RIABILITAZIONE DISABILITÀ E PRATICA SPORTIVA Un aiuto

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RIABILITAZIONE DISABILITÀ E PRATICA SPORTIVA Un aiuto
RIABILITAZIONE
DISABILITÀ E PRATICA SPORTIVA
Un aiuto concreto per migliorare la qualità della vita
Donato Calò*
Stimolare la persona per l’acquisizione dell’autonomia, sin dai primi anni della sua
vita, rappresenta la più efficace delle azioni preventive nei confronti della condizione,
sempre più diffusa e impegnativa, del disabile adulto di media gravità rimasto solo
Le persone disabili affette da paralisi spinale traumatica sono state le prime a
praticare sistematicamente un’attività sportiva. Tale impegno pionieristico ebbe
origine in Gran Bretagna nell’ospedale di Stoke Mandeville (Aylesbury), nei pressi di
Londra, grazie all’entusiastica opera del neurochirurgo Sir Ludwig Guttman,
definito da Papa Giovanni XXIII “Il De Coubertin dei disabili”. Egli diresse il centro
di riabilitazione neuromotoria presso il sopra citato ospedale, inaugurato il 1°
febbraio 1944 durante la seconda guerra mondiale.
L’iniziativa del dr. Guttman ebbe molto successo e così il 28 luglio 1948 si tennero i
primi Giochi di Stoke Mandeville per atleti disabili, cui parteciparono ex membri
delle forze armate britanniche, portatori di lesioni midollari per cause belliche.
Nel 1952 i Giochi divennero internazionali e nel 1960 si svolsero nell’ambito delle
Olimpiadi di Roma. La prima Olimpiade per disabili fu organizzata a Tokio nel 1964.
Quindi, l’attività sportiva per questa particolare categoria è una conquista piuttosto
recente, ma che si è andata consolidando nel corso dell’ultimo cinquantennio, infatti,
numerosi sport si sono aggiunti alle discipline introdotte a Stoke Mandeville.
Praticare attività motoria per i bambini diversamente abili assume un ruolo di
primaria importanza sia per lo sviluppo motorio, cognitivo, intellettivo, psicologico e
affettivo, che per la progressiva conquista dell’autonomia e per l’integrazione sociale.
L’attività motoria diventa strumento educativo e rieducativo di grande efficacia,
soprattutto se non perde l’aspetto ludico.
La famiglia che non consente alla persona con disabilità di fare esperienze in ambito
sociale e sportivo, accentua la condizione di dipendenza e scoraggia la scoperta di
altre potenzialità a livello fisico e psicologico e la crescita dell’autonomia e della
socializzazione.
La stessa cosa accade nel bambino normodotato che presenta ritardi nello sviluppo
motorio. Se il piccolo vive in un contesto con pochi stimoli, avrà difficoltà nel fare
esperienze di carattere sensoriale e a inserirsi nell’ambiente e potrebbe, di
conseguenza, manifestare dei disagi a livello psicologico e affettivo.
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A tal proposito occorre ricordare che vi è uno strettissimo legame tra lo sviluppo
sensoriale e quello della motricità: il neonato instaura le sue prime relazioni col
mondo grazie agli organi di senso. La possibilità di manipolare ed esplorare gli
oggetti per ottenere informazioni sull’ambiente circostante è particolarmente
importante per favorire, nei primissimi anni di vita del bambino, lo sviluppo dei
processi cognitivi. Ciò significa che le operazioni intellettuali hanno origine da azioni
reali e che anche i processi inferenziali – base della conoscenza astratta – sono legati
all’atto motorio.
Lo psicologo, pedagogista e filosofo francese Henri Wallon afferma, infatti, che “il
dinamismo motorio è strettamente legato all’attività mentale: a partire dall’atto
motorio fino alla rappresentazione mentale, prendono posto via via tutti i livelli, tutti
i piani di relazione tra l’organismo e l’ambiente”.
Il movimento costituisce, quindi, uno strumento attraverso il quale si sviluppa
l’intelligenza ed è per mezzo di esso che il piccolo entra in contatto con il mondo. A
sua volta l’intelligenza aiuta il movimento a progredire, ad affinarsi e a perfezionarsi.
Un migliore controllo motorio permette al bambino di esplorare il mondo esterno,
fornendogli le esperienze concrete sulle quali vengono costruite le nozioni che stanno
alla base del suo sviluppo intellettuale. Per mezzo di questa esplorazione, il piccolo
comincia a prendere consapevolezza del proprio corpo e a sviluppare la coscienza di
se stesso e del mondo.
Ne conseguono benefici anche nel controllo emotivo. Il bambino che dispone di tutte
le possibilità di muoversi e di scoprire è generalmente ben integrato.
Un aspetto importante e peculiare della dimensione motoria è rappresentato dalla
spinta pulsionale all’agire che si realizza nell’esperienza immediata e concreta della
corporeità. Il piccolo attraverso l’acquisizione di abilità motorie, e grazie al feedback
continuo che si instaura tra ambito motorio e cognitivo, diviene consapevole della
propria efficienza fisica e dei progressi conseguiti.
Migliorando l’autoefficacia, cioè la capacità di raggiungere gli obiettivi preposti,
cresceranno nel bambino l’autostima, il senso personale di libertà e il desiderio di
esserci, e si realizzerà una condizione di maggiore serenità personale; crescerà,
inoltre, la voglia di fare che facilita il raggiungimento di un maggiore livello di
autonomia.
Può accadere che il progredire della malattia nel piccolo comporti una minore
possibilità di esprimersi e di confrontarsi con i coetanei, generando difficoltà
relazionali e vere e proprie ferite all’amor proprio. Un ruolo determinante assume, in
questa fase delicata, il calore affettivo della famiglia che, insieme a un precoce e
coordinato intervento specialistico (qualora fosse necessario), sosterrà e solleciterà il
bambino creando le condizioni migliori perché possa esprimere le sue potenzialità e
sentirsi motivato a desiderare una propria autonomia.
Alcuni genitori possono incontrare difficoltà nell’adeguare le proposte di gioco o di
pratica sportiva alle capacità di un figlio diversabile, ma eventuali momenti di
sconforto vanno necessariamente superati. Questi stati d’animo devono essere
considerati come una normale manifestazione della propria sensibilità e del proprio
affetto. A tal proposito, bisogna evidenziare la necessità delle famiglie di ricevere un
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aiuto concreto da parte dei servizi territoriali della ASL, i quali devono sostenerle
affinché superino i momenti difficili.
Occorre anche sottolineare che l’intervento riabilitativo, operato sul bambino o sul
ragazzo diversabile, risulta proficuo solo se è espressione di una collaborazione in
rete tra scuola, famiglia e ASL; così come è indispensabile fornire alla famiglia gli
opportuni suggerimenti perché possa continuare il lavoro a casa.
In generale, è importante che il programma riabilitativo non venga interrotto. A volte
sono gli stessi soggetti fornitori di servizi, con la motivazione che dopo una certa età
il percorso riabilitativo non sia più necessario, a proporne la sospensione. Invece,
continuare il programma è essenziale, quantomeno per permettere alla persona di
conservare alcune capacità che, se non vengono stimolate, possono regredire.
Quando parliamo di “vera e propria pratica sportiva”, ci riferiamo, evidentemente,
alle attività più adatte alla patologia congenita o acquisita, da cui il bambino o il
ragazzo, è affetto, considerando anche la gravità della stessa malattia.
La pratica sportiva comporta – e questo vale anche per i bambini normodotati – la
necessità di allontanarsi fisicamente dal nucleo familiare, e ciò favorisce la prima
separazione fisica dalle figure genitoriali, in particolare da quella materna.
Il piccolo ha l’opportunità di relazionarsi con il mondo esterno – educatore, istruttore,
gruppi di altri bambini – e con il proprio mondo interiore, integrando le incapacità o
le goffaggini con la scoperta di nuove possibilità, che contribuiscono all’accettazione
di sé e dei propri limiti.
Inoltre, quando il bambino è fuori dai contesti familiari e incontra coetanei che hanno
i suoi stessi bisogni, difficoltà e problemi, inizia a vivere nuove esperienze e a
instaurare nuovi legami affettivi.
Stare con i coetanei è importante in quanto consente di acquisire comportamenti
sempre più maturi, di sviluppare l’autodisciplina, di crescere nell’identificazione dei
ruoli sociali e sessuali, attraverso i giochi simbolici e sociali in cui si sperimentano i
ruoli differenziati tra maschi e femmine; consente, inoltre, al bambino di
responsabilizzarsi, di abituarsi al controllo della realtà, di apprendere i principi morali
e le norme di comportamento, della convivenza civile e della tolleranza, primo tra
tutti il rispetto del prossimo e delle regole, che sono alla base di una corretta
socializzazione. È fondamentale proporre e far condividere loro delle regole
all’interno di una situazione ludica, di un contesto piacevole, in quanto ciò si traduce
in un importante aiuto nell’ambito della quotidianità. Sarebbe un errore consentirgli
tutto in ragione della loro disabilità; è necessario, invece, che imparino ad accettare
che alcune cose devono e possono farle, altre no.
È naturalmente importante supportare le persone diversabili e accompagnarle nelle
situazioni più difficili. Se, ad esempio, il soggetto ha difficoltà motorie a un braccio,
lo si aiuta a infilare l’arto nella manica della maglia, ma poi lo si lascia vestirsi
autonomamente, e secondo i suoi tempi. In tal modo gli si permette di avere i
necessari spazi di libertà e di sperimentazione personale.
Sviluppare l’autodisciplina affrontando esercizi, allenamenti, sforzi e sacrifici per
apprendere e migliorare il gesto tecnico non rappresenta un lavoro fine a se stesso,
serve per conseguire un risultato in gara, per fare bene sul campo di gioco. E
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raggiungere anche piccoli successi si ripercuote positivamente negli altri ambiti della
vita, come quello scolastico o lavorativo, in cui è richiesto un impegno finalizzato al
raggiungimento di obiettivi.
Possiamo affermare che lo sviluppo di potenzialità individuali, l’incremento di
capacità e l’acquisizione di abilità, l’integrazione in contesti di vita ricchi di relazioni
significative – importantissime per combattere la tendenza all’isolamento – rendono
il ruolo dell’attività sportiva determinante nell’intervento rivolto a persone disabili.
I partecipanti hanno la possibilità di trovare nello sport elementi di successo e
valorizzazione personale, momenti importanti di aggregazione, praticando con alta
motivazione e divertimento un’attività particolarmente benefica.
Stimolare la persona per l’acquisizione dell’autonomia, sin dai primi anni della sua
vita, rappresenta la più efficace delle azioni preventive nei confronti della condizione,
sempre più diffusa e impegnativa, del disabile adulto di media gravità rimasto solo.
Un’attività motoria programmata e uno stile di vita più attivo prevengono, inoltre,
l'indebolimento e l'atrofia muscolare, il decadimento della funzionalità
cardiocircolatoria ed endocrina, l'osteoporosi, alterazioni che sono direttamente
correlate con uno stile di vita sedentario. Quelli citati sono solo alcuni dei problemi
che possono derivare dalla mancanza di esercizio fisico.
Soprattutto nelle persone affette da lesioni spinali (para e tetraplegici), l’inattività
causa marcati fenomeni regressivi a carico dell’apparato cardiovascolare
determinando un maggior rischio di sviluppare malattie in tale ambito, in particolare
quelle riguardanti la circolazione coronarica, in giovane età. Studi recenti hanno
dimostrato che tali patologie sono la causa principale di morte per le persone con
lesione midollare in età compresa tra i 20 e i 50 anni.
Insieme allo sviluppo cognitivo e intellettivo, all’acquisizione di abilità logiche
(ricordiamo i giochi di costruzione, di fantasia e di regole), al miglioramento della
condizione fisica, psicologica, affettiva e della socializzazione, tutti progressi
conseguenti all’esperienza motoria e all’integrazione nel mondo sportivo, si realizza
nel bambino un accrescimento dell’autostima. Questi miglioramenti sono espressioni
di nuove connessioni neuronali.
La dottoressa Elisabetta Ghedin, ricercatrice presso l’Università di Padova, afferma:
“L’attività motoria consente alla persona disabile l’esaltazione delle sue capacità,
anche se residue, di ciò che sa fare, in un mondo che sempre gli ricorda ciò che non
è in grado di essere e ciò che gli manca”.
Attilio Carraro, altra voce autorevole nel campo, professore associato di metodi e
didattiche delle scienze motorie presso l’Università di Padova, ha sottolineato come
“orientarsi verso l’inclusività significa permettere a tutti coloro che si avvicinano
alla pratica sportiva di raggiungere un livello base di abilità tecniche, di provare
piacere nell’impegno e nello sforzo prodotti e di non essere esclusi in quanto “meno
adatti”.
La pratica sportiva, rispetto ad altre attività rivolte a persone con disabilità, ha il
vantaggio di favorire in modo particolare l’integrazione sociale. Esperienze
importanti come quella di appartenere a una squadra, confrontarsi con gli altri e
condividerne le emozioni, trovare sostegno nelle motivazioni per continuare, per
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migliorarsi e per superare gli immancabili momenti di crisi individuale, favoriscono
la crescita personale nella sua dimensione relazionale.
Attraverso una sana pratica sportiva che educhi al confronto leale e ai valori autentici
dello sport, si impara a vivere correttamente la vittoria e ad accettare la sconfitta
senza traumi; acquisizioni queste che migliorano la qualità della relazione con se
stesso e con gli altri.
La stessa Beata Teresa di Calcutta, in una sua riflessione dal titolo “La Vita è…” ha
affermato: “La vita è una lotta, accettala,… la vita è un gioco, giocalo,… la vita è
una sfida, affrontala,…”.
La disabilità può essere intesa, in quest’ottica, come quella condizione di vita, o,
meglio, quella condizione di salute che porta la persona a intraprendere e a rendersi
protagonista di una sfida nella sfida, così come testimoniano tanti atleti diversabili.
La pratica sportiva induce a consapevolizzare la necessità di perseverare per ottenere
dei risultati, che però, ovviamente, potrebbero non essere raggiunti; resta, comunque,
la certezza di “averci provato” e di aver superato quelle paure interiori che spesso
inducono alla rinuncia e anche all’isolamento.
“Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie
forze”. È la frase pronunciata a Chicago da Eunice Kennedy Shiver, sorella del
Presidente John F. Kennedy, ai primi giochi internazionali Special Olimpics svoltisi
nel 1968 ed entrata a far parte del rituale che ne apre ogni manifestazione.
È il giuramento dell’atleta, il principio etico a cui si ispirano tutte le attività
organizzate, proposte e attuate con (e per) gli atleti speciali.
La testimonianza che offre un atleta diversabile rappresenta un grande insegnamento
per tante persone “normodotate”; è motivo di riflessione e di stimolo, in quanto
dimostra che con la forza di volontà si possono raggiungere risultati insperati.
Particolarmente significative sono le parole rivolte ai disabili da Papa Giovanni
Paolo II, in un’omelia pronunciata durante il Giubileo del 2000: “Con la vostra
presenza, carissimi fratelli e sorelle, riaffermate che la disabilità non è bisogno, è
anche e soprattutto stimolo e sollecitazione. Certo essa è domanda di aiuto, ma è
prima ancora provocazione nei confronti degli egoismi individuali e collettivi; è
invito a forme sempre nuove di fraternità. Con la vostra realtà voi mettete in crisi le
concezioni della vita legate soltanto all’appagamento, all’apparire, alla fretta,
all’efficienza”.
Effettivamente nella nostra società, spesso individualista ed egoista, risulta difficile
trovare degli ambiti sociali in cui poter inserire una persona diversabile. A volte c’è
poca disponibilità ad accogliere, spesso c’è disagio, oppure difficoltà a relazionarsi.
Anche la scuola non è ancora riuscita a superare i problemi di carattere organizzativo
e, forse, culturale che impediscono il pieno sviluppo della studente disabile in un’età
così significativa per gli apprendimenti e per l’interiorizzazione di stili di vita che
promuovono il benessere e una migliore qualità della sua esistenza.
Sarebbe bello se la nostra cultura, se le prassi sociali messe in atto da istituzioni,
servizi, associazioni, un po’ alla volta cambiassero, se tutti imparassimo a conoscere,
accettare, rispettare, condividere la diversità.
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Rappresenterebbe una grande conquista scommettere nelle possibilità di ciascuno,
andare al di là di quello che appare, oltre il pregiudizio, per poter apprezzare i tesori
nascosti che può esprimere una persona diversabile quando viene accolta, a volte solo
ascoltata, se è giustamente supportata, sostenuta, accompagnata, incoraggiata nelle
sue difficoltà. Quanti sentimenti belli e quanti buoni propositi nascerebbero nel
nostro cuore! Forse così potremmo comprendere quanto afferma San Francesco
d’Assisi nella sua Preghiera Semplice: “… è dando che si riceve…”.
Queste esperienze costituirebbero una preziosissima opportunità di crescita personale
e umana, stimolo e punto di partenza per realizzare una società più giusta, che apra il
cuore alle necessità di chi dalla vita ha ricevuto meno, senza averne colpa, e ha il
diritto di recuperare un po’ di serenità, di sentirsi meno diverso, di imparare o tornare
a sorridere.
Che dono grande sarebbe per tutti poter sperimentare quanto afferma Gesù nel
Vangelo: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
*Psicopedagogista - Counselor, Docente di Educazione Fisica e
Referente per l’Educazione alla Salute presso il Liceo Classico “E.
Laterza” di Putignano, Direttore Sportivo dell’A.S. Gymnasium
Center di Castellana Grotte.
Giudice Onorario Minorile della Corte di Appello di Bari.
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