Insegnanti motivati ed efficaci

Transcript

Insegnanti motivati ed efficaci
Insegnanti motivati ed efficaci
3° incontro: lunedì 21 novembre 2011
L’equilibrio infranto.
Alunni fragili e insicuri.
Domande per il lavoro in gruppo
1. Bambini e ragazzi accrescono il senso della loro autoefficacia nella misura in cui sanno
imparare anche dalle sconfitte e dagli insuccessi, cercano ogni ragione per affezionarsi a ciò
che fanno, coltivano la motivazione all’apprendimento assumendone tutta la fatica. Questo
impegnativo percorso presuppone che genitori e insegnanti non colludano con la
mediocrità dei figli e il disimpegno degli allievi, che le famiglie non giustifichino i loro errori
davanti agli insegnanti, che gli educatori non diventino complici del disimpegno.
Qual è il nostro parere?
2. Sono numerose le proposte e i servizi che le scuole mettono a disposizione per il
coinvolgimento delle famiglie: offrire ai genitori occasioni d’incontro con i docenti e tra di
loro, invitarli a partecipare al ‘tavolo’ della progettazione educativa, coinvolgerli in iniziative
e feste insieme ai loro figli...
Qual è la nostra esperienza a proposito? Come immaginiamo una “buona prassi” nel
rapporto di collaborazione tra le famiglie e la scuola?
3. Quali sono secondo voi le emozioni che maggiormente sostengono e facilitano
l’apprendimento?
La comunicazione intrapersonale è facilitata dalle situazioni che accompagnano la mente in
uno stato meditativo leggero, di recettività e di calma (poesia, arte, riflessione, certi tipi di
musica…). Esistono questi momenti nella vita dei ragazzi (bambini) di oggi?
Alcuni hanno parlato nei gruppi di cambio generazionale. Si crea smarrimento di fronte alla
demotivazione. I ragazzi sembrano non essere interessati, sono lì ma con la testa altrove. I genitori
giustificano i figli per coprire le loro ansie. Insicuri e fragili. L’insicurezza c’è sempre stata, di fronte
a qualcosa di difficile ti muovi per cercare sostegno. La fragilità è evocata dalla metafora del vetro,
è bello e trasparente ma basta niente per andare in frantumi. La demotivazione va collegata alla
fragilità. I ragazzi sembrano disinteressati all’aiuto. È questione di ansia, paura oppure, secondo
quanto sostenuto da Charmet, gli attuali adolescenti hanno un problema di vergogna. Si è parlato
di noia, ma da dove deriva?
Qual è il nostro quadro interpretativo, non ci basta descrivere i fenomeni. Cosa facciamo? Siamo
consapevoli che se c’è disinteresse non può esserci apprendimento, il nostro corso è un
laboratorio per costruire un modello di interpretazione. Le parole “educazione alla fatica” devono
trovare una collocazione. Dobbiamo tentare un’ipotesi per comprendere meglio. Sarà sufficiente
una valutazione del dato oggettivo se il problema della demotivazione è dovuto magari ad
un’intelligenza viva ma bloccata dalla vergogna? In questo caso una valutazione oggettiva può non
essere giusta. Uno dei compiti dei docenti è costituito dalla valutazione, va considerato oltre al
dato oggettivo il livello emozionale.
Secondo l’antropologia ovvero lo studio del comportamento umano in base alla cultura di oggi,
occorre valutare le condizioni perché una persona possa essere autonoma. Autonomia (so dare
una norma a me stesso) equivale alla motivazione, se non sono autonomo non ho una direzione
verso cui andare. Occorrono due elementi, la percezione che ogni persona abbia valore
(personificazione) e che la persona abbia una sufficiente stima di sé (socializzazione).
Incrociamo le variabili:
Una stima adeguata di me mi farà sentire a mio agio in mezzo agli altri, mi stimeranno. L’ansia
equivale all’interrogativo: “Riuscirò a farlo?”. La mancata personificazione crea il sentimento
angoscioso della vergogna. La motivazione è un problema nostro, come creare collaborazione con
gli allievi. Perché esista auto-nomia e motivazione occorre che i due assi siano positivi e in egual
misura, occorre un giusto equilibrio.
Non importa quanta socializzazione e quanta personificazione si producano. Si è autonomi
esclusivamente quando si è in egual misura tra la stima e la personificazione. Personificazione
significa aiutare un bambino, un ragazzo, un adolescente ad essere convinto del valore della sua
persona. Se non sono consapevole del mio valore, mi vergognerò indipendentemente da quello
che so fare o che mi dicono gli altri. Nella vita delle persone c’è un’unica esperienza in grado di
personificare. Se questa esperienza non funziona o è malata o funziona a tratti, non posso
personificarmi.
L’autonomia (saper fare da me) è curiosamente prodotta da due situazioni dove possono agire
solo gli altri. Solo gli altri mi possono personificare e socializzare. È un dato antropologico di
assoluta evidenza. L’individualismo è una situazione irreale, non siamo nulla senza gli altri.
Personificazione significa che la mia vita ha valore indipendentemente da ciò che faccio. Se
dipende da ciò che faccio, dagli aggettivi che possiedo, ciò che gli altri vedono in me, non è
personificazione. Essere più o meno bello o giovane è una caratteristica esteriore.
L’esperienza in cui si considera l’altro indipendentemente da ogni aggettivo è l’amore in qualsiasi
forma, più l’amore è intenso (innamoramento, rapporto genitori figli) più personifica. L’amore in
senso antropologico è un’esperienza, una comunicazione che mi definisce come unico. Devo
essere considerato indipendentemente dai miei aggettivi che mi mettono a confronto con gli altri.
Qualsiasi tipo di amore: stare tra le braccia di chi ti ama, una comunicazione affettiva intima, il
cenno di un volto al di là dello sportello. Facendomi liberamente un cenno anche per una frazione
di secondo mi personifica. È un’esperienza talmente bella che ci fa battere il cuore. L’amore toglie
qualsiasi forma di vergogna, ti puoi esporre nel modo più libero.
Per essere socializzati, si fa l’esperienza opposta. Ci deve essere qualcuno che considera i tuoi
aggettivi e ti dice: “Bravo!”. La socializzazione è l’esatto opposto della personificazione. La
socializzazione ti mette insieme a tanti, ti socializza nella misura in cui in mezzo ai tanti emergi. Per
essere socializzato con un aggettivo deve esserci un confronto. Per essere bravo in matematica,
dovrà esserci un’interrogazione o un compito in classe dove tu devi essere quello che risponde
meglio di tutti, se tu hai preso otto e gli altri hanno preso un voto inferiore; una persona è bella
nel confronto con altri meno belli. Si è riconosciuti perché si vince un confronto, si socializza solo
attraverso una competizione. Può apparire un inganno in questo schema, non è così necessario
essere personificati dal momento che oggi il mito è la socializzazione. Ciò che fa battere il cuore è
che ti senti unico; anche nella socializzazione che è bravo p. es. in matematica è unico se è il primo
della classe, il più bello fra i compagni è unico. Quale diversità sussiste tra chi sale sul podio per
prendere il premio e la personificazione? La socializzazione ti rende unico ma in modo incerto,
domani ce ne sarà un altro, p. es. se si cambia compagnia di amici. Il primato è incerto anche se
affascina. La personificazione ti rende unico finché esisti, è indipendente da ciò che fai, non puoi
essere messo a confronto, tuo figlio è unico.
I genitori proteggono i figli per questo motivo. Ciò che costruisce autonomia sono i due assi in
quanto pari. Non è sufficiente la certezza che papà e mamma lo amino, se non supera
l’interrogazione non ce la farà, deve superare anche il compito in classe. Se ho difficoltà affettive,
non sono sicuro di essere unico, anche se sono intelligente non è detto che superi sempre bene il
compito di matematica. Provo talmente vergogna da non avere più energia psichica perché la mia
intelligenza non si spaventi, non tracolli e porti frutto. Il problema di oggi è l’equilibrio. In questo
c’è una mutazione antropologica.
L’essere umano è stabile. La sessualità nel 2011 è radicalmente cambiata rispetto a cinquanta,
cento anni fa eppure le ragazze e i ragazzi si innamorano allo stesso modo con cui si innamoravano
secoli fa. Ramazzotti usa una frase del Cantico dei cantici per titolare un suo progetto. Un testo
così antico è ancora in grado di descrivere la situazione dell’innamoramento. È mutato il codice
dell’amore, viviamo in un tempo in cui l’amore sta diventando o in alcuni casi è già diventato una
parola di cui non ci si può più fidare. Non si sa più cosa voglia dire. Per personificare l’amore deve
essere una certezza. Se la togli è come cibo avariato o privo di principi nutritivi. L’amore deve
durare, se non dura, se oggi vale e domani no, allora è un aggettivo. Se togli la certezza della
durata, non personifica. Risulta indebolito il lato dell’amore, è meno capace di personificare
perché manca la certezza. Non è solo dato dal fatto che le coppie si sciolgono, i bambini sono presi
dall’ansia quando vedono i genitori che bisticciano. È la precarietà degli affetti, anche gli amici
sono precari. Le giornate dei bimbi diventano super organizzate, entrano in tanti ambiti, dallo
sport alla dance. Dato che il mondo è complesso, sembra che l’unico modo di cavarsela è avere
tante attività (ambito della socializzazione). In casa non si ha più il tempo per fare una cosa che
manca, da difendere con le unghie e coi denti. Avere un attimo di tempo tutti quanti in cui si sta
insieme e non si fa niente. Stare un attimo a fare niente, p. es. a cena o prima di andare a dormire.
Godi il fatto di essere unico e che rendi unici gli altri. Fare, fare, fare… sport, saggi… si pensi al
gruppo di genitori che assiste ad una partita dei figli.
La demotivazione scolastica o lo scarso rendimento scolastico anziché essere un problema
cognitivo può essere un problema affettivo. Se un ragazzo ha problemi di esperienze affettive,
come fa a rendere a scuola? Il docente cosa valuterà? Si fermerà ai risultati? Solo un’alleanza fra
famiglia e scuola può garantire il successo scolastico, può far leva sulla personificazione.
Piergiacomo Oderda
[email protected]