Ordinanza del Tribunale di Trento del 21 giugno 2012

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Ordinanza del Tribunale di Trento del 21 giugno 2012
N. 126/2012 Ruolo sezione controversie di lavoro
TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO
sezione per le controversie di lavoro
ORDINANZA ex art.669-sexies co.1 e 669-octies cod.proc.civ.
Il tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del magistrato dott.
Giorgio Flaim,
letti gli atti ed i documenti prodotti,
OSSERVA
in ordine al fumus boni iuris
La ricorrente – premesso di lavorare, da oltre dieci anni (8.6.6.2001), con rapporto a tempo
indeterminato, alle dipendenze della società resistente, con inquadramento nel II livello CCNL
Commercio e con mansioni di addetto alle attività commerciali ed alla selezione, presso la filiale di
Trento – chiede la sospensione, previa declaratoria di nullità o annullabilità, del suo trasferimento
dalla filiale di Trento alla filiale di Milano, viale …, 151, disposto, con effetto dall’1.8.2011, dalla
società datrice con lettera del 21.7.2011.
Eccepisce:
A) in via principale la nullità dell’atto datoriale in quanto integrante una discriminazione di genere
posta in essere a danno di lavoratrice in stato di gravidanza;
B) in via subordinata l’annullabilità del medesimo atto per difetto di comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive.
***
Ai sensi dell’art. 25 d.lgs. 11.4.2006, n.198:
“1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio,
prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento,
che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro
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sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un
altro lavoratore in situazione analoga.
2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio,
una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere
i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori
dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa,
purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari.
2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in
ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione
della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti”;
il successivo art. 40 dispone:
“Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi
alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla
progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la
presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al
convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione”.
Alla luce di tale contesto normativo ed in ragione della natura cautelare del presente giudizio appare
opportuno esaminare in via prioritaria l’eccezione formulata dal ricorrente in via subordinata sub A)
atteso che l’eventuale insussistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive addotte dalla
società datrice a giustificazione del trasferimento, oltre a determinare l’illegittimità dell’atto ai sensi
dell’art. 2103 co.1, ult.parte cod.civ. (il che sarebbe sufficiente ai fini dell’accoglimento della
domanda cautelare), costituirebbe il più rilevante (se non l’indispensabile) elemento di fatto idoneo a
fondare la presunzione della natura discriminatoria della condotta datoriale.
***
In forza dell’art. 2103 co.1 ult. parte cod.civ. il lavoratore “non può essere trasferito da una
unità produttiva ad un’altra, se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive”;
secondo l’ormai consolidato orientamento della Suprema Corte (Cass. 2.3.2011, n. 5099;
Cass. 17.5.2010, n. 11984; Cass. 28.4.2009, n. 9921; Cass. 22.3.2005, n. 6117; Cass.
2.8.2002, n. 11624; Cass. 2.1.2001, n. 27; Cass. 18.11.1998, n. 11634; Cass.26.1.1995,
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n.909; Cass.9.6.1993, n.6408; Cass.11.8.1992, n.9487; Cass.21.8.1991, n.9011; Cass.
17.6.1991, n.6832; Cass.19.6.1987, n.5432; Cass.8.1.1987, n.55; Cass.10.12.1986, n.7355;
Cass. 14.6.1985, n. 3580; Cass.16.1.1979, n.331;) tale norma impone che il trasferimento del
lavoratore trovi la sua diretta giustificazione esclusivamente in un criterio di gestione
aziendale seria e tecnicamente corretta in modo che le ragioni tecniche, organizzative e
produttive, che devono collegarsi in un rapporto di causa-effetto con il trasferimento,
possano essere (dal datore di lavoro) dimostrate ex post nella loro effettività, serietà e
ragionevolezza;
il controllo giurisdizionale sulle ragioni tecniche, organizzative e produttive, invocate dal
datore quali motivi del trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto a
verificare il rispetto dei generali criteri di correttezza e buona fede (di cui sono espressione i
requisiti di serietà e ragionevolezza) nonché ad accertare se vi sia corrispondenza tra il
provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, ma non può
essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore;
quest'ultima, inoltre, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità,
essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli,
che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo.
--Venendo al caso in esame, la società datrice, a giustificazione del trasferimento, allega:
I) nella lettera del 21.7.2011, con cui è stato disposto il trasferimento, “valutazioni di
razionalizzazione… delle strutture, dei compiti e dei ruoli delle risorse umane, per
cercare di mantenere il giusto equilibrio tra costi e ricavi” nelle quali “rientra la filiale
di Trento”
II) nella lettera del 12.8.2011 “una procedura di razionalizzazione delle strutture della T.
s.p.a… segnatamente, vista la competenza della signora D. nonché la sua esperienza nel
campo maturata nell’intero periodo di collaborazione con la T. e, nel contempo, la
necessità di affidare la nostra sede di Milano, viale M. ad una persona di comprovata e
significativa esperienza”.
Emerge ictu oculi la disarmonia tra le due comunicazioni datoriali:
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I) nella prima le ragioni consistono nella razionalizzazione delle strutture, dei compiti e dei
ruoli delle risorse umane diretta a mantenere il giusto equilibrio tra costi e ricavi e
riguardano l’unità produttiva a quo (filiale di Trento);
II) nella seconda la razionalizzazione delle strutture non appare più finalizzata all’equilibrio
tra costi e ricavi ed attiene alla necessità di affidare alla ricorrente l’unità produttiva ad
quem (filiale di Milano, viale M.).
Si tratta di una difformità che costituisce un significativo indizio dell’insussistenza di
effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive, considerato che neppure il datore di
lavoro è stato in grado di indicarle con sufficiente coerenza.
La disarmonia assume i connotati della contraddizione alla luce della deposizione di C. F.,
responsabile del personale, la quale in ordine alla filiale di Trento ha dichiarato: “Eravamo e
siamo tutt’ora alla ricerca di una figura che, oltre a svolgere l’attività di ricerca clienti, sia
in grado prestare agli stessi una consulenza in ordine alle modalità offerte dal lavoro
somministrato. Cercavamo e cerchiamo una persona che fosse in grado di muoversi sul
territorio e che avesse una progressiva esperienza. Per poter svolgere la suddetta attività di
consulenza… consideriamo un presupposto essenziale il possesso di un’esperienza
specifica”;
a ben vedere vengono richiesti per il successore della ricorrente nell’unità produttiva a quo
gli stessi requisiti che nella lettera del 12.8.2011 la società resistente riconosce alla ricorrente
al fine di giustificare l’affidamento dell’unità produttiva ad quem (“vista la competenza della
signora D. nonché la sua esperienza nel campo maturata nell’intero periodo di
collaborazione con la T.”).
--E’ vero che la stessa teste aggiunge: “Inoltre richiediamo delle caratteristiche in termini di
dinamismo, capacità di relazione con il cliente e di flessibilità proprie di una lavoro
professionale”;
tuttavia da queste parole del responsabile del personale traspare il pregiudizio della società
datrice nei confronti della ricorrente, la quale, pur avendo retto per dieci anni la filiale di
Trento, non è più considerata, dopo essere diventata mamma, né dinamica, né capace né
flessibile, il che costituisce indubbiamente un indice di discriminazione diretta per ragioni di
sesso.
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--E’ pure vero che all’epoca del trasferimento della ricorrente la società datrice ha pubblicato
(doc. 13 fasc. ric.) un’offerta di lavoro per “commerciale senior” nella categoria “venditeagenti” all’evidente scopo di sostituire la ricorrente (lavoratrice dipendente) con un
lavoratore autonomo.
Potrebbe a prima vista considerarsi una scelta imprenditoriale sottratta al sindacato
giurisdizionale;
tuttavia si impongono due rilievi:
a)
a ben vedere il contenuto dell’offerta, laddove precisa che la “giornata lavorativa” sarà
“full time: 9-13; 14-18; dal lunedì al venerdì”, appare piuttosto anomalo se riferito a
prestazioni da svolgersi nelle forme del lavoro autonomo;
b)
inoltre, se l’intenzione della società resistente fosse stata effettivamente quella di affidare la
direzione della filiale ad un lavoratore autonomo, i criteri di correttezza e buona fede
avrebbero imposto alla datrice in primo luogo di offrire alla ricorrente una novazione del
rapporto;
di contro, come emerge dalla deposizione del teste T. (“Preciso che dopo la formale data di
efficacia del mio recesso (8.7.2011) io, in accordo con la mia trader D. G., ho operato
presso la filiale di Trento per definire alcune offerte che avevo promosso. Fu così che
conobbi la ricorrente, che nel frattempo era rientrata al lavoro. Per me fu una sorpresa dato
che l’azienda, nella persona di G. mi aveva detto, in occasione del corso da me frequentato
prima dell’inizio del rapporto, che la ricorrente non sarebbe più rientrata al lavoro, tant’è
vero che, alla luce di questa informazione, io, quando visitavo i clienti, comunicavo loro che
subentravo nel ruolo di addetto al settore commerciale alla ricorrente, dato che
quest’ultima non sarebbe più rientrata al lavoro.. Posso dire che sempre in occasione del
corso cui ho partecipato a Milano ebbi un contatto con la signora S. alla quale chiesi la
ragione per cui la filiale di Trento era scoperta quanto all’addetto al settore commerciale.
Mi fu risposto che il ruolo era stato coperto da una persona che era molto assente, che era
in maternità e che non sarebbe più tornata”), addirittura prima del trasferimento la società
datrice aveva espresso l’intenzione di cessare il rapporto di lavoro con la ricorrente;
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appare evidente che disporre il trasferimento di una lavoratrice madre di una figlia in
tenerissima età dal suo luogo di residenza in una metropoli distante centinaia di chilometri,
per di più con un preavviso di una sola settimana, non produce l’effetto tipico dell’atto di
gestione apparentemente adottato (il mutamento del luogo in cui il lavoratore deve svolgere
la sua prestazione), ma due risultati tra loro alternativi (le dimissioni del lavoratore o la
contestazione disciplinare per assenza ingiustificata ed il conseguente licenziamento per
ragioni soggettive), ma che hanno in comune l’effetto di determinare l’estinzione del
rapporto;
quindi si realizza nella vicenda in esame un’ipotesi di abuso del diritto melius del potere
datoriale di trasferimento del lavoratore ex art. 2103 co.1 cod.civ. in quanto, alla luce delle
circostanze del caso concreto, tale potere è stato esercitato dalla società resistente al fine di
conseguire un risultato (la cessazione dei rapporti di lavoro con la ricorrente) diverso da
quello per il quale detto potere è stato attribuito (la modificazione del luogo di svolgimento
della prestazione).
In proposito la Suprema Corte (Cass. 18.9.2009, n. 20106; conf. Cass. 10.11.2010, n. 22819;
Cass. 31.5.2010, n. 13208;) ha di recente insegnato (le evidenziazioni in neretto sono dello
scrivente e riguardano gli enunciati maggiormente conferenti e rilevanti per il caso in
esame):
“Costituiscono principi generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un
rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.)
e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di
condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla
sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348;
Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano
dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio
(art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti
all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
I principi di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo
dell'ordinamento giuridico.
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L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere
giuridico,
espressione
di
un
generale
principio
di
solidarietà
sociale,
la
cui
costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n.
3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il
principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di
solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a
ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli
interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto
espressamente stabilito da singole norme di legge.
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce
strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo
statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di
correttezza e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse
del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”,
operando, quindi, come un criterio di reciprocità.
In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se,
nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi
che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato…
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e
della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso
del diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e
giurisprudenziale - sono i seguenti:
1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;
2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una
pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;
3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice
attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio
di valutazione, giuridico od extragiuridico;
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4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione
ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la
controparte.
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea
l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di
obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in
sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo
atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo
prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel
senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette
regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere
conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé
strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la
normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina
dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.
La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio
giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne
abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno
prevedibilità del diritto - in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola
generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse
trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto
preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il
proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato
riconosciuto” (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad
es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale,
norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie
di diritti.
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Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante
rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v.
applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass.
17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838)…
Il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale
esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le
condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali
adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principi della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere
selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un
canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e
l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità
di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne
determinerà il suo abusivo esercizio…
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato
giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si
assume
il
rischio
economico
delle
scelte
effettuate.
Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia
privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quelli
appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e della correttezza - alla
luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque
consociato
che
ne
sia
portatore,
possa
sconfinare
nell'arbitrio.
Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto. La libertà di scelta economica
dell'imprenditore, pertanto, in sé e per sé, non è minimamente scalfita; ciò che è
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censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia contrattuale
che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere.
L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di
un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del
giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale
abbia operato in chiave elusiva dei principi espressione dei canoni generali della buona fede,
della lealtà e della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del
diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere
condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di
supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati
forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è
prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve
operare ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi
delle parti contrattuali…
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di
“conflittualità”. Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano
portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati… In questo
senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee
guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come
operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare…se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni
contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori
rispetto a quelli consentiti.”.
Quindi la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio:
“Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti
formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e
buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte
contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i
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quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al
giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del
divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto
al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall'esistenza
di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte
economiche dell'individuo o dell'imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è
l'atto di autonomia negoziale, ma l'abuso di esso”.
Di conseguenza, alla luce di questi insegnamenti, il trasferimento disposto dalla società
resistente nei confronti della ricorrente deve considerarsi privo di effetti.
--La deposizione del responsabile del personale C. fa dubitare anche dell’effettività
dell’intenzione della società resistente di trasferire la ricorrente presso la filiale di Milano,
viale M.;
infatti la teste, dopo aver precisato che nei suoi compiti “rientra anche quello di individuare
la persone da allocare nei vari posti di lavoro”, ha dichiarato: “Non ho avuto rapporti con la
ricorrente in via diretta per quanto concerne la sua nuova collocazione”;
appare assai anomalo che il responsabile del personale
non sia stato coinvolto nella
decisione di trasferire un responsabile di filiale con anzianità ultradecennale da Trento a
Milano, a meno di non ipotizzare la natura fittizia dell’atto datoriale;
inoltre è rimasta incontestata l’allegazione della ricorrente, secondo cui nel corso del
colloquio a Milano il 14.7.2011 nessuno le parlò della filiale di viale M. a Milano e del suo
prossimo trasferimento in quella unità produttiva e l’azienda non le fornì “alcuna notizia in
ordine alla filiale di Milano, viale M., alle sue caratteristiche, alle dimensioni ed al numero
degli addetti”;
risulta, quindi, che il trasferimento sia stato disposto senza comunicare alla ricorrente alcuna
notizia circa la filiale che sarebbe andata a dirigere, il che costituisce una condotta
imprenditoriale al limite dell’irragionevolezza, sempre a meno di non ipotizzare la natura
fittizia dell’atto datoriale.
***
L’analisi fin qui svolta comporta già di per sé sola la sussistenza del fumus boni iuris.
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Ad abundantiam è opportuno evidenziare come fin dal rientro dalla prima maternità (luglio
2010) la società resistente abbia tentato di ostacolare la ricorrente nello svolgimento dei suoi
compiti di madre di una figlia in tenerissima età:
a)
emerge dalle comunicazioni e-mail del marzo-aprile 2010, prodotte all’udienza del 5.4.2012,
il ritardo con cui la datrice ha risposto alle richieste della ricorrente circa le modalità di
fruizione delle cd. ore di allattamento;
b)
a fronte della richiesta di chiarimento, espressa dalla ricorrente circa il diniego di parte delle
ferie dell’estate 2010, la datrice impose, con lettera del 22.7.2010, la fruizione di ferie a
partire dal giorno successivo al 22.10.2010;
c)
al rientro dalle ferie obbligatorie alla ricorrente vennero assegnate le mansioni meno
qualificate di selezione del personale e di amministrazione, in luogo di quelle di addetta al
settore commerciale.
In tale contesto assumono rilievo, quali elementi di idonei a fondare la presunzione del
carattere discriminatorio – in ragione della qualità di lavoratrice madre di una figlia in tenera
età ed affetta da problemi di salute collegati ad una nuova gravidanza (poi interrottasi) – del
trasferimento disposto in data 21.7.2011:
a) la già ritenuta insussistenza di effettive ragioni tecniche, organizzative e produttive;
b) la brevità del termine di preavviso (come si evince dalla lettera di trasferimento sub doc.
14 fasc.ric.), con effetti dirompenti dell’atto datoriale sulla vita privata della lavoratrice;
c) il colloquio intervenuto a Milano il giorno 14.7.2011, nel quale il direttore commerciale
S. chiese, come da lei stessa riferito, alla ricorrente “se intendeva fare solo la mamma o
se intendeva far ripartire la filiale” (come se la condizione di madre costituisse una
situazione incompatibile con un proficuo impegno su lavoro);
d) il diniego alla fruizione di un permesso di un’ora richiesto dalla ricorrente per sottoporsi
ad una visita di controllo postoperatorio, nonostante la ricorrente fosse rientrata da pochi
giorni dall’assenza dovuta all’interruzione spontanea della gravidanza (doc. 12 fasc. ric.);
e) le circostanze riferite dal teste T. nel corso della sua deposizione: “Spina disse anche che
in azienda dovevano disporre di persone che non avessero impegni di maternità, ma che
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si dedicassero totalmente al lavoro. Io dissi che avevo due figli grandi e Spina disse che
la cosa andava bene”.
La società resistente, specie rimanendo soccombente in ordine alla questione della
sussistenza del presupposto casuale ex art. 2103 co.1 ult.parte, non ha assolto l’onere, su di
lui incombente ai sensi dell’art. 40 d.lgs. 198/2006, di provare l’insussistenza della
discriminazione.
in ordine al periculum in mora
Appare indubbio che, in ragione della distanza geografica tra Trento e Milano e delle
difficoltà organizzative che il mutamento di residenza comporta necessariamente per una
lavoratrice madre di figli in tenerissima età, il trasferimento qui impugnato e dichiarato
illegittimo determini, in pregiudizio della ricorrente, consistenti disagi non solo di ordine
economico, ma anche personali integranti un danno grave ed irreparabile;
infatti è assolutamente verosimile che anche nel caso in esame il luogo di lavoro, oltre ad
essere l’ambiente di esplicazione della professionalità della lavoratrice, attenga anche sulla
sua vita affettiva e sociale.
***
Non viene fissato alcun termine per l’inizio del giudizio di merito alla luce del disposto ex
art. 669-octies co. 6 c.p.c..
Le spese non possono che seguire la soccombenza.
P.Q.M.
visti gli artt. 669octies e 700 c.p.c.,
1. In accoglimento del ricorso, ordina alla società T. s.p.a. di reintegrare la ricorrente
D. F. nel posto di lavoro occupato presso la filiale di Trento prima del trasferimento
disposto con lettera del 21.7.2011, con effetto dall’1.8.2011..
2. Condanna la società resistente alla rifusione, in favore della ricorrente, delle spese di
giudizio, liquidate nella somma complessiva di € 2.500,00, oltre ad € 58,00 per spese,
IVA e CNPA.
Trento, 21 giugno 2012
Si comunichi alle parti.
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