8. il coraggio di gesu`, il coraggio dei discepoli e della chiesa

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8. il coraggio di gesu`, il coraggio dei discepoli e della chiesa
8.
IL CORAGGIO DI GESU’, IL CORAGGIO
DEI DISCEPOLI E DELLA CHIESA
PER LA CONDIVISIONE
• Pensiamo a cosa evoca in noi la parola ‘coraggio’ e confrontiamoci su ciò che emerge. Non necessariamente si dovrà giungere ad una definizione univoca: lasciamo che le differenze siano
elemento di stimolo e di riflessione per tutti.
• Ripercorriamo la vicenda di Gesù, dalla sua nascita a Betlemme, neonato fragile come tutti, alla
sua morte in croce a Gerusalemme, vittima di una morte violenta riservata ai malfattori e programmata dalle massime autorità religiose del suo popolo. Quale ‘coraggio’ ci sembra emerga
dalle decisioni e dalle azioni dei diversi attori coinvolti nella sua vicenda umana? Pensiamo a
quale tipo di ‘coraggio’ ebbero Giuseppe e Maria; quale invece gli apostoli ed i discepoli; e quale
ancora Gesù. Ci furono delle donne tra i suoi discepoli: pensiamo anche al loro ‘coraggio’. E quale
fu invece il tipo di ‘coraggio’ delle autorità religiose.
• Possiamo ora far dialogare le idee di ‘coraggio’ emerse dalla riflessione personale e quelle scaturite dalla ripresa della vicenda di Gesù. Quali spunti nuovi ci giungono?
• Cosa pensiamo possa essere ‘coraggio’ oggi per noi cristiani e per la nostra Chiesa? Proviamo
a declinare due o tre concreti, ‘passi coraggiosi’ che riteniamo urgente compiere come singoli e
come comunità ecclesiale.
(Mt 16, 21-25)
Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire
molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore;
questo non ti accadrà mai”. 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei
di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”. 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
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Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia,
la troverà”.
21
PREGHIAMO
Testimonianza di coraggio di Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Tibhirine -Algeria- assassinato con sei suoi confratelli il 21 maggio 1996.
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo…vorrei che la
mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese [l’Algeria]…Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche
meno…
Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono
di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi
avesse colpito…
Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con
lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua
passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e
il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze…
E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio
questo grazie e questo ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso,
se piace a Dio, padre nostro, di tutti e due. Amen!
Inshallah.
(Dal Testamento spirituale, 1 dicembre 1993-1 gennaio 1994)
Preghiamo insieme:
Egli mi ha amato fino all’estremo, all’estremo di me, all’estremo di se stesso…
Mi ha amato a modo suo, che non coincide con il mio. Mi ha amato senza contropartite, in assoluta
gratuità…
Avrei potuto essere amato in modo più discreto, meno solenne.
Mi ha amato come io non so amare: con quella semplicità, quell’oblio di sé, quel servizio umile e non
gratificante, senza alcun amor proprio.
Mi ha amato con l’autorità generosa ma ineludibile di un padre, e anche con la tenerezza indulgente
e mai completamente tranquilla di una madre.
(Dall’ultima omelia del giovedì santo del 1995)
ATTUALIZZIAMO IL MESSAGGIO
Il brano biblico del primo annuncio della passione ci consente di provare a dire qualcosa del coraggio: quello di Gesù innanzitutto e quello, conseguente, che viene richiesto a noi, suoi discepoli ed alla
sua Chiesa.
Gesù manifesta il coraggio di dire e vivere qualcosa di assai impopolare: anticipare a chi si era fidato
di lui l’esito inglorioso di una morte violenta, per giunta tramata dalle massime autorità religiose
dell’epoca, quindi il coraggio di annunciare un compimento alla sua vita per nulla consono alle aspettative di chi lo seguiva, con il rischio concreto di alimentare sensi di frustrazione ed abbandoni. Questo però non lo fa tentennare neppure un attimo dal rivelare con gesti e parole un volto di Dio che si
scolla dal calco in cui le élites lo avevano ingessato.
Egli manifesta, fino all’estremo, un Dio che è Padre, alla cui volontà egli si sottomette sempre,
nell’assoluta fiducia che si tratti di una volontà benefica e salvifica. Questa fiducia nel Padre è l’antidoto contro gli assalti feroci della paura e dell’angosci ed in questi momenti Gesù ripeterà a se
stesso prima che agli altri: “Mio Padre c’è e mi vuole bene, e questa sola è la sua volontà: che nulla
vada perduto di quanto egli mi ha dato” (cfr. Gv 6,39). Gesù è coraggioso di fronte alla paura: non è
una dimensione che esclude o finge di escludere dalla sua vita (sappiamo che ha provato angoscia
profonda, ce lo dicono i Vangeli), ma decide di non lasciare che sia essa a determinare le sue scelte.
E questo gli è possibile perché si fida assolutamente del Padre e si affida alle sue mani e suo Padre,
con l’incarnazione, lo affida anche agli uomini. In tutto questo Gesù non si vergogna nel mostrare la
sua angoscia, così come non teme di abbandonarsi alla fiducia fragile dell’Amore.
Questo brano, come altri, ci mostra poi che nella sua vicenda terrena Gesù ha anche il coraggio di
rompere il flusso scontato delle parole, perché anche per lui, il Figlio, c’è qualcosa d’insondabile nel
mistero del Padre. Rimane salda la certezza che Dio è suo Padre e che vuole solo il bene; giunto
all’estremo, però, anche il Figlio squarcia quel silenzio contro cui le parole si sgretolano, emettendo
solo un grido. La fiducia nel Padre che lo ha affidato al mondo, gli consente di stare in silenzio ed in
attesa invocante di fronte a tante situazioni di dolore, anche alla propria. Gli dà anche il coraggio di
ascoltare la verità vivente che si muove per le strade del mondo, quelle nella quali Gesù ha voluto
instancabilmente camminare, perché ha fatto sua la carne umana e la carne del mondo, e non le ha
considerate come semplici sfondi su cui recitare un copione già scritto in ogni sua virgola. Proprio
per questo ha saputo assumere uno sguardo profondo sulle cose, sulle persone, sul mondo, accostandosi alla soglia del mistero in esse racchiuso e sostandovi, in ascolto ed in attesa. Senza fretta,
ma anche senza gli immobilismi di chi pensa che nulla ci sia ancora da scoprire, perché sa che Dio
parla ed agisce nel groviglio mobile delle relazioni umane. Il coraggio di Gesù è quello di suo Padre:
hanno voluto entrare nel mondo ed abitarlo stabilmente e non solo offrire enunciazioni su di esso.
Possiamo trarre da questi rapidi cenni sul coraggio di Gesù (e di suo Padre) qualche considerazione
sul coraggio che a noi cristiani è richiesto, come fu chiesto a Pietro.
Innanzitutto pare che anche a noi Gesù chieda di spossessarci delle nostre sempre provvisorie -ma
tanto rassicuranti- immagini di Dio, mettendoci sempre e di nuovo in cammino dietro di lui. È il coraggio di riconoscere la nostra inadeguatezza ad essere custodi fedeli della somiglianza con Dio e
ad essere espressione del suo volto. Questo porta con sé altre declinazione del coraggio: lasciarci
amare –come Cristo desidera- per quello che siamo, con le nostre incrinature e le nostre fragilità e
non per quello che vorremmo essere. Non è mai cosa facile.
Vista la nostra fragilità, potremmo anche avere cura di non riversare risposte confezionate e pronte
per ogni circostanza, mettendoci invece sempre alla ricerca, insieme ai fratelli, credenti e non credenti, delle tracce che Dio dissemina nel mondo. Porsi in serio ascolto delle differenze che ci arrivano dalla presenza degli altri e dal contesto culturale, può essere un buon antidoto all’atteggiamento
di assimilazione di ogni cosa alla nostra limitata misura; un atteggiamento che spesso proiettiamo
anche su Dio, identificandolo idolatricamente solo con ciò che nel passato e fino ad oggi si è potuto
dire di lui.
Vivendo un nuovo e sempre necessario esodo, possiamo imparare a morire alle nostre ideologie
-anche quelle su Dio- attraverso lo sgretolarsi delle nostre parole contro il muro del rifiuto o dell’indifferenza del mondo: rifiuto o indifferenza nei confronti di Dio o di come noi, suoi discepoli e testimoni, riusciamo a presentare Dio?
Anche a noi è chiesto poi il coraggio ‘divino’ di fidarci ed affidarci alle donne e agli uomini del nostro
tempo senza avere l’assoluta certezza che possano meritarsi la nostra fiducia. Questo atto di fiducia
richiede la grande fatica di affrontare le paure che ci abitano: fidarsi non è automatico. Dobbiamo
però coraggiosamente provare ad aprire le porte delle nostre paure, lasciando che Cristo vi entri.
Certo, se togliamo il sudario della paura e ci arrischiamo sui sentieri poco tracciati della nostra interiorità, aprendola al confronto con l’altro, non ci sarà nulla di garantito; gli incontri potranno essere
spiazzanti e non sappiamo bene dove potranno condurci. Anche l’incontro con Dio è di questo tipo!
Formule da ripetere con le labbra, ma non con la vita sono certo più sicure: non richiedono coraggio,
basta l’abitudine, talora venata anche di una patina di arroganza nei confronti di chi non riesce più a
ripeterle e neppure ad ascoltarle. Ma Gesù Cristo, proprio a questo riguardo, apostrofa Pietro con
l’appellativo di “Satana”. L’idea con cui Pietro tenta di incasellare Gesù è definita da lui stesso come
‘satanica’.
L’invito è allora quello di uscire dalla situazione di peccato, quella che pone se stessi al centro del
mondo: è il peccato del narcisismo, inteso come autoreferenzialità, che genera un “rattrappimento
del cuore su se stesso” (J. B. Metz).
È qui che si colloca il coraggio della fiducia, cioè la capacità di uscire davvero da noi stessi e di
affidarci a Dio, un Dio che, a sua volta, ha deciso di affidarsi agli uomini. Il tragitto verso Dio non può
eludere l’umanità: non sarebbe secondo le sue intenzioni.
Ed è, ancora, il coraggio di estirpare la radice profonda della paura, quella di perdere se stessi affidandosi agli altri, accettando anche la possibilità del rifiuto.
Dobbiamo invocare il coraggio di tornare ad immergerci nella complessità della vita come in un bagno lustrale, in cui il regalo reciproco della fiducia può essere la risposta più difficile, ma anche più
liberante, che la fede sa opporre alla paura. Certo, questo regalo può essere ignorato, non gradito,
scartato; addirittura può essere spezzato. È accaduto a Cristo. E noi, se vogliamo rimanere dietro
di lui, non possiamo fare altrimenti. È il coraggio di riconoscere il passo di Dio e l’eco della sua voce
proprio al cuore delle nostre tensioni: da lì continua a parlarci.
Oggi, in un contesto culturale connotato da evoluzioni rapide che riguardano ogni forma di appartenenza e di identità, anche alla Chiesa è chiesto il coraggio di definirsi in un modo diverso rispetto alle
forme del passato, accettando però tutta la vulnerabilità di un cammino di ricerca.
In questo contesto, è chiesto alla Chiesa il coraggio di riconoscere che anche questo nostro tempo è
tempo di salvezza, attraverso la riscoperta di un aspetto essenziale della storia cristiana: la salvezza
non ci è giunta attraverso la potenza di un Dio che schiaccia con l’autoevidenza della sua grandezza,
ma attraverso la marginalità sofferta della croce di un Messia apparentemente sconfitto. È il coraggio di una Chiesa che sappia andare oltre la “prigionia dell’onnipotenza” (M. Magatti), e che sappia
intraprendere il cammino verso un’identità non “infrangibile” (è la stessa domanda che le proviene
simultaneamente dall’incarnazione del Dio di Gesù Cristo e dagli uomini). Questo potrebbe forse evitare nelle donne e negli uomini del nostro tempo derive soggettivistiche, inevitabili se le persone non
si sentono accolte ed accompagnate, nei tratti salienti della loro umanità, da una Chiesa ad altezza
d’uomo, cioè l’altezza di Cristo. È il coraggio di una Chiesa che sappia aiutare le persone facendosi
aiutare.
Possiamo ancora tentare di declinare il coraggio richiesto oggi alla Chiesa come la capacità di dare
un nome alle sue fragilità, quelle che la minano, ad esempio la tentazione di mostrarsi come guida
“forte” di fronte alle fragilità che molti sperimentano; la tentazione di tornare a contare in modo
univoco nel panorama culturale frammentato, accontentandosi però di svolgere semplicemente il
ruolo di ‘religione civile’, vista come garanzia di identità sociale. Tentazioni ‘forti’, anche perché molti
guardano ad esse come ad una plausibile risposta a quel bisogno identitario a cui aspirano in un
contesto di dispersione e di frammentazione.
La Chiesa può essere coraggiosa invece provando faticosamente a declinarsi come ‘figura fragile’ di
Chiesa (S. Noceti), cioè realizzandosi nella logica espressa dalla croce e dalla resurrezione di Gesù:
una Chiesa capace di essere ferita, in costante atteggiamento d’invocazione perché volta ad attendere ancora e sempre un compimento che non è mai dato in modo storicamente definitivo.
Una ‘figura fragile’ di Chiesa perché ha il coraggio di abbandonare il sarcofago della logica esclusiva
della custodia di sé, o meglio di una sua modalità di essere semplicemente così come si è definita
nelle stratificazioni dei secoli, senza venir meno alla testimonianza limpida e chiara del Vangelo immutabile che le è stato affidato.
Può essere coraggiosa una Chiesa che sappia confrontarsi su ciò che veramente è in grado di garantire nel tempo la costruzione d’identità libere e responsabili, ‘capaci di rendere ragione della speranza’ che le anima, senza appiattirsi soltanto su ciò che è già sperimentato o su ciò che è sterilmente
nuovo. La sfida è tra la staticità dell’immobilismo, che si offre certamente come antidoto di
sicurezza per le nostre paure, e la freneticità di un fare che non consente pause di riflessione, pena
cadere nell’abisso che, correndo, si cerca di scongiurare.
Tra i due estremi c’è la lentezza pensosa di una Chiesa che vive pienamente le sfide del suo tempo,
e le accoglie cercando in esse tracce per un percorso gravido di futuro, nella certezza che Dio abita
anche il nostro mondo contemporaneo. C’è una Chiesa che rifiuta di essere un grembo sterile e per
questo invoca nuovamente il dono della generatività, consapevole di potervi concorrere attraverso
la consapevolezza che quanto ha pensato e concretizzato fino a quel momento non va più bene o
non basta più. E di nuovo occorre intraprendere il cammino dell’esodo. Coraggiosa è una Chiesa che
rimpara ad “uscire” come ci invita a fare Papa Francesco, per annunciare con nuova convinzione ed
entusiasmo il Vangelo capace di dare prospettiva di salvezza alla vita dell’uomo.
È il coraggio di una Chiesa che ricordi sempre che anche a lei è rivolto l’avvertimento di Gesù: “Chi
vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”.
E’ il coraggio di una Chiesa che sa essere fedele a Cristo, come Cristo è restato fedele al Padre, fino
alla fine, ad ogni prezzo.