Concetta Carrà Genere e Costituzione Il ruolo delle donne nella

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Concetta Carrà Genere e Costituzione Il ruolo delle donne nella
Concetta Carrà
Genere e Costituzione
Il ruolo delle donne nella stesura del Testo Costituzionale
«Il giorno in cui, con il mio bel vestito azzurro a fianco di Velio, entrai a
Montecitorio, ero un po’ impacciata. Vicino all’ingresso c’erano giornalisti e
curiosi. Cercavo di apparire disinvolta e dignitosa. Avevamo appena superato i
primi gradini, quando Velio mi piantò in asso, attraversò con due salti tutto l’atrio
e si voltò commosso e affettuosamente ironico per assistere al mio ingresso. In
quel momento, dietro a me, udii un commesso che mi si rivolgeva con queste
parole: “Pss pss ma dove va Lei?”. Timidamente risposi che dovevo entrare
perché ero appena stata eletta. “Anche lei!” fu il commento del commesso e non
ho mai capito cosa volesse dire, se in lui prevalesse lo stupore o la sufficienza»1.
Con queste parole la comunista Nadia Spano, scomparsa il 19 gennaio 2006
all’età di 89 anni, ha ricordato il suo primo giorno da deputata. Velio è suo
marito; all’interno della Costituente sono presenti infatti cinque coppie di
coniugi: gli Spano, comunisti, altre due coppie di comunisti, Teresa Noce e Luigi
Longo e Palmiro Togliatti e Rita Montagnana, e due coppie di democristiani,
Mario e Angela Cingolani e Angelo e Maria Jervolino, genitori di Rosa Russo
Jervolino, attuale sindaco di Napoli.
Com’è noto, l’Assemblea Costituente viene eletta il 2 giugno del 1946, si insedia
il 25 dello stesso mese e rimane in carica circa un anno e mezzo per scrivere la
Costituzione Repubblicana. Al suo interno sono presenti 21 donne, su un totale
di 556 componenti.2 In realtà si sono sempre considerate 20, in quanto la
ventunesima, Ottavia Penna, eletta nelle liste del Fronte dell’Uomo Qualunque,
non l’hanno mai considerata facente parte del gruppo. Nostalgica della
N. Spano, Mabrúk. Ricordi di un’inguaribile ottimista, AM&D, Cagliari, 2005, p. 261.
Le costituenti elette sono le democristiane Bianchini Laura, Conci Elisabetta, De Unterrichter Jervolino Maria,
Delli Castelli Filomena, Federici Maria, Gotelli Angela, Guidi Cingolani Angela Maria, Nicotra Fiorini Maria,
Titomanlio Vittoria; le comuniste Bei Adele, Iotti Leonilde, Mattei Teresa, Minella Angela, Montagnana Togliatti
Rita, Noce Longo Teresa, Pollastrini Elettra, Rossi Maria Maddalena, Gallico Spano Nadia; le socialiste Bianchi
Bianca, Merlin Angelina e la qualunquista Penna Buscemi Ottavia. Cfr. I 556 deputati all’Assemblea Costituente, La
Navicella, Roma, 1946.
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monarchia, si presentava sempre in Aula con lo stemma dei Savoia, rimanendo
volutamente e provocatoriamente in disparte.
Le Costituenti rappresentano una minoranza quantificabile intorno al 3,5%; sono
le prime donne entrate a far parte di un’assemblea elettiva nazionale, avendo
appena ottenuto il diritto di votare e di essere elette. Si tratta di un gruppo molto
giovane, in quanto l’età media è di 40 anni; la più giovane è la comunista Teresa
Mattei (25) e la più anziana la socialista Angelina Merlin (65). Prevalentemente
appartenente alla classe media, vanta una preparazione culturale molto elevata, in
quanto più della metà è laureata.3 È una “pattuglia”, come loro stesse si
definiranno negli anni successivi, arrivata alla Costituente con un curriculum
intenso e una preparazione politica molto solida, maturata in contesti diversi, in
base alla propria appartenenza partitica. Si tratta di una minoranza che ripropone
al suo interno i rapporti tra le tre forze politiche che all’interno dell’Assemblea
hanno ottenuto il maggior numero di seggi: Dc (207), Psi (115) e Pci (104).
Le nove democristiane sono un gruppo omogeneo per quanto riguarda la
provenienza, dal momento che hanno tutte un passato trascorso nelle
associazioni cattoliche, in cui hanno ricoperto incarichi sia a livello di dirigenza
che di presidenza, in particolare nella Fuci (Federazione universitaria cattolici
italiani) e nell’Azione cattolica, che era stata molto attiva nell’organizzare
convegni e riunioni al fine di sensibilizzare le donne verso le problematiche
sociali. Sono figure di rilievo che hanno cominciato ad occuparsi di politica sin
da giovanissime. Angela Guidi Cingolani, ad esempio, ispettrice del lavoro,
prende parte alla ricostituzione del partito e successivamente sarà la prima
donna a far parte di una compagine di governo: nel 1951 diventerà infatti
Sottosegretario all’Industria e al commercio nel Governo guidato da De Gasperi.
Filomena Delli Castelli partecipa all’apertura della sede locale del partito a Città
S. Angelo, il paese in cui era nata, in provincia di Pescara. Maria Federici,
definita negli anni successivi la “voce delle deputate”, particolarmente
combattiva e determinata, è la prima presidente del Cif (Centro italiano
femminile), l’associazione femminile nata tra il ’44 e il ’45 con lo scopo di
coinvolgere le donne nella vita politica, in vista dell’imminente riconoscimento
del diritto di voto.
Le nove comuniste e le due socialiste sono accomunate dall’aver vissuto
l’esperienza di una dura attività antifascista trascorsa in clandestinità, che per
qualcuna ha significato lunghi anni di carcere, com’è successo, ad esempio a
Nadia Spano, o di confino politico, come nel caso di Angelina Merlin, figura
storica del socialismo italiano. Altre, tra cui Teresa Noce, sono state deportate in
Germania; altre ancora, come Teresa Mattei e Nilde Iotti, sono state attive
partigiane e si sono direttamente occupate dei Gruppi di Difesa della Donna,
organismi politici nati subito dopo l’armistizio del ’43 con lo scopo di
La maggior parte ha una laurea in lettere (Conci, De Unterrichter, Delli Castelli, Federici, Gotelli, Iotti, Minella);
o in filosofia (Bianchini, Mattei), una è laureata in filosofia e pedagogia (Bianchi); una in letterature slave
(Cingolani), una in lingue straniere (Merlin), una in chimica (Rossi), cosa molto innovativa perché all’epoca erano
ancora poche le donne laureate in discipline scientifiche. Altre sono operaie (Bei, Noce); una è sarta
(Montagnana), una impiegata (Pollastrini), una insegnante (Titomanlio); due, infine, sono casalinghe (Nicotra,
Penna). Cfr. I 556 deputati all’Assemblea Costituente, La Navicella, Roma, 1946.
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convogliare tutte le energie femminili, indipendentemente dalle appartenenze
partitiche, all’interno della lotta di liberazione nazionale. Alcune sono figure di
spessore, come Rita Montagnana, che fa parte del Partito Comunista fin dalla sua
costituzione e che in seguito sarà tra le fondatrici dell’Udi (Unione donne
italiane), l’altra associazione femminile nata nell’immediato dopoguerra.
Si tratta quindi di una rappresentanza femminile altamente qualificata, dotata di
esperienza, cresciuta nella lotta quotidiana e nell’assistenza, che era stata
appunto candidata dal proprio partito per l’esperienza maturata direttamente sul
campo e per l’elevata competenza. Durante la campagna elettorale ha appena
avuto modo di entrare in contatto con i problemi della popolazione, in
particolare con i bisogni e le esigenze delle donne, anche perché la forte
competizione tra le candidature maschili e femminili aveva spinto i partiti ad
affidare ai candidati gli argomenti più strettamente politici e alle candidate quelli
inerenti la ricostruzione. E’ una minoranza che, pur essendo consapevole di
essere stata eletta in nome dei rispettivi partiti di appartenenza, sente di
rappresentare tutte le donne italiane, a prescindere da impostazioni ideologiche e
indipendentemente dal credo religioso. Riesce quindi, tranne le questioni
sull’indissolubilità del matrimonio e sui finanziamenti statali alla scuola privata,
su cui prevalgono le divisioni di partito, a formare un fronte trasversale che
accanto ai tre tradizionali (centro, destra e sinistra) si presenta forte, combattivo
e ricco di proposte concrete, imponendo ai colleghi, molti dei quali pur non
essendo contrari all’affermazione di un’ottica paritaria non vogliono che la stessa
venga affermata in modo radicale, il riconoscimento e la tutela della mutata
condizione della donna. Pur non rinunciando ad intervenire sulle questioni
cosiddette “generali”, in cui hanno modo di dimostrare la loro preparazione in
materie specifiche, gli argomenti su cui il loro ruolo è stato più incisivo e
determinante sono stati quelli riguardanti la famiglia, i rapporti tra i coniugi, la
maternità, l’infanzia e il lavoro femminile.
Tralasciando le astratte enunciazioni di principio, le deputate dimostrano un
accentuato senso di concretezza, prospettando in modo dettagliato situazioni
specifiche. In tema di famiglia, ad esempio, (gli articoli di riferimento sono il 29,
il 30 e 31) si soffermano, come fa la democristiana Maria Federici, sulla
situazione dei “nuclei familiari irregolari” (oggi diremmo delle “famiglie di fatto”)
o su quella delle “madri nubili” (oggi diremmo ragazze madri), entrambe molto
numerose dopo la guerra, sottolineando come, trattandosi di categorie deboli e
particolarmente bisognose di aiuto, sia necessario adottare misure specifiche e
realizzare interventi mirati in modo da assicurare alle prime tutte le tutele
previste per le famiglie “tradizionali” e alle seconde la garanzia di un lavoro che
permetta loro di mantenere i figli. La comunista Teresa Noce si sofferma invece
sulle condizioni delle casalinghe, e sull’elevato tasso di mortalità delle gestanti.
Evidenzia come per le prime, escluse dai benefici della previdenza sociale, sia
necessario prevedere forme di assistenza, e alle seconde debba essere assicurata
la possibilità, qualunque sia la loro situazione sociale e giuridica, «di procreare in
buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie» specificando come la
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maternità, “funzione naturale nobilissima della donna” vada sempre difesa e
tutelata, perché riguarda il futuro dell’intera collettività.4
Si ritrovano poi unite nell’affermare la parità dei rapporti tra i coniugi, l’esercizio
della potestà congiunta sui figli, affermando che la moglie, al pari del marito, non
è soltanto titolare di doveri, ma anche di diritti, e contrastando decisamente le
posizioni dei colleghi, alcuni dei quali sostengono di non voler «sconvolgere il
diritto della famiglia ad avere un capo», che, per la natura stessa della famiglia,
deve essere il padre.5 Le deputate replicano sottolineando, come fa la Iotti, la
“fisionomia per certi aspetti antidemocratica” della famiglia italiana, dovuta
proprio al fatto che, come afferma, «la donna, era ed è tuttora legata a condizioni
arretrate che la pongono in stato di inferiorità e fanno si che la vita familiare sia
per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria
persona»6. Nadia Spano sottolinea invece che se proprio ci deve essere un
“capo” all’interno della famiglia, questo “capo” non può che essere la donna,
data la forza con cui è stata in grado di mandarla avanti e di tenerla unita, come
hanno ampiamente dimostrato le donne italiane durante la guerra.7
Le deputate sostengono anche la necessità della parificazione tra figli legittimi e
naturali, contestando ancora le posizioni di alcuni colleghi che temono la
parificazione comporti una minaccia per il patrimonio e l’eredità. Qualcuno,
come il democristiano Giuseppe Togni, arriva a sostenere che i figli illegittimi,
come si chiamavano allora, vadano tutelati soltanto «per un sentimento di
solidarietà umana».8 Con sensibilità e tenerezza non di donne, ma di madri, le
deputate ricordano invece come la parificazione scaturisca per logica coerenza
dal principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’articolo 3, e quindi non
debba essere dettata né dalla pietà, né dalla compassione, in quanto, come nota
Nadia Spano, «nell’articolo 3 non si è detto che vi era una categoria di cittadini
che aveva diritto soltanto alla pietà e non alla eguaglianza di tutti i diritti; si è
detto che tutti sono eguali di fronte alla legge».9 Credono inoltre che la
parificazione assicuri in primo luogo il diritto al nome, «in modo che si cancelli
quell’N.N. infamante», sostiene ancora la Spano, «che i figli illegittimi debbono
sopportare per tutta la vita».10
Cfr. Commissione per la Costituzione, Terza Sottocommissione, sedute dell’11, 13 e 18 settembre 1946, in
Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. VIII, sedute
dal 26 luglio 1946 al 26 ottobre 1946, Segretariato Generale, Roma, 1970.
5 Cfr. l’intervento del democristiano C. Corsanego nella seduta del 30 ottobre 1946, Commissione per la
Costituzione, Prima Sottocommissione, in Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori
dell’Assemblea Costituente, vol. VI, sedute dal 26 luglio 1946 al 19 dicembre 1946, Segretariato Generale, Roma,
1970.
6 “Relazione dell’on. Signora Iotti Leonilde sulla famiglia”, Commissione per la Costituzione, Prima
Sottocommissione, in Assemblea Costituente. Atti della Commissione per la Costituzione, vol. II, Relazioni e proposte,
Segretariato Generale della Camera dei Deputati, Roma, 1947, p. 55.
7 Cfr. l’intervento di Nadia Spano nella seduta antimeridiana del 17 aprile 1947 in Camera dei Deputati, La
Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. II, sedute dal 17 aprile 1947 al 19
maggio 1947, Segretariato Generale, Roma, 1970.
8 Cosi si esprime il democristiano Giuseppe Togni nella seduta del 18 settembre 1946, Commissione per la
Costituzione, Terza Sottocommissione, in Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori
dell’Assemblea Costituente, vol. VIII, cit.
9 Cfr. l’intervento di Nadia Spano nella seduta antimeridiana del 17 aprile 1947 in Camera dei Deputati, La
Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. II, cit.
10 Ivi.
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In tema di lavoro femminile, nonostante le democristiane siano a favore del
salario familiare, in modo tale che la donna si occupi della cura dei figli e della
casa e le comuniste e le socialiste sostengano invece la nascita di una società di
servizi che piuttosto la aiuti a conciliare, come diremmo oggi, famiglia e lavoro,
concordano nel sostenere sia la piena parità d’accesso che di trattamento.
Riguardo la parità di trattamento, sancita dall’articolo 37, che recita che “la donna
lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore”, ancora una volta devono contraddire le posizioni dei colleghi, alcuni
dei quali credono non sia opportuno adottare diciture che facciano riferimento
allo stesso trattamento economico tra lavoratori e lavoratrici, in quanto, come
sostiene il democristiano Umberto Merlin, «le lavoratrici interpreteranno la
formula nel senso che esse debbono avere il salario che spetta al lavoratore
maschio, mentre in pratica questo non avviene mai»,11 dal momento che,
continua ancora il deputato, «la donna farà un lavoro più leggero e più
confacente alla sua natura, e perciò il salario sarà proporzionato al minor
rendimento».12 Maria Federici replica al suo collega di partito facendogli notare
un dato ovvio, e cioè il fatto che «da qui a pochi anni, noi dovremo perfino
meravigliarci di aver introdotto questo articolo nel testo costituzionale; e non
perché esso non riguardi materia puramente costituzionale –da questo punto di
vista dovremmo meravigliarci d’aver introdotto troppi articoli del genere– ma
piuttosto per avere dovuto sancire nella Carta costituzionale che a due lavoratori
di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta un’uguale
retribuzione».13
Riguardo la parità d’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, cosi come
viene stabilito dall’ articolo 51, i colleghi sostengono come si debba disciplinare
l’accesso dei cittadini e delle cittadine inserendo la frase “conformemente alle loro
attitudini, secondo le norme stabilite dalla legge”. Le deputate credono invece che il
termine “attitudini”, al pari di “facoltà” o “capacità”, introduca un criterio di
valutazione arbitrario e discriminante tra uomo e donna, escludendo quest’ultima
da determinati lavori e quindi non provando mai, come afferma la Federici, la
sua «attitudine a compierli». La democristiana continua sostenendo come sia
invece opportuno parlare di requisiti, dal momento che i requisiti, al contrario
delle attitudini, non possono essere fissati in modo arbitrario, ma vengono
stabiliti secondo criteri oggettivi dalla legge.14 Inoltre, anticipando il dibattito che
poi sarebbe continuato nel corso degli anni, la deputata sottolinea come «il sesso
non deve più essere un fattore discriminante per il godimento dei diritti civili e
sociali».15 La Federici esprime in questo modo un sentimento molto radicato tra
le colleghe, su cui due di esse si soffermano nell’elaborazione dell’articolo 3, che
Cfr. l’intervento del democristiano Umberto Merlin nella seduta dell’8 ottobre 1946, Commissione per la
Costituzione, Prima Sottocommissione, in Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori
dell’Assemblea Costituente, vol. VI, cit.
12 Ivi.
13 Intervento di Maria Federici nella seduta antimeridiana del 10 maggio 1947, in Camera dei Deputati, La
Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. II, cit. .
14 Cfr. l’intervento di Maria Federici nella seduta del 22 maggio 1947, in Camera dei Deputati, La Costituzione della
Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. III, sedute dal 20 maggio 1947 al 28 luglio 1947,
Segretariato Generale, Roma, 1970.
15 Ivi.
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sancisce i principi di uguaglianza formale e sostanziale. Al primo comma si legge
infatti “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali”. Non è un caso se il sesso appare come prima e fondamentale
tra le distinzioni. L’inserimento dell’inciso “di sesso” viene proposto infatti
dalla socialista Merlin, che ai colleghi che le fanno notare come sia superfluo, dal
momento che con le parole “tutti i cittadini” si indicano uomini e donne
risponde:
«Onorevoli colleghi, molti di voi sono insigni giuristi e io no, però conosco la
storia. Nel 1789 furono solennemente proclamati in Francia i diritti dell’uomo e
del cittadino, e le costituzioni degli altri paesi si uniformarono a quella
proclamazione che, in pratica, fu solamente platonica, perché cittadino è
considerato solo l’uomo con i calzoni, e non le donne, anche se oggi la moda
consente loro di portare i calzoni».16
Al secondo comma l’articolo continua: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ la comunista
Teresa Mattei ad insistere perché venga inserito l’inciso “di fatto”, che
rappresenta, appunto, l’effettiva pienezza della cittadinanza da poco ottenuta.
L’espressione “di fatto” è importante perché sta a significare , come afferma la
deputata, che «le conquiste giuridiche non possono essere realizzate pienamente
nella vita, se non sono accompagnate da altre conquiste, da conquiste di carattere
sociale, economico, se non sono accompagnate, cioè, da una completa
legislazione in proposito».17
La discussione più aspra e accesa riguardo la parità d’accesso è quella
sull’ammissione della donne alla Magistratura, in relazione alla quale emergono
compatte le voci contrarie dei colleghi, soprattutto di destra. È opportuno
dividere infatti le posizioni dei colleghi tra favorevoli, parzialmente favorevoli e
contrari.
Sono favorevoli i deputati di sinistra, tra cui i socialisti Di Giovanni e Targetti e il
comunista Farini, che sottolineano come sia il caso di abbandonare antichi
pregiudizi dal momento che le donne, che già ricoprono degnamente cattedre
universitarie, anche in facoltà scientifiche, possono benissimo ricoprire gli uffici
giudiziari, avendo acquisito, con il diritto di voto, la piena cittadinanza. I
favorevoli sottolineano inoltre come, se si vuole veramente dare una
Costituzione democratica al Paese, non si può e non si deve escludere da alcuni
incarichi più della metà della sua popolazione. I parzialmente favorevoli sono
invece quei colleghi, tra cui Scalfaro, che ritengono la donna, proprio perché
dotata di maggiore sensibilità, capace di ricoprire quelle funzioni giudiziarie
L. Merlin, La mia vita, a cura di E. Marinucci, Giunti, Firenze, 1989, pp. 93-94.
Intervento pomeridiano del 18 marzo 1947, in Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori
preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. I, sedute dal 25 giugno 1946 al 16 aprile 1947, Segretariato Generale,
Roma, 1970.
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considerate prosecuzione della funzione materna; chi sostiene questa tesi,
infatti, è a favore dell’ingresso delle donne nei Tribunali per i minorenni o nelle
giurie popolari, cioè in quegli ambiti in cui viene considerato essenziale l’apporto
femminile.
Tra i contrari alcuni, come il democratico del lavoro Enrico Molè, sostenendo
lapidariamente che la donna non abbia la capacità di giudicare, richiamano in
causa le differenze fisiologiche tra uomini e donne e giustificano tali affermazioni
sostenendo come sia stato già affermato nel diritto romano e in seguito
dimostrato scientificamente che la donna, in determinati periodi della sua vita,
non sia in grado di lavorare.18 Altri, tra cui il democristiano Giovanni Leone,
futuro presidente della Repubblica, credono che le donne siano emotivamente
più influenzabili dell’uomo, e quindi non in grado di giudicare in maniera
obiettiva; pensano inoltre che non si tratti di un problema sentito dalla coscienza
popolare e che sia il caso di affrontare la questione eventualmente dopo una
consultazione referendaria.19 Tra i democristiani c’è anche chi sostiene, come
Giuseppe Codacci Pisanelli, che la donna non abbia la necessaria resistenza
fisica, lo stesso tipo di resistenza richiesta per il servizio militare, per sopportare
discussioni che si prolungano per molte ore.20 Particolare contrarietà viene
espressa dal liberale Bruno Villabruna, che sostiene che ammettere le donne alla
carriera giudiziaria sia «una innovazione estremamente ardita», e, affidandosi al
buonsenso delle donne, si augura che non si lascino prendere da quella che
definisce «una frenesia di nuovo genere», evitando che invadano il «sacro tempio
della giustizia» (gli replica la socialista Merlin affermando che le donne non sono
affatto delle nemiche) dal momento che, sostiene ancora, non c’è Costituzione
che possa avere la pretesa di «violentare le leggi della natura».21
Il dibattito sulla Magistratura dimostra, forse più di altri, come le deputate siano
riuscite ad evitare che negli articoli fossero presenti elementi lesivi della dignità
femminile. Hanno preteso, infatti, che nell’articolo 106, che stabilisce che “le
nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” non venisse aggiunta la frase “possono
esservi nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario”.
È Maria Federici a sottolineare come la proposta di voler inserire commi che
specifichino i casi in cui la donna possa diventare magistrato, significa ricorrere
ad argomentazioni deboli e superficiali che offendono la giustizia e generano in
tutte le donne un senso di mortificazione. La deputata continua ancora
rimarcando come l’art. 51 appena approvato contenga in sé le garanzie
necessarie per l’accesso a tutte le carriere e professioni, dal momento che
stabilisce come gli unici criteri discriminanti debbano essere il merito e la
preparazione. Afferma infatti:
Cfr. gli interventi del 20 settembre 1946, del 10 e 31 gennaio 1947, rispettivamente in Camera dei Deputati, La
Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, voll.. VIII e VI, cit.
19 Cfr. Ibidem.
20 Cfr. Ibidem.
21 Intervento del 7 novembre 1947 in Camera dei Deputati, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori
dell’Assemblea Costituente, vol. V, sedute dal 6 novembre 1947 al 22 dicembre 1947, Segretariato Generale, Roma,
1970.
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«Onorevoli colleghi, in relazione alla discussione sull’ammissione delle donne alla
Magistratura, abbiamo sentito citare argomenti di puro valore accademico che
molto spesso mi hanno fatto ripensare a quella accolta di illustri accademici che
perse il suo tempo per discutere se un pesce vivo pesasse più di un pesce morto!
Si trattava di fare una semplice prova e di rimettersi alla bilancia. Ora anche qui,
onorevoli colleghi, facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado
di coprire le cariche che sono inerenti all’alto esercizio della Magistratura […]. E
se qualcuno che siede qui ha la propria moglie che in casa fa la calza, non ritenga
questo un argomento valido per invogliare una donna che chiede una toga ad
accettare anziché una toga una calza».22
Muove poi un’accusa particolare ai suoi colleghi di partito che apostrofa cosi:
«Se una donna ha ricevuto dalla Provvidenza talenti speciali, che la Provvidenza è
ben lieta di seppellire in un cervello femminile, quale diritto avete voi per impedire
che questa donna possa sfruttare i talenti che ha ricevuto e che è suo dovere
mettere a profitto?»23
La comunista Maria Maddalena Rossi, invece, sottolinea come la presenza
femminile in un’Assemblea in cui si discute e decide su questioni che riguardano
il destino di un Paese intero sia una ragione più che valida per considerare la
donna, al pari dell’uomo, in grado di prendere decisioni riguardanti una sola
persona o di giudicare fatti d’importanza infinitamente minore. Accusa inoltre i
colleghi di arretratezza, ricordando la vicenda descritta da Shakespeare nel
“Mercante di Venezia”, in cui proprio una donna, Porzia, era stata chiamata ad
esprimere il suo giudizio su una questione complicata, riuscendo a risolverla con
grande successo.24
Il merito principale che deve essere riconosciuto alle Costituenti è quello di aver
puntato l’attenzione sulla condizione femminile, imponendo ai leaders e ai
colleghi di partito di occuparsi delle questioni cosiddette “femminili”. Sono
riuscite a fare in modo che il Testo Costituzionale fosse in sintonia con la mutata
condizione della donna, attraverso il riconoscimento e la tutela del suo ruolo di
madre, moglie e lavoratrice, evidenziando come i tre aspetti non fossero
inconciliabili ma concorressero all’affermazione della totalità della persona. Con
tenacia e passione hanno applicato, nella stesura degli articoli, quella che oggi
chiameremmo un’ottica di genere, volta all’elaborazione di formulazioni che non
fossero di ambigua interpretazione o che contenessero elementi implicitamente o
esplicitamente discriminatori della condizione femminile. Maria Federici, alcuni
anni dopo la fase della Costituente, ha affermato infatti che «la donna non
avrebbe nella Costituzione il posto che di fatto vi ha, se non ci fosse stato alla
Costituente quel gruppo di donne che il suffragio universale e l’esercizio
dell’elettorato passivo, oltre che attivo, aveva portato nell’aula di Montecitorio».25
Intervento antimeridiano del 26 novembre 1947, in Ibidem.
Ivi.
24 Ivi.
25
M. Federici, “L’evoluzione socio-giuridica della donna alla Costituente”, in AA.VV. Studi per il ventesimo
anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. II, Le libertà civili e politiche, Vallecchi, Firenze, 1969, p. 211.
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Da più parti la nostra Costituzione è stata definita presbite, perché nata
guardando lontano, indicando non tanto o non solo soluzioni per gli immediati
problemi del dopoguerra, ma soprattutto stabilendo il quadro dei principi di
fondo idonei a sorreggere e guidare nel lungo termine il cammino dell’Italia sulla
strada del consolidamento democratico e che avrebbero dovuto guidare il
legislatore nel rendere effettivamente operanti i principi paritari.
Alcune delle Costituenti, infatti, sono state elette nelle prime legislature
repubblicane e hanno avuto modo di continuare a lavorare affinché la
legislazione ordinaria rendesse effettivamente paritaria la condizione della donna,
sia nella sfera giuridica che in quella politico-sociale. Non a caso le prime leggi
emanate in favore della condizione femminile sono state definite leggi di
attuazione costituzionale, appunto perché i principi che le ispirano sono stati
sanciti nelle loro basi dall’instancabile e intenso lavoro svolto dalle deputate. Tra
le più significative si possono ricordare la legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla
tutela fisica ed economica della lavoratrice madre; la n. 1441 del 27 dicembre del
1956, sulla partecipazione della donna all’amministrazione della giustizia nelle
Corti di assise e nei Tribunali dei minorenni; quella che, di fatto, apre alla donna
la via della Magistratura, la n. 66 del 9 febbraio 1963, sull’ammissione della
donna ai pubblici uffici e alle professioni; quella che vieta il licenziamento delle
lavoratrici che si sposano, la n. 7 del 9 gennaio del 1963; la riforma del diritto di
famiglia, approvata nel 1975, attraverso cui la donna ottiene la parità di diritti e
doveri con il coniuge (legge n. 151 del 19 maggio 1975) e la legge n. 903 del 9
dicembre 1977, sulla parità di trattamento tra uomo e donna in materia di
lavoro. Per non parlare della legge che può considerarsi una vittoria personale
della socialista Angelina Merlin, la n. 75 del 20 febbraio 1958, sull’abolizione
della regolamentazione della prostituzione. A distanza di quasi sessant’anni,
infine, il ruolo delle Costituenti è tornato alla ribalta quando con la legge
costituzionale n. 1 del 30 maggio 2003 il testo dell’articolo 51 è stato modificato
con l’aggiunta di un comma che, seppure stabilendo in forma generica che la
Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini , si
prefigge di colmare una lacuna costituzionale soprattutto nel settore della
rappresentanza politica. Questo conferma, ancora una volta, come la voce delle
Costituenti non si sia affatto spenta.
Ho iniziato riportando le parole di Nadia Spano; voglio concludere con lei:
«Al momento dell’approvazione definitiva del testo costituzionale, Giorgio La Pira
propose di farlo precedere dalle parole “In nome di Dio e del popolo italiano.
Anche il suo gruppo aveva delle perplessità, perché la proposta rischiava di
introdurre una divisione in un momento in cui la massima unità era auspicata da
tutti. Tra i vari argomenti che garbatamente vennero opposti credo che il più forte
sia stato che “non si poteva votare su Dio”. In un clima di grande emozione e di
rispettoso silenzio La Pira ritirò la sua proposta. Poco dopo, tutti i deputati in
piedi salutavano la Costituzione con un lungo applauso. Poi l’aula si vuotò
lentamente e ognuno uscì portando con sé il ricordo di un’esperienza
straordinaria».26
26
N. Spano, Mabrúk. Ricordi di un’inguaribile ottimista, cit., p. 278.
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La donna presente nella foto è Teresa Mattei, la più giovane fra le
Costituenti e colei che ha inventato il simbolo della mimosa per la festività
dell’8 marzo. La foto è tratta dal volume (R)ESISTENZE. Il passaggio della
staffetta, curato da Laura Fantone e Ippolita Franciosi, Morgana Edizioni,
Firenze, 2005, p. 41.
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