Il giardino dei Tamil

Transcript

Il giardino dei Tamil
scritture
Luigi Mancuso
Il giardino dei Tamil
Le domande vere sono senza risposta.
Le altre non ne meritano alcuna.
Talmud
La conoscevo di nome attraverso qualche cenno di Alberto. La voce al telefono
era gentile ma anche sicura. Disse che preferiva parlare con me con cui Alberto
ha più confidenza. Ma anche io preferisco - aveva aggiunto - siamo più fragili
noi donne in questo genere di cose: puntiamo sui sentimenti anche quando è
altro che serve.
- Dove ? le chiesi.
- Ai giardini di Porta Carini; è un posto tranquillo per parlare. Alle sette, se ti
sta bene.
D’accordo - le dissi - alle sette va bene.
Mi piacque che, senza conoscermi, mi desse del tu.
Ma qui non è un posto tranquillo domenica pomeriggio.
Gli altri giorni sono giardini quasi deserti, lontani più di un chilometro dagli ultimi caseggiati, rifiutati persino dai pensionati che altrove siedono a pulirsi lungamente coi fazzoletti occhiali e naso. Neppure i bambini del quartiere che raramente vi arrivano in carrozzelle con baby-sitter di colore restano estranei alla
insopprimibile malinconia che promanano: finiscono per piangere quasi subito e
reclamano di tornare a casa.
E sono anche di fronte alla caserma dell’Arma così che non sono frequentati
neppure per altro.
Almeno è certo che non vi incontreremo Alberto - ho pensato con fatua ironia .
Di domenica però è diverso perché vi si trasferisce in blocco la intera comunità
di Tamil che ha colonizzato da anni questo spigolo della città, a celebrare un
domestico pomeriggio festivo per svagarsi e far divertire i bambini. Le donne
arrivano molto profumate e vestite con eleganza, i bambini ripuliti di fresco, e
gli uomini - che tutte le altre sere si incontrano
in crocicchi di strade a bere intere casse di birra in lattina - qui arrivano sobri
seppure in astinenza.
Amaltea Trimestrale di cultura
anno VII / numero uno
marzo 2012
49
scritture
Le donne svolgono cerimoniosamente i loro cartocci e loro cenano lì, sulle panchine di ferro, ogni famiglia per suo conto, alla luce discreta di slanciati lampioni di foggia londinese. Per poche ore questa è casa, non un paese straniero.
Ma non bastano i sontuosi colori femminili, né le risa soffocate delle ragazze
che si appartano distanti, né gli occhi ardenti dei bambini ad
addolcire la tristezza degli uomini. E la inviolabile malinconia del giardino.
Arrivo ancor prima delle sei e mezza e già comincia a far buio. L’ansia mette
fretta.
Non sempre gli uomini puntuali sono - come si dice - persone responsabili, educate. In realtà non raramente sono solo persone nervose ed intolleranti, che
temono che il mondo crolli senza di loro. E che soffrono di insonnia.
Quando si sta aspettando una persona che non si conosce è inevitabile cominciare a prefigurarsi come sarà. La voce ascoltata è l’unica guida: la cadenza, il
suono, le cose taciute e le impercettibili esitazioni, le vibrazioni, le pause, la
morbidezza.
Una voce è esistenza a sé, e può valere talora ben più di una persona in carne
ed ossa, come si dice.
Solo bisogna imparare a fermarsi in tempo. A non essere ansiosi anche qui, a
non forzare. A non volere, insomma, confrontare la persona con la sua ombra.
La voce, cioè, e l’uomo o la donna che la hanno in sorte. C’è una relazione assai
complicata tra loro e spesso il raffronto è deludente. Anche quando non lo è
non è facile adattarsi a passare dall’uno all’altro. E, a ben pensarci, c’è una
specie di infedeltà sottile nel pretendere di intrattenersi con ambedue.
Quando arrivò non ebbi dubbi: Gabriella? - le dissi, e prima che rispondesse la
guidai verso una panchina distante, lontana dalla folla
variopinta dei Tamil. Lì non c’erano fanali e i suoi capelli scuri erano rischiarati
dalla luce rosa di lampioni lontani. Era il portamento con cui la
avevo vista arrivare che me la aveva svelata. Che era, come la sua voce, gentile ed insieme deciso. Certo non esprimeva per nulla ansia.
Questo me lo dichiaravano, oltre la voce, tratti della sua persona quando era
comparsa: la luminosità della pelle, il taglio delle labbra chiuse da una sottile
linea in caduta, una leggera indolenza nel passo: tutto questo diceva che era
una ragazza contenta di vivere, che si sveglia tardi al mattino e volentieri resterebbe ancora sotto le coperte se non fosse per il lavoro.
Giornalista - mi avrebbe detto da lì a poco - giornalista free lance.
Bene - avevo pensato - non avrà troppa necessità di alzarsi presto ogni giorno
come capita a me.
Quindi tu ne eri a conoscenza – mi chiese, guardandomi in viso con curiosità.
- Si, sapevo dissi.
- Lo avevo intuito: non c’era allarme nella tua voce al telefono. Come non
ti sorprendesse che mi facessi viva. Poi aggiunse : quando hai capito?
Rimasi perplesso, inutilmente forzando i ricordi.
- Non so di preciso dissi. Sai, le cose veramente evidenti che ti stanno vicine sono quelle che finiamo per non vedere. Le cose belle e quelle che
belle non sono. Le prime le rimpiangiamo quando non ci sono più, delle
altre ci si accorge quasi per caso quando fanno già parte del fardello che
portiamo sopra le spalle.
-
Amaltea Trimestrale di cultura
anno VII / numero uno
marzo 2012
50
scritture
Lei sorrise lievemente e fece: almeno questo fardello però lo divideremo in tre.
Senza accorgersene non aveva tenuto in nessun conto mia moglie.
- So che tu farai quello che si può fare aggiunse.
- Cosa si deve fare? - pensai con turbamento - forse si può solamente esserci, non sottrarsi.
- E tu? le chiesi.
Lei non rispose subito. Poi congiunse le mani e le accostò delicatamente al petto come in un rituale orientale:
- Io sono qui disse piano.
- Anche io ho fiducia in noi due, qualcosa faremo- le dissi.
E pensai curiosamente e con sollievo, come fosse certezza quello che avevo solamente immaginato: al suo sonno pieno ed ai suoi risvegli morbidi accanto ad
Alberto.
Sono più fragili le donne ? Mi chiesi alzandomi dalla panchina.
Poi pensai a Barbara, mia moglie, e mi dissi: qualche volta.
Lo sguardo con cui rare volte mi accoglie Barbara, mi ricorda l’occhio del tifone:
una oscurità minacciante che ancora trattiene quanto sarà presto incontenibile
e selvaggia violenza.
Quando oggi apro la porta lei è dietro l’uscio ed ha quello sguardo. Mi guarda
senza parlare e il suo viso pallido sembra indifferente ma lo sguardo ha una fissità non sopportabile.
Anche lei ora sa. Aveva sospettato e insieme sperato di sbagliarsi. Aveva ansiosamente interrogato lo sguardo di chi gli era intorno: io, Alberto, i suoi amici, i
nostri amici. Ed ora quasi per caso aveva saputo.
C’è una strana inspiegabile asimmetria nelle nostre relazioni familiari: lei ama
sconfinatamente Alberto, ma lui non ha alcuna tenerezza per lei. Sembra che
senta il suo affetto come un peso, un ingombro per la sua vita.
Ed è invece sin da bambino profondamente legato a me che, certo, lo amo molto ma mi sento sempre inadeguato.
Credo che con lei non abbia voluto parlare, con me non abbia saputo.
Così ha preferito che fosse Gabriella a cercarmi.
Qualche cosa è avvenuta con noi - dice cercando di contenersi. Non abbiamo
colpe - dice - né tu né io. Ma ci sarà stato un errore. Magari avremo solo sbagliato misura: a volte perdendolo di vista, troppo pensando a noi stessi, a noi
due. Non considerando la sua fragilità di
ragazzo. Oppure amandolo troppo altre volte, intralciandolo senza volerlo nella
sua strada con un amore eccessivo, imbarazzante per lui.
Cosa ne pensi tu ? E mi guarda con uno sguardo supplice.
Io non so risponderle come vorrebbe. Anch’io penso che non possiamo sapere
quale sia la giusta misura delle cose. Ma si è capaci di dare solo quello che si
ha, né più né meno. E a volte è troppo, a volte meno di niente.
Non le dirò invece quello che credo di sapere. O che so per mio conto.
Che le difficoltà ci spogliano di quel che credevamo di essere per consegnarci
ad una religiosità primordiale che credevamo scomparsa dentro di noi. Fatta di
timore e di senso di colpa. Accettiamo così che in noi stessi debba essere la
causa di quello che accade. La colpa, cioè, e tanto sconosciuta quanto sicura. E
per questo cominciamo una febbrile ricerca del gesto che ci ha condannati, del
punto di errore.
Amaltea Trimestrale di cultura
anno VII / numero uno
marzo 2012
51
scritture
Per espiare. Per allontanare pestilenze, carestie, tragedie, come in oscuri secoli
di Medio Evo.
Non sarebbe giusto dire ora a lei che certo gli errori ci sono, ma non sempre
sono il nocciolo del problema. Che, come la verità, l’errore non può essere fino
in fondo conosciuto. Che gli errori sono lo sfondo del quadro, ma altri i personaggi. Che siamo sempre solo comparse nella vita degli altri. E che le vicende
di ognuno forse nascono da profondità inesplorabili, per venire alla luce con la
loro distruttiva potenza, come nei terremoti.
Poi lei mi viene vicina, sembra un poco calmarsi e mi dice:
- So che è troppo difficile ammettere di avere sbagliato proprio con lui,
con Alberto. Perché il rimorso potrebbe sommergerci per tutta la vita.
Ma è l’unica cosa possibile se vogliamo recuperare qualcosa, tentare di
trovare un filo cui appendere qualche speranza.
Io consento con lei. Le faccio coraggio:
- Faremo qualcosa - le dico - stai certa.
Ma penso tra me che sarebbe meglio invece se ci fosse una nostra colpa, anche
non rimediabile. Perché si potrebbe rintracciare, conoscere. Fare luce. E questo,
anche solo questo, sarebbe uno scopo per vivere.
Ma se una colpa vera non c’è, come io credo, se in ognuno c’è solo un frammento di responsabilità, è allora che il peso diventa insostenibile.
Ma taccio con Barbara: ogni minuto cercheremo insieme il nodo sbagliato, il bivio in cui ci siamo perduti - le dico.
Vedevo un uomo di mezza età che camminava su e giù per la piazza.
Il vestito nocciola, abbottonato, gli tirava sui fianchi. Anche la cravatta era colore nocciola, ma più chiara.
Non c’era caldo ma lui continuava ad asciugarsi la fronte sudata.
Col telefonino incollato all’orecchio parlava a voce alta come se dovesse fare
sentire la voce a distanza, impartendo disposizioni senza esitazioni e senza impazienza. A tratti atteggiava il viso a un leggero allarme o a disapprovazione,
ma questo era solo per sé, perché la voce non tradiva incertezze né emozioni.
L’aspetto fisico, il modo di muoversi e di vestire mi fecero pensare ad un imprenditore, un piccolo imprenditore che gestisce direttamente i suoi affari senza
troppe segretarie.
Ad un certo punto si fermò aspettando una persona che gli andava incontro.
Era Alberto. Aveva il viso pallidissimo e teso come quando andava a un esame,
lui invece aveva una espressione benevola ed incoraggiante. Poi si diressero
fianco a fianco nell’angolo poco illuminato della piazza.
Era stata una vera disgrazia.
Durante un viaggio in Scozia col suo nuovo compagno, la mia amica Rosanna
aveva avuto un incidente di macchina, ed erano morti entrambi.
Era la guida a sinistra che li ha traditi - dissero alcuni, ed io avevo di nuovo
pensato che c’è sempre un errore da cercare in quel che succede.
Suo figlio Franco di tredici anni, aveva finito col vivere con Ada, sua nonna che
ha più di ottanta anni.
C’era spesso uno strano odore pungente nella stanza di Franco e lei ci mise poco a capire di cosa potesse trattarsi. Alla sua età, sola, lei si era sentita avvilita,
inadeguata.
Aveva chiesto aiuto ad amici, poi aveva capito che doveva sbrigarsela lei.
Amaltea Trimestrale di cultura
anno VII / numero uno
marzo 2012
52
scritture
Lui non aveva negato e le aveva anche sorriso con quel sorriso infantile che la
inteneriva, e la aveva anche rassicurata, come se lui fosse il più vecchio tra i
due, che era roba leggera e che era priva di rischi. Che lo sollevava e che era
priva di rischi - aveva detto.
Ne avevano parlato a lungo nei pomeriggi, quando lui tornava da scuola. Con
apprensione lei, lui con la voce acerba dei tredici anni. E spesso quando lei fiaccamente replicava, lui si ritirava nella sua stanza e, dalla soglia, gli mandava
un bacio sulla punta delle dita.
Ieri Ada gli era andata dietro. Lui stava seduto sopra il tappeto, assieme ad
Angela, una compagna di studi.
Non fa male - le aveva detto confuso. Potresti fumarne anche tu se ti andasse aveva aggiunto ridendo.
E lei, senza sapere perché lo facesse, aveva tirato tre o quattro boccate, lentamente, socchiudendo gli occhi per il fumo pungente.
Dopo il collo le si coprì ad ondate di macchie di colore rosso vermiglio.
Mi sento girare la testa, gli disse con l’allegria di una ragazza un po’ ebra. E si
sostenne al suo braccio.
Amaltea Trimestrale di cultura
anno VII / numero uno
marzo 2012
53