III domenica di Quaresima _C_

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III domenica di Quaresima _C_
III domenica di Quaresima (C)
Es 3,1-8a.13-15; Sal 103; 1Cor 10,1-6.10-12;
Lc 13,1-9
La prima lettura ci introduce
nell'ineffabile esperienza di Dio che il popolo
del Libro ci ha trasmessa. Il libro dell'Esodo
(Shemot, «Nomi») è anzitutto un'opera letteraria; infatti siamo di fronte a racconti redatti e
trasmessi per secoli di generazione in generazione. Lo scopo di questi racconti non è informare, bensì formare la coscienza collettiva di
Mosè davanti al roveto ardente
un popolo e quella di ogni individuo all'interno del popolo.
In parole semplici, il racconto biblico vuol fornire ai suoi lettori una mappa e strumenti adeguati per orientarsi
nell'esistenza (cf J.L. Ska).
Es 3,1: Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse
il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb (umosheh hayah ro'eh et-tzon yitro chotno
kohen midyan vayyinhag et-hatzon achar hammidbar vayyavo el-har ha'elohim chorévah).
- Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro (umosheh hayah ro'eh et-tzon yitro). Leggiamo in Shemot Rabbà 2:
Fu col gregge che il Signore lo mise alla prova. Osservano i nostri maestri: una volta, quando Mosè pascolava il
gregge di Ietro nel deserto, gli fuggì un capretto: Mosè gli corse dietro sino alla fessura di una roccia; giunto là,
il capretto si fermò davanti a una cisterna per bere. Quando Mosè gli fu vicino, gli disse: «Io non sapevo che tu
corressi per la sete! sei, dunque, stanco?». E, nel dire così, se lo mise sulle spalle e continuò a camminare. Allora
il Santo, benedetto Egli sia, gli disse: «Poiché tu hai compassione e sai guidare il gregge degli uomini, sono
certo che saprai guidare anche il gregge del mio popolo, Israele».
- Ietro (yitro). Nome che significa «in più, eccellenza». Suocero di Mosè, chiamato anche Reuèl (Es 2,18), diede la
sua figlia Sipporà (Tzipporà, «passera») in moglie a Mosè. Ebbe due figli: Ghersom ed Elièzer.
- monte di Dio, l’Oreb (el-har ha'elohim chorévah). Il Monte Sinài nelle tradizioni del nord è chiamato Monte
Chorèv («arido, secco», cf Es 17,6; 33,6). L'identificazione di questa montagna risale ai primi secoli dell'era
cristiana ed è attualmente l'ipotesi più accreditata. Secondo la tradizione che risale al 330 d.C., Elena madre
dell'imperatore Costantino, identificò il Monte Oreb con un'altura a sud della penisola del Sinai, rinominata
Monte di Mosè, in arabo Gebel Musa. L'imperatore Giustiniano nel 527 d.C. fece edificare in una valle sulle sue
pendici, nel luogo presunto del roveto ardente, la Basilica della Trasfigurazione, che includeva la primitiva chiesa
di Sant'Elena Imperatrice, e che nel IX secolo fu dedicata a Santa Caterina d'Alessandria, l'odierno Monastero di
Santa Caterina. Il Monte Sinai con i suoi 2.285 metri di altezza è la seconda montagna più alta dell'Egitto dopo il
Monte Caterina (2.637 m.) che si trova a circa 5 km a sud-ovest (il Vettore, il monte più alto dei Sibillini è alto
2476 m.). Una possibile alternativa all'ubicazione del «monte di Dio» potrebbe essere Har Karkom (ebr.
Montagna di zafferano), detta anche Gebel Ideid (arabo: Montagna delle moltitudini), una montagna posta nel sudovest del deserto del Negev in Israele. Domina una zona desertica nota come deserto di Paran (ebr. Midbar
Paran, cf Gn 21,21; Nm 10,12). Nel 1983 l'archeologo Emmanuel Anati scoprì un santuario all'aperto risalente al
paleolitico e usato ininterrottamente almeno fino all'età del bronzo. Dalle raffigurazioni presenti sul posto è
stato dedotto che il santuario era dedicato al dio Luna, in semitico Sin, da cui potrebbe derivare il nome
Sinai. Per altri, il nome Sinai deriva da senèh, che significa «roveto». Sulla vetta di Har Karkom è inoltre
presente una piccola grotta che ricorderebbe quella in cui trovarono riparo Mosè (Es 33,22) ed Elia (1Re 19,9).
Egeria, pellegrina che visitò la Palestina verso la fine del IV secolo, nel suo Diario parla della presenza di due
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cime contrapposte, corrispondenti al Sinai e al Chorèv. Ebbene, Har Karkom comprende due cime. La
problematicità di questa tesi tuttavia deriva dall'epoca storica: i ritrovamenti archeologici anticiperebbero di
secoli l'uscita dall'Egitto.
3,2: L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed
ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava (vayyera mal'ach hashem elayv
belabbat-esh mittoch hassenèh vayyár· vehinneh hassenèh bo'er ba'esh vehassenèh enénnu ukkal).
- L’angelo del Signore (mal'ach hashem). L'angelo del Signore è lo stesso Adonay, infatti nel v. 4 è Dio che chiama
Mosè. La figura del malach (angelo) è ambivalente nella Bibbia: qui come in Gen 16,7 (Agar cacciata nel
deserto), l'angelo è identificato con Dio, mentre in Es 14,19 (l'angelo retroguardia nel passaggio del Mar Rosso);
23,20-23 (guida per entrare nella terra di Canaan); 32,34 (guida di Mosè dopo il peccato del vitello d'oro); Nm
20,16 (guida per uscire dall'Egitto) è distinto da Dio.
- gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto (elayv belabbat-esh mittoch hassenèh vayyár). Si tratta
di un cespuglio tipico dell'Arabah (Rubus spp) e della penisola sinaitica. Sotto il sole cocente può prendere
anche fuoco: ma il fatto che non si consumi segnala la presenza di Dio (teofania). Secondo una spiegazione
rabbinica, non c'è nessun luogo sulla terra in cui Dio non sia presente, neanche in un umile roveto. Nella
benedizione di Mosè riportata in Dt 33,16, Dio è chiamato «colui che abitava il roveto» (shochni seneh, lett.
«dimorante roveto»). Qui il termine raro hassenèh è accompagnato dall'articolo (il roveto), come se si trattasse di
un luogo conosciuto o già citato prima. Per il redattore finale, l'Oreb e il Sinai sono un unico luogo. Il suo
scopo è chiaro: l'ubicazione della visione non è un luogo qualunque; là Dio si è rivelato ed è là che il popolo,
dopo l'uscita dall'Egitto, renderà culto a Dio.
- Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava (vehinneh hasseneh bo'er ba'esh
vehasseneh enénnu ukkal). La storia che deve provocare la liberazione inizia. I protagonisti del racconto sono:
a) Israele, ridotto in schiavitù dagli egiziani; b) il Faraone che si oppone al piano di Dio; c) Mosè che è chiamato
a realizzare la missione; d) Dio stesso rivela la sua identità e si impegna a salvare il suo popolo dall'oppressione
e dalla schiavitù. Dio chiama alla libertà. Il midrash si interroga: Per qual motivo il Signore mostrò a Mosè una
tale visione? Perché Mosè pensava tra sé: forse gli Egiziani distruggeranno Israele, perciò il Santo, benedetto
Egli sia, gli fece vedere un fuoco che ardeva e un roveto che non si consumava, quasi per dirgli: «Come questo
roveto arde in mezzo al fuoco, ma non si consuma, così gli Egiziani non potranno distruggere Israele»
(Shemot Rabbà 2).
3,3: Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non
brucia?» (vayyó'mer mosheh asurah-nna ve'er'eh et-hammar'eh haggadol hazzeh maddua' lo-yiv'ar hasseneh).
- perché il roveto non brucia? (maddua' lo-yiv'ar hassenèh). Il fuoco devasta e consuma, esprimendo la potenza o
la collera divina. Il fuoco indica anche la presenza divina, come al momento della teofania del Sinai (Es 19,18;
Dt 4,12; 5,24-26) o in altri racconti di vocazione (Is 6; Ez 1). Il roveto brucia senza consumarsi. Siamo di fronte
all'accostamento di elementi incompatibili, a una realtà problematica. Perché il roveto non brucia?
3,4: Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!».
Rispose: «Eccomi!» (vayyár hashem ki sar lir'ot vayyikra elayv elohim mittoch hasseneh vayyó'mer mosheh
mosheh vayyó'mer hinnéni).
- Il Signore vide che si era avvicinato per guardare (vayyár hashem ki sar lir'ot). Mosè incuriosito dal «grande
spettacolo» (haggadol hazzeh), si avvicina al roveto «per guardare» (lir'ot), cercare un senso, una spiegazione al
fenomeno inconsueto e strano. Solo chi si pone delle domande potrà avvicinarsi al mistero che avvolge
l'universo.
- Dio gridò a lui dal roveto (vayyikra elayv elohim mittoch hasseneh vayyó'mer, lett. «e chiamò lui Dio da mezzo
il roveto e disse»). Il testo non parla di un Dio che grida, ma di un elohim che chiama (vayyikra). Racconta il
midrash: «Il Santo, benedetto Egli sia, disse a Mosè: "Non senti che Io sono nel dolore, proprio come Israele è nel
dolore? Guarda da che luogo ti parlo, dalle spine! Se così si può dire, io condivido il dolore d'Israele!"». È
scritto infatti: bekol-tzaratam lo tzar (lett. in ogni loro avversità, [fu] a Lui avversità) (Is 63,9) (Shemot Rabbà 2,5).
- Mosè, Mosè (mosheh mosheh). Prima che Mosè si renda conto di cosa stia succedendo, Dio lo chiama per
nome: «Mosè, Mosè». Rabbi Hiyya (200 e.v.) propone di vedere nella ripetizione del nome un segno di amore
e un segno che Dio vuole che la sua parola sia ascoltata e obbedita: Abramo, Abramo (Gen 22,11); Giacobbe,
Giacobbe (Gen 46,2); Mosè, Mosè (Es 3,4); Samuele, Samuele (1Sam 3,10) (cf Gen Rab 22,11; Rashi ad l.). Le
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chiamate di Dio sono chiare, insistenti, pacificanti. Alla duplice chiamata, Mosè risponde con un'espressione
che indica sottomissione e prontezza: «Eccomi!» (hinnéni; cf Abramo in Gen 22,1), anche se la sua prima
reazione è di paura. Alla corte del faraone Mosè non aveva incontrato Dio, ma nel deserto e nella solitudine
riesce a incontrarlo. La vocazione di Mosè diventa la risposta di Dio al «grido del suo popolo» (Es 3,7). Dio, che
intende intervenire come «difensore, liberatore» del suo popolo e come «giudice» nella faccenda che oppone
Israele all'Egitto, chiama Mosè e gli affida la missione di liberare il suo popolo (Es 3,7-10). È importante notare,
che il libro dell'Esodo fin dall'inizio usa un termine raro: «brutalità» (perek) (cf Es 1,13-14; Lv 25,43.46.53; Ez
34,4). Questo termine ha un senso giuridico preciso: Lv 25 proibisce di brutalizzare gli schiavi; Ez 34 si
pronuncia contro i pastori, ossia i re d'Israele, che hanno brutalizzato le pecore del gregge a loro affidato, ossia i
loro sudditi; Es 1 estende questo giudizio all'Egitto perché lo stesso faraone ha agito con brutalità nei
confronti di Israele. Si sta parlando quindi di un reato grave, che il Signore non tollera. Una delle cose più
importanti nel mondo antico era di trovare un «appoggio», un potente «protettore», chiamato nella Bibbia il
«difensore» o il «consolatore». «La distinzione delle due azioni giuridiche, quella di venire a giudizio in tribunale, e quella di venire a contesa con qualcuno, non è sempre facilmente percepibile, perché - specie nei testi
poetici - i termini riv ("controversia giuridica", "contesa") e mishpat ("giudizio") vengono usati in senso
pressoché sinonimico; inoltre, quando Dio è il soggetto dell'azione, si è spontaneamente portati a credere che
egli non possa agire se non come giudice (il che non è sempre vero)» (P. Bovati, Ristabilire la giustizia).
3,5: Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo
santo!» (vayyó'mer al-tikrav halom shal-ne'aleícha me'al ragleícha ki hammaqom asher attah omed alayv
admat-kódesh hu).
- Non avvicinarti oltre! (al-tikrav halom, lett. «non avvicinarti qui»). Chi chiama Mosè gli ricorda che c'è una
distanza da mantenere («togliti i sandali») prima di affermare di essere il Dio dei Padri. Nell'originale ebraico
tkarev c'è il significato di "voltarsi" che evoca la conversione e che sostiene il desiderio di "vedere".
- Togliti i sandali dai piedi (shal-ne'aleícha me'al ragleícha, lett. «slega i tuoi sandali dai tuoi piedi»). Si tratta di
un segno di rispetto (come ancora oggi nelle moschee). Il gesto vuole esprimere la sacralità del luogo
separandolo da ciò che è profano. Ritorna la concezione antica che prevedeva i templi all'interno di un recinto
sacro (gr. témenos, ebr. haser; ar. haram). Ma qui l'attenzione si concentra sul gesto simbolico: togliersi i sandali.
Dio chiede a Mosè di spogliarsi da qualunque attaccamento materiale, per conoscere ciò che solo col cuore
si può vedere.
3,6: E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè
allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio (vayyó'mer anochi elohe avícha elohe
avraham elohe yitzchak velohe ya'akov vayyaster mosheh panayv ki yare mehabbit el-ha'elohim).
- Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (anochi elohe avícha elohe avraham
elohe yitzchak velohe ya'akov). Dio si rivela nella storia umana, in persone concrete che hanno un nome. Il Dio
della Bibbia non è un Dio delle speculazioni. Se gli uomini non raggiungono Dio, lui li raggiunge nella loro
storia quotidiana. Dio non si rivela a persone già perfette, in situazioni ideali, quanto nel travaglio di ogni
giorno, nella povera e ardua ricerca del bene, nello sforzo, non sempre coronato da successo, di creare un
mondo più umano, nella marcia gioiosa o stanca di un popolo verso la lontana «terra promessa». Dio è
presente nella nostra fedeltà e nei nostri tradimenti, è colui che mantiene il suo popolo sui sentieri della
giustizia e va a cercarlo quando si smarrisce nei vicoli ciechi delle sue erranze. La Bibbia ci insegna che non vi
è alcuna esperienza umana, compreso il peccato, dalla quale Dio possa essere assente.
- Mosè allora si coprì il volto (vayyaster mosheh panayv). Gesto che esprime il «timore sacro», tipico di fronte a
Dio. L'uomo infatti non può vedere direttamente Dio e rimanere vivo (Es 19,21; 33,20); per questo, Mosè (Es
3,6), Elia (1Re 19,13) e gli stessi Serafini (Is 6,2) si coprono il volto davanti al Signore che solo raramente si fa
vedere (Es 24,11), e solo a Mosè (Es 33,11; Nm 12,7-8) e a Elia (1Re 19,11-12). Rabbi Jehoshua ben Korcha dice:
non fece bene Mosè a nascondere il volto; infatti, se non lo avesse nascosto, il Santo, benedetto Egli sia, gli
avrebbe rivelato ciò che è in alto, in basso, in avanti e indietro (cioè i misteri del mondo). Più tardi Mosè
chiederà di vedere tutte queste cose, come è detto: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ma il Signore soggiunse:
«Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Quando io ero disposto
(a mostrarmi), tu non l'hai chiesto; ora che me lo chiedi, sono io a non essere disposto. Rabbi Oshaaja Rabba
disse (invece): fece bene Mosè a nascondere la faccia e infatti il Santo, benedetto Egli sia, gli disse: «Io ero
venuto per mostrarmi a te e tu hai nascosto la faccia; orbene, io giuro che tu dovrai rimanere sul monte per
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quaranta giorni e quaranta notti, non già per mangiare e bere, ma per godere dello splendore della divina
gloria, come è detto: Mosè non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui»
(Es 34,29).
3,7: Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa
dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze (vayyó'mer hashem [ra'oh] ra'íti et-oni ammi asher
bemitzráyim ve'et-tza'aqatam shamá'ti mippene nogsayv ki yadá'ti et-mach'ovayw).
- Ho osservato … ho udito … conosco le sue sofferenze (ra'íti … shamá'ti … yadá'ti et-mach'ovayw). Il Dio dei Padri si
coinvolge personalmente con il «suo popolo». Parla in prima persona e si fa carico delle sofferenze del popolo.
3,8a: Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra
bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (va'ered lehatzilo miyyad mitzráyim
uleha'aloto min-ha'áretz hahiv el-éretz tovah urechavah el-éretz zavat chalav udevash).
- Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa (va'ered
lehatzilo miyyad mitzráyim uleha'aloto min-ha'áretz hahiv el-éretz tovah urechavah). Dio scende (va'ered, lett.
«e scesi») dal cielo «per salvarlo dalla mano dell'Egitto» (lehatzilo miyyad mitzráyim) e per farlo salire
(uleha'aloto) da questa terra (min-ha'áretz hahiv) di schiavitù verso una terra bella e spaziosa (el-éretz tovah
urechavah). La terra promessa richiama il giardino dell'Eden, mediante il termine tipico del racconto della
prima creazione: tovah (bella). A questa terra si accede mediante una salita. La terra promessa nella tradizione
cristiana diventerà la Gerusalemme di lassù (Gal 4,26).
- una terra dove scorrono latte e miele (el-éretz zavat chalav udevash). Espressione divenuta stereotipa, per
designare la «terra promessa». In un inno cananeo a Ba'al, ritrovato a Ugarit [antica città della Siria, attuale Ras
Shamra, a pochi chilometri a nord della città moderna di Latakia. Insieme a Ur e a Eridu è una delle più antiche città
del mondo, con antecedenti preistorici che risalgono al VI millennio a.C.], per esprimere l'abbondanza della terra
si dice: «I cieli fanno piovere olio e i torrenti fanno scorrere miele». Nella Bibbia la terra era già stata promessa
ai Patriarchi, ma con altra formula: Alla tua discendenza io darò questa terra (Gn 12,7; 13,15; 15,18; 17,8; 26,3-4).
Dio parla di sé: si rivela come colui che ha visto la miseria del suo popolo, che ascolta il grido di coloro che
soffrono e le invocazioni di coloro che subiscono ingiustizia. Una cascata di verbi alla prima persona rende
chiara la presenza e l'attenzione di Dio. Ciò che suscita l'attenzione divina non sono le imprese del popolo,
né la sua fedeltà o la sua rettitudine morale, ma il suo grido di disperazione. Dio si rende presente alla miseria
del suo popolo, si schiera dalla sua parte, decide di liberarlo e di farlo salire verso una terra fertile e vasta. Per
realizzare la sua opera, Dio non resta solo. Mosè sarà il segno e lo strumento della presenza divina per la
salvezza del suo popolo: «Perciò va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo!» (v. 10). Come in
altri racconti di vocazione, l'obiezione di Mosè manifesta le esitazioni di fronte alla missione da compiere: «Chi
sono io per andare dal faraone e per fare uscire dall'Egitto gli israeliti?» (v. 11). Non solo perché la missione supera le
forze di chi è mandato, ma perché egli non ha alcun titolo per parlare al faraone. Una prima risposta rassicura
Mosè, che non sarà solo davanti al re: «Io sarò con te» ('ehyeh 'immeka, v. 12). Viene anche annunciato un segno.
Mosè è ora l'inviato di Dio.
3,13: Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato
a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?» (vayyómer mosheh elha'elohim hinneh anochi va el-bene yisra'el ve'amarti lahem elohe avotechem shelacháni alechem ve'amru-li
mah-shemo mah omar alehem).
- Mi diranno: “Qual è il suo nome?”(ve'amru-li mah-shemo). Mosè avanza una seconda obiezione che è una
seconda domanda d'identità. Mosè non conosce il nome di colui di cui deve essere il messaggero. Deve parlare
ai figli di Israele, ma non sa chi lo manda. Solo quando conoscerà il nome di Dio, potrà veramente parlare in
suo nome. Non si tratta più di accreditare Mosè davanti al faraone, ma di accreditarlo presso gli stessi israeliti.
La domanda di Mosè riceve una duplice risposta (vv. 14 e 15), segno della difficoltà di parlare del mistero così
rivelato.
3,14: Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha
mandato a voi”» (vayyó'mer elohim el-mosheh ehyeh asher ehyeh vayyó'mer koh tomar livne yisra'el ehyeh
shelacháni alechem).
In questo versetto troviamo una chiave di interpretazione di Es 1-14. In effetti, il testo, oltre a essere molto
conosciuto, è centrale nella teologia dell'AT, perché il nome divino rivelato a Mosè in queste circostanze è in
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qualche modo il «nome proprio» del Dio d'Israele, vale a dire YHWH. La pronuncia esatta si è persa perché il
nome era pronunciato una sola volta all'anno dal sommo sacerdote quando entrava da solo nel Santo dei Santi
durante la festa delle Espiazioni (Yom Kippur). Il sommo sacerdote trasmetteva la pronuncia del nome al suo
successore. Dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C. e la fine del sacerdozio, la pronuncia si è persa per
sempre. Questo nome sarà anche per sempre legato alle vicende dell'esodo e alla liberazione dalla schiavitù
egiziana. Il Dio d'Israele vuol essere ricordato e invocato come quello che ha affrancato il suo popolo: «Tale è il
mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione» (Es 3,15). D'altronde, il popolo d'Israele nasce
come popolo proprio quando Dio gli regala la libertà.
- Io sono colui che sono (ehyeh asher ehyeh). Per la sua concisione e il suo carattere ermetico, la prima risposta,
«'Ehyeh 'asher 'ehyeh», è una delle parole più difficili da interpretare e forse la spiegazione rimane
intenzionalmente enigmatica. La seconda parte del versetto dà un nome, ma è diverso: «Io-Sono mi ha mandato
a voi» (v. 14b).
La formula «'Ehyeh 'asher 'ehyeh» si può intendere in più modi. Per cogliere la difficoltà, bisogna ricordare
alcuni elementi di linguistica ebraica.
• Il significato del verbo ebraico hayah non è esattamente quello del verbo italiano «essere». Quando è usato,
il verbo hayah sottolinea un'insistenza. Inoltre, invece del sistema dei «tempi», l'ebraico usa due aspetti
verbali: compiuto (perfetto) e incompiuto (imperfetto). L'incompiuto presenta l'azione nel suo farsi, che sia
nel presente, nel futuro o nel passato. La forma 'ehyeh, usata qui, è la prima persona singolare
dell'incompiuto del verbo hayah.
• La particella 'asher serve a introdurre una proposizione relativa e corrisponde alle diverse forme del nostro
pronome relativo «chi, che, di cui» oppure «colui che, il quale, del quale». Può anche essere usata al posto
della congiunzione subordinata: «poiché», «perché».
A causa delle difficoltà reali a tradurre esattamente questa espressione, alcune versioni antiche, come il Targum
aramaico di Onkelos o la versione siriaca, hanno scelto di trascrivere semplicemente l'ebraico piuttosto che
tradurlo. Gli studiosi moderni propongono tre traduzioni, che sono anche tre interpretazioni.
a. Rifiuto di rivelare il nome. Letteralmente si può tradurre l'ebraico «Io sono colui che sono» o anche «Io
sono: Io sono», dando al pronome relativo ebraico il senso dei nostri due punti. La formula è evasiva. Dare un
nome a qualcuno significa esercitare un certo potere su di lui. In un contesto dove esistono concezioni magiche,
legate alla proprietà del nome, Dio rifiuta di rivelare il proprio nome per non essere relegato al rango di
idolo. Logicamente la rivelazione a Mosè non può consistere in un semplice rifiuto, visto che Mosè impara un
nome che può servire come segno. Si può concludere che se Dio non rifiuta di dire il proprio nome, il nome
che egli si dà non può essere conosciuto, né pronunciato dall'uomo. Anche il nome YHWH, che sarà rivelato
nel versetto seguente, non può esprimere il mistero di colui che è sempre oltre.
b. Affermazione dell' essenza di Dio. La traduzione greca dei Settanta ha reso «Io sono colui che è», cioè
«Io sono l'essere per eccellenza», in opposizione agli dèi che non sono (Is 44,6-8) o che sono niente (41,21-29).
Secondo questa interpretazione, Dio esiste veramente perché egli solo ha consistenza, solidità. Mentre tutto
cambia, egli solo rimane stabile e immutabile.
c. Affermazione dell'agire di Dio. Il verbo hayah (essere) non è un semplice ausiliare, ma implica
dinamismo, azione, presenza. Il secondo 'ehyeh perciò esprime l'esistenza concreta, la realtà di una relazione
con gli uomini nel presente e nel futuro. Una conferma indiretta ci viene dal profeta Osea, che coglie il lamento
di Dio nei confronti del suo popolo: Io per voi non sono (Os 1,9c). Per Osea, questa formula (che allude a Es 3,14)
ha il senso di una presenza efficace. Lo stesso si può leggere, nel racconto della vocazione di Gedeone: «Io sarò
con te», proprio nel contesto di una domanda sull'uscita dall'Egitto (Gdc 6,16). Si potrebbe quindi tradurre: «Io
sono colui che sarà [là]», cioè colui che è, sarà presente nei momenti decisivi. Questa interpretazione,
evidenziata dalla tradizione ebraica, si congiunge alla promessa del v. 12. La formula 'Ehyè 'asher 'ehyè può
dunque essere interpretata in diversi modi. Accettiamo i limiti e le debolezze delle nostre interpretazioni, che
non potranno mai esaurire l'infinito di Dio. Come Mosè non ha potuto avvicinarsi al roveto, così l'esegeta
deve rimanere a distanza. Dio non è mai afferrato ma è sempre presente. Il midrash racconta: Disse il Santo,
benedetto Egli sia, a Mosè: «Va’ a dire a Israele: Io fui con voi in questa schiavitù e Io sarò con voi al tempo
della schiavitù sotto altri popoli». Gli disse allora Mosè: «O Signore, è sufficiente pensare alla sventura quando
giunge (e non occorre pensarci prima)». Gli rispose il Santo, benedetto Egli sia: «Va’ e di’ loro: “Colui che è mi
ha mandato a voi”» (Berakot 9). E ancora: «Il Santo, benedetto Egli sia, disse a Mosè: Cosa cerchi di sapere? Sono
chiamato in base a ciò che faccio ... Quando ho compassione del mio mondo, sono chiamato Jhwh, perché il
Tetragramma [= quattro lettere] non significa altro che la misericordia, come è detto: Jhwh, Jhwh, Dio
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misericordioso e pietoso» (Es 34,6). Questo è il significato del versetto 'Ehyè 'ashèr 'ehyè: sono chiamato secondo i
miei atti» (Es Rabbà 6).
3,15: Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo
con cui sarò ricordato di generazione in generazione (vayyo'mer od elohim el-mosheh koh-tomar el-bene
yisra'el hashem elohe avotechem elohe avraham elohe yitzchak velohe ya'akov shelacháni alechem zeh-shemi
le'olam vezeh zichri ledor dor).
- Questo è il mio nome per sempre (zeh-shemi le'olam). L'espressione le'olam (per sempre) è scritta nel testo biblico
senza la vav (w), per cui può essere letta le'alem, cioè questo è il mio nome da tener nascosto, quasi per dire:
«Tieni nascosto il nome di Dio affinché non venga letto come è scritto» (Rashì; cf Pesachim 50a; Esodo Rabbah
III). Perciò al suo posto va letto Adonay «Signore» o ha-Shèm, «il Nome». Non si conosce l'esatta pronuncia del
nome Jhwh, anche se si ritiene che quella originaria fosse Jahwè. È da ritenere chiaramente falsa la pronunzia
Jehowà (o Geova).
Come la chiamata di Abramo aveva sullo sfondo il peccato e la confusione di Babele, così la
chiamata di Mosè ha sullo sfondo la schiavitù d’Egitto. In un contesto di oppressione, Dio chiama un
liberatore: «Ora va’! [...] Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo» (3,10). Non è Mosè che cerca Dio, ma è Dio che si
presenta a lui inaspettatamente.
La teofania inizia con un segno che attira l’attenzione di Mosè: un roveto che arde e non si consuma. La
prima reazione di Mosè è di curiosità e di meraviglia. Lascia il gregge e va ad osservare. Ma subito il roveto è
del tutto dimenticato. Il prodigio attira l’attenzione, ma non vuole imprigionare l’attenzione: il suo scopo è di
condurre l’uomo verso qualcos’altro, verso la presenza di Dio e il suo messaggio. Per questo i prodigi di Dio
sono meravigliosi, ma insieme discreti e rari.
È sempre Dio che inizia il dialogo. Se Dio interviene è per fedeltà ai Padri e per compassione del
popolo: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido» (3,7). Il Dio di Israele è esigente, ma
anche fedele e compassionevole. Non è mai indifferente di fronte alla sofferenza di un popolo che grida per
l’oppressione che subisce. Il popolo grida, non prega. Ma l’oppressione giunge alle orecchie del Signore che è
sempre in ascolto. La sua risposta al lamento del popolo è la scelta di qualcuno che si faccia carico
dell'oppressione per eliminarla.
Dio è fedele, perciò si rivela come il Dio dei padri. Nonostante sembrasse averle dimenticate, Dio
ricorda le promesse fatte ai patriarchi e intende realizzarle. Dio chiama Mosè quando questi è debole e
povero, un fuggiasco, il meno adatto a presentarsi al faraone. Così la missione di Mosè viene posta sotto il
segno della fede: un «fidarsi di Dio», non di se stesso.
Dio rivela a Mosè il suo nome: «Io sono colui che sono». Rivelando il suo nome, Dio afferma di essere
«colui che è presente» in mezzo al suo popolo per salvarlo. Tuttavia Dio è con noi, ma non si lascia
strumentalizzare da noi. Chiamato per nome, Mosè ha ricevuto un ordine preciso: «Fa’ uscire dall’Egitto il mio
popolo» (3,10). All’uomo non resta che obbedire prontamente: «Eccomi». Tale vocazione e missione presto si
trasformerà in croce per Mosè: solidale con il popolo e contemporaneamente straniero in seno alla sua stessa
gente.
Quale nome rispetta il mistero di Dio? Come entrare in relazione con qualcuno se non se ne conosce il
nome? Nella Bibbia, Dio ha un nome proprio: il «Tetragramma sacro», cioè quattro consonanti: Y H W H
impronunciabili (Shem hammephoras). Altri nomi di Dio: JHWH Tzevaot (Signore degli eserciti), El o Elohim, El
olam (Dio eterno); Adonay-nissi (Il Signore è il mio vessillo, Es 17,15); El roi (Dio che mi vede), El Shadday (Dio
della montagna). Shaddày è un antico attributo di Dio che spesso è tradotto con «Onnipotente/Pantocrator».
L’etimologia del termine è incerta. La parola può essere collegata a shad «mammella», e quindi El Shaddày
indicherebbe un Dio con le mammelle, materno, cioè che nutre i suoi fedeli. Questo significato è collegato
all’opinione dei rabbini secondo i quali questo termine è unito a dai («a sufficienza»), intendendo così dire che
Dio offre sostentamento a sufficienza a tutti coloro che ne hanno bisogno. El Elyòn (Dio altissimo, Gen 14,18);
Ram (Eccelso, Sal 99,2); El hann'eman (Dio fedele, Dt 7,9), El malè rachamim (Dio ricco di matrici, uterino),
Rachmanà (Il Misericordioso), Dorshènu (Colui che ci cerca), Attiq yomin (Antico di giorni, Dan 7,9), Ha-Maqom
(Il Luogo), Ha-Shem (Il Nome), Adoshem (Nome del Signore), Attiqa qadishà (Il Vecchio santo, Zohar). Nella
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kabbalà: Keter (corona); Atarah (diadema); Adoshem hu ha-Elohim (Solo Dio è Dio: antica invocazione dei martiri
della fede). La Scrittura non dice nulla sulla natura di Dio, ma ci dice tutto sulla sua misteriosa Volontà;
perciò vi furono alcuni cabalisti che sostennero che l’intera Torah non è altro che un unico, immenso nome di
Dio, che per i mistici non è composto da 4 ma da 10 lettere, dilatabile all’intera Torah (cf A. Green, Queste sono
le parole, Giuntina 60; P. De Benedetti, Introduzione, Morcelliana 86).
La descrizione dell'incontro al roveto non è il racconto di un avvenimento passato, ma il resoconto di
una novità. Il popolo eletto non ha ricevuto la rivelazione del nome di Dio in occasione di un avvenimento
storico, ma è un'interpretazione derivante da un'esperienza di liberazione (da Babilonia), la cui presa di
coscienza è avvenuta progressivamente. La rivelazione ricevuta da Mosè non è la novità di una parola, bensì
ciò che il nome divino incomincia a rivelare. 'Ani hu YHWH («io sono Adonay») rivela il senso ultimo
dell'intervento che redime.
Con l'incontro al roveto ardente, il «Dio degli ebrei» si rivela come il Dio che si schiera con gli
oppressi, il liberatore di uomini asserviti. Perciò l'esodo diventerà il mezzo attraverso il quale YHWH si farà
conoscere.
In questi testi ritorna più volte il verbo 'avad, che indica la schiavitù, il lavoro forzato a cui gli ebrei
erano costretti dagli egiziani. In seguito, lo stesso verbo indicherà il servizio che questo popolo renderà a Dio,
cioè il culto, la liturgia. Al centro della lotta tra Faraone e YHWH vi sono due concezioni diverse della parola
'eved: «schiavo» o «servitore»? Gli ebrei sono «schiavi» del Faraone come tanti altri, o sono il popolo di YHWH,
chiamato «il mio figlio» (Es 4,23) e la cui specifica vocazione è servire il Signore? «Poiché gli israeliti sono miei
servi; essi sono servi miei, che ho fatto uscire dalla terra d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 25,55). Questo è lo
scopo dell'esodo: «passare dalla schiavitù del servizio reso al Faraone alla libertà del servizio reso a Dio».
La seconda lettura ci invita a riflettere sul libro dell'Esodo, interpretato da Paolo con metodo
midrashico. Anche noi abbiamo bisogno di rafforzare la fede nel deserto e riconoscere il bisogno di
conversione.
1Cor 10,1-2: Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti
attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, (Οὐ θέλω
γὰρ ὑμᾶς ἀγνοεῖν, ἀδελφοί, ὅτι οἱ πατέρες ἡμῶν πάντες ὑπὸ τὴν νεφέλην ἦσαν καὶ πάντες διὰ τῆς
θαλάσσης διῆλθον 2καὶ πάντες εἰς τὸν Μωϋσῆν ἐβαπτίσαντο ἐν τῇ νεφέλῃ καὶ ἐν τῇ θαλάσσῃ).
- Non voglio infatti che ignoriate, fratelli (Οὐ θέλω γὰρ ὑμᾶς ἀγνοεῖν, ἀδελφοί). Paolo, con spirito fraterno,
richiama i cristiani di Corinto a riflettere sulla storia biblica dell'esodo e del deserto che deve servire loro come
ammonimento. Il primo evento evocato è quello della nube che guida e protegge il popolo di Dio nel
passaggio del mare e nel cammino del deserto (Es 13,21-22; 14,19; cf Sal 78,14; 105,39; Sap 10,17).
Nell'interpretazione giudaica la «nube» era la presenza protettrice di Dio nel deserto. Paolo associa il passaggio
del mare al battesimo cristiano.
- 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare (πάντες εἰς τὸν Μωϋσῆν ἐβαπτίσαντο ἐν τῇ
νεφέλῃ καὶ ἐν τῇ θαλάσσῃ). L'espressione «battezzati in rapporto a Mosè» è ricalcata sulla formula paolina
«essere battezzati in Cristo» (Rm 6,3; Gal 3,27). Negli eventi dell'esodo Mosè svolge un ruolo analogo a quello
di Cristo. Come i credenti sono battezzati nel nome di Cristo, cioè sono posti in relazione con lui mediante il
segno dell'immersione nell'acqua, così i padri attraversarono il mare grazie alla mediazione di Mosè, sotto la
guida e la protezione di Dio (nube). La fede in Cristo consente a Paolo di rileggere gli eventi dell'esodo in una
prospettiva di attualità.
10,3-4: tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale:
bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo (καὶ
πάντες [τὸ αὐτὸ] πνευματικὸν βρῶμα ἔφαγον 4καὶ πάντες τὸ αὐτὸ πνευματικὸν ἔπιον πόμα• ἔπινον γὰρ
ἐκ πνευματικῆς ἀκολουθούσης πέτρας, ἡ πέτρα δὲ ἦν ὁ Χριστός).
Paolo ricorda il dono della manna e dell'acqua che egli chiama «cibo spirituale» (πνευματικὸν βρῶμα) e
«bevanda spirituale» (πνευματικὸν πόμα) (cf Es 16,1-36; 17,1-7; Nm 20,1-13; Sal 78,25; Sap 16,20). Il significato
dell'aggettivo pneumatikòs va ricercato nel commento midrashico che Paolo fa della roccia «spirituale»: «quella
roccia era il Cristo» (ἡ πέτρα δὲ ἦν ὁ Χριστός). La manna e l'acqua dalla roccia sono «spirituali» non solo perché
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provengono da Dio - infatti la manna è chiamata «cibo del cielo» o «pane degli angeli» (Sal 78,24-25; Sap 16,20) ma perché sono portatrici di salvezza in rapporto a Cristo, fonte dello Spirito. Perciò si può dire che nel battesimo «tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (12,13). Il deserto, interpretato in chiave allegorica, diventa il
luogo del dono della legge e della sapienza. Partendo dal testo di Nm 21,16-18 i commenti midrashici giudaici
dicono che la roccia dell'acqua accompagna il popolo nel suo cammino del deserto (T.Sukkà 3,11-12; Filone,
Leg. all. 2,86: «Infatti la dura roccia è la sapienza di Dio... dalla quale egli disseta le anime che lo amano». Anche
la manna è identificata con la sapienza di Dio e la sua parola; nei testi qumranici il pozzo di Nm 21,17-18 è la
Toràh, CD 6,4).
10,5: Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto (Ἀλλ’ οὐκ
ἐν τοῖς πλείοσιν αὐτῶν εὐδόκησεν ὁ θεός, κατεστρώθησαν γὰρ ἐν τῇ ἐρήμῳ.).
Paolo conclude questa prima rilettura della storia biblica con una constatazione ricavata dal testo biblico stesso
(Nm 14,16.35; cf Eb 3,17). La generazione dell'esodo che ha sperimentato i doni di Dio, segni della sua
benevolenza ed elezione, non ha conseguito la salvezza perché è stata «sterminata» nel deserto. Il passivo
katastrónnymai, «vengo abbattuto», rimanda all'azione di Dio (cf Nm 14,16LXX). È netta l'antitesi tra la storia di
elezione e quella di perdizione, tra l'esperienza di vita e quella di morte. All'insistente pántes, «tutti», ripetuto
cinque volte nei versetti precedenti, ora si preferisce hoi pleíones, «la maggior parte», per richiamare il peso della
responsabilità umana.
10,6: Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le
desiderarono (Ταῦτα δὲ τύποι ἡμῶν ἐγενήθησαν, εἰς τὸ μὴ εἶναι ἡμᾶς ἐπιθυμητὰς κακῶν, καθὼς κακεῖνοι
ἐπεθύμησαν).
A conferma dell'esito disastroso della storia dei figli di Israele nel deserto, l'Apostolo ricorda cinque esempi
ripresi dalla Bibbia: mangiare e bere; idolatria; impurità; mettere alla prova il Signore; mormorare. Paolo ci
offre una rilettura cristiana dell'AT mediante un'interpretazione chiamata «tipica o tipologica» (τύπος: tipo,
segno, immagine, esempio) o spirituale. Non si tratta solo di esempi in funzione etica o esortativa, ma di eventi
che nella storia della salvezza prefigurano Cristo o i suoi seguaci. Il fondamento di questo valore profetico o
prefigurativo della storia è il ruolo di Cristo, che porta a compimento la storia della salvezza. Infatti per i
cristiani «è arrivata la fine dei tempi» (10,11b). Paolo può dire che la roccia del deserto che accompagna il popolo
di Dio è Cristo. Perciò egli invita i cristiani a non provocarlo come hanno fatto gli ebrei nel deserto (10,4.10). Il
lessico della «cupidigia», o del «desiderio sfrenato» (ἐπιθυμία «desiderio, brama»; ἐπιθυμητής «bramoso,
desideroso»; ἐπιθυμέω «bramare, desiderare»), nelle lettere di Paolo, connota l'area del peccato, inteso come
ribellione alla legge o alla volontà di Dio (Rm 7,7; cfr. Gc 1,14-15). Nella tradizione giudaica la «cupidigia» è
considerata il peccato radicale o la radice di ogni peccato (cf 4Mac 2,6; Filone, Spec. leg. 4,84: « È un male così
enorme la concupiscenza che si potrebbe anzi meglio dire che essa è la fonte di ogni male »; cf Decal.
142.150.173; Apocalisse di Mosè o Vita di Adamo e Eva 19).
10,10: Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore (μηδὲ
γογγύζετε, καθάπερ τινες αὐτῶν ἐγόγγυσαν καὶ ἀπώλοντο ὑπὸ τοῦ ὀλοθρευτοῦ).
- Non mormorate (μηδὲ γογγύζετε). L'ultima esortazione paolina prende lo spunto dal peccato tipico del popolo
di Dio nel deserto, la «mormorazione» contro Dio, contro Mosè e Aronne (Es 16,2-3.7-8.12; Nm 14,2.36; 16,11;
17,6). Il lessico della mormorazione (ebr. Lun, mormorare, lamentarsi; Telunnot, mormorazioni) è ricco di
sfumature che colgono le varie esperienze della vita di tutti: γογγύζω «mormorare, brontolare»; γογγυσμός
«mormorazione, malcontento»; γογγυστής «mormoratore, brontolone, sobillatore». Questo peccato esprime non solo
la ribellione, ma anche l'incapacità di vedere e di riconoscere l'opera benefica di Dio. La conseguenza è
ancora una volta la rovina mortale attribuita da Paolo allo «sterminatore», in greco (ὀλοθρευτής, olothreutés).
Essi tuttavia riescono a tenere lontano il flagello di Dio che minaccia di sterminare il popolo mormoratore (Sap
18,25; Nm 17,15).
10,11: Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro
ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi (ταῦτα δὲ τυπικῶς συνέβαινεν ἐκείνοις
ἐγράφη δὲ πρὸς νουθεσίαν ἡμῶν, εἰς οὗς τὰ τέλη τῶν αἰώνων κατήντηκεν).
- Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio (ταῦτα δὲ τυπικῶς συνέβαινεν). Paolo conclude la sua
rilettura biblica confermando il suo criterio ermeneutico, la chiave di lettura con l'avverbio typikỗs. Esiste una
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continuità tra il passato e il presente. L'espressione paolina τὰ τέλη τῶν αἰώνων, letteralmente «le fini degli
eoni» non si discosta molto dal linguaggio ricorrente nei testi cristiani e giudaici antichi per indicare il tempo
finale o quello che precede la fine. Della «fine» si parla anche nei Vangeli (Mt 24,6; 14; Mc 137; Lc 21,9; cf 1Pt
4,7; Eb 9,26; 1Gv 2,18). Il plurale è analogo a «secoli» o a «la fine dei giorni» (cf Dn 12,13).
10,12: Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere (Ὥστε ὁ δοκῶν ἐστάναι βλεπέτω μὴ
πέσῃ).
Con un rapido avvertimento Paolo si rivolge a «chi crede di stare in piedi» (ὁ δοκῶν ἐστάναι). È il caso di chi
«crede di sapere qualcosa» e si ritiene sicuro dal punto di vista spirituale (cf 8,2). Anche se la messa in guardia
di Paolo ha di mira il cristiano presuntuoso e troppo sicuro di sé, nel rischio di cadere è coinvolta tutta la
comunità. Si tratta della caduta nell'idolatria, come lasciano capire le precedenti esortazioni ispirate alla storia
di Israele e l'invito che apre la nuova sezione: Perciò, miei cari, state lontani dall'idolatria (10,14). Infatti Paolo a
questo monito fa seguire una breve riflessione sulla «tentazione».
Il vangelo di Luca insiste sul tema della conversione, unica condizione per portare molto frutto.
Lc 13,1: In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue
Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici (Παρῆσαν δέ τινες ἐν αὐτῷ τῷ καιρῷ
ἀπαγγέλλοντες αὐτῷ περὶ τῶν Γαλιλαίων ὧν τὸ αἷμα Πιλᾶτος ἔμιξεν μετὰ τῶν θυσιῶν αὐτῶν).
- In quello stesso tempo si presentarono alcuni (Παρῆσαν δέ τινες ἐν αὐτῷ τῷ καιρῷ). Luca segnala così la
transizione del racconto: alcune persone anonime (τινες), probabilmente pellegrini, «erano arrivate» o «erano
presenti» (παρῆσαν, ind. impf. di πάρειμι «sono presente, sono giunto») in quella circostanza e riferiscono a
Gesù quanto accaduto ai galilei. È raro che un'informazione sia comunicata a Gesù. I primi cristiani preferivano
insistere sull'onniscienza del loro maestro (cf 5,22; 9,30-31).
- il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici (ὧν τὸ αἷμα Πιλᾶτος ἔμιξεν μετὰ τῶν
θυσιῶν αὐτῶν). I due episodi riportati in 13,1-5 si trovano esclusivamente in Luca e non trovano conferma in
altre fonti. Tuttavia la propensione di Pilato a usare la mano di ferro contro i Giudei è confermata da Giuseppe
Flavio (Antichità giudaiche 18,85-89; La guerra giudaica 2,169-177). Ciò che sta a cuore a Luca non è parlare di
Pilato, ma ribadire la necessità della conversione. Per la seconda volta nel vangelo è menzionato Pilato (cf 3,1).
Due ragioni spiegano l'indignazione popolare: 1) il sangue umano è stato mescolato al sangue degli animali
sacrificati; 2) il fatto è accaduto nel recinto sacro del Tempio. A detta di J. Blinzler l'atto di Pilato può essere
stato compiuto solo nel giorno della preparazione della Pasqua, unico giorno in cui i laici potevano offrire
personalmente i propri sacrifici. Questa mescolanza di sacrificio e assassinio suscitò il biasimo più vigoroso
contro Pilato. È possibile che gli uomini trucidati fossero zeloti.
13,2-3: Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i
Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso
modo (καὶ ἀποκριθεὶς εἶπεν αὐτοῖς• δοκεῖτε ὅτι οἱ Γαλιλαῖοι οὗτοι ἁμαρτωλοὶ παρὰ πάντας τοὺς
Γαλιλαίους ἐγένοντο, ὅτι ταῦτα πεπόνθασιν; 3οὐχί, λέγω ὑμῖν, ἀλλ’ ἐὰν μὴ μετανοῆτε πάντες ὁμοίως
ἀπολεῖσθε).
- per aver subìto tale sorte (ὅτι ταῦτα πεπόνθασιν; lett. «poiché queste cose hanno sofferto?»). Nella pietà
popolare (cf Dt 28-30) i disastri erano interpretati come una punizione dei peccati (cf Gb 4,17; Ez 18,26) e
questa convinzione è rispecchiata in Gv 9,2-3 (il cieco nato), nonché in alcune delle guarigioni descritte da Luca
(paralitico, 5,20-24). Gesù non contesta l'equazione peccato-punizione, ma si limita a chiedersi se i loro
peccati fossero peggiori di quelli di altri.
- se non vi convertite (ἐὰν μὴ μετανοῆτε). I suoi ascoltatori non possono rimanere soddisfatti al pensiero che i
loro peccati sono meno conosciuti di quelli di altri. Tutti sono chiamati al pentimento dal Messia, il quale qui
assume il tono di Giovanni Battista in 3,7-9.16-17 e di Is 3,1-26. «Allo stesso modo» (ὁμοίως) significa
improvvisamente e senza preparazione. Gesù rifiuta il parallelo tra colpa e repressione. Non guarda tanto al
passato, quanto al presente. Si oppone a una concezione della giustizia divina cieca e crudele e professa un
Dio che entra in dialogo con gli uomini. Gli astanti parlavano degli altri, Gesù li rimanda a se stessi: dalla terza
persona passa alla seconda, offre un cambiamento di prospettiva, esorta alla «conversione». Il suo intervento è
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profetico: la vostra perdizione dipenderà dalla vostra decisione. Gesù non insiste solo sulla responsabilità, ma
esorta a rinnovare la mente e il cuore. La conversione (teshuvà, μετάνοια) rappresenta la giusta reazione al
peccato (ἁμαρτία), nella misura in cui promuove: 1) una presa di coscienza della propria separazione da Dio;
2) la decisione di riannodare i rapporti con il Signore; 3) l'esigenza quotidiana di rendersi solidali con gli
altri (cf 13,8-9).
13,4-5: O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più
colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti
allo stesso modo» (ἡ ἐκεῖνοι οἱ δεκαοκτὼ ἐφ’ οὓς ἔπεσεν ὁ πύργος ἐν τῷ Σιλωὰμ καὶ ἀπέκτεινεν αὐτοὺς,
δοκεῖτε ὅτι αὐτοὶ ὀφειλέται ἐγένοντο παρὰ πάντας τοὺς ἀνθρώπους τοὺς κατοικοῦντας Ἰερουσαλήμ;
5οὐχὶ, λέγω ὑμῖν, ἀλλ’ ἐὰν μὴ μετανοήσητε πάντες ὡσαύτως ἀπολεῖσθε).
Luca predilige tutto quello che si presenta a coppia, perciò al massacro di alcuni galilei ora aggiunge il dramma
che ha colpito alcuni abitanti di Gerusalemme.
- la torre di Siloe (ὁ πύργος ἐν τῷ Σιλωὰμ). Il termine πύργος, pýrgos si riferisce a torrioni che facevano parte
delle mura di una città. Gv 9,7.11 parla della piscina di Siloe a Gerusalemme e Luca parla senz'altro della
stessa zona. Nella sua descrizione delle mura del Tempio, Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) parla della parte più
antica del muro (risalente ai tempi di Davide) che a un tratto «girava verso sud sopra la fontana di Siloe» (La
guerra giudaica 5,145). La piscina di Siloe (rinvenuta per caso da operai che facevano degli scavi per la
fognatura nel 2004 e riconosciuta da Ronny Reich e da Eli Shukron, eminenti archeologi, il 9 agosto 2005),
situata nel punto di sbocco del canale costruito dal re Ezechia, a sud-est di Gerusalemme, in età
neotestamentaria fu circondata da un portico a colonnati, edificato da Erode il Grande. La torre di cui si parla
doveva trovarsi in questo quartiere. Giuseppe parla del bastione in quel luogo che, da ovest, volgeva a sud
«sopra la fontana di Siloe» e poi a est (era quello che viene chiamato il primo muro). La torre di Lc 13,4 doveva
far parte di questa fortificazione. Si sa che durante la guerra giudaica alcuni combattimenti e un incendio
provocarono alcuni morti in questo luogo, ma nessun'altra testimonianza antica segnala questo crollo,
probabilmente accidentale, né queste diciotto vittime.
- credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? (δοκεῖτε ὅτι αὐτοὶ ὀφειλέται ἐγένοντο παρὰ
πάντας τοὺς ἀνθρώπους τοὺς κατοικοῦντας Ἰερουσαλήμ, lett. «credete che essi colpevoli furono più di tutti
gli uomini quelli abitanti di Gerusalemme»). L'atteggiamento di Gesù continua qui a essere da liberatore.
L'equazione «debito = colpa» viene di nuovo sconfessata. Il termine ὀφειλέται, tradotto con colpevoli,
letteralmente significa debitori. Al Dio impiccione come al Dio lontano Gesù sostituisce un Dio amoroso che ci
aspetta e, prima di aspettarci, ci invita. Il mistero del male rimane e Luca non esclude un rapporto tra la
sofferenza e Dio. Se l'essere umano non intraprende questo percorso di ritorno a Dio si perderà.
13,6: Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne
a cercarvi frutti, ma non ne trovò (Ἔλεγεν δὲ ταύτην τὴν παραβολήν• συκῆν εἶχεν τις πεφυτευμένην ἐν
τῷ ἀμπελῶνι αὐτοῦ καὶ ἦλθεν ζητῶν καρπὸν ἐν αὐτῇ καὶ οὐχ εὗρεν).
A sostegno dei detti che ha rivolto «loro», Gesù ora propone una parabola (mashal) meno minacciosa, forse per
favorire la riflessione e la decisione. Il fico è descritto con precisione, il proprietario rimane nel vago.
- Un tale aveva un fico (συκῆν εἶχεν τις). Mc 11,12-14 e Mt 21,18-19 parlano di Gesù che trova un albero di fichi
che non porta frutti e lo maledice. La parabola di Luca deriva dalla stessa tradizione, ma egli la usa in un
contesto del tutto diverso (invito alla teshuvà). Il fico (συκῆ) e la vite (ἄμπελος) si trovano insieme in Mic 4,4 e
Gl 2,22 come segni della benedizione di Dio.
13,7: Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non
ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” (εἶπεν δὲ πρὸς τὸν ἀμπελουργόν• ἰδοὺ τρία
ἔτη ἀφ’ οὗ ἔρχομαι ζητῶν καρπὸν ἐν τῇ συκῇ ταύτῃ καὶ οὐχ εὑρίσκω. ἔκκοψον αὐτὴν, ἱνατί καὶ τὴν γῆν
καταργεῖ).
- vengo a cercare frutti su questo fico (ἔρχομαι ζητῶν καρπὸν ἐν τῇ συκῇ ταύτῃ, lett. «vengo cercando frutto in
questo fico»). A differenza di Mc 11,13 dove Gesù non trova frutti perché «non era quella la stagione dei fichi», qui
il proprietario si reca regolarmente a controllare il suo albero, che gli risulta doppiamente colpevole: non solo
non produce i frutti sperati dal padrone, ma per di più impoverisce il suolo con le sue radici che sfruttano il
terreno; è quindi inutile. A cosa serve un fico senza fichi? La delusione del proprietario è comprensibile, la sua
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intenzione è ragionevole. I «tre anni» non si riferiscono al ministero di Gesù, poiché Luca non dà alcuna
indicazione in questo senso.
13,8-9: Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò
messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”» (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς λέγει αὐτῷ•
κύριε, ἄφες αὐτὴν καὶ τοῦτο τὸ ἔτος, ἕως ὅτου σκάψω περὶ αὐτὴν καὶ βάλω κόπρια, 9κὰν μὲν ποιήσῃ
καρπὸν εἰς τὸ μέλλον• εἰ δὲ μὴ γε, ἐκκόψεις αὐτήν).
- Padrone, lascialo ancora quest’anno (κύριε, ἄφες αὐτὴν καὶ τοῦτο τὸ ἔτος). La sorpresa deriva nella seconda
parte della parabola, che è centrata interamente sulla figura del vignaiolo (ἀμπελουργός). Alla delusione del
proprietario corrisponde la richiesta insistente del vignaiolo. La storia non si conclude con la delusione,
perché l'intercessore, pur essendo gerarchicamente inferiore, diventa narrativamente vincitore. La parabola
registra il trionfo della persuasione sulla decisione autoritaria; del più piccolo sul più grande. Se nel fico
riconosciamo gli uomini, la parabola ci invita ad avere fiducia in essi. Se invece ci riconosciamo nel vignaiolo, la
parabola ci mostra quanto sia efficace la solidarietà e l'intercessione. Il vignaiolo non si limita a chiedere un
rinvio al proprietario e nemmeno si accontenta di attribuire la responsabilità solo all'albero; vuole metterci del
suo. Pur essendo esperto della vite, si prende cura del fico: dà da bere e da mangiare all'albero, zappa la terra e
vi aggiunge il concime.
- se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai (κὰν μὲν ποιήσῃ καρπὸν εἰς τὸ μέλλον• εἰ δὲ μὴ γε, ἐκκόψεις
αὐτήν). Dopo tutti questi sforzi, in seguito alla pazienza delusa del proprietario e all'intercessione attiva del
vignaiolo si aspettano i frutti. La speranza non esclude il rischio.
Il testo di Lc 13,1-9 traccia una sottile distinzione tra la vigna e il fico. Poiché la vigna passa in
secondo piano, l'attenzione si rivolge al fico. Luca pensa al popolo dei gentili piantato nella vigna d'Israele (cf
Is 5)? Luca si compiace di delineare, dietro le figure del proprietario e del suo vignaiolo, una teologia e una
soteriologia. Da un lato vi è un Dio datore di vita, ma deluso dalle risposte negative del suo popolo, come nelle
tradizioni profetiche; dall'altro lato ci è mostrato un Dio che si lascia commuovere e che vuole mantenere il
proprio progetto di vita. Il vignaiolo intercede per ottenere un rinvio. Perché Dio accordi il tempo favorevole
alla salvezza è necessario che il Cristo interceda (cristologia della compassione). Il vignaiolo assolve una funzione
importante, ma non può fare nulla se il fico non porta frutto, non collabora. La parabola rimane senza
conclusione, rispecchiando le vicende storiche che sono sempre ambivalenti.
Rabbi Eliezer dichiarava che una persona dovrebbe ravvedersi il giorno prima di morire (Pirqè Avoth
2,10); ma i suoi discepoli dicevano che una persona può morire in qualsiasi giorno, perciò tutta la vita dovrebbe
essere spesa nel ravvedimento (bShab. 153a). Anche Gesù invita a un atteggiamento costante di conversione.
Ireneo (130 - 202), a partire dalla parabola del fico, lascia intendere un giudizio severo nei riguardi del
popolo giudaico, condiviso in seguito da Ambrogio (340 - 397) e Cirillo di Alessandria (370 - 444). Per
Ambrogio il fico simboleggia la sinagoga, i cui maestri non hanno che foglie sterili da far valere. Cirillo si
serve dei vv. 1-5 per criticare i sacrifici cruenti e infila una serie di citazioni bibliche sui vv. 6-9 per spiegare
l'identità del fico. Alla fine, si pronuncia sul fallimento della missione di Cristo in Israele che provoca
l'abbattimento dell'albero e la crescita gloriosa del virgulto che costituisce la Chiesa.
Dopo secoli di oscurantismo, la Chiesa oggi si lascia alle spalle ogni tipo di lettura tendenziosa e
ideologica, per cogliere il più possibile l'esatto significato dei testi. Gesù non era un maestro facinoroso che
mirava a salvare un sistema politico o sociale. Anche quando usa espressioni o metafore forti, non fa altro che
inserirsi nella tradizione profetica di Israele, che rappresenta l'anima di tutta la Scrittura e la proposta più
innovativa che l'umanità ha conosciuto nella sua storia. Fedeli al comando dello Shemà, ognuno è chiamato
a offrire il suo servizio alla Parola che libera e riconcilia.
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