L` autonomia privata nel Diritto dell` economia, alla luce degli art

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L` autonomia privata nel Diritto dell` economia, alla luce degli art
UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE
FACOLTÀ DI ECONOMIA “GIORGIO FUÀ”
Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia
Tesi di dottorato
FONDAMENTI E FATTIBILITA’
DEL REDDITO MINIMO GARANTITO
Tutor:
Dottoranda:
Prof. Antonio Di Stati
Anna Ascoli
XII CICLO
1
Indice
Capitolo 1:
Il reddito di cittadinanza ............................................... pag.
4
1.1 La Cittadinanza sociale ....................................................................
4
1.2
9
Il Reddito di cittadinanza e il Reddito minimo garantito..................
1.3 I fondamenti giuridici in Europa e in Italia
1.4
per un reddito minimo garantito .......................................................
31
Il reddito minimo in Europa .............................................................
41
Capitolo 2:
Cosa accade Italia: .........................................................................
48
2.1 La situazione economico sociale in Italia .........................................
48
2.2 Gli inclusi e gli esclusi dalle tutele ....................................................
55
2.3 Le politiche per il sostegno del reddito a livello centrale ..................
65
2.4 Gli interventi degli enti locali ............................................................
68
2.5 Un caso su tutti: Trento ....................................................................
74
Capitolo 3:
L’istituzione del reddito minimo per il rispetto
della dignità umana ......................................................
82
3.1 Il reddito da lavoro e il reddito sociale:
una questione non solo terminologica..............................................
82
3.2 Lo stato del welfare e gli interventi strutturali necessari. ..................
89
2
3.3 Assicurare il rispetto della dignità umana
sancito dalla Costituzione ................................................................ pag. 99
3.4 Tutela della dignità attraverso il reddito minimo garantito ................
104
Capitolo 4:
Brevi osservazioni conclusive ......................................
112
Riferimenti bibliografici e sitografici ..............................
117
3
Capitolo 1: Il reddito di cittadinanza
Sommario: 1.1 La Cittadinanza sociale. – 1.2 Il Reddito di cittadinanza e il
Reddito minimo garantito. – 1.3 I fondamenti giuridici in Europa e in Italia per
un reddito minimo garantito. – 1.4 Il reddito minimo in Europa.
1.1 La Cittadinanza sociale
Thomas Humphrey Marshall nel suo Cittadinanza e classe sociale afferma che
“ la cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che sono membri a
pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che posseggono questo status sono
uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status “[Marshall, 1950]. In
questa chiave con cittadinanza s’intende quindi uno status individuale, di
applicazione universale e tendenzialmente ugualitario, afferente a tutti i cittadini
che partecipano ad una medesima comunità statuale e che si realizza in un
insieme di pratiche che ne qualificano l’azione e la soggettività. La tesi
sviluppata dal sociologo inglese è che debba "esistere una forma di
uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena
appartenenza a una comunità" [ Marshall, 1950]. È appunto questa "piena
appartenenza a una comunità" che Marshall suggerisce di denominare
“cittadinanza” attraverso la partecipazione di tutti i cittadini a un comune
patrimonio, a una medesima “forma di vita”. Le nervature fondamentali di
4
questa partecipazione sono costituite dai diritti che Marshall propone di ripartire
in tre elementi: civile, politico e sociale. L'elemento civile è composto dai diritti
necessari alla libertà individuale ossia i diritti di parola, di pensiero, di proprietà,
il diritto di stipulare contratti e di ottenere giustizia, tutti propri della libertà
personale dell’individuo. L’ elemento politico consiste nel diritto a partecipare
all'esercizio del potere politico sia in forma passiva, con il diritto personale di
voto, che in forma attiva, ovverosia come membro eletto di un organo politico
sia a livello locale, che nazionale. Infine con l’elemento sociale si intende tutta
la gamma “che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al
diritto di partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona
civile, secondo i canoni vigenti nella società"[Marshall, 1976].
Al contrario dei
i diritti civili e politici che si concretizzano in garanzie
agevolmente formalizzabili in procedure burocratiche, uniformi e definite; i diritti
sociali hanno per oggetto prestazioni pubbliche che presentano, oltre al lato
organizzativo e procedurale, soprattutto un aspetto di contenuti materiali che
consumano una rilevante quantità di risorse pubbliche: previdenze, trasferimenti
monetari, infrastrutture e personale
relativo alla soddisfazione sociale dei
requisiti minimi di istruzione e di assistenza socio-sanitaria . Il costo, in termini
economici ed organizzativi dei diritti/servizi sociali, viene giustificato da Marshall
dal fatto che
tali garanzie conferiscono una spinta costruttiva all’effettivo
dispiegarsi della cittadinanza e al configurarsi più equo della società. Solo
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tramite l’affermarsi dell’elemento sociale della cittadinanza, appare possibile
conferire un significato realmente universalistico ai diritti civili e politici, e con
esso avverare quell’etica sociale che attenua le disuguaglianze, rendendo
effettivo uno status ugualitario che realizza la sostanza del progetto
democratico attraverso l’inclusione sociale.
L’elemento che ci può permette di realizzare la cittadinanza sociale non è altro
che il rispetto del principio di dignità, peraltro presente sia nella nostra
Costituzione (articoli 3, 36 e 41), sia nella Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo (art. 1) che nella Legge Fondamentale tedesca (art. 1 “La dignità
umana è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla” ) .
Successivamente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000
inizia proprio riproducendo quasi alla lettera il primo articolo della Costituzione
tedesca. Tale presa di coscienza va nel senso di quanto già affermato nel
Preambolo della Dichiarazione dell’ONU: “ il riconoscimento della dignità
inerente tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili,
costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
Analizzando i due testi costituzionali dell’immediato dopoguerra, quella italiano
del 1948 e quella tedesco del 1949 si evince come la dignità e il lavoro
rappresentino i punti da cui partire per riaffermare e rafforzare i fondamenti
della libertà e dell’uguaglianza con riguardo in particolare alla condizione reale
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della persona nel suo profondo (la dignità ) e nella dimensione delle sue
relazioni sociali (il lavoro) [ Rodotà, 2010 ].
In particolare nella Costituzione italiana si può rintracciare la centralità della
persona attraverso il rispetto e la tutela della sua dignità richiamata in numerosi
articoli quali il 3 che esordisce affermando che “tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale”, l’art. 36 che parla dell’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e
della sua famiglia e l’art. 41 quando esclude che l’iniziativa economica privata
possa svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Proprio l’articolo 36 nell’affermare il diritto del lavoratore ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e mai inferiore al livello
necessario per assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e
dignitosa, chiarisce il legame tra lavoro e dignità per la piena affermazione del
concetto di libertà e di uguaglianza.
L’attuale logica di mercato, però, tende a spezzare il nesso tra lavoro e dignità
in termini di perdita di diritti e in nome della produttività la retribuzione
regredisce al livello della sopravvivenza mancando così di assicurare una
cittadinanza sociale e aprendo la via all’esigenza di istituire un reddito di
cittadinanza. Il rispetto della dignità della persona significa infatti tutela del
patrimonio di diritti che appartengono alla persona quale che sia la sua
condizione o il luogo in cui si trova, non può quindi valere solo la logica del
mercato che conduce spesso ad una strumentalizzazione della persona
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considerando il lavoro al pari di qualunque altra merce. La dignità conduce
all’autodeterminazione e la stessa Corte Costituzionale nella sentenza
438/2008 l’ha qualificata come un diritto fondamentale della persona. Nello
stesso senso l’art. 32 sul diritto alla salute quando afferma che “la legge non
può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”
ossia nessuna volontà esterna può prendere il posto della volontà
dell’interessato.
E’ quindi dovere delle istituzioni costruire un contesto
all’interno del quale le decisioni della persona possano essere effettivamente
libere e dovere dell’ imprenditore svolgere l’attività in modo da non calpestare la
dignità dei lavoratori [Rodotà, 2010].
La Carta dei diritti dell’Unione europea considera come valori indivisibili
la
dignità, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia e
quindi dovrebbe considerarsi illegittima ogni operazione limitativa dei diritti
sociali o che li subordini ad un interesse superiore dell’economia. Nel testo si
sottolinea proprio la necessità di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro
che non dispongano di risorse sufficienti” giustificando così l’istituzione di un
reddito di cittadinanza in grado di riequilibrare la dotazione di mezzi fra gli
individui. Bisogna registrare però che le indicazioni della Carta pur
“giuridicamente vincolanti” sembrano quasi dimenticate dalla politica, quando al
contrario riconoscere la cittadinanza e l’appartenenza ad una comunità
dovrebbero essere considerate precondizioni rispetto alla sfera economica
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[Morelli, 2012]. Appare chiara la rilevanza del reddito di cittadinanza nel suo
ruolo di redistribuzione delle risorse come mezzo per combattere l’esclusione
sociale.
1.2 Reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito:
1.2.1 Per reddito di cittadinanza (reddito minimo universale) si intende un diritto
universale perpetuo e indipendente dal lavoro, finalizzato a contrastare la
povertà e a tutelare la dignità della persona; un’erogazione di denaro che
prescinde dal percepire altri redditi, non sottoposta a condizioni. Cosi come è
stato definito da Van Parijs e Vanderborgth “un reddito versato da una
comunità politica a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo delle
risorse né esigenza di contropartite” [Van Parijs,Vanderborght , 2006]. Nel dare
un nome a questo reddito molti sono stati i termini usati come sinonimi da
Dividende territorial (Belgio,1984), a National Dividend (Regno Unito, 1932), a
Basic income (Regno Unito,1953), a Allocation universelle (Belgio, 1984), a
Bῢ rgergeld (Germania, 1985), a Reddito di cittadinanza (Italia, 1988),
a
Dividende universel (Francia, 2003).
Una misura generalizzata che dovrebbe avere come beneficiari l’intera
popolazione senza l’accertamento dello stato di bisogno e finanziata con la
fiscalità generale. I sostenitori di questo diritto lo includono nel novero dei diritti
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umani e come tale lo considerano inalienabile. Per averne diritto è sufficiente il
solo fatto di “esistere” [Fumagalli, 1999], al contrario di quanto sostengono i
fautori di tutte le altre proposte di sostegno al reddito che fanno riferimento
direttamente o indirettamente alla condizione professionale e quindi sono
legate alla posizione lavorativa della persona. Il reddito di cittadinanza è uno
strumento di inclusione sociale in quanto garantisce risorse materiali per
consentire una vita dignitosa a tutti e aumenta i gradi di autonomia dal ricatto
del bisogno e dalla necessità di sottostare a condizioni lavorative al limite della
legalità [Fumagalli, 1998]. L’interesse è per la società nel suo insieme e non
solo per coloro che si trovano in una situazione economicamente sfavorevole. Il
reddito minimo universale costituisce un ”dividendo sociale” che non prevede
trattamenti differenziati. Esso potrebbe assumere diverse forme; ossia essere
erogato sotto forma di una fornitura regolare di cibo e di abiti, o come
godimento di un appezzamento di terreno o di un’abitazione; ma viene
abitualmente concepito
in denaro senza alcuna restrizione sulla natura o la
data del suo utilizzo,
lasciandone a ciascuno la disponibilità. E’ inoltre
compatibile con il mantenimento di servizi pubblici gratuiti. I più ritengono che il
reddito minimo universale debba essere versato ad intervalli regolari
preferibilmente abbastanza ravvicinati (meglio mensili che annuali) e non
concordono su una dotazione universale che correrebbe il rischio di
volatilizzarsi velocemente, se male investita.
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Numerose sono le proposte che fissano l’importo del reddito sulla soglia di
povertà, corrispondente, secondo l’Unione Europea, al 60% del reddito
nazionale medio equivalente. Il soggetto erogatore, dovrebbe essere lo Stato,
ma nulla vieta che si tratti di una istituzione sub-nazionale come nel caso
dell’Alaska o addirittura immaginare che sia un’entità sovranazionale come
l’Unione Europea o le Nazioni Unite. Il finanziamento attraverso la fiscalità
generale potrebbe avvenire in vari modi ossia attraverso il gettito generale o
prevedendo un’imposta specifica sul reddito o sui consumi o ancora una tassa
ecologica sull’energia o una Tobin tax sui movimenti speculativi di capitale
oppure, come proposto da molti, un’imposta fondiaria. Occorre anche stabilire
se i beneficiari della misura debbano essere i cittadini o una platea più ampia
cioè i residenti permanenti di uno Stato individuando un limite minimo al
periodo di residenza. Da che età cominciare a percepire il reddito? La risposta
della maggior parte degli autori è dalla maggiore età, non manca però chi lo
prevede dalla nascita, ipotizzando, importi variabili in base all’età. La mancanza
poi di un controllo delle risorse
individuali fa si che il suo importo sia
cumulabile con ogni altro tipo di reddito e non vengano richieste delle
condizioni. In caso contrario ci troveremo di fronte a misure che possono
essere incluse sotto il nome di reddito minimo garantito.
Abbastanza simile al concetto di reddito minimo universale è quello di “ reddito
di partecipazione” elaborato da Anthony Atkinson [Atkinson, 1996] che
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prevedeva come unica condizione la partecipazione sociale intesa in senso
tanto ampio da includere tutti; tuttavia questa proposta implicava la creazione di
meccanismi di controllo sulle attività socialmente utili svolta dai singoli.
Ribadendo che “il diritto ad un reddito minimo universale sia un pari diritto di
tutti a un patrimonio comune” [Van Parijs,Vanderborght , 2006], si capisce
perché debba essere previsto uguale, individuale e senza condizioni.
Già nell’antica Roma possiamo trovare una “traccia” di reddito di cittadinanza
con l’attribuzione a ciascun cittadino di un podere in grado di garantirgli la
sussistenza, poi sostituito, a causa delle distruzioni per le frequenti guerre, con
distribuzioni gratuite di vivande. La proposta di un reddito minimo universale fu
formulata per la prima volta alla fine del XIX secolo e il primo paese ad istituirlo
fu l’Alaska nel 1981,
quasi per caso, con il governatore repubblicano Yay
Hammond. Egli costituì
un fondo con parte dei ricavi derivanti dallo
sfruttamento del più grosso giacimento di petrolio dell’America settentrionale e
stabilì il versamento annuale di un dividendo a ogni residente in proporzione al
numero degli anni di residenza. Modificato questo requisito, ritenuto
discriminante per i nuovi residenti, dal 1982 tutte le persone che risiedono
legalmente in Alaska da almeno sei mesi ricevono annualmente un eguale
dividendo. Il Brasile ha fissato come obiettivo di lungo periodo, con la legge del
2004, durante la presidenza di Lula, il ”renda básica de cidadania” universale e
incondizionato da raggiungere in modo graduale come estensione della “bolsa
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familia”, strumento di sostegno al reddito sottoposto a condizioni e solo per i più
poveri.
Assai diversificata è la posizione delle forze sociali e politiche nei confronti del
reddito minimo universale. La maggior parte dei sindacati, come rappresentanti
dei lavoratori, mostrano in generale diffidenza per il reddito universale minimo
forse pensando che possa essere motivo per far abbassare il salario o possa
diventare un sostituto dell’insieme degli strumenti di protezione sociale e possa
far perdere forza rappresentativa al sindacato stesso, quando, al contrario,
l’introduzione di un reddito di base dovrebbe accrescere il potere negoziale dei
lavoratori. Il più grande sindacato italiano, la CGIL, nel Piano del lavoro per il
2013, si è limitata a prevedere un “ reddito di continuità” fra un lavoro e un
altro. Fra le forze politiche, i maggiori sostenitori si rintracciano, nell’ambito dei
paesi industrializzati, nei movimenti ecologisti i quali, preoccupati di difendere
gli interessi delle generazioni future, rifiutano l’incessante rincorsa per la
crescita come risposta alla disoccupazione. In questo contesto il reddito minimo
universale, come compenso slegato dalla produzione, viene interpretato quale
possibile freno alla crescita e quindi meritorio. La socialdemocrazia europea,
nei primi anni del secondo millennio, di fronte alla crisi dello stato assistenziale,
ha rilanciato in favore di uno stato sociale attivo che, nell’interpretazione più
positiva, dovrebbe voler dire mettere in campo, da parte dello stato, azioni per
eliminare gli ostacoli che impediscono alle persone di valorizzarsi al meglio. In
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questo senso l’introduzione di un reddito di base potrebbe essere considerata
positivamente. Con favore guardano al reddito minimo universale le formazioni
di estrema sinistra nell’ottica di contrastare il dominio del capitale nel sistema di
mercato al contrario delle altre forze politiche che non hanno mostrato
generalmente apprezzamento per l’introduzione di misure universalistiche
senza condizioni e slegate da un qualunque contributo produttivo. In questo
senso la proposta di Anthony Atkinson per un reddito di partecipazione
potrebbe rappresentare un giusto compromesso. Si tratterebbe di
un’
erogazione monetaria, su base individuale a condizione che il beneficiario
svolga un’attività socialmente utile comprendendo in questa definizione le
attività di volontariato e quelle di natura familiare in aggiunta a quelle retribuite.
Chiara Saraceno, nella prefazione al volume di Van Parijs e Vanderborght “il
reddito minimo universale”, sintetizza la situazione italiana rispetto all’adozione
di una simile misura. L’autrice fa notare come l’unica misura a livello nazionale
di reddito minimo sia sottoposta al verificarsi contemporaneamente di due
condizioni: la mancanza di mezzi finanziari e l’inabilità al lavoro in applicazione
al dettato dell’art. 38 della Costituzione. Ne deriva che manca un’allocazione
universale nei confronti dei minori e la stessa è condizionale per i privi di
mezzi di sostentamento chiarendo che non può essere addotta come unica
motivazione all’adozione di misure universalistiche la mancanza o la scarsità di
risorse. Potrebbero esistere altre ragioni quali ad esempio la paura che un
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reddito di base possa sostituire tutte le altre forme di trasferimento e che venga
a perdersi il legame tra reddito monetario e lavoro; molto importante per
l’origine lavorista del concetto di cittadinanza sociale. In base a tale concetto
infatti il lavoro e il pagamento delle tasse costituiscono dei doveri di
cittadinanza dai quali scaturiscono dei diritti sociali se si appartiene alla
comunità nazionale [Marshall, 1950]. Ulteriore motivo di resistenza all’adozione
di misure universalistiche in Italia, è anche la difficoltà ad accettare misure su
base individuale che non facciano preciso riferimento alla consistenza del
nucleo familiare.
Se queste sono le ragioni per contrastare l’introduzione di un reddito di
cittadinanza, altre invece, spingono in senso contrario. Ad esempio il fatto che
una misura siffatta comporterebbe un notevole risparmio di costi legati alla
prova dei requisiti per l’accesso a misure di sostegno rispetto a scelte di altro
tipo.
In linea di principio una dotazione di base individuale, per coloro che occupano
una posizione socialmente debole, consentirebbe agli stessi di avere delle
risorse
negoziali,
altrimenti
impossibili,
rendendo
fattibile
anche
uno
sganciamento dalle situazione sociale di origine. Le mutate condizioni sociali
come la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la difficoltà, in alcuni casi, a
conciliare il lavoro a tempo pieno con le esigenze familiari, fanno emergere che
il reddito da lavoro può inoltre, non risultare più sufficiente a consentire una
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piena inclusione sociale. Fumagalli sostiene [Fumagalli, 2013] che la proposta
per un reddito di base incondizionato 1come strumento di remunerazione di
quella produzione sociale e valorizzante che oggi sfugge alla regolamentazione
del lavoro si fonda su quattro parametri non emendabili: l’individualità, la
garanzia di continuità nella distribuzione del reddito, incondizionabilità e
finanziamento attraverso la fiscalità sociale progressiva.
In molti paesi, diversi dall’Italia, si stanno sperimentando forme diverse con
l’obiettivo di garantire una quota di reddito. Un esempio è la flexicurity dei paesi
scandinavi che coniuga un’elevata flessibilità in entrata e in uscita dal mondo
del lavoro ad una forte protezione sociale consistente in un’indennità di
disoccupazione molto elevata, erogata per un lungo periodo e in un facilitato
reinserimento lavorativo, grazie anche al ruolo svolto dal sindacato nella
gestione del sistema di orientamento e di formazione. In Svizzera il 4 ottobre
2013 sono state presentate oltre 100.000 firme necessarie per indire un
referendum sull’introduzione del reddito di cittadinanza, la proposta prevede
che vengano corrisposti 2.500 franchi svizzeri al mese ( pari a circa 2030 euro )
ad ogni cittadino maggiorenne e una cifra corrispondente a 500 euro ai
minorenni. La richiesta quindi è per un reddito individuale, universale non
sottoposto a condizioni che, secondo i promotori dovrebbe costare al Governo
svizzero circa 326 miliardi di euro da reperire fra i fondi destinati al sistema di
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preferisce chiamarlo reddito di base incondizionato (Rbi) anziché reddito di cittadinanza per
porre l’accento sul fatto che per accedere alla misura non deve essere necessario possedere la
cittadinanza bensì la residenza visto che in Europa la prima è legata allo ius sanguinis
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assicurazione sociale. Si tratta della prima vera possibilità in Europa di
affermare il diritto ad un reddito minimo universale e tutto il mondo sta a
guardare cosa deciderà il popolo svizzero quando sarà chiamato a pronunciarsi
su questo referendum, strumento molto ricorrente in questo Paese.
Sicuramente l’Italia rispetto agli altri paesi dell’Unione europea è indietro anche
se si discute sempre in modo più frequente di forme di garanzia del reddito,
data l’allarmante situazione sociale in cui versa il nostro paese. Per il momento
le varie parti sociali sembrano concordi solo per una qualche forma di
trasferimento universalistico nei confronti dei minori e si sta facendo strada la
necessità di offrire una dotazione di base ai giovani perché possano definire
progetti lavorativi a prescindere dalle possibilità della famiglia di origine.
Ferraioli sostiene [Ferraioli, 2007] che un reddito di base considerato come
diritto fondamentale rispetterebbe il criterio universalistico, sottrarrebbe i
lavoratori precari al ricatto del massimo sfruttamento e avvantaggerebbe le
fasce più deboli, ossia i giovani e le donne; infine l’assenza di condizioni
consentirebbe un risparmio di costi relativamente all’aspetto burocratico. Per
arrivare ad istituzionalizzare il reddito di base sarebbe necessaria però una
radicale trasformazione del sistema di welfare. A parere dello stesso autore il
diritto all’adozione di misure universali contro la povertà e la ricattabilità sociale
è presente nella nostra Costituzione quando, all’art. 38, si prevede l’impegno
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dello Stato a garantire “i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
disoccupazione involontaria”.
Durante la recente campagna elettorale più di una formazione politica ha posto
l’accento sulla necessità di individuare forme di sostegno al reddito; si va da chi
ha proposto un salario minimo garantito a chi ha parlato di reddito minimo
garantito e di reddito di sostentamento minimo. Si tratta di misure molto
differenti fra loro; ma nessuna di tipo universalistico; nello specifico la proposta
del Movimento Cinque Stelle si riferiva ad un sostegno di 1000 euro per tre
anni ai disoccupati.
“Salario minimo” significherebbe, invece, rivolgersi ad una platea limitata di
persone, ossia a quelle occupate, che hanno un contratto come lavoratori
dipendenti e quindi non può essere considerata una misura per combattere
l’esclusione sociale. il reddito di sostentamento minimo è poi un termine che
non è mai stato usato da chi si occupa di politiche e misure per l’inclusione
sociale a livello europeo e fa pensare a livelli molto bassi non in grado di
combattere e contrastare con efficacia la povertà [Allegri, 2013].
1.2.2Il reddito minimo garantito a differenza del reddito minimo universale
rappresenta una forma di universalismo selettivo nel senso che è considerato
un diritto soggettivo universale che poi però viene erogato in modo selettivo al
verificarsi di alcuni condizioni legate al lavoro. Per la prima volta è stato
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introdotto in Svezia nel 1957 come forma di ammortizzatore sociale e
successivamente in altri paesi (in Francia nel 1988). Ne sono un esempio, in
Italia, il reddito minimo d’inserimento, il reddito di ultima istanza, l’indennità di
disoccupazione e di mobilità. Alcune di queste misure tendono a fornire un
sostegno agli occupati, altre a promuovere l’occupazione fra i disoccupati. In
Italia si pone il problema se gli istituti del “reddito sociale” vadano finanziati con
il contributo dei lavoratori e quindi abbiano natura previdenziale o attraverso la
fiscalità generale per la loro natura assistenziale. La differenza non è di poco
conto in quanto nel primo caso, in seguito alla riforma del titolo V della
Costituzione, è da considerarsi materia di competenza esclusiva dello Stato. Al
contrario quando entriamo nel diritto all’assistenza sociale la competenza
esclusiva spetta alle Regioni. L’orientamento della Corte Costituzionale (
Sentenza della Corte Costituzionale n.50 del 2005 ) va nel senso di affidare
all’ente locale la disciplina dei servizi per l’impiego e quella sugli incentivi
economici.
Alcune regioni hanno deliberato misure sperimentali di reddito sociale; tuttavia
in nessun caso si è attuata un’ ipotesi di reddito di cittadinanza, ma si è trattato
di provvedimenti a favore di politiche di contrasto della povertà e per
l’inclusione sociale [Di Stasi, 2008]. In termini di reddito sociale la prima legge
nazionale si è avuta con il d.lgs n. 237 del 18/6/1998 che ha introdotto in via
sperimentale il reddito minimo d’inserimento (RMI). Lo stesso è stato
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“sperimentato” inizialmente in 39 comuni scelti tenendo conto dei livelli di
povertà, della diversità delle condizioni economiche, demografiche e sociali;
cercando di garantire un’adeguata distribuzione sul territorio nazionale. Era
destinato ai capofamiglia impossibilitati a provvedere per cause diverse al
mantenimento proprio e dei figli ed esposti al rischio della marginalità e aveva
l’obiettivo dell’integrazione sociale anche attraverso programmi di inserimento
al lavoro. Nella seconda fase della sperimentazione sono poi stati coinvolti un
maggior numero di Comuni; il tutto si doveva concludere nel 2002, ma in alcuni
Comuni si è proceduto a fasi alterne fino al 2007. In fase di attuazione sono
emersi alcuni nodi critici il cui esame potrebbe essere utile nell’ottica di una
futura politica di sostegno al reddito. Innanzitutto, per quanto riguarda la
componente monetaria, non si era tenuto conto del differente costo della vita in
aree geografiche diverse e
dell’indicatore della situazione economica
equivalente (Isee). Un altro importante aspetto sottovalutato è stato la
necessaria competenza e capacità delle istituzioni
e delle persone che le
rappresentano nel gestire l’attuazione di questo strumento. Forse un errore è
stato proprio quello di individuare nei Comuni gli assegnatari di questi compiti
[Sacchi, 2011], senza destinazione agli stessi di personale in possesso di
specifiche professionalità.
La legge finanziaria del 2004 conteneva la disciplina sul Reddito di Ultima
Istanza (RUI ); però nello stesso anno fu dichiarata incostituzionale perché
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prevedeva un cofinanziamento tra Stato e Regioni quando invece lo Stato è
privo di competenza in materia di politiche sociali se le relative risorse
finanziarie sono
affidate alle Regioni. Successivamente più nulla è stato
prodotto in termini di legislazione nazionale eccettuato per la norma che dal 1°
gennaio 2008 ha esteso l’indennità di disoccupazione poi modificata nel 28/6
del 2012 la legge n. 92 , meglio nota come riforma Fornero, che oltre ad aver
modificato molte norme concernenti il lavoro ha riformato gli ammortizzatori
sociali. Nel nuovo testo si fa esclusivo riferimento al sussidio di disoccupazione
che viene
individuato nell’ASPI
e nella mini-Aspi percepibili però, solo a
condizione che il lavoratore disoccupato dimostri di aver, nei due anni
precedenti, percepito
almeno un giorno di contributi; escludendo
così dal
beneficio la gran parte dei precari e dei lavoratori autonomi, una forza lavoro
sicuramente non marginale.
1.2.3 Proposte per un reddito minimo garantito
Una proposta organica per l’adozione di un reddito minimo è stata elaborata
da Giubileo [Giubileo,2012], il quale ritiene che esso dovrebbe assumere le
caratteristiche di un sistema misto ossia essere un credito d’imposta
(trasferimento integrativo) per i lavoratori con salari inferiori ad una determinata
soglia, essere un’indennità monetaria per gli esclusi dal mercato del lavoro e
essere un’ erogazione attraverso tessere digitali. Come destinatari dovrebbe
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avere i nuclei familiari che dovranno essere sottoposti ad accertamento ai fini
della determinazione presuntiva del reddito, La stessa dovrebbe affiancare
all’ISEE (indicatore socio economico di equivalenza) un altro indicatore l’
Euphorià
che determina il reddito sulla base dei consumi
per il
soddisfacimento dei bisogni primari. Se tutto ciò si potesse realizzare, il reddito
minimo, secondo l’autore, diventerebbe il più importante strumento di contrasto
alla povertà e all’esclusione sociale esistente in Italia non essendo vincolato
allo status occupazionale o alla nazionalità di provenienza (sarebbero
sufficienti 5 anni di residenza). Per i soggetti in obbligo scolastico occorrerà la
prova della loro frequenza . Tutti i membri del nucleo familiare in età attiva
dovranno iscriversi al Centro per l’impiego e dichiararsi immediatamente
disponibili; compito dell’istituzione sarebbe quello di predisporre programmi
d’inserimento formativo o di riqualificazione professionale. Passato un certo
periodo, il reddito minimo assumerebbe il carattere di workfare quindi non
sarebbe una misura incondizionata per i disoccupati. Dovrebbe essere una
misura limitata nel tempo perché altrimenti si correrebbe
il rischio che il
beneficiario sviluppi nei confronti della misura una sorta di dipendenza
(trappola dell’inclusione); tuttavia se il beneficiario accettasse il lavoro
l’indennità non andrebbe tolta subito, ma in modo graduale e progressivo nel
giro di un certo periodo di tempo. Al contrario in caso di rifiuto alla
partecipazione
a
programmi
d’inserimento
occupazionale
si
avrebbe
22
l’esclusione dalla misura in conseguenza di una scelta individuale del
beneficiario e non come conseguenza di uno Stato che non garantisce i diritti
sociali. La stima dei costi in base ad una serie di fattori potrebbe aggirarsi
intorno ad un punto del PIL (16 miliardi di euro) e le risorse necessarie
potrebbero venire da un imposta patrimoniale sull’esempio della Francia: non
un prelievo straordinario, ma ordinario con aliquote contenute e coordinato con
gli altri aspetti del sistema fiscale. Si tratterrebbe un’imposta personale con
l’esenzione per i patrimoni più piccoli. Se la riscossione fosse ripartita e
periodizzata in modo automatico e il pagamento avvenisse attraverso le
forniture elettriche relative alle abitazioni con aliquote tra lo 0,5 e l’ 1.5, si
andrebbe a colpire solo il 5% della popolazione con un introito complessivo di
20 miliardi che sarebbero ampiamente sufficienti a finanziare la misura. Nel
nostro paese un’imposta simile fu introdotta a ridosso della prima guerra
mondiale per estinguere il debito pubblico. Obiettivo dell’imposta sarebbe
quello di realizzare la giustizia sociale con una redistribuzione della ricchezza
all’interno del paese.
Nel giugno 2012, in Italia, è cominciata una campagna, che ha visto l’adesione
di molte associazioni, reti sociali, movimenti e di alcuni partiti oltre che di tante
personalità della cultura, per una legge di iniziativa popolare finalizzata
all’istituzione di un reddito minimo; sono state raccolte più di 50.000 firme. La
proposta riguarda l’istituzione di un
reddito minimo garantito per tutti gli
23
individui inoccupati, disoccupati o precariamente occupati che non superano un
reddito minimo di 7200 euro l’anno. Esistono delle condizioni per l’accesso a
tale misura: la residenza da almeno 24 mesi e l’iscrizione alle liste di
collocamento tenute dai Centri per l’impiego. L’ammontare del beneficio
previsto è di 600 euro mensili che verrebbe sospeso in caso di dichiarazione
mendace, in caso di assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato,
di partecipazione a percorsi di inserimento lavorativo retribuiti, al compimento
dei 65 anni e quando il beneficiario rifiuti una proposta di impiego“congrua” in
base alle sue competenze. La stessa proposta prevede una delega al Governo
per una riforma in senso universalistico degli ammortizzatori sociali,
l’introduzione di un salario orario minimo e il riordino delle politiche assistenziali
alla luce del reddito demandando alle Regioni l’introduzione di misure per la
costruzione di un sistema integrato di welfare.
Una recente proposta è quella presentata da un gruppo di lavoro sostenuto
dalle ACLI e dalla Caritas che va sotto il nome di REIS (reddito d’inclusione
sociale); si tratta di una misura rivolta a tutte le famiglie che si trovano nello
stato di povertà assoluta regolarmente presenti nel territorio italiano e ivi
residenti da almeno 12 mesi. Quello che il progetto si propone in concreto è di
erogare un sostegno monetario al reddito pari alla differenza fra il reddito
familiare e la soglia di povertà assoluta tenendo conto del differente costo della
vita nelle varie parti geografiche del nostro paese e di accompagnare questa
24
misura con l’erogazione di servizi alla persona. L’ intervento è nella logica del
workfare proponendosi di imporre a tutti i membri della famiglia tra i 18 e i 65
anni, abili al lavoro, di attivarsi in tal senso attraverso la disponibilità ad
accettare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego o a frequentare corsi
di formazione o di riqualificazione professionale. La gestione di questa misura
dovrebbe essere locale attraverso un impegno condiviso fra il Terzo settore e i
Comuni che ne avrebbero la regia. La proposta del Reis si fonda sul dato
oggettivo, in base ai dati ISTAT del 2012, che il 6,8% dei nuclei in Italia si
trovava
in uno stato di povertà assoluta e su alcuni principi, a detta dei
proponenti, ispiratori: quello dell’universalismo, dell’adeguatezza e della
cittadinanza. Si tratta tuttavia di universalismo selettivo visto che la misura non
sarebbe rivolta a tutte le famiglie ma solo ad una parte residuale di esse,
l’adeguatezza andrebbe rintracciata nell’importo della misura che, riportando
tutti al di sopra della soglia della povertà, comporterebbe il raggiungimento da
parte di tutte le famiglie di un livello di vita “minimamente accettabile”; infine il
diritto alla cittadinanza sarebbe rispettato assicurando a tutti il diritto ad essere
protetti contro il rischio della povertà assoluta. Il Reis verrebbe introdotto
gradualmente con un percorso a tappe comportando un impegno finanziario
iniziale di circa 900 milioni di euro suddiviso fra 375 mila famiglie per arrivare,
dopo quattro anni, a un esborso di 6,06 miliardi di euro e un milione e 130
nuclei come beneficiari. Pensando alla necessarie coperture finanziarie
25
quest’ultime vengono, dai proponenti,
individuate in risparmi sulle spese
generali per le istituzioni, interventi sulle pensioni d’oro, piccoli aumenti delle
accise sul tabacco o sugli alcolici o delle imposte sui concorsi a premi o in
extremis attraverso l’introduzione di una patrimoniale o una modifica
dell’imposta di successione.
In data 18 settembre è stata presentata, sotto il patrocinio del ministro del
lavoro e delle politiche sociali Giovannini, la relazione di un gruppo di lavoro
istituito presso il Ministero, formato in parte dagli stessi promotori del REIS,
concernente “Proposte per nuove misure di contrasto alla povertà” con la
finalità di presentare una nuova misura di contrasto alla povertà assoluta e
all’esclusione sociale il “Sostegno per l’inclusione attiva (SIA)” come naturale
evoluzione della Carta Acquisti con l’obiettivo di inserirla nella prossima legge di
stabilità. Il SIA, nel progetto proposto, si caratterizza per essere una misura
nazionale, sia per ragioni di equità che di efficacia ed efficienza e universale
nel senso di non essere rivolta a specifiche categorie così da superare l’attuale
caratteristica categoriale del sistema di welfare italiano. Può essere considerata
inoltre un istituto riservato a singoli e nuclei familiari poveri, ma non consiste
solo un sussidio economico, comprende cioè anche un programma di
inserimento sociale e lavorativo; infatti la condizione per fruire del beneficio
economico è la sottoscrizione di un patto di inserimento con i servizi sociali
locali. Il SIA è rivolto a chi risiede stabilmente nel territorio italiano, quindi anche
26
agli immigrati che hanno la residenza nel nostro paese (rimane da fissare il
limite di tempo che non dovrebbe superare i due anni). Per stabilire l’importo
dell’erogazione monetaria, viene fissato un livello di riferimento dato dal costo di
un paniere di beni, servizi di mercato e di fruizione di servizi pubblici ritenuto
accettabile in relazione agli stili di vita prevalenti. Dal confronto con le risorse
economiche dei richiedenti scaturisce l’importo che dovrebbe essere pari alla
differenza fra queste due grandezze. I relatori del progetto sono maggiormente
propensi a misurare le risorse economiche con il reddito familiare complessivo
dato che l’Isee consistendo in una media ponderata tra reddito e patrimonio
potrebbe
fornire
un
quadro
non
veritiero
delle
risorse
monetarie
immediatamente spendibili. In riferimento alla durata della misura si pensa che
dovrebbe permanere fintanto che sussista lo stato di bisogno che però
dovrebbe essere sottoposto a controlli periodici. Il soggetto che appare più
legittimato per l’erogazione è l’INPS in quanto è anche l’ente depositario delle
informazioni necessarie per la prova dei mezzi. Il compito di accoglimento delle
domande dei beneficiari dovrà poi essere gestito a livello decentrato sotto la
regia di un aggregazione distrettuale dei Comuni con la collaborazione dei
Centri per l’impiego, delle istituzioni scolastiche e del terzo settore. Alle Regioni
spetterà unicamente una funzione di raccordo fra il livello centrale e quello
locale. Nel progetto viene data rilevanza al monitoraggio e alla valutazione che
vanno approntati da subito per poter operare tempestivi correttivi al programma
27
ai fini di un suo miglioramento. Il costo a regime si dovrebbe aggirare sui 7-8
miliardi di euro, si prevede però un processo graduale di finanziamento della
misura della durata di due o tre anni. Una parte delle risorse potrebbe giungere
da una riforma degli assegni sociali e delle pensioni minime che riduca i
benefici o le prestazioni per chi si trova al di sopra del livello di riferimento per
ridistribuirle a chi versa in uno stato di povertà assoluta, altre fonti addizionali
potrebbero arrivare dal riordino delle pensioni di guerra indirette, dal
versamento di contributi di solidarietà da parte dei percettori di pensioni elevate,
dal riordino delle agevolazioni fiscali o dall’inasprimento dell’imposizione fiscale
sui concorsi a premi, lotto e lotterie. Relativamente agli aspetti istituzionali del
finanziamento, configurandosi come un programma che definisce il livello
essenziale di prestazioni sociali (LEP), sarà di esclusiva competenza del
governo centrale in ottemperanza all’art. 117 c.2 della Costituzione che dovrà
garantire le fonti e i flussi finanziari sia per le spese erogate a livello centrale
che per quelle a carico degli enti decentrati.
A pochissimi giorni dalla presentazione del SIA già si discute della sua fattibilità
a breve e sembrava che prevalesse l’idea di un suo rinvio a data da destinarsi
giustificando la decisione con la mancanza di risorse; se così fosse stato si
sarebbe persa l’occasione di intraprendere finalmente anche in Italia una
politica contro la povertà e l’esclusione sociale e di avviare una riforma del
welfare in senso universalistico e non più categoriale, ma un emendamento al
28
testo iniziale presentato dal Governo che prevede il finanziamento di 120 milioni
in tre anni (somma alquanto poco significativa) sembra mostrare un inversione
di tendenza e lascia intravedere una speranza per un’adozione futura di misure
che siano in grado di realizzare l’obiettivo prefissato.
Fino a questo momento l’unico avamposto nella lotta alla povertà assoluta è
stato la nuova carta acquisti : a maggio di quest’anno, con il decreto
interministeriale del 3/5/2013 si è dato avvio infatti alla sperimentazione, della
durata di un anno, di una nuova Social Card in 12 città ( con una popolazione
superiore alle 250.000 unità), affidandone la gestione ai Comuni destinatari dei
finanziamenti. In base al dettato del decreto l’ente locale, sulla base delle
richieste ricevute, deve verificare la presenza dei requisiti relativi alle condizioni
economiche e lavorative delle famiglie
in oggetto compreso la presenza di
minori. L’ISEE non deve essere superiore a 3000 euro, il valore dell’abitazione
di proprietà non deve superare i 30.000 euro ai fini ICI e devono essere
rispettati altri limiti patrimoniali oltre al non aver percepito nei precedenti sei
mesi un reddito da lavoro superiore a 4.000 euro. Il massimo erogabile dai
Comuni, nei limiti delle risorse assegnate e in base alla numerosità del nucleo
familiare, è di 400 euro. Un requisito richiesto è la residenza, da almeno un
anno, in uno dei 12 Comuni coinvolti. La concessione della Carta è
condizionata inoltre alla sottoscrizione di un progetto personalizzato da parte
del beneficiario avente l’ obiettivo di migliorare le possibilità di reimpiego per gli
29
adulti e il rendimento scolastico dei minori attraverso un’azione combinata dei
servizi sociali, di quelli per l’impiego, dei servizi sanitari e delle istituzioni
scolastiche.
Questa sperimentazione si affianca alla vecchia carta acquisti che dal 2008
con la legge 133 destina agli over 65 o a genitori con figli aventi meno di tre
anni, in condizioni di bisogno, 40 euro mensili.
30
1.3 Fondamenti giuridici in Europa e in Italia per un reddito
minimo garantito
Le decisioni dell’Unione Europea a partire dal 1992 in merito alla lotta
all’esclusione sociale e per il rispetto della dignità umana possono essere
sintetizzate nella seguente tabella:
FONTI
Tipologia
Contenuto
Obiettivi
Raccomandazione del
Relativa ai criteri
Riconoscere ” il diritto
Consiglio 92/441/CEE
comuni in materia
fondamentale della
(atto non vincolante)
di risorse e
persona a risorse e a
prestazioni
prestazioni sufficienti per
sufficienti nei
vivere conformemente
sistemi di
alla dignità umana”
protezione sociale
Raccomandazione del
Relativa alla
Garantire alla persona un
Consiglio 92/442/CEE
convergenza degli
livello di risorse conforme
(atto non vincolante)
obiettivi e delle
alla dignità umana
politiche della
protezione sociale
Carta dei diritti fondamentali
Relativo al diritto
“Garantire
un’esistenza
dell’Unione Europea.
all’assistenza
dignitosa a tutti coloro
Nizza/2000 art. 34, 3°c.
sociale e abitativa
che non dispongono di
risorse sufficienti”
(norma primaria di Diritto
Comunitario)
Trattato di Lisbona/2007
Relativo
Definire la politica sociale
31
Art. 3, 2°c
all’affermazione
una competenza
Entrato in vigore 1/12/2009
della dignità
“concorrente” tra Unione
dopo la ratifica di tutti gli
umana,
e stati membri
stati membri
dell’uguaglianza e
(norma primaria di Diritto
del rispetto dei
Comunitario)
diritti umani e di
solidarietà come
valori fondanti
dell’Unione
Raccomandazione della
Relativa
Istituire un sistema
Commissione 2008/867/CE
all’inclusione attiva
adeguato di integrazione
(atto non vincolante)
delle persone
del reddito nel quadro di
escluse dal
un dispositivo globale e
mercato del lavoro
coerente di lotta contro
l’esclusione sociale
Risoluzione del Parlamento
Relativa alla
Incoraggiare
gli
Stati
europeo dell’ottobre 2008
necessaria
membri a prevedere un
(atto atipico avente carattere
adeguatezza dei
sistema di reddito minimo
preparatorio)
sistemi di reddito
garantito corredato da un
minimo nei paesi
pacchetto di misure di
membri perché
supporto
ritenuta condizione
preliminare per un
Unione Europea
fondata sulla
giustizia sociale e
sulle pari
opportunità per tutti
32
Risoluzione del Parlamento
Relativa alla
Favorire un'equa
europeo del 20/10/2010
necessità di misure
redistribuzione del reddito
(atto atipico avente carattere
concrete che siano
e della ricchezza,
preparatorio)
in grado di
garantendo regimi di
sradicare la
reddito minimo e,
povertà e
dunque, dando un senso
l'esclusione sociale
e un contenuto autentici
all'Anno europeo della
lotta alla povertà
In particolare dall’esame puntuale della Risoluzione del Parlamento europeo
del 20/10/2010 è bene mettere in evidenza che la stessa:
Al punto 1 “invita gli Stati membri a rivedere le loro politiche intese a
garantire un reddito adeguato, consapevole che la lotta alla povertà
presuppone la creazione di posti di lavoro dignitosi e durevoli per le
categorie sociali svantaggiate sul mercato del lavoro; ritiene che tutti i
lavoratori abbiano diritto ad un'esistenza dignitosa; considera che una
politica sociale nazionale presupponga altresì una politica attiva in materia
di mercato del lavoro”;
Al punto 6 “sottolinea la necessità che gli Stati membri intervengano
concretamente per definire una soglia di reddito minimo, in base a indicatori
pertinenti, che garantiscano la coesione socioeconomica, ridurre il rischio di
33
livelli di remunerazione differenti per la medesima attività, ridurre il rischio di
una popolazione povera in tutta l'Unione europea e chiede raccomandazioni
più risolute da parte dell'Unione europea in merito a questi tipi di azioni”;
Al punto 11 “ ritiene che i regimi di reddito minimo debbano essere integrati
in un approccio strategico orientato all'integrazione sociale, che preveda sia
misure generali sia politiche mirate relative ad alloggi, assistenza sanitaria,
istruzione e formazione e servizi sociali, al fine di aiutare le persone a uscire
dalla povertà e ad adoperarsi per l'inclusione sociale e l'accesso al mercato
del lavoro; ritiene che il reale obiettivo dei regimi di reddito minimo non sia
semplicemente assistere, ma soprattutto sostenere i beneficiari a passare
da situazioni di esclusione sociale a una vita attiva”;
Al punto 14 “ ritiene che l'introduzione in tutti gli Stati membri dell'UE di
regimi di reddito minimo, costituiti da misure specifiche di sostegno alle
persone con un reddito insufficiente attraverso una prestazione economica e
l'accesso agevolato ai servizi, sia uno dei modi più efficaci per contrastare la
povertà, garantire una qualità di vita adeguata e promuovere l'integrazione
sociale”;
Al punto 15 “ritiene che i sistemi di redditi minimi adeguati debbano stabilirsi
almeno al 60% del reddito mediano dello Stato membro interessato”;
Al punto 17 “ ribadisce che, benché importanti, i regimi di reddito minimo
debbano essere accompagnati da una strategia coordinata a livello
34
nazionale e di Unione europea, incentrata su azioni di ampia portata, oltre
che da misure specifiche, tra cui politiche attive per il mercato del lavoro
rivolte ai gruppi più distanti da tale mercato, istruzione e formazione per le
persone meno qualificate, retribuzioni minime, politiche di edilizia popolare e
fornitura di servizi pubblici accessibili, di qualità e a prezzi accessibili”;
Al punto 23 “ sottolinea che gli investimenti nei regimi di reddito minimo
costituiscono un elemento fondamentale nella prevenzione e riduzione della
povertà, che anche in periodi di crisi, i regimi di reddito minimo non
andrebbero considerati un fattore di costo, bensì un elemento centrale della
lotta alla crisi, che investimenti tempestivi per contrastare la povertà
apportano un contributo importante alla riduzione dei costi di lungo periodo
per la società”;
Al punto 34 “ritiene che le diverse esperienze in materia di redditi minimi e di
reddito di base incondizionato per tutti, accompagnati da misure
supplementari di integrazione e di protezione sociale, dimostrano come
questi siano strumenti efficaci di lotta alla povertà e all'esclusione sociale
nonché capaci di garantire una vita dignitosa per tutti; chiede pertanto alla
Commissione di adottare un'iniziativa per sostenere altre esperienze negli
Stati membri che tengano conto delle migliori prassi e li incoraggino, come
pure che permettano di garantire individualmente vari modelli di reddito
minimo adeguato e di reddito di base per prevenire la povertà quale misura
35
di lotta per debellare la povertà e garantire la giustizia sociale e la parità di
opportunità per tutti i cittadini, la cui indigenza è da comprovare secondo i
rispettivi criteri regionali, nel rispetto del principio di sussidiarietà e senza
rimettere in questione le specificità di ciascuno Stato membro; ritiene che la
predetta iniziativa della Commissione dovrebbe sfociare nell'elaborazione di
un piano d'azione destinato ad accompagnare l'attuazione di un'iniziativa
europea sul reddito minimo negli Stati membri, nel rispetto delle varie prassi
nazionali, degli accordi collettivi e delle legislazioni nazionali onde
conseguire gli obiettivi seguenti:
–
definire
standard
e
indicatori
comuni
sulle
condizioni
di
ammissibilità e accessibilità dei regimi di reddito minimo,
–
adottare criteri per valutare quali livelli istituzionali e territoriali,
compreso il coinvolgimento delle parti sociali e dei pertinenti
soggetti interessati, risulterebbero più adatti ad attuare le misure
relative ai regimi di reddito minimo,
–
definire indicatori e parametri comuni per la valutazione dei
risultati, degli esiti e dell'efficacia della politica contro la povertà,
–
garantire il monitoraggio e lo scambio efficace di migliori prassi”;
Al punto 35 “sottolinea che un reddito minimo adeguato è un elemento
imprescindibile per una vita dignitosa e che il reddito minimo e la
partecipazione sociale rappresentano i presupposti necessari affinché le
36
persone possano sviluppare appieno il proprio potenziale e contribuire a
un'organizzazione democratica della società”;
Al punto 36 “ritiene che nell'iniziativa della Commissione europea sul
reddito minimo garantito si tenga conto della raccomandazione
92/441/CEE, la quale riconosce «il diritto fondamentale della persona
a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla
dignità umana», insistendo affinché l'obiettivo centrale dei regimi di
sostegno del reddito debba essere quello di far uscire le persone dalla
povertà, consentendo loro di vivere dignitosamente, comprese le
pensioni di invalidità e di anzianità dignitose”;
Al punto 40 “ critica gli Stati membri in cui i regimi di reddito minimo non
raggiungono la soglia di povertà relativa; ribadisce la propria richiesta
agli Stati membri affinché pongano rimedio a tale situazione quanto
prima; chiede che la Commissione prenda in considerazione le buone e
le cattive prassi in fase di valutazione dei piani d'azione nazionali”;
Al punto 41 “sottolinea l'importante discriminazione fondata sull'età
riguardante i regimi di reddito minimo, per esempio stabilire il reddito
minimo per i minori al di sotto della soglia di povertà oppure escludere i
giovani, che non versano i contributi previdenziali, dai regimi di reddito
minimo; sottolinea che ciò mette a repentaglio l'incondizionalità e la
correttezza dei regimi di reddito minimo”;
37
Al punto 51 “si rammarica che alcuni Stati membri non sembrino tenere
conto della raccomandazione 92/441/CEE del Consiglio, che riconosce
«il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti
per vivere conformemente alla dignità umana»”;
Al punto 57 “ rileva che benché la maggior parte degli Stati membri
dell'UE-27 disponga di regimi di reddito minimo, vari altri Stati ne sono
privi; chiede agli Stati membri di prevedere l'introduzione di regimi di
reddito minimo garantiti per prevenire la povertà e favorire l'inclusione
sociale e li sollecita a scambiare le migliori prassi; riconosce che,
laddove venga prestata assistenza sociale, gli Stati membri hanno il
dovere di garantire che i cittadini comprendano e siano in grado di
ottenere le prestazioni a cui hanno diritto”.
La Commissione europea il 14 gennaio 2013 ha dato parere favorevole alla
proposta da parte dei cittadini europei per il reddito di base incondizionato
( ICE RBI ) a cui stanno già lavorando 15 stati, ma occorrerà raccogliere un
milione di firme in almeno sette paesi; dopo di ché la proposta potrà essere
studiata nella sua fattibilità dal Parlamento europeo ai sensi dell’art. 156 TFUE.
L’obiettivo, nel lungo periodo, è quello di garantire ad ogni persona nella UE il
diritto incondizionato, a livello individuale, al soddisfacimento dei propri bisogni
materiali al fine di condurre una vita dignitosa e di favorire la partecipazione alla
38
società. Tutto ciò dopo che un primo testo, sempre su iniziativa dei cittadini
europei ( ICE ), era stato bocciato .
Dal punti di vista normativo, in Italia, la prima ed unica iniziativa a livello
nazionale è stata preceduta dal lavoro di due commissioni: la Commissione di
indagine sulla povertà e sull’emarginazione del 1996 e la Commissione Onofri
del 1997. In particolare quest’ultima nella relazione finale [Commissione per
l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale, Relazione
finale, 1997] prevedeva un unico istituto di minimo vitale per il sostegno dei
redditi più bassi (50-60% del reddito medio pro-capite ) costituito
da
un’erogazione economica e dall’offerta di servizi, offrendo così una rete di
protezione e attenuando la trappola della povertà senza incentivare però il
beneficiario ad adagiarsi in una situazione di bisogno. Questa misura mirava
quindi al reinserimento nel mondo del lavoro grazie a dei vincoli quali la
disponibilità al lavoro di qualunque tipo e ovunque; pena l’esclusione dalla
misura di sostegno. Per il finanziamento dell’intervento si suggeriva di ricorrere
alla fiscalità generale e per l’attuazione di potenziare il ruolo degli enti locali.
Nel 1998 prese avvio la sperimentazione del Reddito minimo di Inserimento
(RMI), sulla scorta anche
della Raccomandazione dell’Unione Europea del
1992, con la legge 449/1997 inserita nel sistema integrato di politiche e servizi
sociali con il decreto legislativo 237/1998 e la legge 328/2000. Sperimentazione
che è cessata con la legge finanziaria 2003 (289/2002). Successivamente
39
nell’ambito dei sistemi di welfare locali si sono registrati provvedimenti
normativi a carattere regionale e provinciale:
Fonte
Intervento normativo
Oggetto
Provincia autonoma di Legge 13/1991
Reddito minimo
Bolzano
d’inserimento
Provincia autonoma di Legge 14/1991 delibera Reddito di garanzia
Trento*
n.2216 dell’ 11/9/2009
Regione Valle d’Aosta
Legge 19/1994
Minimo Vitale
Regione Campania*
Legge 2/2004
Reddito di cittadinanza
Regione Basilicata*
Legge 3/2005 e legge Cittadinanza solidale
31/2008 art. 24
Regione Friuli Venezia Legge 6/2006 abrogata Reddito di base per la
Giulia
dalla legge 9/2008
cittadinanza sociale
Regione Puglia
Legge19/2006
Reddito minimo
d’inserimento
Regione Lazio*
Legge 4/2009
Reddito minimo
garantito
Regione Molise
Legge 2/2012
Reddito minimo di
cittadinanza
40
1.4 Il reddito minimo in Europa
Gli schemi di reddito minimo in Europa variano ampiamente tra paese e paese
per quanto riguarda la loro copertura e la loro efficacia. Sintetizzando possiamo
identificare quattro gruppi principali di paesi:
o Paesi che offrono schemi relativamente semplici e di ampia copertura
come la Germania, la Danimarca, la Finlandia e il Belgio;
o Paesi che, nonostante prevedano schemi relativamente semplici e di
ampia copertura, presentano una limitata eleggibilità dei beneficiari,
spesso in ragione delle soglie molto basse delle fonti di reddito
necessarie per essere ammessi all’assistenza
finanziaria come in
Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia;
o Paesi che hanno sviluppato una complessa rete di schemi differenti che
talvolta si sovrappongono, spesso dedicati a specifiche categorie di
popolazione come in Spagna, Francia, Irlanda e Regno Unito;
o Paesi che hanno schemi molto limitati e parziali, rivolti a ristrette
categorie di persone, che non coprono una larga parte della popolazione
con urgente bisogno di un supporto al reddito.
Le più diffuse condizioni di eleggibilità dei beneficiari riguardano l’età, la
residenza, la mancanza di risorse finanziarie e la volontà a lavorare.
In molti paesi gli schemi di reddito minimo sono affiancati da altre misure di
assistenza: per la casa, per i minori, per l’educazione e cosi via. Nella maggior
41
parte degli Stati membri tali misure sono rivolte a persone che non hanno
un’occupazione e una delle principali preoccupazioni è che non costituiscano
un disincentivo al lavoro.
In relazione ai requisiti anagrafici, necessari per accedere alle misure,
possiamo distinguere paesi in cui è necessario possedere sia la nazionalità
che la residenza (20%), la maggioranza in cui è sufficiente la residenza (67%)
e pochi in cui basta il permesso di soggiorno (13%) [Meoli, 2011]. Riguardo
all’età in poco più della metà dei paesi dell’UE non sono previsti vincoli, negli
altri alla misura possono accedere solo i soggetti che abbiano compiuto 18 o
25 anni, in pochi 16 anni. Per quanto concerne l’ulteriore requisito del lavoro,
nella quasi totalità dei paesi si richiede la disponibilità allo svolgimento di un
lavoro e alla partecipazione a percorsi formativi; ci sono poi altre condizioni, ma
queste variano molto da paese a paese. Occorre sottolineare che solo in alcuni
è considerato un diritto soggettivo non discrezionale, negli altri si tratta di una
misura per favorire l’inclusione sociale ed occupazionale di chi si trova in stato
di bisogno sulla base dell’accertamento dello stato di necessità ( means test ).
Certo l’adozione di questa misura è ciò che può far distinguere il sistema
sociale europeo da quello adottato in molti altri paesi del mondo soprattutto in
un momento storico nel quale il ”lavoro povero” e i cosiddetti working poor sono
sempre più presenti. Si verifica il contrario di quanto avveniva in passato ossia
il lavoro ha perso il suo valore emancipatorio in base al quale l’accesso al
42
lavoro corrispondeva all’uscita dalla povertà [Musacchio, 2013]. E’ la
conseguenza dell’elevato aumento dei lavoratori precari
per cui bisognerà
rivedere la relazione fra reddito e lavoro alla luce della fase capitalistica che
stiamo vivendo e mettere il reddito in relazione ad un’idea differente del lavoro,
dell’economia e della società. A tale scopo andrebbe rilanciata
la
contrattazione collettiva come elemento caratterizzante di una nuova
dimensione europea, arrivando al riconoscimento, per contratto e per legge, di
livelli salariali europei ( armonizzazione verso l’alto ) e del diritto a un reddito di
cittadinanza che si possa definire un reddito di esistenza [Musacchio, 2013].
Alcuni esempi concreti di reddito minimo in Europa:
 “Sozialhilfe” in Germania. Viene erogato a tutti anche se minori fino al
miglioramento della propria condizione, consiste in una rendita mensile
di almeno 364 euro oltre ad un sussidio di assistenza ( Hilfe zum
Lebensunterhalt ) e alla copertura dei costi di affitto e di riscaldamento
per un periodo illimitato. Coloro che sono abili devono però cercare
lavoro. I beneficiari sono sia i cittadini tedeschi che gli stranieri con
regolare permesso di soggiorno ed è considerato un diritto soggettivo
non discrezionale che può essere richiesto su base individuale.
 “Income Support” in Gran Bretagna concesso per un tempo illimitato a
chi ha un lavoro che occupa meno di 16 ore settimanali e a chi ha un
reddito inferiore a un limite minimo, percepibile dai 16 anni di età e a chi
43
può dimostrare di aver esaurito ogni altra forma di sostegno. Chi è
idoneo, ma non lavora ha invece diritto all’assegno di disoccupazione. I
beneficiari delle varie misure sono obbligati a svolgere dei colloqui con
dei consulenti finalizzati all’inserimento lavorativo. Per favorire la
disponibilità a lavori part-.time da parte di chi ha perso il lavoro ci sono
poi gli inwork benefits. Con l’Housing benefit viene coperto il costo
dell’affitto. Un’altra misura di sostegno sono i child benefits per
concorrere alle spese di mantenimento dei minori non correlate al
reddito familiare o all’età dei figli. Il sistema di welfare inglese sta però
subendo un radicale ridimensionamento per la revisione di una serie di
misure a sostegno dei più deboli: taglio ai sussidi per l’abitazione che
riguarda quelle famiglie che hanno una stanza in più ( la cosiddetta
bedroom tax ), restrizione del numero di famiglie che potranno usufruire
dell’assistenza legale gratuita, nuovo metodo di calcolo dei sussidi per i
disabili, fissazione di un limite ai servizi sociali ricevibili da ogni famiglia
e introduzione di un credito universale che accorperà sei diverse fonti di
reddito per i disoccupati. Quest’ultima misura, introdotta in via
sperimentale, ha l’obiettivo di incentivare i disoccupati a cercare lavoro e
spingere i lavoratori part-time a lavorare più ore.
 “Revenu de solidarité active” in Francia, introdotto dal 2009 in
sostituzione del Revenu minimum d’insertion, dell’allocation de parent
44
isolé e dei diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività
lavorativa. Se ne beneficia dai 25 anni in su come integrazione al
reddito, parte da 467 euro e varia a seconda se si è single o coppia e se
si hanno figli e quanti. E’ un diritto individuale che tiene conto però del
reddito, della situazione e del patrimonio familiare per calcolare l’importo
erogabile in quanto si tratta di una prestazione differenziale e integrativa
per portare il reddito ad una soglia, definita minima. Si utilizza un
meccanismo in base al quale all’aumentare del reddito da lavoro
diminuisca le revenu de solidarietà active, ma aumenti il reddito
disponibile [ Rsa= reddito garantito-(reddito da lavoro x 0,62) ] per
evitare che si cada nella trappola della povertà, evitando di
disincentivare il lavoro. In aggiunta alla misura finanziaria sono previste
aiuti come i contratti di lavoro agevolati, i sostegni finalizzati al reimpiego
e l’accesso ad un pacchetto di diritti supplementari. la Caisse
d’allocations familiales ha il compito di coordinare gli interventi.
 “Revenu d’integration” in Belgio ha sostituito il Minimax (minimo vitale).
Dell’importo minimo di 755 euro viene concesso individualmente a chi
non ha un reddito per un periodo di tempo illimitato, ma bisogna
dimostrare la disponibilità a cercare attivamente lavoro. I beneficiari
usufruiscono contemporaneamente di altri sostegni sottoforma di beni e
servizi.
45
 “Wet Werk en Bijnstand” in Olanda è concesso individualmente in
aggiunta a un insieme di sostegni per affitto, trasporti e accesso alla
cultura, a chi non può sostenere i costi necessari per i suoi bisogni o
quelli della sua famiglia. Non ci sono limiti di tempo, ma occorre
dimostrare di cercare attivamente un lavoro. Per gli artisti esiste il Wik ,
un compenso erogato per remunerare il tempo di lavoro creativo senza
che gli stessi siano costretti a fare un altro lavoro per sopravvivere. Dal
1° ottobre del 2009 rivolto ai giovani c’è il “Wet investeren in
jongerenartisti” per avviare i giovani al lavoro o a un percorso formativo
che consenta loro di mantenersi autonomamente.
 “Sozialhilfe e Bedarfsorientierte Mindestsicherung” in Austria. Vengono
erogati, alternativamente, insieme alla copertura per una serie di costi
quali l’elettricità, il gas, l’affitto; i destinatari sono singoli individui e nuclei
familiari. Si richiede la disponibilità a svolgere un lavoro adeguato o a
seguire percorsi formativi. E’ corrisposto fino al miglioramento delle
condizioni di vita.
 “Kontanthjǣlp e Starthjǣlp” in Danimarca, due misure per l’assistenza
sociale e l’avviamento a una vita autonoma a favore di coloro che non
hanno temporaneamente i mezzi per soddisfare i bisogni propri o della
propria famiglia; percepibile dai 18 anni di età ed di durata illimitata. Ne
possono avere accesso anche gli stranieri residenti da almeno sette
46
anni. E’ considerato un diritto soggettivo, ma presenta elementi di
discrezionalità in quanto i beneficiari devono cercare attivamente lavoro,
in caso contrario la misura può essere sospesa.
In questo elenco, non completo, mancano ovviamente l’Italia e la Grecia, gli
unici due paesi a non aver adottato misure in tal senso, contravvenendo a
più Raccomandazioni e Risoluzioni dell’Unione, alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea e al Trattato di Lisbona del 2007. Tra le
altre cose il Consiglio di Lisbona del 2000 ha evidenziato la necessità di
riformulare le tradizionali forme di tutela sociale per promuovere l’inclusione
sociale. Proprio uno degli obiettivi chiave della strategia per l’Europa 2020 è
quello di implementare appropriate misure per ridurre il rischio di povertà
tramite la concreta introduzione di schemi di reddito minimo in tutti gli Stati
membri.
47
Capitolo 2: Cosa accade in Italia
Sommario: 2.1La situazione economico sociale in Italia. – 2.2 Gli inclusi e gli
esclusi dalle tutele. – 2.3 Le politiche per il sostegno del reddito a livello
centrale. - 2.4 Gli interventi degli enti locali. - 2.5 Un caso su tutti: Trento.
2.1 La situazione economico sociale in Italia
Secondo la Commissione d'indagine sull'esclusione sociale - Cies, i dati
aggregati all’intera nazione relativi all’anno 2011 mostrano una situazione in
netto peggioramento. Distinguendo tra i poveri assoluti, ossia le persone
appartenenti a famiglie che non hanno le risorse economiche necessarie per
acquisire il paniere di beni e servizi che si considerano essenziali, per
raggiungere uno standard di vita minimamente accettabile, e i poveri relativi,
ossia le persone appartenenti a famiglie che hanno un reddito mensile o una
spesa per consumi non superiore ad un livello standard; il numero dei poveri
relativi risulta essere pari al 13,6% della popolazione e quello dei poveri
assoluti il 5,7%. Tutto ciò con un incremento rispetto al 2007 del 6,25% dei
poveri relativi, ma soprattutto del 39% dei poveri assoluti. Disaggregando poi i
dati per area geografica e caratteristiche del nucleo familiare, si rileva che il
peggioramento si è maggiormente registrato nel mezzogiorno e nelle famiglie
con più figli o monoparentali. Da un’analisi i gruppi a maggior rischio di povertà,
48
intendendo per questi le famiglie che per composizione e struttura hanno
limitate capacità di far fronte ad eventi difficili, sono individuabili nei nuclei di
immigrati o in cui sono presenti disoccupati, lavoratori precari, persone con
limitazioni dell’autonomia personale, con minori o infine anziani soli. Occorre
considerare che la famiglia che cada in povertà determina difficoltà per tutti i
componenti così come può fungere da ammortizzatore sociale quando le
difficoltà sono limitate ad un solo membro della stessa. Proseguendo
nell’analisi, in base ai dati del rapporto annuale ISTAT [ISTAT, 2013] si evince
che le famiglie si trovano sempre più in una situazione di disagio e
deprivazione economica. Considerando i seguenti indicatori di disagio :
1) non poter sostenere spese impreviste;
2) non potersi permettere una settimana di ferie all’anno lontano da
casa;
3) avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti come
per esempio gli acquisti a rate;
4) non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni, cioè con
proteine della carne o del pesce (o l’equivalente vegetariano);
5) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione;
6) non potersi permettere una lavatrice;
7) non potersi permettere un televisore a colori;
8) non potersi permettere un telefono fisso o mobile;
49
9) non potersi permettere un’automobile.
Le famiglie gravemente deprivate
(ossia
che presentano almeno quattro
segnali di disagio ) sono aumentate in un solo anno del 27,68 % passando
dall’11,2% del 2011 al 14,3% del 2012 e la famiglie deprivate ( ossia quelle che
presentano almeno tre segnali di disagio ) sono aumentate del 55% rispetto al
2010 in particolare sono cresciute in modo vertiginoso, ossia del 148%, gli
individui che dichiarano di non potersi permettere un pasto adeguato almeno
ogni due giorni e quelli che affermano di non poter riscaldare adeguatamente
l’abitazione pari a un incremento dell’88% e così via come risulta dalla
seguente tabella.
50
Tavola 1.6 Persone appartenenti a famiglie in condizioni di deprivazione
materiale per indicatori di deprivazione – Anni 2010-2012 (per 100 persone)
Indicatori di
2010
2011
2012
Variazione
deprivazione
% rispetto
materiale
al 2010
In condizione di
16,0
22,3
24,8
+55
6,9
11,2
14,3
+107
12,8
14,1
13,0
+2
33,3
38,6
41,7
+25
39,8
46,7
50,4
+27
6,7
12,4
16,6
+148
11,2
18,0
21,1
+88
deprivazione
materiale
In condizione di
grave
deprivazione
materiale
In arretrato con
i pagamenti
Incapace di far
fronte a spese
impreviste
Non
può
permettersi una
settimana
di
ferie all’anno
Non
può
permettersi un
pasto proteico
almeno
ogni
due giorni
Non
permettersi
può
di
51
riscaldare
adeguatamente
l’abitazione
Non
può
permettersi
0,7
O,2
0,1
-86
0,5
0,4
0,2
-60
0,3
0,3
0,2
-33
2,3
2,6
1,7
-26
il
telefono fisso o
mobile
Non
può
permettersi
la
lavatrice
Non
può
permettersi
il
televisore
a
colori
Non
può
permettersi
l’automobile
Fonte: Istat, Indagine sulle condizioni di vita (Eu-Silc)
Il rapporto Istat conferma quanto già emerso sulla situazione economico
sociale dell’indagine del Cies; infatti il disagio più frequente si riscontra tra le
persone che vivono sole, specie se anziane e tra coloro che appartengono a
famiglie molto numerose. Considerando poi la distribuzione geografica il
peggioramento delle condizioni economiche è più marcato al Mezzogiorno
52
rispetto al Nord e al Centro. Nel 2012 le famiglie coinvolte risultano provenire
anche dal ceto medio così come si era evidenziato già nell’anno precedente.
La significativa diminuzione del reddito disponibile delle famiglie si è riflessa in
un forte calo della spesa per consumi, molto superiore a quella della crisi del
2008-2009 e in un’ulteriore diminuzione della propensione al risparmio, che ha
raggiunto il suo minimo storico. Le famiglie hanno risposto alle difficoltà
riducendo la quantità o qualità dei prodotti acquistati e preferendo centri di
distribuzione a più basso costo.
Per un quadro complessivo occorre considerare anche l’andamento del
mercato del lavoro le cui condizioni sono peggiorate nel corso del 2012 e del
primo trimestre del 2013. Oltre la riduzione degli occupati si registra un
aumento degli occupati a tempo parziale e un elevato incremento del ricorso
alla Cassa integrazione guadagni. Il settore maggiormente coinvolto è quello
industriale apparentemente non toccato quello dei servizi che al contrario
registra una relativa crescita. La flessione dell’occupazione ha riguardato sia i
lavoratori dipendenti che quelli autonomi. In particolare fra i dipendenti si
evidenzia un contrazione dei contratti a tempo indeterminato e una crescita
degli occupati con contratti a termine che si accompagna alla diminuzione dei
contratti full-time e all’incremento di quelli a tempo parziale. Diminuisce anche
la probabilità di una transizione dal lavoro a tempo determinato o dalla
collaborazione ad un lavoro standard; la prospettiva più frequente è il
53
successivo stato di disoccupazione. I contratti atipici sono molto diffusi nella
fascia dei più giovani di età compresa fra i 15 e i 29 anni, si tratta per lo più di
contratti di breve durata, oltre la metà a meno di un anno; anche la flessione
dell’occupazione coinvolge maggiormente la componente under 35. Il tasso di
disoccupazione complessivo ha raggiunto il 10,7% nel 2012 e ha continuato a
crescere nel primo trimestre del 2013 arrivando a marzo all’11,5%. Un evidente
svantaggio derivante dal lavoro atipico è il differenziale retributivo pari a circa il
25% in meno che viene corrisposto a un lavoratore a termine a tempo pieno
rispetto ad un lavoratore a tempo indeterminato anche a causa della mancanza
degli scatti d’anzianità. Riguardo al ricorso alla Cassa integrazione guadagni
oltre all’aumento si registra un incremento della durata dei periodi e un più
probabile passaggio successivo alla disoccupazione.
Il quadro che emerge dall’analisi dei dati è quindi quello di una forte emergenza
sociale anche per la difficoltà, diversamente dal passato, da parte delle famiglie
di fungere da ammortizzatori sociali; anche se sempre di più i redditi da
pensione costituiscono, pur se insufficienti data la loro pochezza, per molti
nuclei l’unica fonte certa di reddito.
54
2.2 Gli inclusi e gli esclusi dalle tutele
Esaminando la composizione della popolazione appare chiaro che non tutte le
fasce risultino ugualmente tutelate in termini previdenziali ed assistenziali in
Italia. Chi sono i tutelati? Nel mondo del lavoro esistono gli ammortizzatori
sociali ma se pensiamo alla distinzione fra lavoratori dipendenti e lavoratori, soli
i primi ne possono usufruire, anche se non tutti fra loro; mancano infatti o sono
minime le tutele per i lavoratori precari. Tale situazione a causa del fatto che
quando sono state istituite le tutele il contratto di lavoro più frequente era a
tempo indeterminato e il precariato era visto come un momento di passaggio
verso una stabilizzazione che la fascia più giovane e inesperta doveva
accettare in vista di un futuro più certo. Ora, al contrario, i contratti a termine
sono quasi la regola, riguardano tutte le fasce d’età e non costituiscono una
fase transitoria; anzi è più facile che successivamente al loro ripetersi segua
la disoccupazione quando le condizioni del lavoratore (età, livello di esperienza,
ecc…..) suggeriscono l’opportunità al datore di lavoro di rivolgersi altrove per
usufruire di sconti sul costo del lavoro o benefici fiscali.
Con l’espressione ammortizzatori sociali ci si riferisce ad una serie di strumenti
a sostegno dei lavoratori finalizzati alla conservazione dello status di lavoratore;
la legge “Fornero” del 28/6/2012 n.92 ha riformato la materia con decorrenza
primo gennaio 2013; ma per meglio comprenderne la portata occorre fare un
quadro della situazione precedente. Gli strumenti in vigore prima della riforma
55
comprendevano la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (legge n. 164 del
1975) e Straordinaria (legge n. 675 del 1977), i contratti di solidarietà (istituiti
con la legge n. 863 del 1984), la mobilità (istituita dalla legge n. 223 del 1991),
il
pensionamento anticipato (introdotto a partire dagli anni settanta) e
l’indennità di disoccupazione (presente nel nostro ordinamento sin dal 1919
come assicurazione contro la disoccupazione involontaria).
Le imprese
potevano ricorrere alla CIGO se esisteva l’elemento della transitorietà e
dell’involontarietà per situazioni temporanee del mercato; la CIGS interveniva
invece in caso di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione e di crisi
aziendale nonché di procedura concorsuale assicurando al lavoratore un
trattamento economico dell’80% per le ore non lavorate. I contratti di solidarietà
tutt’ora sono utilizzati a fini difensivi o estensivi e comportano una riduzione
dell’orario di lavoro e del salario. A differenza dei precedenti strumenti,
l’indennità di mobilità interveniva su lavoratori che avevano perso il loro posto
di lavoro a seguito di un licenziamento collettivo o della procedura di mobilità
assicurando ai beneficiari, per un periodo di 12 mesi, un’indennità commisurata
al trattamento straordinario di integrazione salariale. Il collocamento a riposo in
anticipo del lavoratore, su domanda dello stesso, poteva avvenire se fosse
stato in esubero e se, a causa dell’età, avesse avuto grossi problemi a trovare
un’ altra occupazione; sempre che fosse prossimo al
raggiungimento dei
requisiti per la pensione. L’ultimo di questi strumenti era il trattamento ordinario
56
di disoccupazione rivolto ai lavoratori che dopo un certo periodo di lavoro
avevano perso il posto. Quest’istituto con la legge n.2 del 2009 era stata estesa
ai lavoratori sospesi per crisi aziendale o occupazionale che non godevano
della Cassa integrazione, agli apprendisti e ai collaboratori a progetto [Di Stasi,
2012].
Attualmente la legge del 28/6 che ha riformato gli ammortizzatori sociali,
distingue la disoccupazione totale, in caso di cessazione del rapporto di lavoro,
dalla disoccupazione parziale relativa alla sospensione dell’attività lavorativa.
Nel primo caso il nuovo trattamento di disoccupazione, l’ASpI (assicurazione
sociale per l’impiego) spetta tutti i lavoratori dipendenti compresi gli apprendisti
con l’esclusione dei dipendenti pubblici.
La durata dell’ASpI dal 1/1/2013 per i nuovi eventi di disoccupazione che si
sono verificati a decorrere del 1/1/2013 è la seguente:
Anno di
Età inferiore a 50
Età pari o
Età pari o
decorrenza
anni
superiore a 50
superiore a 55
anni
anni
2013
8 mesi
12 mesi
/
2014
8 mesi
12 mesi
14 mesi
2015
10 mesi
12 mesi
16 mesi
2016
12 mesi
12 mesi
18 mesi
57
Ai precari compete un trattamento breve, la mini ASpI, per un numero di
settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione nell’ultimo anno. Ai
lavoratori a progetto disoccupati spetta, a certe condizioni, una somma una
tantum. La tutela della disoccupazione parziale prima era assicurata dalla
CIGO e CIGS; ora, con la riforma, verrà eliminata la CIGS in caso di
cessazione dell’attività per le aziende assoggettate a procedure concorsuali.
Per i lavoratori collocati in mobilità, ai sensi dell’art.7 della legge n.223 del
23/7/1991 a decorrere dal 1/1/2013 e fino al 31 /12/2016, il periodo massimo di
diritto della relativa indennità è ridefinito nei seguenti termini:
Periodo
lavoratori con età
Lavoratori con
Lavoratori
inferiore ai 40
età uguale o
hanno
anni
superiore a 40
50 anni
che
compiuto
anni
Dall’1/1/1013
al
12 mesi
24 mesi
36 mesi
al
12 mesi
18 mesi
24 mesi
al
12 mesi
12 mesi
18 mesi
31/12/2014
Dall’1/1/2015
31/12/2015
Dall’1/1/2016
31/12/2016
58
Per garantire una graduale transizione verso il regime delineato dalla riforma
degli ammortizzatori sociali , la legge prevede inoltre che, potrà essere
disposta, sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a
12 mesi, in deroga alla normativa vigente , la concessione di trattamenti di
integrazione salariale e di mobilità nei limiti delle risorse finanziarie a tal fine
destinate nell’ambito del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione.
L’Art.3 della legge n.92 prevede tutele in costanza del rapporto di lavoro e al
comma
4
dispone
che”
le
organizzazioni
sindacali
e
imprenditoriali
comparativamente più rappresentative a livello nazionale stipulino, entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore della legge, accordi collettivi e contratti
collettivi, anche intersettoriali, aventi ad oggetto la costituzione di fondi di
solidarietà bilaterali per i settori non coperti dalla normativa in materia di
integrazione salariale, con la finalità' di assicurare ai lavoratori una tutela in
costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell'attività
lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale
ordinaria o straordinaria”.
Questo il quadro della situazione in tema di ammortizzatori che forniscono un
sostegno al reddito di alcune categorie di lavoratori in casi particolari tanto da
fare apparire questi strumenti come inadeguati [Fumagalli, 2013] perchè solo
un quarto di chi è realmente disoccupato possiede i requisiti2 per accedere al
2
aver lavorato 52 settimane negli ultimi due anni e aver pagato i relativi contributi
59
sussidio di disoccupazione e la stessa Cassa Integrazione
3
è applicata in
modo diverso e selettivo a seconda del settore, delle dimensioni dell’impresa e
delle qualifiche creando pesanti discriminazioni sul suo utilizzo; molti risultano
essere quindi gli esclusi dalle varie
misure che si trovano completamente
scoperti e privi di una qualunque forma di sostegno.
Un esempio sono i lavoratori autonomi titolari di partita IVA, per loro non ci
sono indennità di disoccupazione, mobilità o altro; se a causa della mancanza
di introiti sufficienti a gestire la loro attività, sono costretti a ritirarsi dagli affari
non è previsto nessun supporto al reddito e i prestiti da loro contratti per
finanziare l’impresa diventano una minaccia per i loro patrimoni personali. Che
dire poi dei lavoratori parasubordinati ufficialmente autonomi ma di fatto del
tutto dipendenti dai loro committenti come i lavoratori a progetto, sono
sottoposti alle condizioni loro imposte pena l’assenza del progetto e ricevono
una minima tutela condizionata al verificarsi di alcune condizioni; essi fanno
parte del cosiddetto mondo delle” finte partite IVA”. I dati Istat [Istat, 2013] ci
dicono che nel 2012 tra gli occupati i lavoratori dipendenti, sommando i fulltime e quelli part-time erano il 64% del totale degli occupati, i lavoratori
autonomi il 23% e i lavoratori atipici, suddivisi fra lavoratori con contratto a
tempo determinato e collaboratori, il 13%.
3
Cassa integrazione Ordinaria, Straordinaria e in deroga
60
Non bisogna poi scordarsi che nel nostro sistema per essere considerati
“lavoratori” bisogna aver lavorato almeno per un certo periodo, altrimenti si è
solo in cerca di prima occupazione e niente è previsto a sostegno di questa
pesante situazione. Lo stesso art. 38 della Costituzione al 2^ comma fa
riferimento allo stato di disoccupazione involontaria che presuppone aver avuto
un lavoro dipendente e averlo perso per cause non imputabili al proprio
comportamento senza accennare alle persone in cerca di prima occupazione.
Ora, se consideriamo il peso percentuale delle varie categorie di popolazione
attiva analizzate, ci accorgiamo che sono più quelli privi di tutela che quelli
coperti.
Escludendo i lavoratori dipendenti, la fascia maggiormente tutelata risulta
essere quella degli over 65, degli inabili o invalidi; infatti tra coloro che hanno
compiuto i 65 anni, i soggetti che hanno redditi inferiori ai limiti stabiliti dalla
legge e risiedono effettivamente e abitualmente in Italia, sono destinatari
dell’assegno sociale; solo al verificarsi di particolari condizioni ne hanno diritto
anche i cittadini comunitari e gli stranieri. Non consideriamo tra quelli che
hanno di più di 65 anni i soggetti che percepiscono regolarmente un
trattamento pensionistico al termine dell’attività lavorativa in quanto in questo
caso non si può parlare di trasferimenti dello Stato ma di quanto dovuto sulla
base dei contributi versati durante il periodo di svolgimento dell’attività.
L’importo dell’assegno sociale varia in relazione all’entità del reddito personale
61
e al numero di componenti il nucleo familiare. Nel caso di un nucleo composto
dal solo richiedente l’importo max è di 442,30 euro e arriva ad un massimo di
1105,75 in presenza due o più minori di 14 anni e un familiare nel nucleo del
richiedente.
Il nostro sistema previdenziale ed assistenziale distingue gli inabili dagli invalidi
fornendo loro un diverso tipo di tutela. Sono considerati invalidi quei soggetti
che a causa di un infortunio o di una malattia subiscono una perdita della loro
capacità lavorativa; nel caso sia almeno dei due terzi essi maturano il diritto a
ricevere l’assegno ordinario di invalidità erogato dall’INPS ai lavoratori
dipendenti o autonomi che però abbiano versato almeno 5 anni di contributi.
L’importo di durata triennale rinnovabile è variabile e compatibile con lo
svolgimento di altre attività lavorative. Nel caso che l’invalidità raggiunga il
100% e sia presente l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di
un accompagnatore o l’impossibilità a compiere gli atti quotidiani della vita, si
matura il diritto all’indennità di accompagnamento, sempre a carico dell’INPS,
per un importo circa di 480,00 euro mensili. Tale misura spetta anche ai ciechi
assoluti, alle persone sottoposte a chemioterapia e alle persone affette da
particolari patologie quali il morbo di Alzheimer, l’epilessia la sindrome di Down.
La pensione di inabilità spetta alle persone totalmente inabili al lavoro in modo
permanente e che si trovano in stato di bisogno come recita il primo comma
dell’art. 38 della Costituzione. Deve trattarsi di lavoratori dipendenti o autonomi
62
con assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualunque attività
lavorativa che abbiano versato almeno 5 anni di contributi ed è richiesta anche
la cancellazione dagli elenchi di categoria o albi professionali inoltre è
incompatibile con ogni altro trattamento sostitutivo o integrativo della
retribuzione. L’importo varia in base all’anzianità contributiva. Nel caso in cui i
destinatari della misura non siano in grado di camminare senza l’aiuto
permanente di un accompagnatore e abbiano bisogno di assistenza continua
per compiere le normali attività quotidiane gli stessi maturano il diritto a ricevere
un assegno di accompagnamento, sempre a carico dell’INPS, che viene
sospeso nei periodi di ricovero in istituti pubblici il cui importo è identico a
quello previsto per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro diviso in 12
mensilità.
Esiste infine l’indennità mensile di frequenza che è un assegno dell’INPS a
favore degli invalidi civili minori di 18 anni per agevolare l’inserimento dei
ragazzi nelle scuole, nei centri di formazione o di addestramento professionale
e nelle strutture educative, riabilitative e terapeutiche accreditate; ha un importo
di circa 250,00 euro erogata per il periodo di effettiva durata del corso o
trattamento.
La legge 104/1992 da diritto ai portatori di handicap grave di usufruire di
agevolazioni tributarie e fiscali e di agevolazioni per i loro familiari, per i soggetti
63
diversamente abili esiste un sistema che favorisce il loro inserimento e
integrazione nel mondo del lavoro (legge 68/1999).
Dall’esame completo di questi strumenti di sostegno emerge chiaramente la
natura categoriale del nostro sistema di welfare che non tiene in nessun conto
però, la disponibilità di risorse economiche dei destinatari vanificando così in
parte la finalità redistributiva dei trasferimenti di cui si trova a beneficiarne
anche chi, pur in una situazione di disagio relativo, non ne avrebbe bisogno.
64
2.3 Le politiche per il sostegno del reddito a livello centrale.
Il reddito minimo d’inserimento (RMI) introdotto con la legge finanziaria del
1998 e con il successivo decreto 237/98, ha riguardato inizialmente 39 Comuni
ed era stato proposto come misura per la lotta alla povertà e destinato ai
capofamiglia “impossibilitati a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali
al mantenimento proprio e dei figli ed esposti al rischio della marginalità”.
L’Italia nel prevedere questa misura assistenziale si era ispirata al Revenu
Minimum d’Insertion francese [Paugam, 1993]. Il RMI, pur consistendo in un
beneficio economico non molto elevato e nonostante fosse sottoposto a vincoli
più stringenti, rispetto agli altri paesi europei, ha rappresentato per l’Italia una
novità assoluta. Al suo finanziamento pensava il Fondo per le politiche sociali
in massima parte e per il restante i singoli Comuni. I possibili destinatari
dovevano possedere i seguenti requisiti: essere cittadini italiani o Ue residenti
da almeno 12 mesi o se extra Ue residenti, da almeno tre anni; la durata
dell’intervento era di 12 mesi rinnovabile in caso di condizioni economiche
invariate. Per quest’ultime si teneva conto del reddito non del singolo soggetto,
ma del nucleo familiare e del suo patrimonio. E’ importante rilevare come la
condizione
italiana
riguardo
all’assistenza
sociale
alla
vigilia
della
sperimentazione del RMI fosse molto diversificata: non solo i criteri di accesso
alle prestazioni erano differenti per categorie, ma anche i finanziamenti
stanziati lo erano. Possedere un reddito inferiore alla soglia minima (diversa da
65
regione a regione) non significava poter fruire di un sussidio pari alla differenza
fra il proprio reddito e il minimo vitale, il beneficio economico dipendeva dal
potere
discrezionale
particolarmente
degli
stringenti
operatori
sociali
e
da
vincoli
[Kazepov,
2011].
Osservando
di
i
bilancio
programmi
d’inserimento sviluppati a livello locale, è evidente come al sud siano stati più di
natura socio-assistenziale rispetto al nord dove hanno prevalso i programmi
legati al mercato del lavoro. Con la legge 328/2000 questa misura avrebbe
dovuto essere estesa a tutto il territorio nazionale, ma così non è stato; tuttavia
nel 2001 i Comuni sono diventati 268 per poi arrivare a 300. Nella
sperimentazione sono emerse però diverse criticità [Kazepov, 2011]:
 Eccessivo
potere
discrezionale
dei
Comuni
nel
gestire
la
sperimentazione per la mancanza di direttive chiare;
 Poco coordinamento interistituzionale;
 Sottovalutazione della problematica del lavoro nero;
 Non adeguate competenze del personale preposto ;
 Incapacità di favorire il reinserimento lavorativo dei beneficiari;
 Incapacità a creare nuove reti di coordinamento fra gli attori locali nei
territori che ne erano privi;
 Mancato coinvolgimento delle Regioni e delle Province.
Una misura introdotta parallelamente alla sperimentazione del RMI è stata nel
1999 come una tantum “l’assegno per i nuclei familiari a basso reddito con
66
almeno tre figli minori” che ha inciso soprattutto sull’intensità della povertà più
che sulla sua riduzione per la scarsa consistenza del beneficio [Saraceno,
2002; Sabatinelli, 2009].
Da allora fino ad epoche molto recenti si è registrata un inversione di tendenza;
infatti nel 2002 il governo e le parti sociali hanno sottoscritto il “ Patto per
l’Italia” con il quale hanno preferito concentrare gli interventi verso gli altri
ammortizzatori sociali e le pensioni perché si è ritenuta non riuscita la
sperimentazione del reddito minimo d’inserimento [S. Gobbetti e L. Santini,
2012]. Nel 2003 è stato interrotto il suo finanziamento, che avrebbe dovuto
essere sostituito del Reddito di Ultima Istanza, così come indicato dal Libro
Bianco sul Welfare; ma così non è stato. La legge finanziaria (Legge 350/2003,
art. 3 ) prevedeva un concorso dello Stato al finanziamento nelle Regioni che
avessero istituito il RUI; ma la Corte costituzionale ne ha sancito l’illegittimità.
Negli anni successivi nessun nuovo intervento normativo a carattere nazionale;
in
merito solo proposte rimaste tali come il Disegno di legge 2806 del
30/6/2011 per “il Reddito minimo di cittadinanza” presentato da Di Giovan
Paolo e da altri senatori.
Da cui la necessità, per molti, di affiancare un altro strumento di carattere
universalistico anche se selettivo nell’erogazione ai fini della lotta per
l’esclusione sociale sull’esempio, riveduto e corretto del reddito minimo
67
d’inserimento (RMI)
introdotto con la legge finanziaria del 1998 e con il
successivo decreto 237/98.
Una nuova proposta di legge di iniziativa popolare per il reddito minimo
garantito, è stata consegnata al Presidente della Camera il 15 aprile 2013.
2.4 Sperimentazioni di reddito minimo a livello locale
In seguito alla fine della sperimentazione del RMI, molte Regioni hanno
intrapreso iniziative in tal senso anche in considerazione delle linee guida
europee. Solo in alcune però, al dibattito, all’approfondimento della questione,
agli studi di fattibilità o alle proposte di legge sono seguiti provvedimenti
legislativi anche se limitati nel tempo e nella capacità di intervento finanziario.
Tra queste la Campania che con la legge Regionale 2/2004 aveva istituito il
“Reddito di Cittadinanza. Contrasto alla povertà ed all’esclusione”. Beneficiari di
questa misura i nuclei familiari comunitari ed extracomunitari con un reddito
inferiore ai 5000 euro e residenti da almeno 60 mesi. Il beneficio veniva
accordato su domanda degli interessati. Dai 74 milioni di euro stanziati per il
primo e il secondo anno si è scesi progressivamente fino all’epilogo nel 2009
con 0 euro di fondi stanziati e l’annullamento del sostegno di 350 euro alle circa
18.000 famiglie in stato di indigenza per la cancellazione dal bilancio regionale
del Reddito di cittadinanza.
68
In Molise, con la legge Regionale 2/2012, è stato approvato l’introduzione in via
sperimentale del reddito minimo di cittadinanza e nel
mese di aprile dello
stesso anno è stato deliberato dalla Giunta il regolamento attuativo che ha
previsto, per un periodo massimo di 12 mesi, un contributo economico ai nuclei
familiari particolarmente bisognosi scelti sulla base di appositi criteri.
La Regione Basilicata, nel 2005, con apposita legge Regionale 3/2005, aveva
approvato un provvedimento sulla “Cittadinanza Solidale. Contrasto alla
povertà e all’esclusione sociale” destinato alle famiglie residenti da almeno 24
mesi con un reddito inferiore a specifici livelli rapportati al numero dei
componenti il nucleo familiare per un periodo non superiore a due anni.
L’accesso era stato previsto su domanda degli interessati e condizionato
all’accettazione di un lavoro anche temporaneo. Nel tempo questa misura, per
la scarsità dei fondi è venuta meno.
La Valle D’Aosta è stata tra le prime regioni ad adottare una norma in materia
di assistenza economica attraverso la legge 19/1994 sul “Minimo vitale” con
interventi a favore sia di nuclei familiari che di singoli sprovvisti di reddito, per
un periodo predeterminato, sufficiente a risolvere il disagio economico. Nel
2010, una successiva legge la 23/2010 ha abrogato la precedente prevedendo
l’erogazione di un sostegno economico ”al fine di prevenire, superare, ridurre e
rimuovere le condizioni di bisogno e gli ostacoli di ordine economico e sociale”
consistente in un “assegno di cura per l’autonomia, titoli di acquisto di servizi e
69
contributi economici” previa una valutazione dell’assistenza sociale e per un
tempo limitato.
Nel Fruili Venezia Giulia la legge regionale 6/2006 aveva introdotto all’art. 59 il
“Reddito di base e progetti di inclusione per la cittadinanza sociale” ma con la
legge regionale 9/2008 lo stesso articolo è stato abrogato introducendo il
“Fondo per il contrasto ai fenomeni della povertà e disagio sociale”; di
conseguenza la sperimentazione che sarebbe dovuta durare 5 anni è finita
dopo circa 9 mesi. Si trattava di una misura universalistica di tipo selettivo
basata
sui
principi
responsabilità
e
della
della
temporaneità,
personalizzazione
della
degli
tempestività,
interventi.
della
co-
Prevedeva
un’erogazione monetaria mensile di importo variabile cumulabile ossia poteva
essere associato ad altri interventi o prestazioni con l’obiettivo di coinvolgere
anche i Centri per l’impiego i CAF e i Patronati. Dall’analisi dei dati raccolti nei
pochi mesi di attuazione del reddito di base [Dessi, 2009] è emerso che i
beneficiari erano stati prevalentemente nuclei di cittadinanza italiana con una
prevalenza di donne e una concentrazione nella fascia di età tra i 36 e i 45
anni ossia popolazione in età lavorativa. In particolare disoccupati o in cerca di
prima occupazione il 55,8% e lavoratori con redditi al di sotto della soglia
minima il 18,7%.
Nel Lazio, attraverso la legge 4/2009, era stato istituito il “Reddito minimo
garantito per inoccupati, disoccupati, precariamente occupati” ossia per coloro
70
che erano al di sotto degli 8000 euro l’anno, erano residenti da almeno due
anni e erano iscritti al Centro per l’impiego. Per la concessione del beneficio
era stata prevista la formazione di una graduatoria che selezionava gli aventi
diritto, e anche un sostegno per l’affitto, i trasporti e le cure mediche. Purtroppo
dopo due anni la Giunta non ha più disposto il finanziamento. L’elemento di
novità dell’intervento normativo laziale era rappresentato dal riconoscimento
della necessità di tutelare anche i soggetti precariamente occupati che
rischiano di continuo l’esclusione sociale. Così facendo non si cercava, come
negli altri casi, di fronteggiare situazioni di povertà o di estremo disagio del
nucleo familiare, ma ci si rivolgeva a singoli soggetti a rischio che si trovavano
sovente a passare dallo stato di disoccupazione a quello di occupazione e
viceversa . Ulteriore elemento di distinzione di questa norma era la facoltà
concessa al titolare del diritto di non accettare quelle offerte di lavoro che non
erano coerenti con la propria professionalità e competenza . L’aspetto non
meritorio era però l’aver previsto la formazione di una graduatoria degli
aspiranti beneficiari, in barba al principio universalistico, graduatoria che ha
permesso di escludere molti sulla base delle risorse stanziate dalla regione
[Santini e Del Pico, 2012].
Nel Trentino Alto Adige le
Province autonome di Trento e Bolzano hanno
disposto efficaci strumenti normativi per il sostegno al reddito. In particolare la
Provincia di Bolzano ha approvato con la legge 13/91 la concessione, su
71
domanda, di un sostegno economico a chi si trova in uno stato di necessità,
non risolvibile con l’aiuto di altri soggetti, per un importo variabile in base al
numero dei componenti il nucleo familiare e ad altri parametri denominandolo
reddito minimo d’inserimento. In aggiunta sono state concesse agevolazioni
nella fruizione di alcuni servizi sociali. Nel tempo questi interventi sono stati
mantenuti e secondo i dati forniti dalla Provincia nel 2012 sono stati erogati più
di 25 milioni di euro per l’assistenza economica sociale, in particolare i
beneficiari del reddito minimo d’inserimento sono risultati essere per il 52%
disoccupati e per il 27% occupati con un reddito insufficiente; sul totale degli
aventi diritto il 39,4% sono stati cittadini extra comunitari. In base alla tabelle
del 2013 l’ammontare del sostegno è variabile in base al numero dei
componenti il nucleo familiare e parte da circa 600 euro.
La Provincia di Trento, con due interventi normativi successivi ha deliberato per
un Reddito di garanzia volto al soddisfacimento dei bisogni primari attraverso
un’erogazione monetaria per famiglia a determinate condizioni: la residenza da
almeno tre anni e la sottoscrizione di un impegno alla ricerca attiva e alla
disponibilità
immediata
al
lavoro.
Nel
novembre
del
2012,
con
un
emendamento, la Giunta provinciale ha esteso le misure previste dal Reddito di
garanzia alle persone in possesso di una partita IVA che perdono lavoro
determinando quindi un ampliamento della platea dei beneficiari che fa
avvicinare il Trentino ai Paesi più avanzati del Nord Europa.
72
La Regione Sicilia sembra intenzionata a costituire un fondo anti povertà che
dovrebbe essere finanziato in parte con i risparmi derivanti dalla soppressione
delle nove province; così come deliberato dalla Giunta presieduta dal
Governatore Crocetta.
La chiusura delle varie sperimentazioni a livello locali sono state originate, in
molti
casi, all’alternarsi
delle
maggioranze
politiche
alla
guida
delle
amministrazioni ossia al subentro di una maggioranza di centro- destra e ad un
cambiamento di rotta ossia al maggior favore verso interventi tradizionali di tipo
categoriale piuttosto che l’adozione
una politica organica di contrasto alla
povertà. Da parte sua lo Stato si è quasi sentito autorizzato a non impegnarsi
nella lotta alla povertà in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione con
la quale sono aumentate le competenze in materia di assistenza sociale delle
Regioni. Occorre notare poi che in molti dei provvedimenti presi a livello locale
viene usato il termine sperimentazione per indicare soprattutto la provvisorietà
della misura soggetta a troppi vincoli di bilancio e all’incertezza sulle risorse a
disposizione a medio termine. Tutto ciò ha comportato l’inesistenza attuale di
strumenti in grado di combattere efficacemente sul versante della lotta alla
povertà e non è neanche chiaro quanto le classi dirigenti e l’opinione pubblica
siano consapevoli delle dimensioni del problema.
Degli interventi locali adottati solo il RG di Trento e il RdB del Friuli Venezia
Giulia hanno optato per un universalismo selettivo rivolgendosi ai residenti e
73
avendo riguardo al reddito familiare, alle soglie di povertà equivalenti che
tengono cioè conto della diversa composizione del nucleo familiare e l’importo
erogato è pari alla differenza fra la soglia di povertà e il reddito familiare. Solo il
Reddito di Garanzia però può essere considerato una misura strutturale.
Un dato che accomuna tutte queste esperienze è l’accessibilità a domanda che
trascura completamente il caso dei falsi negativi: ossia di coloro che ne
avrebbero diritto, ma non ne fanno richiesta per ignoranza o altro; gli sforzi
sono tutti rivolti a evidenziare i falsi positivi ossia coloro che ne usufruiscono
indebitamente. Comportamento del tutto opposto se confrontato con quello di
altri paesi europei che denota il nostro ritardo in termini di coscienza civica
[Spano, Trivellato e Zanini, 2013].
2.5
Un caso su tutti: Trento
Il caso della Provincia di Trento merita un’analisi più approfondita per le
caratteristiche assunte dal reddito di garanzia come strumento di sostegno e di
lotta all’esclusione sociale.
La Provincia autonoma di Trento ha introdotto il Reddito di Garanzia con la
Delibera della Giunta n. 2216 del 11 settembre 2009 ; è una misura volta ad
innalzare il reddito delle famiglie portandolo ad una soglia minima prestabilita.
Non si tratta di un sussidio a cifra fissa, bensì di un’integrazione economica pari
alla differenza tra la soglia minima prefissata e il reddito familiare disponibile
74
effettivo. La soglia minima di reddito familiare annuo disponibile è stata fissata
in € 6.500 equivalenti, ossia riferiti ad una famiglia composta di una sola
persona.
Il RG si caratterizza per essere, a differenza delle altre esperienze locali, uno
strumento strutturale tendenzialmente permanente oltre che un programma
universale e selettivo al tempo stesso. Si basa, infatti, su regole uguali per tutti
(e quindi non limitato ad alcune specifiche categorie di persone, siano essi
anziani o altri gruppi sociali), che subordinano la concessione del sussidio ad
accertamenti su reddito e patrimonio di chi richiede il beneficio. Inoltre il RG non
è condizionato all’eventuale esaurimento dei fondi pubblici disponibili, in modo
da garantire l’adeguata copertura a tutte le famiglie che si trovassero nella
condizione di bisogno. Per il computo della condizione economico-patrimoniale
la Provincia autonoma di Trento ha adottato l’Icef (Indicatore della Condizione
Economica Familiare). Si tratta di un indicatore che tiene conto della
composizione familiare, dei patrimoni mobiliari e immobiliari, oltre che dei redditi
percepiti nell’anno fiscale precedente, siano essi derivanti da pensioni, da
lavoro (dipendente o autonomo), da CIG(S) o da indennità di disoccupazione e
di mobilità. Inoltre, allo scopo di contrastare episodi di povertà, anche solo
temporanei, l’Icef considera eventuali cambiamenti significativi che riducono
involontariamente l’attività lavorativa. Non rientrano però nel computo eventuali
agevolazioni tariffarie, né altri trasferimenti pubblici, come quelli intesi a ridurre i
75
costi del riscaldamento o ad abbattere gli interessi su eventuali mutui edilizi.
L’Icef di fatto sostituisce in Trentino l'indicatore Isee (Indicatore della Situazione
Economica Equivalente) che è l'analogo strumento utilizzato a livello nazionale.
L’indicatore Icef è un numero puro e scaturisce dalla “normalizzazione” del
reddito equivalente rispetto ad un valore fisso stabilito in € 50.000. In questo
modo l’indicatore Icef corrispondente a € 6.500 è identificato dal valore 0,13
(dato dal rapporto 6.500/50.000), che rappresenta la soglia massima per
l’accesso all’intervento.
La normativa che regola il Rg non si limita a interventi di tipo monetario;
prevede anche misure di “attivazione” e “reintegrazione” nel mercato del lavoro
per i membri del nucleo idonei all’attività lavorativa. Ciò si concretizza,
innanzitutto, nella sottoscrizione di una dichiarazione di disponibilità immediata
all’accettazione di un lavoro presso i Centri per l’Impiego, pena l’esclusione dal
programma per un periodo considerevole di tempo. Inoltre, per incentivare
ulteriormente gli sforzi di uscita dalla condizione di povertà, dovuta alla
disoccupazione, i beneficiari della misura che trovano un nuovo impiego, da cui
ottengono un reddito tale da porli al di sopra della soglia di ammissibilità dei €
6.500 annui, ricevono un incentivo monetario pari a due mensilità del beneficio
in precedenza concesso. Tale incentivo viene corrisposto allo scadere del primo
anno di attività lavorativa ininterrotta.
76
Previa verifica dei requisiti richiesti, l’integrazione economica viene concessa
per 4 mesi consecutivi, trascorsi i quali, nel caso in cui le condizioni di
ammissibilità permangano, occorre presentare apposita domanda di rinnovo del
beneficio. Il rinnovo è previsto, di norma, per tre volte, ossia per un massimo di
16 mesi nell’arco di due anni. Sono tuttavia possibili, estensioni del periodo
massimo concesso quando, ad esempio, le condizioni economico-patrimoniali
permangano inferiori alla soglia di povertà, allorché tutti i componenti idonei al
lavoro risultino occupati o in cerca di occupazione. La domanda risultata
idonea, in un certo mese, dà diritto alla riscossione del trasferimento monetario
dal mese successivo.
La normativa che regola il RG ha subito un’importante modifica meno di un
anno dopo la sua istituzione con la Delibera della Giunta Provinciale n. 1524 del
25 giugno 2010. La correzione più considerevole ha riguardato un integrazione
della cosiddetta prova dei mezzi: per misurare la condizione economicopatrimoniale, per ogni famiglia richiedente si deve calcolare un livello minimo di
consumi sulla base di indicatori ISTAT che tengono conto del numero di
componenti familiari e della disponibilità di beni che comportano non trascurabili
spese di gestione come l’alloggio e l’automobile. Sulla base di ciò viene
imputato alla famiglia un reddito minimo sotto il quale la famiglia non sarebbe in
grado di permettersi tali beni e questo viene confrontato con l’indicatore Icef.
Allo scopo di evitare che eventuali redditi non dichiarati (come ad esempio
77
quelli da lavoro irregolare) provochino una sottostima dell’effettivo stato di
povertà della famiglia richiedente, per la verifica dell’ammissibilità e per il
calcolo del beneficio monetario viene, dunque, considerato il massimo tra i due
valori.
Nel novembre del 2012, come affermato in precedenza, la Giunta provinciale
ha esteso le misure previste dal Reddito di garanzia alle persone in possesso
di una partita IVA che perdono lavoro determinando quindi un ampliamento
della platea dei beneficiari che fa avvicinare il Trentino ai Paesi più avanzati del
Nord Europa.
Dall’analisi effettuata dall’Irvapp (Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche
pubbliche), pubblicata nel dicembre del 2011 a due anni dall’introduzione del
Reddito di Garanzia è possibile ricavare alcune informazioni. Per la valutazione
è stato utilizzato un campione di 600 famiglie che hanno avuto accesso al Rg
confrontate con un altro campione di 900 famiglie con un reddito disponibile
equivalente maggiore di poco ai 6500 euro annui. Relativamente ai beneficiari,
emerge chiaramente come tra le famiglie che usufruiscono della misura, una su
due risulti composta da almeno un componente di cittadinanza non italiana.
Considerando che nella popolazione della Provincia di Trento il numero di
cittadini stranieri risulta inferiore al 9%; l’elevata frequenza potrebbe essere
legata al fatto che, rispetto alla popolazione trentina, le famiglie beneficiarie di
RG risultano particolarmente ampie. Molto interessante è l’analisi della
78
permanenza delle famiglie nel programma, che consente infatti di capire se gli
episodi di povertà che il RG riesce a combattere sono di natura prettamente
transitoria o invece di periodo più lungo. Appare evidente che, tra le
beneficiarie, una famiglia su quattro ha richiesto l’intervento soltanto in
un’occasione, ossia per non più di 4 mesi, e che il 50% delle famiglie rimane
beneficiaria di RG per almeno un anno, ossia ne fanno richiesta per almeno 3
volte. Appare altresì non trascurabile che quasi il 15% delle famiglie ne hanno
beneficiato per 5 volte, ossia sono risultate beneficiarie per 20 mesi. Ciò
evidenzia che la misura non copre solo una fascia di popolazione colpita da
episodi temporanei di indigenza ma anche una non ristretta quota di famiglie
strutturalmente povere. Le famiglie il cui richiedente è cittadino straniero hanno
una permanenza maggiore all’interno del beneficio rispetto alla famiglie in cui lo
stesso sia italiano. Allo stesso modo le famiglie dove sono presenti minori
sembrano avere più difficoltà ad uscire dal programma rispetto alle famiglie di
soli adulti.
I primi dati raccolti attraverso questionari somministrati ai beneficiari e
analizzandoli particolari tecniche econometriche, mostrano che i destinatari
della misura provengono in massima parte dalla fascia della popolazione più
deprivata che utilizza la misura innanzitutto per i bisogni primari quali nutrirsi in
modo adeguato. Essi sono venuti a conoscenza del RG soprattutto attraverso
reti amicali e parentali e mediante il terzo settore Dopo due anni
79
dall’introduzione del RG l’effetto sul consumo di beni durevoli è considerevole
visto che gli stessi risultano cresciuti dell’80%.
Più deludenti gli effetti sulla partecipazione al mercato del lavoro che non
mostra cambiamenti apprezzabili anche se si registra un effetto di attivazione
sugli immigrati e una minore probabilità di rimanere senza lavoro per i
beneficiari di nazionalità italiana [Spano, Trivellato e Zanini,2013].
Queste interessanti valutazioni spingono a pensare che i comportamenti e le
condizioni di vita dei beneficiari della misura si sono modificate anche se
occorre considerare anche l’andamento congiunturale e che forse la parte non
monetaria dell’intervento vada ripensata per renderla più efficace.
A tre anni e mezzo dalla sua implementazione l’esperienza trentina dimostra
[Schizzerotto e Trivellato, 2013] che è possibile istituire misure serie contro la
povertà basate sul criterio dell’universalismo selettivo senza far saltare i bilanci
pubblici; infatti il costo medio stimato è di meno di 3 euro al mese per residente.
Condizioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi sono modulare
l’ammontare e la durata delle erogazioni in rapporto alla consistenza dei reali
bisogni dei beneficiari, controllare con sistematicità il rigoroso rispetto delle
condizioni di ammissibilità alla misura e accompagnare il sostegno monetario
con interventi di attivazione rispetto al mercato del lavoro. Altrettanto necessario
risulta essere una valutazione tecnica in itinere sugli effetti della misura per
aumentarne l’equità e l’efficacia.
80
Il Reddito di Garanzia sembra rappresentare una significativa innovazione in
senso universalistico del sistema di welfare del nostro Paese.
81
Capitolo 3: L’istituzione del reddito minimo
per il rispetto della dignità umana
Sommario: 3.1 Il reddito da lavoro e il reddito sociale: una questione non solo
terminologica. – 3.2 Lo stato del welfare e gli interventi strutturali necessari. –
3.3 Come assicurare il rispetto della dignità umana sancito dalla Costituzione. –
3.4 Tutela della dignità e reddito minimo garantito
3.1 il reddito da lavoro e il reddito sociale: una questione
non solo terminologica
Il termine reddito viene usato spesso indistintamente, ma può esprimere
significati molto diversi: nell’ambito del lavoro lo si può intendere come
corrispettivo di una prestazione lavorativa prestata a vari livelli ( salario,
stipendio o compenso ), come salario minimo ossia compenso minimo stabilito
dalla contrattazione collettiva o dalla legge e come reddito giusto in
ottemperanza all’art. 36 della Costituzione, ossia proporzionato alla quantità e
alla qualità del lavoro svolto. Negli altri casi sarebbe meglio parlare di reddito
sociale inteso come reddito slegato dal lavoro, ma dipendente da altri fattori
incentrati sulla persona in quanto membro di una collettività. E’ quest’ultimo che
82
può assumere il significato di reddito di cittadinanza o di reddito minimo
garantito o ancora di reddito di base.
Le sperimentazioni italiane sia a livello centrale con il reddito d’inserimento che
quelle regionali
vanno comprese nella sottocategoria del reddito sociale.
Rivendicare forme di reddito sociale però non dovrebbe diventare un alibi per
diminuire le tutele dei lavoratori come alcuni teorici liberali sostengono,
affermando che l’adozione di strumenti di sostegno al reddito potrebbero
agevolare l’istaurarsi di un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario.
L’istituzione di un reddito sociale non si
significherebbe
dare qualcosa in
termini economici per togliere altro in termini di diritti, d’altro canto in Italia la
destrutturazione del diritto del lavoro si sta già verificando4 pur in mancanza di
una qualunque forma di reddito sociale.
Negli Stati a Costituzione lavorista, come il nostro, il lavoro rappresenta
sicuramente un principio cardine (articoli 1 e 4 ) attraverso il quale la persona
partecipa al progresso della società e dove è compito delle Istituzioni rimuovere
gli ostacoli che impediscono l’accesso o il mantenimento ad un lavoro dignitoso.
Ciò non di meno, un reddito sociale sarebbe auspicabile in tutti quei casi in cui
lo Stato non riesca ad onorare l’impegno ( previsto dall’art.4 della Costituzione
) come forma di tutela al cittadino liberandolo così almeno in parte dal ricatto
del lavoro a qualunque costo e condizione e rafforzando il suo potere sociale.
4
pensiamo alla Riforma Fornero, alla possibilità del contratto aziendale di derogare al contratto
collettivo o alla legge
83
Fumagalli sostiene [Fumagalli, 2013] che il lavoro non può più essere
considerato un bene comune ma un male comune perchè non si è liberi di
scegliere, ma si è costretti a lavorare per vivere e svolgere un’attività lavorativa
che in un’ epoca di capitalismo cognitivo coinvolge l’insieme delle facoltà
umane ossia sia quelle fisiche che quelle mentali.
Il capitalismo contemporaneo, ha sostituito infatti, il capitalismo industriale che
si è caratterizzato nel primo periodo per la parcellizzazione delle mansioni
operaie secondo il taylorismo con la conseguente dequalificazione della forza
lavoro. Attualmente si può parlare più propriamente di “declassamento”
intendendo
con
questo
termine
il
peggioramento
delle
condizioni
di
remunerazione e di impiego rispetto alle qualificazioni e alle competenze
certificate del lavoratore.
Il lavoro cognitivo per la sua stessa natura consiste infatti nella combinazione
di più attività quali quella di riflessione, di comunicazione, di
scambio
relazionale di conoscenza e di saperi che si svolge tanto all’interno quanto al di
fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Prima il salario era la
contropartita dell’acquisto da parte del datore di lavoro di una frazione di tempo
umano ben determinata messa a disposizione dell’azienda; allorché il lavoro
diventa più cognitivo e lo stesso non può più essere ridotto ad un dispendio di
energia effettuato in un tempo determinato il salario si presenta non più
rispondente allo sforzo prodotto nella produzione. Ed è attraverso la
84
precarizzazione del rapporto salariale che
il capitale cerca di imporre e di
beneficiare della subordinazione totale dei lavoratori senza riconoscere e senza
pagare il salario corrispondente al tempo non integrato e non misurabile nel
contratto di lavoro. Ciononostante il lavoro è sempre più considerato al pari di
qualsiasi altra merce: il paradigma lavoro - reddito in grado di garantire un’
esistenza libera e dignitosa è tuttavia fallito, come dimostrano numerose
evidenze empiriche5.
Fino a pochi anni fa la distinzione fra occupati dipendenti, occupati autonomi,
disoccupati e popolazione non attiva era netta, oggi è sfumata e confusa perché
non basta dire lavoratore dipendente occorre specificare se a tempo pieno o
parziale, se a tempo indeterminato o con un con uno dei tanti contratti a tempo
determinato. Fra gli autonomi va specificato se con partita Iva che lavora per un
unico datore di lavoro o svolge attività imprenditoriale vera e propria. Nella
categoria degli inoccupati sono compresi anche coloro che svolgono un lavoro
non retribuito nel sociale o soltanto in cambio di vitto e alloggio, infine una
massa consistente di persone oscilla fra lavoro e non lavoro per il perdurare di
rapporti di lavoro precari. Ne possono essere considerati disoccupati solo quelli
che nelle ultime quattro settimane hanno cercato attivamente lavoro, ma anche
coloro che sono disponibili, anche se non hanno fatto una ricerca attiva in tal
senso e coloro che lo cercano, ma non sono immediatamente disponibili e i
5
ISTAT, Rapporto annuale 2013
85
sottooccupati. Tenendo conto di tutte queste variabili il fenomeno della
disoccupazione assume dimensioni molto più consistenti 6. Rispetto alla media
europea in Italia il fronte degli scoraggiati è notevolmente più elevato mentre il
tasso di disoccupazione non si discosta molto dai valori medi.
Andando poi ad analizzare la categoria degli occupati l’orario di lavoro medio è
più alto se paragonato agli altri paesi europei e si lavora per un periodo più
lungo per l’innalzamento dell’età pensionabile. Per Carra [Carra A., 2013] tale
situazione è una delle conseguenze della mondializzazione che ha prodotto una
diminuzione delle distanze economico sociali tra i paesi facendo emergere i
paesi dell’est-asiatico e dell’America latina, ma anche un aumento delle
diseguaglianze all’interno dei singoli paesi soprattutto di quelli più avanzati per
principalmente due fattori: lo spostamento della ripartizione del reddito verso il
capitale per le crescenti dosi di capitale investito nell’innovazione tecnologia e
la delocalizzazione delle produzioni in paesi a basso costo del lavoro con la
conseguenza di abbattere i redditi medio bassi nei paesi avanzati.
Certo è che in difficoltà si trova sia chi il lavoro non ce l’ha sia una parte di chi
lavora, ma lo fa in modo precario senza continuità o per un orario ridotto e
anche una parte, sempre più numerosa, di chi lavora regolarmente. Nemmeno
può continuare ad essere ignorata la parte che non riesce ad inserirsi in nessun
modo nel mercato del lavoro sperando ancora che le famiglie facciano “da
Dal confronto tra il 2007 e il 2012 a fronte di 1506 “disoccupati” il totale era di 4553 e nel 2012
a fronte di 2744 “disoccupati” il totale era di 6435 unità.
6
86
materasso” come in passato: le condizioni economiche, nel frattempo, si sono
logorate e gran parte dei risparmi familiari si sono ridotti fortemente la necessità
di far fronte alle spese correnti.
Infine la risoluzione di questi problemi non può neanche passare solo
attraverso incentivi alle imprese affinchè assumano, ancora una volta particolari
categorie, creando l’impossibilità agli altri di lavorare perché non convenienti
fiscalmente. Si finirebbe solo per creare ulteriori divisioni e “ lotte fra poveri”
senza grandi risultati. Basti pensare alla recente decisione del governo Letta di
incentivare le assunzioni
7
rivolta ai giovani disoccupati che non abbiano un
impiego regolarmente retribuito da più di 6 mesi, non abbiano un diploma o una
qualifica professionale e vivano da soli o abbiano familiari a carico: tali limiti?
ancora una volta producono l’effetto di creare una sottocategoria di “privilegiati”,
ignorando tutti gli altri.
Non vanno rivisti solamente i concetti di “occupato” e “non occupato” alla luce
del ragionamento svolto finora, ma anche quelli di “produzione della ricchezza”
e “distribuzione” giacchè la ricchezza sociale è prodotta sia da lavoratori
remunerati che non remunerati e il capitale sociale è prodotto non solo da chi si
forma col lavoro ed in azienda ma anche da chi si auto forma nel tempo libero o
di non lavoro. Occorre quindi rivedere la relazione lavoro-reddito; Gorz
sosteneva negli anni ’90 [Gorz, 1992] che occorrerebbe garantire a ogni
7
Decreto legge 76/2013
87
persona il diritto di lavorare ma sempre meno e sempre meglio ricevendo per
intero la propria quota della ricchezza socialmente prodotta. Istituendo
un
reddito sociale la ricchezza prodotta potrebbe essere distribuita non solo a
coloro che contribuiscono a produrla con il lavoro prestato nel mercato creando
valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e
di cura che generano valori d’uso non remunerati facendo emergere e
valorizzando le attività di lavoro domestico in ambito familiare e il volontariato.
Sicuramente bisognerà rendere più efficiente il mercato del lavoro, tenendo in
giusta considerazione tutte le fasce d’età e anche chi il lavoro non ce l’ha mai
avuto (le persone in cerca di prima occupazione sono sicuramente la parte più
trascurata) così come cercando di far funzionare al meglio i Centri per l’impiego.
In tale situazione un reddito di base incondizionato si presenterebbe al tempo
stesso come un reddito primario per gli individui e un investimento collettivo
della società nel sapere [Fumagalli e Vercellone, 2013].
Il sostegno al reddito di chi si trova in difficoltà risponderebbe all’esigenza di
garantire a tutti i cittadini non solo diritti civili e politici, ma anche diritto sociali
senza i quali non si può pienamente parlare di cittadinanza perché il reddito
minimo garantito si configura come un diritto all’esistenza e come tale rientra fra
i diritti fondamentali. Cittadinanza che, alla luce dell’attuale composizione del
tessuto societario, va sicuramente intesa in senso ampio così da ricomprendere
tutte le persone stabilmente presenti nella società; configurando quindi una
88
platea di destinatari delle misure più grande dove il discriminante sia la
residenza.
3.2 Lo stato del welfare e gli interventi strutturali necessari
Il Welfare state nasce in Europa alla fine del XIX secolo, quando Bismarck,
preoccupato da possibili rivolte della classe operaia, introdusse le assicurazioni
sociali con lo scopo di tutelare il reddito del lavoratore in situazioni di mancanza
di salario a causa di malattie o infortuni; alla base quindi la convinzione che lo
Stato doveva intervenire con politiche di contrasto della povertà per assicurare il
benessere ai lavoratori escludendo però dagli interventi gli altri cittadini. E’.
tuttavia, con Beveridge
8
che lo spazio di azione del diritto al reddito all’interno
dello Stato sociale aumenta con la nascita dell’assistenza sociale e dei diritti di
cittadinanza. Sebbene esistesse un certo sospetto nei confronti di politiche volte
a garantire un reddito minimo ai più poveri, per la paura che potessero
incentivare al non lavoro, fra la seconda metà del ‘900 e i primi anni del XXI
secolo a livello europeo sono stati predisposti strumenti di reddito minimo
garantito
seppur con grandi differenze fra i vari Paesi. Con l’intento di
riassumere la storie delle politiche di reddito minimo in Europa si possono
individuare tre onde: la prima, corrispondente alla fase espansiva dei sistemi di
8
Il Piano Beveridge consegnato a Churcill il 20 novembre del 1942 come progetto di protezione
e politica sociale di due anni precedente all’ altro Piano “ Full employement in a Free Society”
sempre di Beveridge
89
welfare, vede l’adozione di politiche di protezione del reddito come soluzione di
emergenza, la seconda onda di redditi minimi giunge negli anni ’70 in un clima
di crisi economica e crescita della povertà e della disoccupazione per cui alcuni
Paesi decidono di dotarsi di schemi di reddito minimo più incisivi, la terza onda
coincide con la crisi della finanza pubblica e il crescente problema della
disoccupazione che mette in luce i limiti delle politiche precedenti. Si comincia a
parlare di lotta all’esclusione sociale con il “Revenue minimum d’insertion”
francese
e
prende
posizione
anche
l’Unione
europea
come
attore
sovranazionale.
Le origini delle politiche dell’assistenza sociale in Italia vengono fatte risalire al
1890 quando Crispi sottopose le Opere Pie al controllo dello Stato
determinando l’ingresso del pubblico nel settore della protezione sociale fino a
quel momento appannaggio della Chiesa [Ascoli, 84]; successivamente si
assistette ad interventi di natura previdenziale per la copertura dei rischi sociali
che rompevano il legame tra attività lavorativa e reddito analogamente a quanto
si verificò negli altri Paesi europei. Le prime due politiche per il mantenimento
del reddito sono state gli assegni familiari nel 1934 e le pensioni di invalidità nel
1939. Si delinea la natura “categoriale” del nostro sistema di welfare che viene
fatta risalire da Ferrera [Ferrera, 1993] al fallimento, già nei primi del novecento
e alla fine del primo conflitto mondiale, del tentativo di introdurre un sistema di
assicurazioni obbligatorie universalistiche per tutta la popolazione. Gli stessi
90
assegni familiari, pensati inizialmente solo per gli operai, furono riservati alle
sole famiglie povere dei lavoratori dipendenti, successivamente furono estesi
alle altre categorie di lavoratori dipendenti privati e nel 1945 ai dipendenti
pubblici escludendo a tutt’oggi i lavoratori autonomi. Si attuò cioè un sistema di
trasferimenti monetari
alle famiglie di natura categoriale mai venuto meno:
secondo le graduatorie elaborate dall’OCSE a metà degli anni ’90, il nostro
Paese insieme alla Grecia, Spagna , Portogallo, Giappone, Stati Uniti e Irlanda
si collocava in fondo a tutte le graduatorie elaborate in base al livello di tutela
della famiglia assicurata dal sistema di Welfare. Sintetizzando le caratteristiche
delle politiche per il mantenimento del reddito da sempre praticate in Italia, esse
risultano oltre che di natura categoriale, prettamente previdenziali discriminando
quei poveri che non hanno copertura contributiva salvo le pensioni sociali
istituite nel 1969 per gli ultra 65enni, oggi denominate assegno sociale. Tali
politiche tendono a riprodurre le diseguaglianze che si verificano nel mercato
del lavoro in quanto risultano maggiormente protettive nei confronti di coloro
che hanno una migliore posizione occupazionale e scarsamente efficaci negli
altri casi dato che non si avvalgono di strumenti legislativi significativi per la lotta
alla povertà delegando agli enti locali tutto il settore dell’assistenza sociale
[Negri e Saraceno, 1996].
Da tutto si deduce che il nostro Stato è ancora, allo stato attuale dei fatti,
rispetto ai suoi partner europei, indietro nella lotta all’esclusione sociale e non
91
possono bastare piccoli passi occorre farne di decisivi. I dati oggettivi mostrano
una quota crescente di famiglie in grave disagio economico, un Paese in
affanno con le risorse economiche e un sistema di welfare non adeguato e
troppo frammentato. Proprio da quest’ultimo sarebbe bene partire per cercare
di rendere la macchina statale più efficiente ed efficace rispetto agli obiettivi da
raggiungere. Si parla di sua frammentazione in quanto l’Italia sembra sempre
più caratterizzato da due sistemi di welfare ( quello del nord e quello del sud )
aventi caratteristiche molto diverse: al nord un più efficiente sistema di servizi e
di burocrazia pubblica con un terzo settore in crescita e con la presenza del
welfare aziendale; il sud sembrerebbe più assimilabile ad un modello
“particolaristico-clientelare” basato essenzialmente su sussidi monetari con un
sistema di servizi scarso qualitativamente, un terzo settore poco presente e
un’ancora più scarsa presenza del welfare aziendale. Un elemento cresciuto
negli ultimi venti anni è il welfare aziendale rivolto ai dipendenti delle grandi
aziende, per lo più pubbliche o miste e localizzate al centro e al nord [ Ascoli,
Mirabile e Pavolini,2012] : riguarda la sanità, le pensioni integrative, la
formazione altri servizi specifici. Sicuramente produce l’effetto di immettere
risorse aggiuntive, ma rappresenta anche un elemento di ulteriore spartiacque
tra nord e sud.
Proprio dove ci sarebbe maggiormente bisogno di intervento e di sostegno nei
confronti di una situazione sociale che presenta molte problematiche gravi le
92
politiche sociali si rivelano meno efficaci; con il risultato di acuire le differenze
tra le due parti del Paese, a tal punto che si possa addirittura ipotizzare due
diversi tipi di cittadinanza cui corrispondano due diversi pacchetti di diritti 9. Il
contrario di quanto si registra oltralpe, dove le politiche sociali provano a
“compensare” le differenze create da
un
diseguale sviluppo economico
[Ascoli, 2011].
L’Italia investe in percentuale meno risorse in servizi reali (10%) e maggiori
sono i fondi destinati ai trasferimenti monetari (90%): dall’esame poi della
composizione della spesa per il welfare si può notare come la maggior parte sia
rivolta agli anziani attraverso le pensioni e le indennità di accompagnamento e
poco significativa sia invece la spesa
dedicata alle famiglie che vengono
lasciate sempre più sole ad affrontare le varie problematiche che vanno dalla
cura degli anziani non autosufficienti a quella dei minori. Un esempio su tutti:
anziché potenziare il sistema degli asili nido e costruirli dove non ci sono, lo
Stato ha preferito concedere sconti fiscali per chi ricorre al settore privato
delegando la famiglia a provvedere per proprio conto. Emerge quindi il ruolo
strategico della solidarietà familiare in un sistema caratterizzato da un mercato
del lavoro sempre più precario con l’esplosione della disoccupazione e
dell’inoccupazione giovanile. L’evoluzione delle politiche sociali hanno, negli
ultimi vent’anni avvantaggiato la generazione più anziana composta da dirigenti,
9
il livello delle strutture sanitarie che inducono ad una migrazione verso le strutture del centro e
del nord, la minore qualità del servizio e delle strutture scolastiche al sud
93
imprenditori, professionisti e pensionati penalizzando i lavoratori dipendenti, le
persone giovani e i lavoratori temporanei. Il nuovo sistema pensionistico
contributivo sembra inoltre destinato a far aumentare la quota di povertà fra i
futuri pensionati anche in considerazione delle carriere di lavoro irregolari
caratterizzate da un’alternanza di periodi di lavoro a periodi di non lavoro.
Collocandosi in un’ottica universalistica appare necessario cercare di ridurre, se
non eliminare, la frammentazione e superare la struttura del sistema
assistenziale e previdenziale per categorie fondando un sistema omogeneo
territorialmente, che si rivolga a tutti in egual misura: le misure di sostegno
vanno riservate a chi ne ha più bisogno, in modo tale da attuare una vera
politica redistributiva del reddito nel rispetto del dettato costituzionale. Non si
può continuare ad assistere ad un’Italia divisa in due da più punti di vista.
Sul tema della lotta alla povertà e all’esclusione sociale sono stati condotti molti
studi e tutti o quasi pervengono alla conclusione che bisogna partire non dal
mondo del lavoro, ma dalla società nel suo insieme mettendo la persona al
centro degli interventi.
Significa cioè che occorre garantire livelli di vita accettabili a tutti gli strati sociali
intervenendo su ciascuno in
modo diverso, ma col fine di tendere
all’eguaglianza delle opportunità o quanto meno ad una riduzione sostanziale
delle diseguaglianze. Non è forse questo lo spirito del secondo comma dell’art.
3 della Costituzione quando afferma che “E’ compito dello Stato rimuovere gli
94
ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e del primo comma nel
sancire che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”?
Il percorso da intraprendere appare lungo e pieno di ostacoli posti soprattutto
da alcune forze politiche: nell’ambito del il centro destra, fortemente contrari a
interventi di questo tipo: vengono ritenuti inutili, anzi uno spreco di risorse con il
possibile effetto di incentivare al non lavoro. Tali forze appaiono quindi
maggiormente propense a mantenere certi benefit per particolari categorie in
un ottica essenzialmente clientelare.
Occorrerebbe una radicale riforma del welfare che potrebbe condurre anche
all’eliminazione di alcune misure di sostegno categoriali in favore di altre di
segno universalistico,
sull’esempio anche di quanto si sta proponendo in
Svizzera, dove la proposta di referendum per istituire il “reddito di base”
prevede che lo Stato reperisca i fondi tra quelli destinati all’assicurazione
sociale ossia al welfare. Ciò implicherebbe implicando una profonda
trasformazione del sistema di welfare, l’eliminazione degli assegni familiari, dei
sussidi per i malati, delle borse di studio e via dicendo. L’impressione è che vi
sia stata in passato nel nostro paese poca convinzione circa l’urgenza e il
carattere prioritario dell’introduzione di un sostegno al reddito, nell’ambito delle
politiche di welfare; ciò ha impedito di valutarne seriamente la sostenibilità
finanziaria e politica, anche per la mancanza di forza dei “poveri e basta”, che
95
costituiscono una categoria troppo generale sotto-rappresentata nell’arena
politica. In un welfare particolaristico come il nostro la rilevanza delle questioni
si rivela proporzionale solo alla forza della loro rappresentanza corporativa e
non in base all’urgenza di realizzare il benessere dei cittadini[Saraceno, 2002b].
Ora, anche per le dimensioni che sta assumendo il fenomeno della povertà, la
questione è cambiata: una parte sempre più rilevante dell’opinione pubblica è
convinta della necessità di un ruolo più attivo dello Stato nella lotta alla povertà
e all’esclusione sociale.
Il sindacato, ad eccezione della Fiom, nel timore di perdere forza contrattuale,
non spinge in direzione di un reddito minimo garantito, al massimo si dichiara
propenso ad
un reddito di continuità che permetta di superare le difficoltà
economiche fra un contratto e l’altro [Cgil, 2013]. Tale posizione contraria
dipende dalla convinzione che debba essere rispettato il binomio reddito-lavoro
e si accetta con difficoltà di fornire un reddito non finalizzato all’inserimento
lavorativo, inoltre si ritiene che il reddito di base possa influire negativamente
sulla dinamica salariale ( effetto sostituzione ) e ridurre gli ammortizzatori
sociali. In effetti il rischio di una riduzione dei salari in presenza di un reddito di
base è reale, ma basterebbe, per contrastarla, la fissazione di un salario
minimo orario per legge [Fumagalli, 2013]. Certo esiste una forte contiguità tra il
sistema degli ammortizzatori sociali e quello dei redditi minimi sia per il fatto che
le politiche di reddito minimo garantito pur essendo formalmente rivolte a tutti i
96
poveri, sul piano sostanziale, sono principalmente pensate per i poveri abili al
lavoro (tanto è vero che si affiancano al trasferimento monetario misure per
favorire l’inserimento lavorativo); sia
perché le politiche di reddito minimo
vengono in evidenza dal punto di vista legislativo quando le indennità di
disoccupazione sono esaurite.
Nemmeno può dirsi, che la parte politica avversa alla destra sia tutta schierata
a favore di interventi di tipo universalistico.
L’unico fronte abbastanza compatto, in favore di interventi strutturali, ha una
matrice intellettuale, di varia ispirazione, formata in massima parte da sociologi,
economisti e giuristi che hanno dato vita a numerosi gruppi di lavoro i quali
hanno elaborato, secondo una logica di fattibilità, misure di contrasto alla
povertà e all’esclusione sociale. Il passo successivo sarà che le istituzioni
prendano sul serio i risultati di questi lavori per decidere le mosse da
intraprendere nella giusta direzione: sembrava che la presa di coscienza ci
fosse stata, quando il ministro del lavoro aveva dichiarato che, nella “legge di
stabilità 2013”, che sarebbe stata presentata il 15 ottobre, si sarebbe prevista
l’introduzione graduale del SIA (Sostegno per l’Inclusione Attiva), ma così non è
stato.
Alcuni hanno recentemente presentato [Busilacchi, 2013] una proposta per
l’introduzione di un reddito minimo che sia al centro del sistema delle politiche
di tutela del diritto al reddito e si situi alla base di altre politiche intercategoriali
97
da cui prenderebbe il nome ( “reddito minimo intercategoriale”) sull’esempio di
quanto avviene in altri Paesi europei in cui il reddito minimo è alla base di altre
misure. Sembra questo il caso degli ammortizzatori sociali in Francia, Irlanda,
Portogallo, Gran Bretagna, Germania, Estonia, Finlandia e Spagna. In questi
paesi i disoccupati con una certa maturità contributiva accedono a una
indennità di disoccupazione di tipo contributivo, più generosa; una volta esaurita
tale misura o in mancanza dei requisiti accedono ad una indennità di
disoccupazione di tipo assistenziale, più bassa, ed infine a una misura di
reddito minimo a durata illimitata. Secondo la proposta del reddito minimo
intercategoriale i soggetti facenti parte delle categorie bisognose in quanto
poveri o appartenenti ad uno specifico gruppo sociale (anziani, disabili, famiglie
numerose e disoccupati) maturano il diritto ad una prestazione economica
soggetta solo alla prova dei mezzi tramite Isee. Nel caso della contemporanea
presenza di più parametri di bisogno la soglia Isee aumenterebbe e quindi
anche l’importo della misura si alzerebbe. Si potrebbe ottenere, a parere dei
proponenti, il risultato di colmare i ritardi accumulati dal nostro Paese nella
tutela del diritto al reddito e il nostro sistema di welfare si avvicinerebbe ai
principi ispiratori del modello sociale europeo.
3.3 Assicurare il rispetto della dignità umana sancito dalla
Costituzione
98
La Costituzione Italiana manca di dare una definizione chiara del termine
“dignità” al contrario di quanto avviene nell’art. 1 della Legge fondamentale
tedesca in cui si afferma che “ la dignità dell’uomo è intangibile” e che “è dovere
di ogni potere statale rispettarla e proteggerla” e del rilievo attribuito, sia nel
preambolo, che nel testo, alla dignità nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea del 2000 come valore preliminare a quelli di libertà,
eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia. Tuttavia nella Costituzione, la
sua definizione la si può derivare dal principio personalista che informa il nostro
ordinamento. Dalla lettura delle “spiegazioni” predisposte dal Presidium Della
Convenzione Europea che ha redatto La Carta dei diritti sembra che la dignità
costituisca il valore fondante degli stessi diritti dell’individuo quando afferma:
“nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare
pregiudizio alla dignità altrui e la dignità umana fa parte della sostanza stessa
dei diritti sanciti nella Carta. Non può pertanto subire pregiudizio, neanche in
caso di limitazione di un diritto”. Il ruolo assegnato alla dignità farebbe pensare
che non sia possibile nessun bilanciamento tra questo e altri diritti, si
tratterrebbe cioè di un diritto che prevale sugli altri. La Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo (1948) sul piano sociale agli artt. 22 e 25 10 richiama la
10
art. 22: “ogni individuo, in quanto membro della società,ha diritto alla sicurezza sociale,
nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale e in
rapporto con l’organizzazione le risorse di ogni stato, dei diritti economici, sociali e culturali
indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della su personalità, art.25: “ogni individuo ha
diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua
famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure
99
necessità della garanzia di risorse sufficienti per condurre una vita decorosa e
lo stesso fa il patto ONU (1966) all’art.1111. Affermazioni molto autorevoli, ma
contenute quest’ultime in testi aventi solo un carattere indicativo non vincolante
per i singoli Stati.
L’interesse nei confronti del concetto di dignità è evidente anche nei nuovi
statuti di molte
regioni quali quello della Toscana, della Lombardia, della
Puglia, del Lazio, dell’Umbria, dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna.
Nella Costituzione italiana la persona è messa al centro del progetto della
costruzione dello Stato democratico e la dignità, intesa come valore, trova
innanzitutto la sua affermazione nell’art. 2 comma 1 che recita “La Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” ossia il rispetto della persona
in quanto tale e nella sua vita di relazione. Di dignità sociale si parla poi
esplicitamente nell’art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, nell’art. 41
comma 2 affermando che la libertà di iniziativa economica “non può svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana” e ancora nell’art. 36 quando in relazione alla
retribuzione di un lavoratore si precisa che essa deve “ in ogni caso essere
sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un esistenza libera e
mediche e ai servizi sociali; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia,
invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per
circostanze3 indipendenti dalla sua volontà.
11
art. 11: “gli stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di
vita adeguato per sé e per la propria famiglia.
100
dignitosa”. Oltre agli espliciti riferimenti alla dignità, nella Costituzione, si
trovano numerosi termini o espressioni che richiamano il concetto di dignità.
Basti pensare all’art.13, comma 4, laddove prevede che è punita ogni violenza
fisica o morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà, o all’art.27,
comma 3, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, o ancora
all’art. 32, sia nella parte in cui garantisce cure gratuite agli indigenti, sia, in
modo più evidente, in tema di trattamenti sanitari obbligatori, laddove stabilisce
che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana.
Riprendendo quanto affermato nell’art. 3, esso sembra vada inteso nel senso
del dovere per i pubblici poteri di adoperarsi al fine di garantire il pieno rispetto
e lo sviluppo della persona in chiave quindi di uguaglianza sostanziale e non
soltanto formale come a prima vista potrebbe sembrare data la sua
collocazione al primo comma. Pari dignità intesa come parità di condizioni
all’interno dei rapporti che implicano l’esercizio dei diritti di libertà dei rapporti
etico-sociali e di quelli politici; ogni cittadino è, secondo questa interpretazione,
portatore di un valore pari a quello di tutti gli altri. L’ordine del giorno Dossetti
dell’Assemblea Costituente dimostra che
la dignità costituisce il cuore del
principio personalista [Silvestri, 2007] , in esso fu esplicitamente affermato
l’anteriorità dell’uomo rispetto allo Stato e che lo stesso popolo sovrano non
101
possiede il potere giuridico di intaccare la dignità della persona. Per lo stesso
motivo, la Repubblica può chiedere, in casi estremi, ai cittadini il sacrificio della
vita ( in caso di guerra difensiva ), ma non quello della dignità.
Bisogna avere riguardo alla persona concreta ossia qual è e non quale
dovrebbe essere in base a vari metri di giudizio.
Afferma la Corte
Costituzionale nella sentenza n. 13 del 1994: “un bene in sé medesima,
indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti
del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua
individualità sia preservata”. La dignità non può essere violata neanche in nome
della prevalenza degli interessi collettivi su quelli individuali; lo conferma la
Costituzione all’art. 32 che ammette il caso di trattamenti sanitari obbligatori,
ma dichiara che “in nessun caso” essi possono violare i limiti imposti nel rispetto
della persona umana. L’art. 36 ne è una riprova allorquando pone un limite ad
una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto
affermando che anche in caso di lavoro dal valore economico molto basso il
salario non può scendere al di sotto del livello che assicura un’esistenza libera
e dignitosa.
La tutela della dignità si sviluppa e si articola non soltanto in un obbligo
negativo di astensione, ma anche in un positivo di effettività di tale tutela ossia
non è sufficiente proclamare il valore della dignità se contestualmente non si
cerca di garantirne l’effettività. Questo significa che il singolo deve poter
102
rivendicare la dignità e il legislatore, per attuarla, deve limitare l’esercizio altrui
[Flick, 2006]. Quindi la dignità umana assolve anche ad una funzione di limite
alla libertà.
Esiste un particolare rapporto fra dignità e solidarietà cioè fra diritti fondamentali
e doveri di solidarietà in quanto la dignità è riferita alla persona che, inserita in
un determinato contesto sociale, realizza la propria personalità nel rapporto con
gli altri. Gandhi affermava “ la vera fonte dei diritti è il dovere. Se adempiamo i
nostri doveri, non dovremo andare lontano a cercare i diritti. Se, lasciando i
doveri inadempiuti, rincorriamo i diritti, ci sfuggiranno come fuochi fatui. Quanto
più li inseguiamo, tanto più fuggono lontano”.
Il compito della Corte Costituzionale
non è soltanto quello di eliminare
dall’ordinamento le norme che si pongono in palese contrasto con questo valore
fondamentale, ma anche di rimediare alle omissioni ed alle violazioni indirette;
infatti la giurisprudenza costituzionale ha riservato molta attenzione al concetto
di dignità e numerose sono state le pronunce in merito. Nell’ambito del diritto
all’assistenza sanitaria nella sentenza n.111 del 2005 confermata dalla
sentenza n.162 del 2007 viene ribadita l’esigenza di assicurare l’universalità e
la completezza del nostro sistema sanitario che però scontrandosi con dei limiti
oggettivi, dati dalle limitatezza delle risorse disponibili, fa emerge la necessità di
individuare degli strumenti che assicurino il rispetto delle esigenze minime che
costituiscono il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla
103
Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, ma che operino come
limite oggettivo alla pienezza della tutela sanitaria per gli utenti. La sentenza
n.432 del 2005 conferma l’esistenza della garanzia di un diritto irrinunciabile alla
salute come ambito inviolabile della dignità umana facendone discendere che
non si può al riguardo discriminare la posizione dello straniero rispetto a quello
del cittadino. In ambito lavoristico la sentenza n. 359 del 2003 afferma che la
disciplina sul mobbing deve mirare a salvaguardare sui luoghi di lavoro la
dignità e i diritti fondamentali del lavoratore, la sentenza n.113 del 2004
riconosce che dalla violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di
adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare danni di vario
genere riassumibili come danni alla persona e alla sua dignità.
3.4 Tutela della dignità attraverso il reddito minimo garantito
La tutela della dignità richiede anche vi sia un’equa ripartizione delle risorse
disponibili, in modo da non privare alcuni soggetti o categorie di soggetti di beni
e servizi essenziali, senza i quali la vita non può più essere considerata
“dignitosa”. A livello comunitario la conseguenza in termini economici del
rispetto della dignità è confermata dall’ art. 34 della Carta europea dei diritti che
richiede agli Stati l’impegno alla lotta contro l’esclusione sociale e la povertà, e
l‘assicurazione del diritto all’assistenza sociale a tutti e la garanzia di
un’esistenza dignitosa per chi non disponga di risorse sufficienti attraverso
104
l’istituzione di regimi di reddito minimo che permettano a tutti di stare al di sopra
della soglia di povertà. In particolare al terzo comma l’art. 34 afferma: “Al fine di
lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione rispetta e riconosce il
diritto all’assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa
a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità
stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”; stabilendo
una connessione molto stretta con la dignità e decidendo di rivolgersi a tutti,
non solo ai cittadini e ai lavoratori. Così facendo il basic income (reddito di
base) diviene un diritto sociale fondamentale ossia un diritto soggettivo in nome
del quale gli Stati potranno derogare a norme in materia di libera concorrenza e
mercato unico, potranno compiere operazioni di tassazioni particolari, potranno
privilegiare settori di cittadini e via dicendo. L’art. 53 poi, della stessa Carta,
introduce una clausola di chiusura che obbliga gli Stati dell’Unione a rispettare il
contenuto essenziale dei diritti introdotti con questo Testo. Il risultato dovrebbe
essere che nel caso in cui gli Stati non dovessero rispettare in linea di massima
le indicazioni dell’OMC ( open method of coordination ), riguardanti i diritti
sociali, dovrebbe intervenire la Corte di Giustizia europea, così come i giudici
nazionali per i quali i diritti protetti dalla Carta costituiscono già oggi principi
generali del diritto comunitario (art. 6 del Trattato sull’Unione) e quindi strumenti
per interpretare anche il diritto nazionale.
105
Occorre comunque registrare che al di là delle norme contenute nei trattati e
nella Carta dei diritti fondamentali, la politica dell’Unione è stata fino ad ora di
natura quasi esclusivamente economico-finanziaria non consentendo ai cittadini
europei il completo rispetto dei diritti fondamentali contribuendo così in parte a
delegittimare le Istituzioni. Proprio da qui bisognerebbe ripartire per affidare il
primato sull’economia, nelle scelte strategiche, ai diritti fondamentali nel rispetto
dei quali rintracciare i criteri per la ripartizione delle risorse scarse che la politica
dovrebbe seguire. Tra i diritti, in un epoca di rafforzate diseguaglianze, “il diritto
all’esistenza” per il rispetto del quale si può parlare di reddito minimo emerge in
tutta la sua urgenza [Rodotà,2013]. Richiamo da considerare tanto più
stringente data la crisi globale in
cui ci troviamo in cui l’espansione e la
pervasività del mercato costituiscono una minaccia di aggressione alla dignità
[Flick, 2008].
E’ quindi nel rispetto della dignità che anche lo Stato italiano, come hanno già
fatto gli altri Stati dell’Unione europea, dovrà adoperarsi per combattere
l’esclusione sociale e la povertà che impediscono la piena partecipazione di
alcuni soggetti in ogni aspetto della vita sociale e politica del paese. La strada
da seguire risulta già tracciata dai partner europei, soprattutto da alcuni, che
hanno da tempo adottato forme di reddito minimo risultate efficaci e finanziate
tramite la fiscalità generale. Vale la pena ricordare però che questo istituto è
messo in pratica in modo diverso nei vari Paesi dell’Unione; le differenze
106
riguardano il valore della soglia minima per accedere al reddito minimo, che
dimostra quali siano i paesi che hanno deciso di investire in modo cospicuo nel
welfare come la Danimarca, la Francia e la Germania e quali, al contrario, pur
essendo dotati di tale strumento, abbiano deciso di investirci poche risorse
come la Spagna e il Portogallo.
L’unico caso in Italia di intervento sulla stessa stregua di quelli europei è quello
della Provincia autonoma di Trento, tramite l’istituzione del “reddito di garanzia”
dal 2009 che si configura come un ‘intervento strutturale non sottoposto a
particolari vincoli finanziari e avente il carattere dell’universalità selettiva, come
precedentemente illustrato nel capitolo 3. In particolare il RG trentino dimostra
che gli obiettivi possono essere raggiunti a determinate condizioni:
quantificare l’erogazione monetaria e stabilire la durata del trasferimento
monetario in base alla consistenza dei reali bisogni dei beneficiari,
controllare sistematicamente il rigoroso rispetto dei requisiti di accesso
alla misura,
accompagnare la misura con interventi di attivazione sul mercato del
lavoro e nel versante dell’integrazione sociale,
governo continuo del suo funzionamento per rendere la misura più
efficiente, equa ed efficace.
La quota dei soggetti poveri, rilevata dall’ISTAT, nella provincia trentina, da
quando à stata introdotta la misura, si è quasi dimezzata, qualificando il
107
Trentino come l’area con la minore incidenza della povertà in Italia [Cerea,
2013] con un costo medio per abitante stimato in 16 milioni di euro, pari a
meno di 3 euro al mese per residente. Se si volesse estendere l’esperienza di
Trento alle altre regioni, ossia decidere per una misura avente le stesse
caratteristiche,
l’onere
complessivo sembrerebbe potersi aggirare sui 5,3
miliardi di euro come risulta da una simulazione ottenuta moltiplicando la spesa
per abitante del trentino per la popolazione delle singole Regioni, corretta in
base alla diversa incidenza relativa della povertà rispetto a quanto osservato a
Trento; senza però considerare il diverso costo della vita nelle varie località. La
stima presentata da Cerea suddivisa fra le varie regioni evidenzierebbe una
situazione alquanto differenziata come mostra la seguente tabella:
Regione
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Prov. Aut.
Bolzano
Prov. Aut.
Trento
Liguria
Veneto
Friuli-V. Giulia
Emilia
Romagna
Toscana
Popolazione
Povertà
relativa
Incidenza relativa Costo
povertà rispetto milioni
alla situazione di
Trento
1,11
0,81
0,79
1,96
in
4.457.335
128.230
9.917.714
507.657
5,9
4,3
4,2
10,4
200
4
317
40
529.457
5,3
1,00
21
1.616.788
4.937.854
1.235.808
4.432.418
6,2
4,3
5,4
5,2
1,17
0,81
1,02
0,98
76
161
51
175
3.749.813
5,2
0,98
148
108
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Italia
906.486
1.565.335
5.728.688
1.342.366
319.780
5.834.056
4.091.259
587.517
2.011.395
5.051.075
1.675.411
60.026.442
8,9
5,2
7,1
13,4
18,2
22,4
22,6
23,3
26,2
27,3
21,1
12,0
1,68
0,98
1,34
2,53
3,43
4,23
4,26
4,40
4,94
5,15
3,98
61
62
309
137
44
994
703
104
401
1049
269
5.327
Fonte: Cerea in “Il reddito minimo? Si può fare” pubblicato su Lavoce. info il
15/03/2013
L’evidenza empirica dimostra quindi che di questa esperienza bisognerebbe
farne tesoro soprattutto alla luce del ritardo in termini di tempo del nostro
Paese; ma le istituzioni centrali non sembrano averne ancora preso coscienza.
Tanto per cominciare, il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA ), presentato nella
relazione di un gruppo di lavoro istituito presso il Ministero del lavoro e delle
politiche sociali nell’ambito di proposte per nuove misure di contrasto alla
povertà, potrebbe segnare una inversione di tendenza. La speranza
sembrerebbe vanificata dalla legge di stabilità, la quale non recava traccia di nel
testo presentato inizialmente di un’azione programmata delle istituzioni in tal
senso contrariamente a quanto
fino ad una settimana prima alla sua
109
presentazione si poteva evincere dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro del
lavoro e delle politiche sociali. C’è tuttavia da registrare un emendamento
apportato dal governo con il quale si prevede il finanziamento di 120 milioni di
euro in tre anni (contro 1,5 miliardi previsti inizialmente ) del Sia nella forma di
reddito minimo d’inserimento ( da non confondere con il reddito minimo
garantito) anche se la sua modestissima entità non fa ben sperare dal lato degli
effetti che sarà in grado di produrre.
E’ chiaro che se si introdurrà un sistema di reddito minimo questo dovrebbe
assorbire tutte le misure categoriali mirate a contrastare la povertà, potrebbero
rimanere solo quelle sulla disabilità, la non autosufficienza, per il sostegno ai
figli e simili.
La stessa U.E potrebbe istituire, utilizzando risorse proprie, un basic income
europeo, sarebbe quest’ultimo un passaggio significativo verso una solidarietà
europea che però implicherebbe in tendenza un bilancio comune, una fiscalità
unitaria e un governo sovranazionale dell’economia e non solo della moneta.
Per fare ciò la base giuridica esiste: il Fondo per le vittime della globalizzazione
economica ha come premessa l’art. 159 (TCE) sulla coesione sociale e anche
nel caso del basic income europeo
potrebbe essere usata la stessa base
giuridica. Nel frattempo sta proseguendo la raccolta di firme per richiedere alla
Commissione europea di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri12 al
12
ai sensi dell’art.156 del TFUE
110
fine di valutare il reddito di base incondizionato quale strumento per migliorare i
rispettivi sistemi di sicurezza sociale, con l’obiettivo, nel lungo periodo, di
garantire ad ogni persona nella UE il diritto incondizionato, a livello individuale,
al soddisfacimento dei propri bisogni materiali al fine di condurre una vita
dignitosa, come indicato dai trattati dell’Unione europea, e di favorire attraverso
l’introduzione di un reddito di base, la partecipazione alla società.
111
Capitolo 4: Conclusioni
Marshall sostiene che solo tramite l’affermarsi dell’elemento sociale della
cittadinanza, sia possibile conferire un significato realmente universalistico ai
diritti civili e politici, e con esso avverare quell’etica sociale che attenua le
disuguaglianze, rendendo effettivo uno status ugualitario che possa realizzare
la sostanza del progetto democratico attraverso l’inclusione sociale. Egli ritiene
che per la realizzazione sia necessario un minimo di benessere e di sicurezza
economica al fine di garantire il diritto a ciascuno di partecipare pienamente alla
vita politica e civile della comunità di appartenenza.
In questa stessa direzione vanno Van Parijs e Vanderborght quando, nel 2006,
propugnano un reddito minimo universale che debba essere versato dalla
comunità politica a tutti i suoi membri senza controllo di risorse né esigenza di
contropartite, al fine di tutelare la dignità della persona, contrastare la povertà e
favorire l’inclusione sociale. Ipotizzano inoltre che il finanziamento avvenga
tramite la fiscalità generale e che vada a beneficio di tutti, indipendentemente
dai redditi posseduti : una specie di “dividendo sociale della comunità” da
annoverare fra i diritti fondamentali e come tale inalienabile.
Tali assunti teorici si sono scontrati con una realtà oggettiva fatta di risorse
scarse, pesante situazione economica e finanziaria e mancata volontà politica
112
che non hanno permesso, con la sola esclusione dell’Alaska, l’attuazione in
nessuno stato di un reddito minimo universale.
Partendo però dal concetto di un reddito come diritto di ciascuno e indipendente
dal lavoro, si è arrivati a definire la necessità di un reddito minimo garantito
considerato come diritto soggettivo universale , erogato, tuttavia, in modo
selettivo al verificarsi di alcune condizioni legate al lavoro. Questa è la direzione
presa dall’Unione Europea nelle Raccomandazioni e tramite i Trattati.
Al punto 36 della Risoluzione del Parlamento europeo del 20/10/2010 si fa
riferimento alla raccomandazione 92/441/CEE dove si riconosce “il diritto
fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere
conformemente alla dignità umana” e si insiste affinché l’obiettivo centrale dei
regimi di sostegno del reddito sia quello di far uscire le persone dalla povertà,
consentendo loro di vivere dignitosamente. Tale politica è stata
adottata da
tutti gli Stati membri dell’Unione con la sola esclusione della Grecia e dell’Italia,
in quest’ultimo caso nonostante il proprio dettato costituzionale.
Occorre
tuttavia precisare come gli altri paesi dell’Unione, pur provvedendo in termini di
reddito minimo, abbiano adottato politiche alquanto diverse riguardo ai requisiti
di accesso alla misura, alla durata e al grado di copertura. Inoltre dal valore
della soglia minima per accedere al reddito minimo si evince che solo alcuni
hanno deciso di investire in modo cospicuo nel welfare, come la Danimarca, la
Francia e la Germania.
113
Per quanto riguarda l’Italia, se è vero che la nostra Costituzione manca di dare
una chiara definizione del concetto di dignità, è pur vero che in essa la persona
è posta al centro del progetto della costruzione dello Stato democratico: la
dignità, intesa come valore, trova innanzitutto la sua affermazione nell’art.2 e
se ne fa poi riferimento più esplicitamente in altri articoli(art. 3, 36 e 41 ).
L’unica iniziativa intrapresa in passato nel nostro paese, in termini di sostegno
al reddito, è stata il reddito minimo d’inserimento (RMI) nel 1998, sulla scorta
anche della Raccomandazione dell’Unione Europea del 1992; lo stesso però,
dopo una prima
fase sperimentale, è sfociato in un nulla di fatto.
Successivamente ci sono stati vari tentativi da parte di alcuni enti locali di
istituire forme di reddito sociale nessuno dei quali ha superato però la fase
sperimentale. L’eccezione è rappresentata dal Reddito di Garanzia istituito
nella Provincia autonoma di Trento che può essere definito il primo strumento
strutturale tendenzialmente permanente, oltre che un programma universale e
selettivo al tempo stesso: è in vigore dal 2009, sta producendo importanti
risultati “senza far saltare il bilancio” ed è la misura che più si avvicina agli altri
programmi in essere negli altri paesi europei.
Le ragioni della difficoltà tutta italiana di istituire un reddito minimo garantito
possono essere ricercate in un sistema
di welfare di natura categoriale e
frammentato, in termini geografici, che andrebbe riformato in senso
universalistico, così come
in
un
sistema politico-clientelare che tende a
114
perseverare nel difendere i diritti e i privilegi di chi è già tutelato, fingendo di
non accorgersi dei tanti esclusi dalle tutele che costituiscono una buona fetta
della popolazione, in costante aumento.
Il governo centrale si è limitato fino ad ora
a provvedere con misure
insufficienti, rispetto agli obiettivi: gli ammortizzatori sociali, recentemente
riformati, e
l’attuale sperimentazione, in alcuni grandi centri urbani, di una
‘social card’ per la lotta alla povertà. E’ quanto emerge dal Rapporto sulle
politiche contro la povertà e l’esclusione sociale (anni 2011 – 2012) , a cura del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Rapporto annuale ISTAT
2013.
L’aggravarsi della situazione economica, con una continua perdita di posti di
lavoro, rende sempre più urgente una presa di coscienza del fenomeno, tale da
imporre la necessità di riformare il nostro sistema di welfare, dando attuazione
ad una delle tante proposte di reddito minimo elaborate, anche sotto forma di
disegno di legge, da più parti. Si darebbe così concretezza al concetto di
dignità espresso a più riprese nella nostra Costituzione:tuttavia i sostenitori
meno convinti risultano essere proprio la gran parte dei
partiti e delle
organizzazioni sindacali, salvo alcune eccezioni ( Fiom , Sel e Movimento
cinque stelle),
con il risultato che nulla fino a questo momento è stato
realizzato, nonostante il recentissimo accenno alla lotta alla povertà nella legge
di stabilità 2013 , tramite l’incremento del fondi per la social card.
115
Al termine del nostro percorso sono sempre più convinta della giustezza dell’
istituzione di un reddito minimo garantito come misura universalistica, ma
selettiva, ossia erogata a chi è in possesso di determinati requisiti . Tale misura
andrebbe realizzata anche per adempiere al dettato costituzionale che
sancisce il rispetto della dignità umana. Il ‘diritto al reddito’ andrebbe
considerato un diritto all’esistenza e come tale facente parte dei diritti
fondamentali; diritto che purtroppo non riesce più ad essere assicurato dal
lavoro. Le evidenze empiriche dimostrano, infatti, come tra i “nuovi poveri”
vadano annoverati anche persone occupate ma che non riescono ad ottenere
una retribuzione “sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa a se
ed alla propria famiglia” .
116
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