Ritratto di Jennie - Edizioni di Atlantide

Transcript

Ritratto di Jennie - Edizioni di Atlantide
Robert Nathan
Ritratto di Jennie
Traduzione di Simone Caltabellota
Capitolo Uno
Esiste qualcosa che è fame non di cibo ma di altro, di più,
e questa era la fame che avevo. Ero povero, la mia opera sconosciuta, spesso saltavo i pasti, e l’inverno era freddo nel mio piccolo studio nel West Side. Ma tutto questo in fondo era nulla.
Quando parlo di problemi, non intendo il freddo e la fame.
Per un artista c’è un altro tipo di sofferenza che è molto peggio
di qualsiasi cosa che l’inverno o la povertà possano causare; è
come un inverno della mente, nel quale il fuoco del proprio
genio, la linfa vitale del proprio lavoro, sembrano ghiacciati e
senza vita, bloccati – forse per sempre – in una stagione di morte; e chi può dire se una primavera verrà di nuovo a liberarli?
Non era solo che non riuscivo a vendere i miei lavori – è
accaduto a tanti, e anche ai grandi, prima di me – il fatto è
che sentivo di non riuscire io stesso a toccare davvero quanto
era intrappolato dentro di me. Qualsiasi cosa creassi, che fosse
una figura, un paesaggio, una natura morta, tutto, tutto sembrava diverso da quello che avevo dentro – e che sapevo essere
7
per certo, tanto quanto sapevo vero che il mio nome era Eben
Adams, quello che volevo dire al mondo, comunicare, in qualche modo, alla gente, attraverso la mia pittura.
Non so dire come fosse esattamente quel periodo; perché
l’aspetto peggiore di tutto ciò era un’ansia che è difficile da descrivere. Suppongo che la maggior parte degli artisti si trovino
ad attraversare qualcosa del genere; prima o poi non è più sufficiente per loro soltanto vivere – dipingere e avere abbastanza,
o quasi abbastanza, da mangiare. Prima o poi Dio domanda:
Sei con me o contro di me? E l’artista deve avere una risposta,
o sentirà il cuore spezzarglisi per quello che non riesce a dire.
Una sera dell’inverno del 1938 stavo tornando a casa attraverso Central Park. Ero molto più giovane allora; portavo sotto
braccio una cartella di disegni, e camminavo lentamente perché
ero stanco. La nebbia umida della sera mi scivolava accanto; e
scivolava lungo i prati e attraverso il viale, che a quell’ora era
vuoto e silenzioso. I bambini che di solito giocano lì erano a
casa, c’erano solo gli alberi neri e spogli e lunghe file di panchine umide e ricoperte di nebbia sottile.
Continuavo a spostare la mia cartella da un braccio all’altro; era pesante e sformata e ingombrante, ma non avevo soldi
per pagarmi un mezzo.
Per tutto il giorno avevo cercato di vendere qualche disegno. Dopo un po’ c’è una specie di disperazione che prende un
uomo, l’impressione spaventosa e terribile dell’indifferenza del
mondo, non solo verso la sua fame o il suo dolore, ma verso la
vita stessa che è in lui.
Ogni giorno il coraggio con cui avevo iniziato la giornata
diminuiva; ora era svanito del tutto, come sabbia da un bicchiere.
8
Quella sera avevo raggiunto il punto più basso, senza soldi
o amici, infreddolito, affamato e stanco, senza più speranza e
senza sapere cosa fare. Credo anche che mi sentissi confuso,
stordito, per non aver mangiato abbastanza durante il giorno.
Attraversai il viale, e scesi per la lunga e deserta passeggiata.
Davanti a me, una distesa uniforme di luci splendeva gialla
nell’aria buia. Udivo solo il rumore netto dei miei passi sulla
strada e, dietro di me, il sibilo e i sussurri del traffico di quanti
tornavano a casa alla fine del giorno. I suoni della città arrivavano attutiti e lontani, sembravano provenire da un altro tempo,
da un punto indistinto del passato, come il suono di un’estate,
come api in un prato tanto tempo fa.
Proseguii, come attraversando le quiete volte di un sogno.
Il mio corpo sembrava leggero, senza peso, fatto dell’aria della
sera.
Anche la ragazzina che giocava da sola nel mezzo del viale
non faceva alcun suono. Giocava a campana; saltava in aria con
le gambe divaricate e quindi toccava di nuovo terra, silenziosa
come le spore di un soffione.
Mi fermai per guardarla, perché ero sorpreso di vederla
lì, da sola. In giro non c’erano altri bambini, solo nebbia e la
lunga fila uniforme di luci che si allungavano verso la terrazza
e il lago. Cercai con gli occhi se ci fosse la sua baby sitter, ma le
panchine erano vuote.
«È piuttosto buio», dissi. «Non dovresti essere a casa?».
Non penso che la mia voce suonasse scortese. La ragazzina
tracciò con un segno il salto successivo e si dispose a compierlo;
ma prima mi guardò di traverso da sopra la spalla.
«È tardi?», chiese. «Non conosco il tempo molto bene».
«Sì», risposi, «è tardi».
9
«Beh», fece lei, «non devo ancora andare a casa». E aggiunse: «Nessuno è pronto per me».
Mi girai; dopo tutto, pensai, che cosa mi importava? Lei
a quel punto si raddrizzò e si compose, e scostò i capelli scuri
dal viso sotto la falda del cappellino. Le braccia erano sottili, si
muovevano in modo brusco, come fa un uccellino.
«Cammino un po’ con te, se non ti dispiace», disse. «Immagino di essere un po’ troppo sola qui, per conto mio».
Dissi che no, non mi dispiaceva, e salimmo su lungo il
viale, tra le panchine deserte. Continuavo a guardare in giro
alla ricerca di qualcuno con cui potesse essere venuta lì, ma non
c’era nessuno.
«Sei tutta da sola?», chiesi dopo un po’. «Non c’è qualcuno
con te?».
Lei arrivò a dei segni in gesso nel suolo lasciati da qualche
altro bambino e si fermò per saltarli. «No», disse. «Chi ci dovrebbe essere?».
«Comunque», aggiunse un attimo dopo, «ci sei tu con
me». E per qualche ragione questo le sembrava sufficiente.
Volle sapere cosa avessi dentro la cartella. Quando glielo
dissi, annuì soddisfatta. «Lo sapevo che erano disegni», esclamò.
Io le chiesi come faceva a saperlo.
«Oh, lo sapevo e basta», rispose.
La nebbia si addensava umida dietro di noi, fredda, con
dentro l’odore dell’inverno. Era perché non avevo mangiato
nulla per tutto il giorno che ogni cosa mi sembrava così strana,
pensai mentre risalivo il viale con una ragazzina non più alta
del mio gomito al fianco. Mi domandai se potessero arrestarmi
per questo; non so neppure il suo nome, pensai ancora, in caso
qualcuno me lo chiedesse.
10
Lei non disse nulla per un po’; sembrava che stesse contando le panchine. Ma in un qualche modo doveva sapere quello
che stavo pensando, quando superammo la quinta panchina mi
rivelò il suo nome senza che glielo chiedessi:
«È Jennie, così, giusto per saperlo».
«Jennie», ripetei un po’ stupidamente. «Jennie come?».
«Jennie Appleton», rispose lei. Poi proseguì dicendo che
viveva con i genitori in un hotel, ma che non li vedeva molto
spesso. «Papà e mamma sono artisti. Ora sono all’Hammerstein
Music Hall. Fanno acrobazie su un filo».
Fece un salto; e poi tornò da me e mi prese per mano. «Non
sono a casa molto spesso, per il loro lavoro».
Qualcosa però aveva iniziato a preoccuparmi. Aspetta un
attimo, mi dissi, c’è qualcosa che non torna. Infatti, è così, pensai… e allora ricordai. Certo – sì: l’Hammerstein Music Hall
era stato demolito qualche anno prima, quando io ero ancora
un ragazzo.
«Beh», dissi, «ma…».
La sua mano nella mia però era reale, sicura e calda; Jennie
non era un fantasma, e io non stavo sognando.
«Vado a scuola», continuò lei, «ma solo la mattina. Sono
ancora troppo piccola per starci tutto il giorno».
Sentii che emetteva un sospiro da bambina, pieno di paure da bambina, leggero come l’aria. «Di solito non ho lezioni
molto interessanti», commentò. «Per lo più del tipo che due
più due fa quattro e cose del genere. Quando sarò più grande,
studierò geografia e la storia anche, il Kaiser. Lui è il Re della
Germania».
«Lo era», la corressi io. «Ma è stato tanto tempo fa».
«Credo che ti sbagli», disse Jennie. Si allontanò un po’,
11
sorridendo tra sé per qualcosa. «Cecily Jones è in classe con
me», disse ancora. «Posso batterla alla lotta. Sono più forte di
lei, e posso vincerla facilmente. È solo una ragazzina».
Fece un salto. «È divertente avere qualcuno con cui giocare».
La guardai: una bambina vestita in abiti fuori moda, di un
altro tempo, cappotto, ghette e cappellino. Chi aveva dipinto
bambini in quel modo? Henri? Brush? Uno della vecchia scuola… C’era un quadro al Museo, la figlia di qualcuno, esposto
lungo le scale, quando sali. Ma i bambini vestono tutti sempre
allo stesso modo. Ebbi l’impressione che non giocasse con ragazzini della sua età molto spesso.
Sì, dissi, doveva essere divertente.
«Tu non hai nessuno con cui giocare?», chiese lei.
«No».
Mi sembrò che Jennie fosse dispiaciuta per me, ma allo
stesso tempo contenta che non avessi nessun altro se non lei
con cui giocare. Mi fece sorridere: i giochi dei bambini sono
così reali, pensai, perché i bambini credono a tutto.
Arrivammo a una grossa spaccatura sul selciato e lei la attraversò saltellando su un piede fino a che non la ebbe superata.
«So una canzone», disse. «Ti va di sentirla?».
E senza aspettare che rispondessi, guardandomi dal basso
in alto da sotto la falda del suo cappellino, iniziò a cantare con
voce chiara e un po’ stonata:
Where I come from
Nobody knows;
And where I’m going
Everything goes.
The wind blows,
12
The sea flows –
And nobody knows.
Da dove vengo
nessuno sa;
e dove vado
tutto va.
Il vento sbuffa,
il mare spruzza –
E nessuno sa.
La canzone mi colse di sorpresa, era così diversa da quello
che mi aspettavo. In realtà non so cosa mi attendessi esattamente – forse una filastrocca per bambini, o una canzone famosa
del tempo; le bambine i cui genitori erano artisti a volte cantavano canzoni d’amore.
«Chi te l’ha insegnata?», chiesi incuriosito.
Ma lei, semplicemente, scosse la testa e si fermò a guardarmi. «Nessuno me l’ha insegnata. È solo una canzone».
Eravamo giunti al grande spiazzo a forma di cerchio alla
fine del viale, e la mia via portava a sinistra, di nuovo attraverso
la passeggiata e quindi oltre il cancello dell’uscita a ovest.
La sera invernale ci avvolgeva con la nebbia, la solitudine
e il silenzio, gli alberi bagnati di umidità si alzavano intorno a
noi spogli e scuri, e la città, in lontananza, faceva risuonare le
sue note, che scendevano e svanivano nell’aria.
«Beh, ciao allora», dissi, «adesso devo andare».
Le porsi la mano, e Jennie, seria, la prese nella sua.
«Sai qual è il mio gioco preferito?», chiese.
«No», risposi io.
13
«È il gioco dei desideri».
Le chiesi cosa desiderasse di più.
«Vorrei che tu aspettassi che io diventi grande», disse. «Ma
tu non lo farai, penso».
Un attimo dopo si era voltata e aveva iniziato a ridiscendere giù per il viale. Restai a guardarla, ma dopo un po’ non
riuscii più a scorgerla.
Quando arrivai a casa mi riscaldai un barattolo di zuppa
sul gas e mi tagliai una fetta di pane e del formaggio. Lo sentii
pesante, nello stomaco, ma mi fece stare meglio. Quindi tirai
fuori i miei disegni dalla cartella, li sistemai sul pavimento e li
guardai. Erano tutte scene del New England: Cape Cod, chiese,
barche, vecchie case… acquerelli, per lo più, con qualche schizzo anche. Nessuno però della città… curioso che non ci avessi
mai fatto caso prima.
Andai alla finestra e guardai fuori. Non c’era molto da vedere: una linea di tetti e comignoli, scura e indistinta, poche
finestre illuminate e verso nord, lontano contro il cielo, alcuni
edifici più alti. Su tutto, l’aria umida e fredda dell’inverno e
quella ruvida e pesante della costa.
Un rimorchiatore fischiò nella baia; il suono, triste e misterioso, raggiunse i tetti e aleggiò sopra il rumore incessante
della città come un gabbiano su un fiume. Mi chiesi perché non
avessi mai voluto disegnare nessuna scena della città… avrei
potuto fare qualche pastello del fiume, pensai, se fossi riuscito a
restituire il tono freddo del cielo. E quella linea di palazzi a sud
del Parco – potevo cercare di rendere quel vago blu che faceva
ricordare una montagna lontana.
Ma per tutto il tempo, nel fondo della mente, continuavo
a pensare alla bambina che avevo incontrato. Dove vado, nes14
suno sa. Il vento sbuffa, e nessuno sa. Era una strana canzoncina, e la sua mancanza di una melodia la rendeva difficile da
dimenticare.
Ripensai all’ultima cosa che Jennie mi aveva detto prima
di girarsi e andarsene via. Ma nessuno poteva aspettare qualcun altro finché non fosse diventato grande; si cresce insieme,
fianco a fianco, passo dopo passo, l’uno e l’altra; si è ragazzini
insieme, e poi vecchi insieme; e si va via insieme, verso qualcosa
che ci aspetta – il sonno, o il paradiso, cosa esattamente non lo
sapevo.
Rabbrividii. Il grosso termosifone grigio pieno di polvere
davanti alla finestra era appena tiepido. Avrei dovuto parlare
di nuovo a Mrs Jukes, pensai. Ma improvvisamente mi sentii
triste, come se qualcuno mi avesse appena raccontato una vecchia storia dolorosa. Non aveva senso provare a lavorare quella
notte; andai a letto, per farmi ancora coraggio.
15