Memorie di un senese

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Memorie di un senese
OSPEDALE S. NICCOLO’
Un tempo quelli di fuori lo chiamavano "manicomio", ma il personale lo chiamava genericamente "ospedale" e coloro
che per noi erano i "matti", per chi lavorava all'interno di questo grande alveare della follia, erano invece i "malati"
quasi che la genericità della definizione potesse in qualche modo, stemperandone la presunta colpa, proteggerli dalla
nostra arrogante sicurezza.
Io ho frequentato a lungo questo luogo dove la ragione o, meglio, quella che noi vogliamo intendere come tale, era un
concetto variabile, senza frontiere, dai molti occhi e dalle molte lingue. Una città nella città, con strade ognuna col suo
nome e tra un fabbricato e l'altro i giardini con le panchine ed i fiori.
Oggi questa città non c'è più ed al suo posto si sta installando lentamente l'università. Quelle stradine tortuose che
graziosamente salgono e scendono, un tempo venivano percorse da uomini e donne dall'eterno presente, gli sguardi
assenti, i sorrisi dalla mansuetudine inquietante; oggi sono studenti frettolosi e professori assorti quelli che camminano
su quelle stesse strade. La ragione con le sue leggi ordinate si muove sicura su quello che fu l'accidentato cammino del
caos.
Ma ho la sensazione che per una pietà maggiore ma anonima, sia venuta a mancare quella del giorno per giorno,
largamente imperfetta ma che ancora individuava il singolo nella massa.
Quegli esseri che volgevano i loro passi senza orme all'ombra dei padiglioni o degli ippocastani, anche se vestiti
uniformemente, uomini e donne, di abiti grigi a righe, e perpetuamente persi nelle loro fantasticherie incomprensibili,
erano comunque diversi l'uno dall'altro, avevano volti e linguaggi che, per quanto illogici, erano simili ai nostri.
Ma proprio coloro che celavano meglio l'evidenza del loro stato erano i più temuti da coloro che, dal di fuori,
rasentavano l'alta cancellata dell'ospedale e si affrettavano se qualcuna di quelle ombre senza storia faceva capolino tra
le sbarre. Fuggiva, il borghese intimorito, di fronte al disagio che gli procurava chi, in un modo o nell'altro, si trovasse
fuori dai collaudati schemi, temendo che la lebbra della ragione inquinata potesse in qualche modo contaminarlo; le
madri che conducevano i figli a giocare nella piazza antistante il monumentale ingresso dell'ospedale si tenevano ben
lontano dalla porta di quell'inferno tanto più temibile per la serenità aerea dell'alto arco che vi immetteva. E se qualche
bambino si avvicinava attirato dai pazzi non pericolosi che facevano compagnia al portiere, subito le madri intimorite
lo tiravano via: probabilmente, a notte, sarebbero andate ad indagare il volto del figlio addormentato nell'ansioso
timore, che sui suoi lineamenti ancora non definitivi potessero affiorare i segni inquietanti di un futuro barbaro.
Gli infermieri, nell'apparente bizzarria delle loro gabbanelle bianche che non giustificavano nessun visibile male,
parevano, in questo, più pazzi dei loro assistiti, ma avevano verso di loro una affettuosa indulgenza che li apparentava a
padri pazienti che sopportano di buon grado le intemperanze illogiche di figli cresciuti solo nello spazio materialmente
definibile.
Eppure, io che l'ospedale lo frequentai in quelle lontane stagioni, trovai nei i suoi ospiti una candida e talvolta solare
umanità che ancora quasi mi ferisce di nostalgia; ed essi, quelli quieti ovviamente, che incontrai, popolano ancora con
la loro timida presenza tanti momenti della mia vita spirituale.
Il "maresciallo" un vecchietto di più di ottant'anni, capace di spaccare una catasta di legna in due ore, sempre allegro e
che raccontava caleidoscopi di avventure di cui lui era protagonista ed eroe: le ascoltai, quelle storie, affascinato da una
fantasia che aveva debordato dai suoi pur ampi confini e che avrebbe fornito materiali innumerevoli ad un Verne
delirante: il solenne pomeriggio di giugno inoltrato, in sua compagnia, scorreva impercettibile fino alle balze della
notte, il mondo razionalmente tangibile confinato al di là del muro di cinta.
E Vincenzo, rosso di capelli e magro, dallo sguardo mite e senza età, che mi attendeva, silenzioso e sorridente tra i
denti guasti, per il dono di una caramella, un biscotto, un cioccolatino e che spazzava le scale e il piazzaletto antistante
la "Villa uomini".
E quel vecchio doloroso dalla testa rapata e sferica come una zucca e che pareva uscito da un quadro di Bruegel. Mi
raccontava, questo contadino originario della montagna amiatina, che aveva trascorso tutta la vita lì; era sempre stato
triste, spaventosamente triste, tanto che i parenti lo avevano dovuto rinchiudere in manicomio.
E Lucia che mendicava da tutti qualche cosa di dolce: mancanza di affetto nell'infanzia, mi dissero i medici. Una
mancanza tanto forte che Lucia era impazzita di un dolore che si era, nel tempo, mitigato nell'effetto placebo degli
zuccheri.
E l'ingegnere delle ferrovie, un folle sempre silenzioso e severo. Trascorreva il suo tempo che si era arenato, a
compilare complicatissimi orari per treni che esistevano solo nei meandri della sua mente i cui circuiti neurali si erano
fulminati all'improvviso come il motore elettrico del locomotore di un convoglio.
E gli altri, tutti gli altri dei quali non ricordo il nome. Tutti ormai morti, finiti, come mi dissero essere il loro destino
ultimo, sui banchi delle stanze anatomiche dove sarebbero stati utilizzati, insostituibile materiale, per le dimostrazioni
agli studenti della facoltà medica. Poveri corpi che nessuno aveva reclamato. Il loro era stato il destino di certi
sfortunati navigli che rivelatisi incapaci di navigare e pericolosi per la ciurma, erano stati abbandonati e quindi
dimenticati su una spiaggia deserta e qui si erano prima scoloriti e poi dissolti sotto il sole e l'andare lento ma
implacabile della marea.
Abitavo allora sulla collina opposta all'ospedale e lo vedevo baluginare tra gli alberi che lo contornavano. Nelle
giornate ventose o quando il tempo cambiava, i pazzi urlavano le loro angosce e le loro verità. Ma quelle voci, da
vicino certamente sconvolgenti, attraverso la vallata si stemperavano, si scioglievano nell'aria, e perdendo la loro
terribile carica di dolore mi giungevano come quelle dei bambini del vicino asilo: un coro innocente e un po' stonato.
Ma poi e finalmente vennero i tranquillanti: quando il tempo cambiava i malati venivano sedati e dormivano. Le loro
urla, le maledizioni, le risa oscene vennero pietosamente occultate nelle profondità del sonno e il San Niccolò non fu
più quella tumultuosa uccelliera di creature terrorizzate e terrorizzanti.
La nuova legge sui manicomi mandò a casa - chi l'aveva - i pazzi non pericolosi. Tornarono, viaggiatori ormai quasi
dimenticati, reduci da continenti posti ai confini del mondo conosciuto dove i loro linguaggi indecifrabili avevano
avuto cittadinanza uguale a quelli noti. I paesetti li accolsero dove con fastidio dove con sopportazione, dove con pietà
e loro lì, in quei luoghi ormai estranei, ricominciarono i loro pellegrinaggi oltre i noti orizzonti di colline e campi.
Rimasero, nell'antico ospedale ormai superato dai tempi, solo i troppo vecchi e chi non aveva neppure più una patria
anagrafica e lì lentamente, uno dopo l'altro, sono passati nel mondo sconosciuto dell'aldilà, quello che né loro né noi
conosciamo, una volta finalmente tutti allo stesso pari, noi e loro.
Ma nulla mi può distrarre, quando al mattino, parcheggiata la macchina in un vialetto, risalgo verso la mia facoltà
universitaria, dal pensiero di quasi due secoli di dolore, di disperazione, di peregrinare inesausto che si sono accumulati
oltre quelle finestre che presto daranno luce ad aule di studio, biblioteche, laboratori.
Non è possibile, mi dico, che tutto si sia cancellato come non fosse mai esistito. Gli sguardi dei folli, le loro voci, i
loro gesti insensati, la loro comunque umanità devono, al pari di quanto avviene con la pellicola fotografica, in qualche
modo aver impressionato le mura, lasciato segni e messaggi. Siamo noi, gente ordinaria, che non riusciamo a coglierli.
Ranieri Carli, pisano di nascita, è da sempre residente a Siena. Laureato in lettere a Firenze, è un contradaiolo della
Tartuca. Dopo un periodo di insegnamento, è stato bibliotecario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Appassionato
di musica classica, ha scritto a lungo su questo argomento su quotidiani e settimanali senesi. Assieme al padre Enzo
(storico dell'arte), ha pubblicato il volume "Arte e guerra a Villa Arceno" e, singolarmente, ha contribuito con saggi e
articoli sempre d’arte su riviste italiane
Fecondo autore di narrativa e poesia ha pubblicato una sua raccolta di poesie "La tana del coniglio" (Arezzo, Edizioni
degli amici), mentre altre sue opere e racconti sono comparsi su periodici italiani.