islam e diritti umani - Associazione Immigrati Cittadini onlus
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Ricerca sul tema: ISLAM E DIRITTI UMANI a cura di Alberto Liguori Università degli Studi di Napoli “L'Orientale” Master di II livello in “Operatore per le relazioni socio-economiche e --------------------culturali euromediterranee: Europa, Mezzogiorno, Mediterraneo” Roma, 8 giugno 2007 ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Via della Dogana Vecchia, 5 – 00186 Roma – Tel. 066879953 /0668801468 - 066877774 (fax) url.: www.internazionaleleliobasso.it - e-mail: [email protected] Introduzione All'indomani dell'11 settembre 2001, le società occidentali si sono trovate alle prese con il difficile tentativo di conciliare, da un lato, le esigenze di sicurezza nazionale e, dall'altro, la salvaguardia dei diritti umani fondamentali. In realtà, da Guantanamo ad Abu Ghraib, dalla pratica delle extraordinary renditions fino all'adozione di legislazioni di emergenza, la guerra globale al terrorismo viene declinata in maniera da comportare una crescente compressione dei diritti umani fondamentali, in deroga agli obblighi sanciti dalle principali convenzioni internazionali e, talvolta, anche ai principi consuetudinari di natura cogente per i quali non è prevista, in alcun caso, la possibilità di deroga 1 . Eppure, una congiuntura internazionale non troppo remota aveva sancito, attraverso il discusso principio dell'ingerenza umanitaria, il diritto/dovere della comunità internazionale di salvaguardare i diritti umani su scala universale, arrivando a derogare la sovranità territoriale degli Stati ritenuti responsabili di siffatte violazioni. In realtà, questa tensione universalista, che arrivava a trasporre la salvaguardia dei diritti umani alla scala dei rapporti internazionali, agli occhi dei più attenti critici, lungi dal configurarsi come spassionata volontà di difendere i diritti umani ovunque fossero calpestati, si manifestava, piuttosto, come volontà di riaffermare la propria sovranità e legittimità 2 . In quest'ottica, il diritto all'ingerenza umanitaria, che in quanto principio a geometria variabile era andato assumendo le caratteristiche di una “crociata” contro alcune aree del mondo, intendeva affermare una sorta di primato culturale dell'Occidente sul tema dei diritti umani, anticipando alcune delle argomentazioni che, 1 Già nel novembre 2001, un appello congiunto firmato dall'Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, dal Consiglio d'Europa e dall' Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell'OSCE, ammoniva la comunità internazionale sul fatto che la guerra contro il terrorismo non potesse in alcun modo giustificare la violazione dei diritti umani fondamentali: «Considerata l'importanza fondamentale dei diritti umani e delle libertà fondamentali in una società democratica libera ed aperta, esortiamo tutti gli Stati ad assicurare che le misure restrittive dei diritti umani adottate come risposta al terrorismo facciano un giusto bilancio tra la legittimità della sicurezza nazionale e le libertà fondamentali nel rispetto degli obblighi del diritto internazionale. Ricordiamo che alcuni diritti non possono essere derogati in nessun caso e tra essi, il diritto alla vita, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, il divieto di torture o crudeltà, di trattamenti inumani o degradanti, i principi di certezza ed irretroattività della legge, eccetto il caso di una legge successiva che prevede una pena minore. Per quanto riguarda gli altri diritti, una deroga è consentita solamente nelle circostanze speciali previste dal diritto internazionale sui diritti umani; deve essere di carattere eccezionale e valutata attentamente. Altre misure analoghe devono essere strettamente limitate nel tempo e nella sostanza e per l'intento richiesto dalle esigenze della situazione, nonché soggette ad una revisione regolare» (Robinson, Schwimmer, Stoudmann 2001, «Diritti umani e terrorismo», www.studiperlapace.it , traduzione non ufficiale). 2 Cfr. Gallissot 2001 e Gambino 2001 cit. in Marta 2005: 126. 2 dopo l'attentato alle Twin Towers, alimenteranno la logica dello scontro di civiltà e della “naturale” contrapposizione tra blocchi culturali contrapposti 3 . Per quanto la violazione dei diritti umani fondamentali non sia ad esclusivo appannaggio dei regimi islamici, è del tutto evidente come, seguendo questa logica, si sia creato un rapporto fortemente dicotomico tra Islam e diritti umani, intesi come termini reciprocamente escludentisi. Nell'analisi dell'intellettuale giordano Walīd Şayf (1998: 63), l'approccio al tema da parte del mondo occidentale, mass media in testa, si struttura in modo da contribuire a produrre un'associazione forzata tra la questione dei diritti umani e l'ipotizzato pericolo del fondamentalismo islamico, associazione che viene poi estesa all'intero mondo islamico, insinuando, implicitamente, e talvolta anche in modo esplicito, che il mondo islamico e la cultura ad esso legata siano “essenzialmente ed intrinsecamente ostili ai diritti umani”. In altre parole, “l'islam è descritto come una religione essenzialmente violenta, estremista e assolutista”. Ci si trova, in effetti, all'interno della stessa logica che ha permesso l'identificazione tra il concetto di modernità e quelli di secolarizzazione ed occidentalizzazione, con il risultato di contribuire a produrre una strategia difensiva di repli, determinando una “polarizzazione distruttiva tra la chiusura culturale e il ritorno ad un modello del passato, da un lato, e l'occidentalizzazione in nome del progresso e della modernità, dall'altro”. Occorrerebbe decostruire questa perversa logica culturalista che si basa su di una visione riduzionista delle identità, e che trascura la portata delle divisioni e delle diversità interne ad ogni singolo gruppo sociale e culturale. In quest'ottica, l’alterità culturale è considerata come un’entità omogenea ed assoluta, all’interno della quale vanno ad iscriversi i comportamenti degli individui ad essa riferibili. In realtà, come ci insegnano gli studi antropologici, le culture non sono da intendere come totalità compatte ed omogenee, quanto piuttosto come insiemi perennemente instabili, costantemente fluidi, sempre soggetti a mutamenti, innovazioni ed ibridazioni, ovvero come sistemi simbolici che conferiscono una certa omogeneità all’eterogeneità – economica, sociale, generazionale, di genere: tutte le culture, infatti, sono attraversate 3 Occorre, brevemente, ricordare che la teoria dello scontro di civiltà fece la sua prima comparsa nel 1993 ad opera del teorico delle relazioni internazionali Samuel Huntington. Analizzando i nuovi scenari internazionali che si andavano concretizzando dopo la caduta del muro di Berlino, lo studioso americano non preconizzava l’avvento di una super-società monoculturale e pacificata, quanto piuttosto quello di un mondo profondamente diviso sulla base delle diverse identità culturali. In contrapposizione alle teorie di Fukuyama sulla “fine della storia”, Huntington non vedeva la modernizzazione come sinonimo di occidentalizzazione e di democratizzazione, ovvero come trionfo del modello occidentale di sviluppo fondato su capitalismo di mercato e democrazia liberale. Nella sua ottica, la ricerca di nuovi equilibri planetari non sarebbe stata caratterizzata da una convivenza pacifica; piuttosto egli individuava come elemento centrale e maggiormente pericoloso dell’incipiente scenario politico internazionale il crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà. 3 da fratture di potere, più o meno accentuate, e di conseguenza da conflitti, opposizioni, resistenze. Seguendo questa prospettiva analitica, nell'analizzare le violazioni dei diritti umani fondamentali compiute nei Paesi islamici, con particolare riferimento alla condizione delle donne e delle minoranze etnico-religiose, bisogna affrontare un problema non strettamente religioso, quanto piuttosto inerente all'affermazione di regimi autocratici, particolarmente ostili al riconoscimento delle libertà fondamentali. In questo senso, non stupisce affatto notare come una fetta consistente delle violazioni dei diritti umani nel mondo arabo-islamico vengono da lungo tempo perpetrate da governi fondamentalmente secolari. La lotta per l'affermazione e la salvaguardia dei diritti umani fondamentali in questi Paesi non può che essere disgiunta dalla lotta per una radicale riforma dei sistemi politici, verso forme di governo che garantiscano un'adeguata rappresentatività della popolazione ed il libero dispiegarsi del pluralismo politico. Non sembra questa la strada intrapresa dai governi occidentali che, intenti ad “esportare la democrazia”, hanno favorito l'insediamento di molti regimi arabo-islamici in cui il rispetto dei diritti umani è solo formalmente proclamato. In realtà, come ha recentemente notato Abdel Bari Atwan a proposito dell'islam moderato 4 , i regimi arabo-islamici che tuttora sono appoggiati dalle potenze occidentali, sono regimi moderati dal punto di vista politico piuttosto che da quello strettamente religioso. 4 Cfr. Conferenza nell'ambito del XII Corso di Formazione e Perfezionamento sul diritto dei Popoli tenutasi a Roma il 17 maggio 2007, organizzato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso – Sezione Internazionale. 4 Diritti universali e particolarismi culturali: la visione islamica La sopraccitata logica dello scontro di civiltà opera da deterrente verso qualsivoglia sforzo tendente alla comprensione ed alla reciproca relativizzazione tra mondi culturali ed universi giuridici. Come sottolinea Claudio Marta, siamo di fronte ad «una sorta di cieco furore universalista» che rimette in discussione «i faticosi tentativi del passato di perseguire, proprio all'insegna dei Diritti Umani, una politica del riconoscimento reciproco tra “popoli”, “culture”, “civiltà”». Ovvero, nel campo dei diritti umani, si è ristabilita una sorta di tensione antinomica tra i principi dell'universalismo e del relativismo, retaggio di una stagione passata, quella della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, che sanciva la neutralità dei diritti, supposti universali, rispetto alle differenze culturali (Marta 2005: 126-127). È da qui che occorre partire se si vuole decodificare correttamente i tentativi di risposta islamica sul tema dei diritti umani. Con tutta evidenza, la Dichiarazione del 1948 esprime una marcata concezione individualistica dei diritti dell'uomo, della società e della storia, che rappresenta il portato delle Rivoluzioni Francese ed Americana e che, facendo esplicito riferimento ai principi costituzionali delle democrazie occidentali, esprime una forte impronta occidentalocentrica. Il catalogo dei diritti presenti nella DUDU è, quindi, espressione di una cultura specifica, di una cultura particolare fatta universale. Se la Dichiarazione del '48 si fregia del titolo di “Universale” lo fa in maniera alquanto pretestuosa, nella misura in cui, l'universalità che ne emerge, di fatto, trovava consistenza solo nella pretesa di estendere i diritti ivi contemplati a tutto il resto del mondo 5 . Pertanto, l'ampio dibattito suscitato nel mondo islamico dalla DUDU, nasce come tentativo di reazione all'approccio liberale ivi espresso, in considerazione di un ulteriore elemento di forte criticità, riferito alla composizione dell'Assemblea delle Nazioni Unite all'indomani del secondo conflitto mondiale. In effetti, la Dichiarazione fu approvata con 48 voti favorevoli, 8 astensioni (Arabia Saudita, Unione Sudafricana, Unione Sovietica, Bielorussia, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria) e 2 assenze (Yemen, Honduras), ma il dato che maggiormente incide è la scarsa rappresentatività del mondo arabo-islamico all'interno dell'Assemblea che approvò la DUDU, derivante dal fatto che solo pochi Stati a maggioranza musulmana aderivano allora all'ONU. 5 A questo proposito cfr. lo Statement on Human Rights, firmato dall'antropologo statunitense Melville Harskovits ed inviato alla Commissione delle Nazioni Unite che stava lavorando alla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. 5 Invero, dei 58 Stati allora Membri solo 6 erano arabo-islamici 6 e 4 non arabi ma a maggioranza musulmana 7 . Non erano, quindi, rappresentati, ben 16 dei 22 membri della Lega Araba e 42 dei 52 attualmente membri della Conferenza Islamica. Partendo da questi dati, da più parti, nel mondo islamico, si sono levate voci circa la presunta incompatibilità di taluni principi espressi dalla Dichiarazione del '48 con i principi sanciti dal diritto islamico. Il caso maggiormente significativo riguarda l'Arabia Saudita, che si rifiutò di sottoscrivere la Dichiarazione del '48 in quanto ritenuta in contrasto con la sharī'a. Le motivazioni ufficiali sono contenute in un Memorandum che il Ministero degli Affari Esteri saudita indirizzò all'ONU: Il diniego da parte del nostro Stato non significa affatto indifferenza nei riguardi degli obiettivi che questi documenti si propongono di perseguire, cioè la dignità dell'uomo [...] Il nostro rifiuto significa piuttosto la volontà irremovibile di proteggere, garantire e salvaguardare la dignità dell'uomo [...] in virtù del dogma islamico rivelato da Dio e non in virtù di legislazioni ispirate da considerazioni materialiste e perciò soggette a continui cambiamenti (cit. in Pacini 1998: 8). In aggiunta a questa motivazione di fondo, il Memorandum rigettava tre punti specifici della DUDU: il diritto della donna musulmana di sposare un non musulmano, il diritto di cambiare religione, il diritto di scioperare e di costituire sindacati. Queste tre riserve specifiche rendono evidente il contrasto tra una visione fortemente conservatrice dell'islam e i moderni diritti dell'uomo, nella misura in cui si tratta di questioni che toccano il cuore dei diritti universali dell'uomo, come la libertà di scelta matrimoniale, la libertà di coscienza e il diritto di associazione. In realtà, altri Paesi Islamici si contrapposero alla rigida interpretazione wahhābita 8 e, sulla scorta di una interpretazione modernista 9 , espressero una posizione più liberale, cercando di dimostrare che l'islam si può adattare alle esigenze di una moderna società, per la promozione di una società più giusta e rispettosa dei diritti dell'uomo, pur nel rispetto dei principi islamici. In ogni caso, un punto chiave che contraddistingue il dibattito islamico sui diritti 6 Nell'ordine, Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Libano, Siria, Yemen. 7 In questo caso, Afghanistan, Iran, Pakistan, Turchia. 8 Il Wahhabismo è il nome del movimento islamico scaturito dalla "riforma" religiosa realizzata da Muhammad ibn Abd al-Wahhāb, rigorosamente ostile a ogni interpretazione personale dei giurisperiti musulmani, ed è a favore di una lettura testuale della sharī'a. 9 In prima approssimazione, possiamo definire la corrente modernista come quella corrente che cerca d'interpretare l'Islam in maniera da renderlo compatibile con i processi di modernizzazione delle società musulmane contemporanee. 6 dell'uomo risulta incontrovertibile, nella misura in cui la specificità islamica sulla questione dei diritti è rivendicata non sulla base di considerazioni socio-economiche o culturali, bensì sulla base di un piano specificatamente religioso. Si tratta, con tutta evidenza, di una visione confessionale dei diritti dell'uomo, nella misura in cui, se nelle dichiarazioni internazionali il fondamento del diritto è rappresentato dall'uomo stesso, nella misura in cui si riconoscono diritti innati della persona umana, nel diritto musulmano il fondamento del diritto è Dio, nel senso che Dio è soggetto ultimo dei diritti, cui corrispondono doveri da parte dell'uomo, e nel senso che la volontà di Dio determina i diritti e i doveri reciproci che intercorrono tra gli uomini (cfr. Pacini 1998: 5). Nell'ottica islamica, Dio è l'origine di tutto ciò che esiste; nel contempo, l'uomo ha una grandissima dignità nel creato, espressa dal concetto di halifa (califfo), che assegna all'uomo la luogotenenza di Dio sulla terra. L'uomo deve seguire la via che Dio gli ha indicato con la rivelazione coranica e la sunna profetica. In ultima istanza, è dunque la sharī'a, in quanto manifestazione della volontà di Dio, a costituire la giustificazione dei diritti e dei doveri e che, in quanto tale, viene considerata universale e normativa. Ne consegue che la sharī'a, essendo legittimata dalla rivelazione, risulta superiore a qualsiasi altra legge frutto di iniziativa umana. Partendo da questa visione tradizionale del diritto islamico, le difficoltà ad accettare la proclamazione di diritti universalmente riconosciuti risiedono non solo nel diverso fondamento del diritto, ma anche per una serie di contrasti esistenti a livello di diritti specifici. Se, in effetti, i diritti universali dell'uomo si basano sui principi fondamentali dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani e della loro uguale libertà, il diritto musulmano classico si articola sulla base di tre fondamentali relazioni di disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e schiavo, sebbene quest'ultimo punto sia generalmente considerato superato dai giuristi e dagli intellettuali musulmani. Questo punto, in realtà, merita forse un'ulteriore precisazione, nella misura in cui il diritto islamico prevede due differenti tipi di uguaglianza, davanti alla legge e davanti a Dio. Ovvero, distinguendo tra valore umano della persona e funzione sociale, se davanti alla legge sono previste delle differenze tra uomo e donna e tra musulmano e non musulmano, davanti a Dio non c'è alcuna differenza, tutti gli esseri sono uguali. In altre parole, nel diritto islamico convivono eguaglianza ontologica e disuguaglianza funzionale. 7 La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nell'islam (1981): un approccio confessionale Il primo tentativo di codificazione di una Dichiarazione islamica sul tema dei diritti umani è dovuto all'iniziativa di un organismo privato, il Consiglio Islamico d'Europa, con sede a Londra, e fondato, con il significativo sostegno del governo pakistano, da una serie di associazioni di musulmani immigrati in Europa. Attraverso questa Dichiarazione, che come tale non aveva valore vincolante e che non ha mai ricevuto l'adesione ufficiale da parte dei Paesi islamici, si intendeva affermare con chiarezza quali fossero i diritti dei musulmani, che nessun governo avrebbe potuto violare ed, altresì, mostrare che il Corano e le fonti della dottrina islamica non sono antinomiche rispetto alla moderna concezione dei diritti dell'uomo. In realtà, in spregio alla dichiarata universalità, essa non fa che richiamare i principi del diritto islamico. Ovvero, risulta “universale” solo nella misura in cui essa si riferisce all'universalità dei musulmani, di cui enuclea i diritti e i doveri fondamentali che derivano dalle prescrizioni religiose e risulta, per questa via, finalizzata a garantire l'esercizio dei diritti e doveri del credente musulmano, l'esclusivo e pieno soggetto di tali diritti, all'interno di uno Stato musulmano, in conformità alla sharī'a. In aggiunta, tale Dichiarazione non può dichiararsi universale nemmeno nella misura in cui voglia essere espressione di un consenso islamico universale. Sebbene nel suo preambolo, pur senza indicarne i nomi, si descrive come “elaborata da eminenti eruditi, giuristi musulmani, rappresentanti dei movimenti islamici” (cit. in Ali Merad 1998: 130), non si riesce a sanare il vizio di fondo, dovuto al fatto che l'organizzazione promotrice, il Consiglio Islamico d'Europa, non è rappresentativo della totalità del mondo islamico. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nell'islam, composta da un Preambolo e 23 articoli, fu presentata nelle sue versioni araba, francese ed inglese nella sede dell'UNESCO a Parigi il 19 settembre 1981. L'orientamento teologico-giuridico dato alla Dichiarazione è immediatamente percepibile dall'analisi della versione in lingua araba, nella misura in cui ogni articolo è accompagnato dalla citazione di uno specifico versetto coranico o con il riferimento ad una sunna profetica, che costituiscono la giustificazione della rispettiva norma. Tali citazioni non sono soltanto funzionali a stabilire la congruità del Corano con i diritti dell'uomo, ma esprimono anche il preciso significato con cui tali diritti debbano essere 8 intesi. Questi riferimenti dottrinari mancano nelle versioni in lingua francese ed inglese, destinate, evidentemente, ad un pubblico occidentale; in questo caso è sufficiente un semplice rimando alle sure o ai versetti del Corano, o alle raccolte di hadīt. Ma la differenza fondamentale tra la versione araba e quella inglese e francese, che ha spinto alcuni autori (cfr. Borrmans 1999) a parlare di una doppia presentazione della Dichiarazione, si manifesta nelle disparità che emergono dalle traduzione dall'originale arabo. A ben vedere, nel testo arabo, si fa riferimento alla sharī'a, la legge religiosa islamica, mentre i testi in inglese e francese fanno riferimento alla legge dello stato (law/loi) 10 . Così, ad esempio, l'art. 3 sul “Diritto all'uguaglianza” che nelle versioni occidentali recita “Tutti gli uomini sono uguali secondo la legge”, ha un significato ben diverso nella versione originale araba, laddove diventa “Tutti gli uomini sono uguali secondo la Legge islamica”. In effetti, con l'uso del termine sharī'a, legge religiosa, in luogo del termine qanun, legge civile, si esprime un concetto di uguaglianza che si traduce nel riconoscere i diritti e i doveri prescritti dalla legge religiosa per ogni categoria di persone, tra le quali non si deve operare nessuna discriminazione. Così inteso, il principio di uguaglianza e non discriminazione è legato all'appartenenza alla propria umma, per cui gli appartenenti alla umma islamiyya, la comunità universale dei musulmani, godranno di diritti diversi rispetto a quelli appartenenti alle altre confessioni religiose rivelate. In effetti, a ulteriore conferma di questa discrasia tra le traduzioni, ogni qualvolta si incontra il termine popolo (people/peuple), nella versione araba vi corrisponde il termine umma e non, come sarebbe stato corretto, il termine shaab (popolo). Ulteriori elementi di disparità emergono dall'analisi, ad esempio, dell'art. 12 sul “Diritto alla libertà di pensiero, di credo e di parola” che, nelle formulazioni inglese e francese, è sostanzialmente conforme alle norme internazionali, prescrivendo il diritto ad esprimere il proprio credo ed il proprio pensiero liberamente, a patto di rimanere nei limiti prescritti dalla legge. Nella versione araba, invece, tali limiti non sono, ancora una volta, quelli della legge civile (quanun), bensì i limiti generali (hudud) che la Legge islamica ha predisposto in materia. Seguendo questa prospettiva, nell'etica islamica esistono dei limiti, non solo alla libertà di espressione, ma anche alla libertà di pensiero e credo religioso, derivanti dalle norma saraitiche 11 . 10 E' pur vero che nelle note esplicative a fine testo si precisa che il termine law/loi risulta comprendere “la totalità degli ordinamenti tratti dal Corano e dalla sunna e ogni altra legge dedotta da queste due fonti per mezzo di metodi considerati validi dalla giurisprudenza islamica”. 11 La Dichiarazione non parla apertamente di apostasia ma, in diversi articoli, si richiama latamente la normativa del diritto islamico classico in materia. L'islam, ricordiamo, sanziona la conversione di un 9 Anche le disposizioni sul “Diritto alla giustizia” (art. 4) e sul “Diritto all'equo processo” (art.5) che nelle versioni occidentali sono assolutamente in linea con le disposizioni internazionali, scontano il perdurare di questa discrasia tra il riferimento alla legge civile ed alla legge religiosa nelle differenti versioni. Invero, assume rilevanza fondamentale, e soprattutto alla luce degli avvenimenti di più cogente attualità richiamati all'inizio di questo lavoro, quanto disposto dall'art.7 della Dichiarazione riferito alla tortura ed ai trattamenti degradanti. Il “Diritto di essere protetto contro la tortura” pone un divieto assoluto di tortura sia nei confronti del colpevole che, in misura maggiore, dell'imputato: “qualunque sia il crimine compiuto o la pena predisposta dalla Legge islamica, il valore umano (del colpevole) e la sua dignità di figlio di Adamo debbono rimanere salvi”. In conclusione di questa breve analisi sulla I Dichiarazione islamica, possiamo senza dubbio affermare che si tratta di un tentativo di codificazione degno di interesse, nella misura in cui esso è intervenuto per colmare un vuoto avvertito dalla comunità musulmana e che, pur tuttavia, esso rappresenta soltanto una tappa sul lungo percorso di ricerca che dovrebbe giungere ad una riformulazione del messaggio islamico, con linguaggio e contenuti storicizzati ed adeguati ai tempi. In effetti, ciò che tale Dichiarazione maggiormente sconta è una sorta di sovrapposizione dei campi applicativi, che si manifesta nell'inserimento in una dichiarazione dei diritti dell'uomo di alcuni elementi in grado di limitare fortemente l'esercizio di questi stessi diritti. In particolare, la Dichiarazione sembra fortemente sbilanciata verso gli imperativi di ordine pubblico e di sicurezza relativi alla società e allo stato, piuttosto che verso la tutela della persona umana e dei suoi diritti inalienabili che dovrebbero rappresentare l'oggetto della Dichiarazione. Ovvero, facendo continuamente riferimento ai limiti previsti dalla legge, la quale, soprattutto sotto i regimi autoritari, rappresenta l'espressione degli interessi della classe dominante, si configura, a tutti gli effetti, come espressione di una tendenza conservatrice. musulmano ad un'altra religione (per l'uomo è prevista la condanna a morte e per la donna la prigione a vita). Sebbene in numerosi Paesi (tra gli altri Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto), la legge non preveda alcuna sanzione penale per gli apostati, essi nondimeno subiscono discriminazioni pesanti in materia di diritto di famiglia, in materia di successione etc. 10 La Dichiarazione dei diritti dell'uomo nell'islam (1990): un approccio teologicogiuridico Il secondo tentativo di una formulazione islamica dei diritti dell'uomo è datato 1990 ed ha per titolo “ Dichiarazione dei diritti dell'uomo nell'islam”, presentata dall'Organizzazione della Conferenza Islamica 12 , nella sua XIX conferenza dei Ministri degli Affari Esteri. Se la Dichiarazione del 1981 utilizzava il linguaggio tipico degli intellettuali e si configurava alla stregua di un vero e proprio manifesto, quest'ultima Dichiarazione utilizza, invece, un linguaggio prettamente giuridico, tale da renderla formalmente non dissimile dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948. Come la precedente, invero, anche quest'ultima Dichiarazione rappresenta una pura enunciazione teorica, non prevedendo espressamente alcuno strumento di ratifica ovvero di adesione formale da parte dei Paesi islamici. E pur tuttavia, essa può intendersi come maggiormente rappresentativa del punto di vista islamico sulla questione dei diritti umani, nella misura in cui l'Organizzazione della Conferenza Islamica che la ha promossa rappresenta la voce ufficiale dei governi islamici. Composta da un Preambolo e da 25 articoli, questa Carta è prettamente improntata allo spirito e alla lettera del diritto islamico, sebbene non vi compaiano riferimenti espliciti al Corano ed alla sunna profetica. Ovvero, diritti e doveri sono stabiliti in base alla sharī'a ed a questa si rimanda per stabilirne il contenuto e l'interpretazione. In effetti, l'art. 24 recita “Tutti i diritti enunciati in questo documento sono subordinati alle disposizioni della sharī'a”, mentre secondo l'art. 25, “La sharī'a islamica è la sola fonte di riferimento per spiegare e chiarire ogni articolo di questa Dichiarazione” . Dal punto di vista dei contenuti, la Dichiarazione dell'OCI si pone sulla stessa linea teologica conservatrice della precedente. Ad esempio, pur affermando il principio di eguaglianza di tutti gli uomini “dal punto di vista della dignità umana e dell'adempimento delle responsabilità fondamentali, senza alcuna discriminazione di razza, colore, lingua, sesso, religione, appartenenza politica, condizione sociale o altro” (art. 1), il soggetto dei diritti cui ci si riferisce nella appare il musulmano credente, nella misura in cui, come recita lo stesso articolo poco più avanti, “la vera fede garantisce un accrescimento della dignità sulla via dell'umana perfezione”, in virtù del 12 L'Organizzazione della Conferenza Islamica, creata a Rabat il 25 settembre 1969, è un'organizzazione intergovernativa che raccoglie 55 Stati islamici e può, in estrema approssimazione, essere indicata come la voce ufficiale dei governi islamici. 11 principio secondo cui “l'islam è la religione naturale dell'uomo” (art. 10). In altre parole, tacendo dei diritti dei non musulmani, si riafferma implicitamente la loro posizione giuridica di dimmi. Anche le norme sulla libertà di espressione e di coscienza sono radicalmente limitative rispetto a quanto previsto nella Dichiarazione ONU del '48. In particolare, l'art. 22 afferma che ogni individuo ha diritto di esprimere liberamente la sua opinione, purché “in modo non contrario ai principi della legge islamica”. Altrimenti detto, nonostante l'affermazione di principio sulla libertà d'opinione e di espressione, l'esercizio concreto di questo diritto viene radicalmente compresso dalle clausole fortemente limitative riguardanti la sua compatibilità con i precetti religiosi islamici, accompagnati dal divieto generale di diffondere opinioni che possano disgregare la società. Inoltre, l'art. 22b richiama l'istituzione dell'hisba in cui trova espressione giuridica a livello individuale il principio coranico del diritto/dovere collettivo di promuovere il bene ed impedire il male. Tale richiamo costituisce una ulteriore limitazione all'esercizio delle libertà individuali, nella misura in cui si viene a creare un sistema di controllo reciproco del corretto modo islamico di pensare e di vivere, che abilita ogni musulmano a fare ricorso ai mezzi offertigli dalla sharī'a per impedire il compimento di atti contrari all'ortodossia islamica. Il richiamo alla normativa islamica risulta ancora più esplicito laddove si fissano i diversi diritti e doveri dei coniugi e si richiamano le disposizioni islamiche in tema di diritto di famiglia. In effetti, l'art. 6 recita: “La donna è uguale all'uomo in dignità; i suoi diritti sono equivalenti ai sui doveri. Essa gode dei diritti civili, è responsabile della sua indipendenza economica e ha il diritto di conservare il patronimico e i legami familiari. Il marito ha il compito mantenere la famiglia ed è responsabile della sua protezione”. In altri casi, si richiamano norme di diritto islamico che appaino in perfetta continuità con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti. E' il caso dell'art. 3 che richiama le norme di diritto islamico in caso di guerra, come la proibizione di uccidere persone non belligeranti, in particolare vecchi, donne e bambini”, di provvedere alle cure mediche per i feriti, “al cibo, ad un riparo e agli indumenti” per i prigionieri”, oltre al divieto di “devastare installazioni ed edifici civili appartenenti al nemico con il ricorso a bombardamenti, esplosivi o altri mezzi”. O ancora, è il caso dell'art. 22b che proibisce qualsiasi attività che inciti “all'odio su base etnica o religiosa, così come a qualunque forma dii discriminazione razziale”. Ma l'elemento di maggiore novità introdotto da questa Dichiarazione è costituito da una netta presa di posizione politica contro il colonialismo e da un'altrettanta netta 12 affermazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione. In effetti, all'art. 11, si definisce il colonialismo, in ogni suo aspetto, come “la forma di asservimento più dannosa” e sancisce che “i popoli oppressi dal colonialismo hanno il pieno diritto alla libertà e all'autodeterminazione” e che pertanto ne deriva un dovere per tutti gli stati e per tutti i popoli “ad appoggiare le lotte che mirano a liquidare ogni forma di colonialismo e di occupazione” (art. 11b). Questa proclamazione solenne trova, anche in questo caso, una sua giustificazione nei precetti islamici e, precisamente, nel principio secondo il quale “l'uomo è nato libero; nessuno ha il diritto di umiliarlo, opprimerlo, sfruttarlo. Non può esservi altra sottomissione che quella a Dio, l'Onnipotente” (art. 11a). In ogni caso, nel tirare le somme, non possiamo che concordare con chi pone questa seconda Dichiarazione islamica sui diritti dell'uomo sulla stessa linea conservatrice della prima. In effetti, anche in quest'ultima Carta, il linguaggio dei diritti umani viene integrato nel quadro preesistente della sharī'a, cosicché quest'ultima non è mai interrogata criticamente per stimolarne un'evoluzione che sia veramente conforme ai diritti umani sanciti nelle dichiarazioni internazionali dell'ONU (cfr. Pacini 1998: 14). 13 La Carta araba dei diritti dell'uomo (1994): il primato della politica Il progetto della Carta araba dei diritti dell'uomo è stato formulato dal Comitato per i diritti dell'uomo della Lega degli Stati Arabi, organismo internazionale con sede al Cairo che riunisce 22 Stati del mondo arabo. Questo documento rappresenta una radicale inversione di tendenza rispetto alle precedenti dichiarazioni, nella misura in cui sembra situarsi su di una linea pragmatica riformista, espressione diretta non di un orientamento religioso, quanto piuttosto di un'identità araba nazionalista. In effetti, a differenza dei precedenti, nel documento non compare nessun riferimento diretto all'islam, né alla legge religiosa islamica, se si eccettua il Preambolo in cui si menziona Dio per aver onorato il mondo arabo facendone “la culla delle religioni”, e si esprime la volontà di voler attuare i principi eterni di fratellanza e di uguaglianza tra gli esseri umani, così come stabiliti dalla sharī'a e dalle altre religioni celesti 13 . La Carta è dotata di una forte valenza politica, legata soprattutto alla questione palestinese, che si evidenzia in maniera immediata già nel preambolo, laddove si sancisce “il diritto delle nazioni all'autodeterminazione” unito al “rifiuto del razzismo e del sionismo, che costituiscono entrambi una violazione dei diritti umani ed una minaccia alla pace mondiale”. In effetti, dall'analisi del documento, sembra trasparire il tentativo, legato ad una determinata contingenza storico-politica, di riaffermare le idee basilari del nazionalismo arabo in opposizione alle diffuse tendenze di islamizzazione delle istituzioni e dei rapporti socio-politici. In quest'ottica, ponendo l'enfasi sulla comune identità araba, si permetterebbe di superare la tradizionale dicotomia giuridica tra musulmani e non musulmani, che fa sì che essi, pur essendo cittadini dello stesso Stato, possano godere di statuti differenti. In questo modo, verrebbero poste le basi per una cittadinanza nazionale comune, indipendente dall'appartenenza confessionale. La preminenza della sola cittadinanza rispetto a qualsiasi altra appartenenza emerge dal disposto dell'art. 2, che garantisce a ogni persona che si trovi sotto la giurisdizione di uno degli Stati-parte “il godimento di tutti i diritti e libertà stabiliti da questa Carta senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione 13 In questo caso, è interessante notare come i riferimenti religiosi non siano ad esclusivo appannaggio dell'islam, ma si accompagnano ai riferimenti alle altre religioni celesti, in primo luogo le religioni del libro, cristianesimo ed ebraismo. 14 politica, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di ogni altra condizione e senza discriminazione tra uomini e donne”. Questo disegno traspare, oltre che dalla nuova impostazione del concetto di cittadinanza, dalle innovazioni che riguardano le forme di rappresentanza politica e di legittimazione del potere. In effetti, le precedenti Dichiarazioni richiamavano la dottrina tradizionale sulla sovranità e sul potere su cui si fonda il concetto di Comunità islamica, secondo cui la fonte del potere è Dio e l'amministrazione di questo potere spetta all'inviato di Dio in Terra (il profeta e inviato Maometto ed in seguito i Califfi, suoi vicari). Invertendo radicalmente questa dottrina, la Carta araba, all'art. 19, afferma solennemente che “Il popolo è la fonte del potere”. La legittimazione della sovranità risiede dunque nel popolo, che la esprime attraverso l'elezione dei suoi governanti. Per tale via, alla Umma islamiyya, comunità universale dei musulmani che travalica i confini nazionali, si sostituiscono gli Stati-Nazione. E ciò significa, anche, che la legittimazione democratica della sovranità implica la partecipazione politica generale, sulla base della sola cittadinanza. Come espresso nello stesso art.19, “La capacità politica è un diritto di ogni cittadino maggiorenne che la esercita conformemente alla legge”. Appare superfluo notare che, qui come altrove nella Carta, la legge cui ci si riferisce è la legge civile dello stato (qanun) e non più la legge religiosa islamica (sharī'a). Inoltre, risulta del tutto evidente che una tale impostazione tende a contrapporsi frontalmente ai richiami al “governo di Dio” che i movimenti islamisti esprimono nella loro visione progettuale di uno Stato e di una società islamici. Il carattere fortemente laico di questo documento è sancito anche dall'assenza di limiti previsti alla libertà di credo, pensiero e opinione, salvo quelli previsti dalla legge civile. Infatti, all'art.27, si afferma: “Ogni persona di qualsiasi religione ha diritto di praticare il suo culto religioso, ha inoltre diritto di esprimere le proprie opinioni con la parola, la pratica, o l'insegnamento senza pregiudizio dei diritti degli altri”. Ciò nonostante, alcuni critici hanno osservato che manca un esplicito riferimento al diritto di cambiare religione che, ricordiamo, nel diritto islamico classico prevede la condanna a morte (reato di apostasia). Alcune reticenze si ravvisano anche a proposito del diritto di famiglia, nella misura in cui vengono omessi tutti i riferimenti al modo di formazione della famiglia e del regime matrimoniale. L'art. 38, in effetti, non va al di là di una affermazione di principio, secondo cui “La famiglia è l'unità fondamentale della società e gode della sua protezione. Lo Stato garantisce alla famiglia, alla maternità, all'infanzia ed alla vecchiaia una tutela privilegiata ed una particolare protezione”. In assenza di riferimenti più espliciti, alcuni autori (cfr. Cilardo 2002) ritengono che, sul diritto di 15 famiglia, si sia tacitamente operato un rimando alla disciplina del diritto islamico per ciò che riguarda i musulmani ed alle norme del proprio statuto personale per gli appartenenti alle altre religioni. In realtà, basterebbe richiamare gli articoli in cui la Carta stabilisce il primato della legge civile su quella religiosa ed afferma la assoluta uguaglianza di tutti i cittadini per depotenziare ogni possibile tentativo di discriminazione su questo tema. Un ulteriore ed importante passo in avanti compiuto dalla Carta del 1994 riguarda le disposizioni ivi previste sulla disciplina dei sindacati e del diritto di sciopero, di fondamentale importanza soprattutto se si rammenta la riserva posta dall'Arabia Saudita alla Dichiarazione ONU del '48 proprio su questi temi. In effetti, nelle visioni islamiche più tradizionaliste non è contemplato che vi siano interessi confliggenti in seno alla comunità islamica, in quanto essa garantisce i diritti di ogni suo membro e risolve ogni tipo di controversia, per cui il diritto di sciopero non è necessario e la costituzione di sindacati è avversata. La Carta araba supera questa concezione fortemente reazionaria, riconoscendo la possibilità, sopratutto in tema di lavoro, che gli interessi di una parte della società non coincidano necessariamente con gli interessi di un'altra parte. Ecco quindi che, all'art. 29, formalmente si afferma che “lo Stato garantisce il diritto di costituire sindacati ed il diritto di sciopero, nei limiti stabiliti dalla legge” che, beninteso, è quella dell'ordinamento civile (qanun). Anche sul tema della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la Carta contiene degli elementi fortemente innovativi ed avanzati. In primo luogo, all'art. 13, viene proibita espressamente ogni sorta di trattamento che possa risultare lesivo della dignità della persona, impegnando gli Stati anche sul versante della prevenzione, attraverso la previsione di obblighi positivi: “Gli Stati parte della presente Carta proteggono tutti gli individui che si trovano sul loro territorio dalla tortura fisica o morale, nonché dai trattamenti crudeli, disumani o degradanti la dignità e adottano misure efficaci per impedirli. Mettere in atto tali pratiche o concorrervi costituisce crimine ed è punito come tale”. Invero, la Carta si spinge ben oltre nella tutela di questo basilare principio, laddove si recepiscono le norme di diritto consuetudinario di natura cogente che non prevedono, su questo tema, la possibilità di deroga. In effetti, la possibilità di adottare provvedimenti in deroga agli obblighi derivanti dalla Carta, in caso di pericolo pubblico che minacci l'esistenza stessa della nazione, di cui all'art. 4, prevede che “in nessun caso, tali limitazioni e deroghe potranno riguardare i diritti e le garanzie relative al divieto di tortura e di trattamento degradante” (art. 4c). Ulteriore elementi fortemente innovativi sono rappresentati dalla previsione di meccanismi di controllo a vari livelli e dalla ricezione delle disposizioni previste nella 16 Carta nell'ordinamento giuridico dei singoli Stati attraverso lo strumento della ratifica. Nel dettaglio, sul primo punto, è richiesta da parte degli Stati membri del Consiglio della Lega Araba la promozione dei diritti umani previsti nella Carta e la vigilanza sul rispetto di tali diritti. In quest'ottica, l'art. 40 della Carta prevede l'elezione di un Comitato di esperti di Diritti dell'Uomo con lo scopo di esaminare, in primo luogo, un rapporto preliminare da presentare entro un anno dall'entrata in vigore della Carta e, in secondo luogo, una serie di rapporti periodici, a cadenza triennale, entrambi presentati da ciascuno degli Stati Membri. Il Comitato avrà poi il compito di presentare alla Commissione Permanente dei Diritti dell'Uomo della Lega Araba, un suo rapporto comprensivo delle opinioni e osservazioni degli Stati (ex art. 41). Il secondo punto prevede, come testé accennato, la previsione dello strumento di ratifica della Carta. Si tratta, con tutta evidenza, di un elemento fortemente innovativo, laddove è la prima volta che una dichiarazione sui diritti umani di matrice arabo/islamica prevede la firma, la ratifica o l'adesione. In dettaglio, all'art. 42, viene stabilita l'entrata in vigore della Carta “dopo due mesi dal deposito del settimo strumento di ratifica o di adesione presso il Segretariato Generale della Lega degli Stati Arabi. Purtroppo, le buone intenzioni espresse nella Carta araba ed il suo approccio radicalmente modernista alla questione dei diritti umani nel mondo arabo rischiano di rimanere nell'ambito delle mere dichiarazioni di principio, nella misura in cui, probabilmente anche sulla scorta di contingenze politiche mutate 14 , non è stato ancora raggiunto il numero di adesioni e ratifiche sufficienti all'entrata in vigore della Carta. 14 Segnaliamo tra gli avvenimenti di maggiore importanza, il fallimento degli accordi di Oslo, che ha condotto il conflitto israelo-palestinese in una situazione di stallo che non vede, per il momento, una possibilità di risoluzione pacifica. 17 Conclusioni Alla luce di questa breve analisi, appare chiaro come l'universo islamico non rappresenti un blocco monolitico ed omogeneo per sua natura ostile all'affermazione dei diritti umani fondamentali. In realtà, è del tutto evidente che esistono delle significative differenze interpretative tra le varie correnti dell'islam. Tali differenze possono dipendere, in particolare, dalla diversificazione di posizioni in relazione dell'eredità relativa al fiqh, la giurisprudenza islamica; in effetti, tale eredità per alcuni ha valore di dogma assoluto e la sua interpretazione viene sottratta ad ogni condizionamento storico o sociale, mentre per altri sarebbe possibile la produzione di un modello interpretativo delle norme religiose che risponda al meglio alle esigenze della società islamica moderna. Alcuni intellettuali arabi riformisti (cfr. Mohamed Talbi cit. in Pacini 1998: 21), ritengono che sia possibile promuovere, come metodo interpretativo per rinnovare la cultura musulmana, una lettura “finalista” del Corano, ovvero approcciandosi alla lettura del Corano in modo da cogliere i legami col contesto storico del tempo in cui fu rivelato e, una volta conosciuta la reale intenzione del Corano rispetto a quel contesto, sarebbe possibile riformarlo in modo creativo alla luce delle circostanze attuali. In quest'ottica, ed anche alla luce dei tentativi di promozione di un dialogo culturale euromediterraneo, sarebbe di vitale importanza saper cogliere i significativi segnali di apertura e di condivisione dei valori a tutela dei diritti umani fondamentali che provengono dal mondo arabo-islamico. In particolare, andrebbe aiutata ed incentivata, la diffusione di una tendenza riformista favorevole ad una re-interpretazione dell'islam alla luce del mutato contesto storico sociale, che possa condurre la cultura islamica e la sua dottrina giuridica ad un dialogo con le altre culture e con la modernità. In altre parole, si dovrebbe favorire la produzione di un modello interpretativo moderno che sia conforme agli obiettivi della sharī’a e che risponda in modo innovativo alle sfide lanciate dalla situazione storico-politica attuale. Un chiaro esempio può essere rappresentato dai tentavi di innovazione rispetto al diritto musulmano classico nella prassi giuridica di molti stati musulmani, che da più parti sono intervenuti ad innovare i diritti individuali, il concetto di sovranità e cittadinanza, i rapporti tra stato, società civile e religione, procedendo sul percorso di una progressiva ricezione dei diritti dell'uomo all'interno degli ordinamenti nazionali. In particolare, sarebbe utile guardare alle recenti codificazioni del diritto familiare in 18 alcuni paesi sponda sud (cfr. Marocco, Egitto), fortemente innovative per ciò che concerne il rispetto e la tutela dei diritti delle donne, Come accennato nell'introduzione, attraverso questo lavoro si è cercato di decostruire la presunta antinomia tra islam e diritti umani, che molto spesso vengono intesi come termini reciprocamente escludentisi. Una volta accertata l'infondatezza di queste teorie occorre, però, interrogarsi sui possibili punti di incontro e di confronto tra le diverse concezioni in materia di diritti umani. Perché come ha efficacemente sintetizzato il noto intellettuale arabo Tariq Ramadan (2006: 49), attraverso l' universalità dei principi non si può imporre l'universalità dei modelli. Allora occorrerebbe, in estrema sintesi, individuale un “nocciolo duro” comune di valori, al quale arrivare attraverso percorsi differenti. Come nota ancora Ramadan (2005): è possibile stabilire valori universali il cui rispetto non sia negoziabile (integrità persona umana, uguaglianza dei diritti, rifiuto dei trattamenti degradanti, ecc.) riconoscendo allo stesso tempo la diversità e la specificità dei riferimenti (religiosi e culturali) e i percorsi che possono portare a esprimerli e rivendicarli? In definitiva, per citare Serge Latouche (1999)15, si tratta di immaginare un «pluriversalismo» che consista nel riconoscimento di una diversità tra le culture, e di una coesistenza nel dialogo tra queste diversità, e che possa condurre a immaginare la compresenza di vie d’accesso diverse a dei valori comuni negoziati e condivisi (uguaglianza, libertà, autodeterminazione etc.), ovvero che riesca a coniugare un’aspirazione comune nella diversità in modo da articolare un reale pluralismo culturale fondato su di una reale democrazia delle culture. 15 Secondo Serge Latouche «Non si tratta di immaginare una cultura dell'universale, che non esiste, bensì di conservare un sufficiente distacco critico perché la cultura altrui conferisca un significato alla nostra. Il dramma dell'Occidente è di non aver mai potuto prendere le distanze da due atteggiamenti, i quali in definitiva portano a un unico risultato: negare la cultura dell'altro, o negare la propria cultura in nome di un universalismo molto particolare» (cfr. Latouche 1999). 19 Bibliografia Al Midani, M.A. (2004), La Charte arabe des droits de l'homme, www.juragentium.unifi.it. Al Midani, M.A. (2004), Les actions de l'Organisation de la Conférence Islamique dans le domaine des droits de l'homme, www.juragentium.unifi.it. Aldeeb Abu-Sahlieh S.A.(1994) , Les musulmans face aux Droits de l'homme, Bochum, Winkler Angioi, S., (2003) "Le dinamiche universalismo-regionalismo nei diritti umani e i loro riflessi sulle relazioni euromediterranee: quali prospettive per un dialogo tra Europa e mondo arabo", in Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo, XVI, pp. 44-85. Borrmans M. 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