coppola, più che il padre, sembra essere la straordinaria satira di Robert Altman. Un altro fascino di "Bling Ring" è nel rovesciamento di prospettiva rispetto a luoghi comuni del cinema di sempre. La collina mitica di Hollywood, le principesche dimore di Malibu, teatro di centinaia di film, riviste con lo sguardo dei perdenti, di un’indifferente gioventù attratta verso il nulla. Nella storia vera non sono mancati del resto i tratti paradossali. Una vera componente del “Bling Ring” si è trovata a condividere il carcere con una delle celebrità derubate, Lindsay Lohan, detenuta nelle galere californiane per guida in stato di ubriachezza e possesso di cocaina. Così è capitato che lo stesso giudice che ha condannato i depredatori di Vip abbia dovuto occuparsi di star hollywoodiane pescate a rubare in gioielleria o nelle boutique d’alta moda. E allora who’s bad?, chi è il cattivo? Alberto Crespi. L'Unità Ragazzine terribili. O, per meglio dire, rese terribili da un mondo che non ha nulla da offrire. O forse, ancora, terribili e basta, perché la correttezza politica e la coscienza pelosa che è sempre «colpa della società» devono pure, prima o poi, confrontarsi con le scelte degli individui e accettare che non siamo tutti uguali. La giornata cannense di ieri ha buttato in campo interrogativi angoscianti, soprattutto per chi ha figlie adolescenti. Le risposte, come cantava il poeta, volano nel vento. E con il ventaccio che tira a Cannes, accompagnato da una pioggia sferzante che fa tanto Nord della Scozia, afferrarle è un’impresa. Atteniamoci ai film. Jeune & Jolie di François Ozon, Francia, in concorso. Isabelle compie 17 anni nel corso delle vacanze estive, durante le quali perde la verginità assieme a un fusto tedesco del quale non le importa nulla. (...) The Bling Ring, di Sofia Coppola, apertura di «Un certain regard». Si ricostruisce un fatto di cronaca che fece scalpore tempo fa a Los Angeles (il film dichiara nei titoli di essere ispirato a un articolo di Vanity Fair). La «gang della bigiotteria» (così si può tradurre, un po’ liberamente, «bling ring»), quattro ragazze e un ragazzo, furono catturati dopo una serie di effrazioni in ville hollywoodiane di ricchi & famosi. Non potevano andare lontano: i cinque marmocchi non solo rubavano soldi, gioielli e articoli super-firmati, ma poi si vantavano su facebook delle proprie imprese. In questa storia, agli interrogativi morali acutamente sollevati da Ozon si affianca un giudizio lapidario: è la storia di cinque cretini, la cui cretineria ha però trovato nella modernità un terreno fertile in cui prosperare. Facebook non era l’effetto, era la causa: più che possedere gli oggetti dei famosi, i cinque adolescenti volevano diventar famosi a loro volta (due di loro ci sono riuscite: conducono uno show televisivo!). E pur nella superficialità acquosa che contraddistingue il suo cinema, Sofia Coppola lancia almeno un giudizio senza appello sulle famiglie: due delle ragazze (una è Emma Watson, la Hermione di Harry Potter) vivono, pur non essendo sorelle, in una bella villa dove la madre mezza hippy e mezza demente fa compiere sedute di autocoscienza ogni mattina, proponendo Angelina Jolie o Lindsay Lohan come «modelli comportamentali». Come sempre, Sofia Coppola è lieve come una piuma e non lascia trapelare alcun approfondimento (in fondo queste stupidine non sono tanto diverse dalla sua Maria Antonietta), però descrive un mondo che, da bambina cresciuta a Hollywood, conosce bene. Raffaella Serini. Vanity Fair La giovane inquieta (e bellissima, come titolo comanda) protagonista del film di François Ozon Jeune et jolie «Giovane e bella» appunto -, presentato in concorso al Festival di Cannes, e le sfrontate (ra)gazze ladre di The Bling Ring di Sofia Coppola, che ha aperto la sezione Un certain Regard, sembrano provenire da due pianeti diversi (è un po’ è così, visto che la prima vive in una placida Parigi e le altre nella più irruenta Los Angeles). E non c’è solo la geografia a distinguerle. La prima, Isabelle (...); le altre, fra cui la creatura di Hogwarts Emma Watson, Katie Chang e Taissa Farmiga (sorella minore della più famosa Vera, già vista in American Horror Story), vivono in vetrina: a scuola, ai party, su Facebook. E soprattutto hanno l'ossessione per la moda e le celebrity, che chiamano rigorosamente per nome: Lindsay, Paris, Audrine. «La tecnologia gioca un ruolo fondamentale in questo: oggi la gente è investita in continuazione dalle immagini di star, che girano molto più velocemente di un tempo e così finisce per sentirsi "connessa"con loro», ha dichiarato a questo proposito la protagonista del film Emma Watson (una che certo di fanatismi se ne intende). Sembrano così distanti eppure anche Isabelle, col suo sguardo perennemente spento e malinconico, e le «bad girls» di Bling Ring, con gli occhi scintillanti di vacuità, hanno qualcosa in comune. Possiedono tutto, e di più potrebbero avere, ma nelle loro vite un po' vuote si annoiano. E così una, l’introversa protagonista di Ozon, comincia a vendersi per diletto (...). Le altre, le giovani scapestrate di The bling ring (che è ispirato a una storia vera, ripresa anche in un’inchiesta di Vanity Fair America) sono invece figlie del vuoto sociale, di mamme-immagine e papà distratti che fanno colazione seduti di spalle. Sono cresciute a Louboutin e Paris Hilton, e per divertimento prendono a intrufolarsi nelle ville delle star per rubare loro pezzi di vita e glamour (NB: la casa di Paris Hilton che si vede nel film - con tanto di club privè interno - è davvero la casa di Paris Hilton). Sono adolescenti a caccia di visibilità - e che per loro gioia otterranno, quando «da novelle Lohan» finiranno in manette davanti a milioni di telespettatori - ma soprattutto in cerca di una identità, «argomento che è spesso al centro delle mie opere», ha detto la Coppola in conferenza stampa. Ma le ragazze sfrontate e patinate di The Bling Ring sono come quelle «terribili» di Spring Breakers? No, anche se si assomigliano il paragone non basta. Perché il tratto satirico della Coppola riesce a dipingere le sue ragazze non solo come delle simpatiche macchiette. Tant'è che inquietano, e molto, forse anche più della baby squillo di Ozon. Luca Liguori. Movieplayer.it Nel 2009 un gruppo di adolescenti californiani venne arrestato e condannato per aver svaligiato diverse case di celebrità quali Lindsay Lohan, Megan Fox, Orlando Bloom e Paris Hilton. La giovane gang venne presto ribattezzata come il Bling Ring (la banda dei gingilli) e divenne oggetto di interesse di tutti i media, tabloid e riviste di moda e gossip in primis. Fu però un articolo scritto da Nancy Jo Sales per Vanity Fair dall'evocativo titolo The Suspects Wore Louboutins a catturare l'attenzione di Sofia Coppola che - fresca del Leone d'oro ottenuto, seppur tra le polemiche, per Somewhere - era alla ricerca di un soggetto che le permettesse di distanziarsi dalla sua ultima regia. Che si tratti di una storia vera insomma è evidente sia dalle premesse che dai titoli di testa, ma anche lo stile adottato dalla regista - con largo utilizzo di strumenti multimediali quali foto, immagini tratte dal web, dai social, dalla TV se non "rubate" da telecamere di sicurezza - non manca mai di suggerire una fortemente voluta aderenza alla realtà, quasi come se la regista, abbandonato il romanticismo di Lost in Translation o la trasgressione pop di Marie Antoinette, sia ormai molto più interessata a documentare/mostrare che a raccontare/(psico)analizzare. (…) E' certamente vero che mai come in questo caso sono proprio i personaggi di partenza (quelli reali) a generare questa distanza tra spettatore e personaggi sullo schermo, ed è altrettanto probabile che la mancanza di alcun tipo di giudizio da parte dell'autore così come di qualsiasi tipo di analisi delle (motiv)azioni dei suoi giovani protagonisti voglia riflettere la vacuità dei loro animi e del loro mondo. Ciononostante viene spontaneo il confronto con un film recente e non troppo dissimile quale Spring Breakers di Harmony Korine che, pur spingendo molto di più sul pedale del grottesco e dell'eccesso, riesce in maniera eccelsa a rappresentare gli orrori di una generazione che vive solo di immagine e falsi miti e, per assurdo, riesce nello scopo di diventare una cautionary tale molto più della vera storia utilizzata dalla Coppola. Se l'opera è comunque interessante da un punto puramente estetico grazie ad alcune scelte di fotografia piuttosto originali, un montaggio frenetico ma mai fastidioso e la solita ottima colonna sonora ad accompagnare il tutto, questo nuovo film della Coppola viene a mancare proprio in quello che era stato il suo punto di forza anni or sono, addirittura portandola a vincere un Oscar, ovvero la sceneggiatura: lo script infatti non solo manca di sviluppare adeguatamente i personaggi, ma perfino le rapine vere e proprie che invece si riducono con l'essere nulla più di una semplice battuta: "Lindsay stasera non è a casa, dai trovami l'indirizzo e andiamo". Dell'heist movie quindi non c'è traccia, della denuncia sociale idem, quello che rimane è una sfilata infinita di vestiti e scarpe, tante belle ragazze che posano davanti agli obiettivi degli smartphone invece che davanti alla macchina da presa (e in più le capacità delle giovani e promettenti attrici, Emma Watson e Taissa Farmiga in primis, sono poco sfruttate) e qualche cameo di stelle e stellette. Scusate la franchezza, ma noi semplicemente rivorremmo indietro la Sofia Coppola di Lost in Translation. Giulia D'Agnolo Vallan. Il Manifesto Due storie californiane, strappate alla cronaca, atterrano dall’America nella sezione Un Certain Regard. I picchi dorati delle colline hollywoodiane e i quartieri poveri di Oakland, secondo Sofia Coppola (per la terza volta a Cannes) e l’esordiente Ryan Coogler (vincitore di Sundance 2013). Due mondi lontanissimi tra di loro anche se gli eventi reali si sono consumati quasi contemporaneamente, a cavallo tra 2008 e 2009. The Suspects Wore Louboutins, di Nancy Joe Sales è l’articolo di Vanity Fair da cui è tratto il nuovo film della regista di Somewhere, The Bling Ring (bling sono i gioielloni patacca, ring è gergo per banda). Immerso, anche quando è buio, nella luce polverosa, vagamente color cipria, cara a Harris Savides (il direttore della fotografia scomparso, cui è dedicato il film, si è ammalato durante le riprese ed è stato sostituito da Christopher Blauvelt), e girato da Coppola con macchina più nervosa e narrazione meno ellittica del solito, The Bling Ring si vive un po’ come un sogno. Del sogno ha qualcosa anche l’avventura del gruppo di teen ager protagonisti (Emma Watson, elettrica, e gli sconosciuti Taissa Farmiga, Israel Broussard, Claire Julien e Katie Chang), ragazzini difficili della San Fernando Valley il cui passatempo ideale è introdursi nelle ville hollywoodiane delle loro trash celebrities preferite –Paris Hilton, Lindsay Lohan, la reality star Rachel Bilson..) e svaligiarle. Non per arricchirsi quanto, piuttosto, per avvolgersi nei loro costosissimi accessori (scarpe, goielli, profumi, biancheria…), di cui recitano i nomi come un mantra (Prada, Miu Miu, Balmain, Chanel, «Loubby» e «la Birkin» bianca di Lindsay), strusciarsi contro l'inconsistenza luccicante della loro fama, barcollare in in cima ai loro tacchi (...), condividerne «l'aura». Non importa se significa farsi arrestare e condannare a quattro anni di prigione. Che oggi poi è il primo passo verso un'aura propria, non a caso l'intera famiglia di una delle ragazze della storia, Nicki Neiers, è stata cooptata per il reality 'Pretty Wild'. (...) Ogni visita è un rituale diverso, anche filmicamente. Spesso i ragazzi tornano più volte nello stesso posto, come da Paris Hilton che, in vero spirito 'The Bling Ring' (sempre in gioco tra reality e realtà), tra l'altro ha offerto la sua casa per le riprese del film. Avventura di materialismo sfrenato eppure, a suo modo, altrettanto immaterico (catturare quella contraddizione è il bello del film di Coppola, che si snoda come un documentario sulle superfici), 'Bling Ring' non è un romanzo di perdizione alla Bret Easton Ellis o uno di formazione come lo avrebbe fatto Harmony Korine. Coppola (che in pochi stacchi di 'Somewhere' aveva saputo immortalare per sempre un paese risucchiato dalla tv) sospende il giudizio sulle sue eroine e il loro mondo a misura di Twitter, Facebook e TMZ. Come sempre il suo è un cinema di osservazione, di comportamenti - con una sensibilità precisa nei confronti di un universo adolescenziale che ricorda certe sintonie di Gus Van Sant (non a caso un altro collaboratore abituale di Savides). Capace di penetrare quel mondo, di calarsi in quello sguardo, con la stessa naturalezza con cui aveva esplorato l'universo segreto e innocente delle vergini suicide di Eugenides, colto il paradosso di Maria Antonietta, la solitudine di Charlotte ('Lost in Translation') e la trascendentale precisione di Cleo ('Somewhere'), Coppola filma le imprese della «bling ring» come se fossero delle performance. Mancano il sesso e la violenza che ci avrebbe sicuramente messo Corman. Ma la vocazione per la trasgressione è la stessa.