Il riscatto delle metafore - Pontificia Università Gregoriana
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Il riscatto delle metafore - Pontificia Università Gregoriana
Il riscatto delle metafore D. Armando Matteo Chi capisce la lingua dei preti? Il mio iniziale e anche contenuto intervento, che ha lo scopo dichiarato di avviare e promuovere la riflessione comune, si muove nello spazio del rapporto tra cristianesimo e cultura contemporanea, ovvero cultura postmoderna. Quest’ultima da intendere – secondo le felici istruzioni di p. M.P. Gallagher – non solo con la C maiuscola (per intenderci le discussioni di Habermas sul carattere postsecolare della nostra epoca), ma più precisamente con la c minuscola e quindi come cultura diffusa, way of life, mood, colonna sonora delle nostre esistenze, grembo materno dell’esercizio ordinario della nostra libertà. E viceversa anche il cristianesimo – è questa una delle mie scoperte teologiche più rilevanti – deve di conseguenza essere inteso con la c minuscola: non solo cioè il Cristianesimo bello e preciso del Catechismo, delle encicliche e dei nostri manuali di teologia. Ma appunto il cristianesimo – diciamo così – delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, del credente di strada. Del resto, come non cogliere la paradossalità di questo nostro tempo: mai come nel Novecento si sono dati appuntamento così tanti geni teologici (cattolici, protestanti, ortodossi), eppure mai come nel Novecento è iniziata a venir meno la capacità della Chiesa di parlare alla e della vita della gente. Per questo, quando noi ci poniamo all’incrocio di queste due realtà – cristianesimo e cultura postmoderna – sulla lunghezza d’onda che prima dicevo, allora scopriamo che la comunicazione/trasmissione della fede nell’oggi passa anche per un’attenta cura della questione delle metafore, cioè di quelle parole, concetti, categorie che hanno segnato un felice matrimonio tra messaggio della fede e cultura diffusa. Sono segni e indici di un’inculturazione riuscita. Questo perché le metafore - seguendo il pensiero di Paul Ricoeur - sono il motore dell'immagin/azione, sono espressioni del potere che il linguaggio possiede di creare senso e di promuovere consenso, in vista di una ridescrizione del mondo. Più semplicemente, sono la traduzione nel tempo di quel parlare “con autorità” che l’evangelista Marco riferisce essere una caratteristica propria 1 della parola di Gesù e da cui deriva anche la sua forza di attrazione, di convocazione. E il segreto di Gesù è appunto il suo parlare agli uomini e alle donne di modo che intendano che è di essi che ne va, senza tuttavia parlare una lingua che non è la loro. Insomma dal modo con cui Gesù parla di Dio e del suo mistero d’amore ne discende che egli, Dio, non possa non interessarsi della vita di ognuno che lo ascolta, e dal modo con cui parla della vita concreta di ognuno che lo ascolta ne discende che essa non possa non interessare a Dio, se questi è degno di tale nome. Il riscatto delle metafore è per me un tema importante per la riflessione teologica fondamentale in quanto oggi la lingua dei preti la capiscono solo i preti! Avverto come sempre più decisivi la perdita di incidenza, lo svuotamento di provocatorietà, di capacità di appello, di convocazione, del linguaggio spicciolo, ordinario, della predicazione e della catechesi diffuse. Insomma il Dio cristiano è ormai un problema dei soli cristiani! Non è più cattolico! O meglio è solo cattolico! E un Dio solamente cattolico non è più il Dio di Gesù Cristo. È a tutti nota l'affermazione di Paul Tillich, per la quale i simboli cristiani "hanno perso il potere di trafiggere l'anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, ricettivi nei confronti del significato". Insomma le nostre parole elementari della fede non mediano più, non medicano più, e non fanno meditare più. Le nostre metafore non trasportano più da nessuna parte. Non rifediniscono il cosmo dei significati. Sono "anestetiche". Sulla necessità, dunque, di questo recupero dello spessore "metaforico" del linguaggio cristiano, non penso ci possano essere molti dubbi; così come non ci possano essere dubbi sull'apporto straordinario che al riguardo ha offerto l'ampia meditazione di Paul Ricoeur. Ciò che vorrei di più sottolineare si colloca ora a livello delle condizioni di possibilità dell'entrata in azione delle metafore e quindi delle metafore cristiane, un livello sul quale la teologia fondamentale deve esprime una vigilanza non negligente. Una nuova "geografia" della mente E qui incontriamo la postmodernità. La cultura postmoderna è infatti un rimescolamento delle coordinate fondamentali dell’umano. Spiega bene la cosa, Umberto Galimberti: "Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il 2 mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione". Questo è il punto: noi abitiamo sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabili, password, punti cardinali dell'immaginazione. Ed è proprio la diversa scelta e gerarchia delle parole stabili che regge la differente descrizione del mondo per esempio di un Orientale o di un aborigeno, rispetto a quella di un Occidentale. Dire cultura postmoderna significa dire un rimescolamento delle parole stabili della cultura occidentale classica che fornisce una nuova immagin/azione dell’umano. Significa riconoscere che la geografia dei significati è cambiata. C'è una nuova topografia dell'immaginario, su cui si costruiscono poi le metafore nuove e in cui le metafore antiche subiscono uno slittamento ovvero semplicemente ammutoliscono: non c'è più per loro il "da dove" e il "verso dove" di prima. Proprio tale nuova geografia dei significati ha tolto l’immediatezza a molte delle metafore, delle parole, delle categorie del cristianesimo (con la c minuscola), il quale rischia nulla di meno che una sua “museificazione”, una sua "estetizzazine" (De Certeau) se non si prende cura delle sue metafore principali, delle sue parole basi, delle categorie fondamentali del suo linguaggio ordinario. Ed eventualmente ad inventarne di nuove. Vorrei ora provare a tradurre queste considerazioni generali attraverso un esercizio concreto di presa in carico di una metafora, quella del paradiso, che è uno dei modi popolari per immaginare efficacemente la destinazione piena dell'uomo nel mondo. La cacciata del paradiso Vorrei partire da una famosa canzone di J. Lennon, Imagine. Immagina non ci sia il Paradiso prova, è facile Nessun inferno sotto i piedi Sopra di noi solo il Cielo Immagina che la gente viva al presente… Immagina non ci siano paesi 3 non è difficile Niente per cui uccidere e morire e nessuna religione Immagina che tutti vivano la loro vita in pace… Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno Immagina un mondo senza possessi mi chiedo se ci riesci senza necessità di avidità o fame La fratellanza tra gli uomini Immagina tutta le gente condividere il mondo intero… Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno Imagine (1971) rappresenta il manifesto di un’intera epoca. È l'invito a una nuova forma immaginazione, a un nuovo disegno dell’esistenza umana, il cui punto di ingresso e di stabilità è il seguente: nessuna vita buona dell’umanità è possibile finché si continua ad alimentare un’immagine/un desiderio del paradiso. Dietro la proposta di Imagine (interessante la sua ripresa da R. Dawkins) di una vita buona affidata all’azzeramento della realtà del paradiso, è opportuno cogliere il lento ma forte cammino della costituzione della cultura postmoderna, il cui punto di inizio deve essere collocato, a mio avviso, nell’anno 1859. È l’anno in cui Darwin pubblica il famoso testo L’origine delle specie, che avvia una decisa contestazione dell’immaginario classico circa la collocazione e la destinazione dell’uomo nell’universo, un immaginario la cui paternità è platonica, ma al quale il cristianesimo aveva con saggezza 4 adeguato la propria proposta di fede. Sullo schema/orizzonte platonico di una vita umana, che da Dio procede e a Dio ritorna e che trova nell’anima immortale il suo principio di senso e quindi di felicità, Darwin sferra il primo taglio netto: l’origine dell’uomo non è nell’alto, ma è nella catena dell’evoluzione umana. È una sorta di taglio alla Fontana su un dispositivo immaginativo ben collaudato. Ma è solo il primo taglio. Segue subito dopo Marx: a suo avviso non possiamo più attendere il paradiso; bisogna invece collocare, quale che sia, ogni possibile redenzione dell’umano qui sulla terra. La destinazione dell’umano non è più collocata oltre la storia: anticipo politico di Lennon. Non deve sfuggire a questo punto l’impatto che ora ottiene pure la teoria di Freud circa la consistenza dell’anima: quest’ultima non è un principio metafisico, una sorta di cordone ombelicale dell’uomo con il paradiso, ma è null’altro che pura energia, equamente disponibile al bene e al male. Altro taglio! Che cosa sta capitando? Nietzsche intuisce tutto perfettamente e prima degli altri: l’Occidente sta dismettendo la geografia della mente inventata da Platone, sta cioè prendendo congedo dall’immaginario classico di un mondo a due livelli, fisico e metafisico, e da un dispositivo concettuale che assegna al livello non fisico il primato ontologico e assiologico. Tale operazione trova poi ulteriore conforto in un altro grande cambiamento paradigmatico accaduto all’inizio del XX secolo: quello circa la verità. Venuta meno la forza di attrazione centripeta del paradiso, tra il 1905 e il 1910, nell’ambito della letteratura, della musica, della fisica, della pittura, della filosofia, della stessa teologia, della matematica, accade una stagione ricchissima di scoperta dell'in-finitezza del finito che porta a cogliere come non più sopportabile la netta distinzione tra vero e falso, a favore invece di una concezione multiprospettica della realtà, che rilegge ora tutto – verità e falsità – in termini di alterità dei punti di vista. Ma forse ciò che più d’ogni altra cosa incide e sferra il colpo mortale al dispositivo platonico è il grande evento delle due guerre e soprattutto l’Olocausto. Di fronte all’inaudita violenza che si scatena in queste tragedie, di quali altri reperti fossili vi sarebbe bisogno per accertare la forte contiguità tra l’umano e l’animale? E di quale altro esperimento o analisi si avrebbe bisogno per accertare che, di divino, l’anima umana ha ben poco? E quale speranza ultraterrena potrebbe rendere giustizia alle vittime innocenti di Hitler, di Mussolini e di Stalin? 5 Ad Auschwitz crolla definitivamente il vecchio mondo antico di matrice platonica, che aveva assicurato alla fede cristiana un efficace punto d’appoggio sull’immaginario collettivo per circa due millenni e che permetteva alle sue metafore di funzionare. Sono propri tali profondi rivolgimenti strutturali che portano la Chiesa verso la straordinaria stagione del Concilio, il quale resta senz’altro punto di riferimento per lo stile e per l’approccio con cui ha affrontato la questione. Più precario è la valutazione invece per quel che riguarda la capacità del Concilio di ri-disegnare efficacemente un orizzonte cosmicoantropologico all'altezza della costellazione antiplatonica ormai in fase di avanzata realizzazione e compimento. Ci prova, certo, e con buoni risultati pure, ma la vera tragedia del Concilio è il fatto che la sua conclusione coincide con il primo grande vagito della mentalità postmoderna, cioè con la prima grande entrata in scena di un uomo postplatonico, che lega ormai la ricerca di un mondo felice e unito alla completa abdicazione del paradiso. È l’uomo del Sessantotto, la cui forza sta nel raccogliere e rilanciare tutte le istanze di quel cambiamento di prospettiva avviato appunto da Darwin, da Marx, da Freud e da Nietzsche. Ora non conta più lo spirito, ma il corpo, non conta più l’eterno, ma l’istante, non conta più l’unità, ma la pluralità, non conta più l’autorità, ma la democrazia, non conta più la verità, ma l’opinione, non conta più la comunità, ma il singolo. Ecco quello che prima diceva Galimberti: cambia l’ordine e la gerarchia delle parole base, e cambia quindi la descrizione dell’Occidente. Nasce un nuovo cosmo, ordine. Oggi, insomma, non canta più Platone, ma John Lennon... Senza poi dimenticare la forza di cambiamento prodotta dall'avvento della tecnica. La nuova topografia umana Dopo secoli vissuti all'ombra della cacciata dal paradiso, ci troviamo con Lennon allora a vivere oggi nel tempo della cacciata del paradiso. In un tale tempo "cristianamente credere" non è più un atto naturale del cittadino medio occidentale. Vi è un'inedita fatica di credere (Taylor). Accade una disattivazione delle metafore. E il paradiso è ora il comodo sfondo di una pubblicità del caffè - con lo strano effetto tragi-comico di noi che preghiamo per l'eterno riposo dei nostri cari e di loro che, bevendo continuamente caffè, rendono vane le nostre preci... Anche il Catechismo 6 della Chiesa Cattolica si affida ora alla metafora del "cielo" e non più a quella del "paradiso". L'attuale fatica di credere, dipende ora, da una parte, dall’avvento di una cultura che ha dichiarato inessenziale il paradiso per la felicità umana, avendo cambiato i referenti essenziali per immaginare il mondo, e dall’altra dipende pure dai contraccolpi che proprio l’immaginario postmoderno ha sull’elementare della vita, sulla sua effettiva capacità di indirizzare il soggetto umano a una buona destinazione. Mandare in pensione Platone non è del tutto privo di conseguenze. La proposta di una vita senza paradiso non risolve la vita in un paradiso. Ci muoviamo, infatti, permanentemente tra un "sì" alla vita e un continuo vagare sul baratro della depressione, tra una grande giovanilismo senza inibizioni e uno stress da performance cui si fa fronte con l'uso di numerosi stupefacenti e medicinali, tra un continuo rincorrere il tempo e le occasioni e una triste felicità senza desideri. Il riscatto del paradiso Il punto di sintesi è il seguente: da una parte, senza la misura del trascendente, prima assicurata dalla metafora del paradiso, è come se avessimo perso la misura del finito, del mondo, della sua contingenza, della sua fecondità e pure della sua limitatezza. Dall'altra, nel contesto attuale, nonostante la splendida fioritura teologica, la lingua della Chiesa diventa impotente, e questo sta all'origine della perdita continua di giovani e di donne, e pure della sua competenza profetica e sapienziale Rispetto a tutto questo, in vista del tema di questa giornata, ritengo sia necessario recuperare una nuova forma di fedeltà al platonismo. Che cosa intendo? Non certo un ritorno al dualismo, ma una maggiore messa in evidenza del cuore stesso del platonismo: la corrispondenza alla finitezza richiede una forza che la stessa contingenza non possiede, ma che invece invoca per essere fedele a se stessa. Ovvero: l'impossibilità della finitezza di salvaguardare se stessa. Dalla censura di tale verità, prendono vita i fantasmi contemporanei, le nuove malattie dell’anima, che recano il nome di ossessività e depressività. Il desiderio di corrispondere all’esaltante scoperta della propria singolarità, dell’irripetibilità del gesto libero, della presenza corporea al vissuto spingono il soggetto postmoderno verso forme sempre più arrischiate di 7 coinvolgimento della propria esistenza in pericolosi esperimenti destinati a fallire proprio per la mancanza strutturale di energia e di sinergie. Nessuno di noi è Dio: questo è il cuore del platonismo, al quale il cristianesimo non può in alcun modo rinunciare. Per il bene della finitezza. Del paradiso si deve dunque parlare. E per ridare nuovo smalto e charme a questa metafora, si potrebbe e si dovrebbe recuperare e sviluppare il tema della "benedizione" quale stile proprio dell'essere cristiano (ogni cosa è in quanto benedetta da Dio). Proprio perché nessuno di noi è Dio, proprio perché questo mondo non è il paradiso, possiamo dire bene di ogni cosa per quello che è - che appunto non è Dio, ma è solo "questa cosa qui", voluta da Dio, nella sua ricchezza e nella sua finitezza. Il cristianesimo può dire bene di ogni cosa, proprio perché afferma che questo mondo non è il paradiso e nello stesso momento afferma che questo mondo è benedetto da Dio, nella sua finita ricchezza, accompagnando questa rivelazione con la promessa di incontro definitivo con Dio che riscatterà ogni cosa nella sua verità e che sin d'ora permette una abitazione benedetta e benedicente del finito. La verità di e su di me ha il sigillo del futuro. Nessun presente può esaurirmi. Nel bene e nel male. Per questo posso benedire ogni presente. Il paradiso dunque come condizione di possibilità della benedizione difficile del contingente. A me pare che proprio la categoria della benedizione possegga numerose potenzialità, che attendono di essere da noi sviluppate, per permettere al cristianesimo - quello con la c minuscola - di poter parlare agli uomini e alle donne di modo che intendano che è di essi che ne va, senza tuttavia parlare una lingua che non è la loro. Nell'attesa ovviamente di riprenderci il paradiso da quelli della Lavazza. 8