Medicina Italia – Numero 05/2010 - Società Italiana di Medicina
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Medicina Italia – Numero 05/2010 - Società Italiana di Medicina
Number 5/10 edicinatalia La sindrome circolatoria iperdinamica in corso di cirrosi epatica III - I principali mediatori coinvolti 1ROBERTO TARQUINI, 2CHIARA LAZZERI, 3GIACOMO LAFFI, 2GIAN GRANCO GENSINI 1Dipartimento Interaziendale per la Continuità dell’Assistenza, Ospedale di Castelfiorentino, Università di Firenze; 2Dipartimento Cuore e Vasi e 3Dipartimento di Medicina Interna, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze L’ipertensione portale costituisce la conseguenza fisiopatologica più importante della cirrosi epatica responsabile, insieme con l’insufficienza d’organo, delle principali manifestazioni cliniche. Nella patogenesi di questo quadro, accanto all’aumento delle resistenze intraepatiche, un ruolo importante è da attribuire alla marcata vasodilatazione del distretto splancnico, sostenuto dagli shunt portosistemici che agirebbero sia direttamente, diminuendo le resistenze periferiche, sia indirettamente, permettendo a sostanze vasodilatanti di origine intestinale di by-passare il filtro epatico e raggiungere immodificate il circolo sistemico. Di seguito prendiamo in esame le principali sostanze/molecole coinvolte nella fisiopatogenesi dell’ipertensione polmonare in corso di cirrosi epatica. Molecole coinvolte nel complesso meccanismo della vasodilatazione Numerose molecole sono state prese in considerazione come possibili responsabili della vasodilatazione. Il monossido di azoto (NO). È un fattore di rilascio derivante dall’endotelio, è la molecola chiave nella vasodilatazione arteriosa a livello della circolazione splancnica e sistemica, responsabile della sindrome iperdinamica nell’ipertensione portale. L’NO è sintetizzato da una famiglia di tre ossido nitrico sintasi (NOS): due isoforme espresse costitutivamente, NOS endoteliale (eNOS) e NOS neuronale (nNOS), e una isoforma inducibile (iNOS). Tra queste isoforme, eNOS è la maggiore fonte enzimatica dell’iperproduzione di NO vascolare nella circolazione arteriosa splancnica. Il monossido di carbonio (CO). Come l’NO, è una molecola gassosa prodotta a livello endogeno che attiva la guanilato ciclasi solubile determinando un aumento del cGMP, oltre a regolare il tono vascolare in maniera simile all’NO. Il CO è prodotto dalla scissione dell’eme a biliverdina attraverso l’azione dell’eme-ossigenasi (HO). L’emeossigenasi negli ultimi anni ha attratto l’interesse del mondo scientifico come regolatore di funzioni di cellule e organi e in fisiopatologia epatica come un nuovo regolatore delle resistenze vascolari. Un incremento nell’attività dell’HO-1 è stato riscontrato nell’aorta e nelle arterie mesenteriche di ratti con cirrosi biliare, mentre nessun cambiamento è stato osservato nell’espressione dell’HO-2 [1–8]. L’iniezione intraperitoneale acuta di zinco protoporfirina, un inibitore selettivo dell’attività dell’HO, in questi ratti con una dose che va a normalizzare l’attività aortica dell’HO, migliora la sindrome circolatoria iperdinamica, suggerendo il ruolo del CO nella vasodilatazione arteriosa splancnica. Il CO ha un ruolo anche nella vasodilatazione intrapolmonare caratteristica della sindrome epatopolmonare sia nell’uomo che nei modelli animali sperimentali di cirrosi biliare. Il CO circola strettamente legato all’emoglobina, determinando la formazione di carbossiemoglobina usata come indicatore di produzione di CO. È stato osservato che i livelli di carbossiemoglobina nel sangue sono significativamente incrementati in una coorte di pazienti con cirrosi e nella sindrome epatopolmonare sperimentale [4–9]. L’inibizione della HO polmonare normalizza i livelli di carbossiemoglobina arteriosa e riduce la vasodilatazione. Nel cervello l’attivazione dell’HO-1 e la produzione di CO, ma non dell’NO, potrebbero essere una causa di iperemia cerebrale, che conduce allo sviluppo dell’edema cerebrale nell’insufficienza epatica acuta. Il nostro gruppo ha recentemente dimostrato che il sistema HO/CO è attivato nei pazienti con cirrosi epatica e che questa attivazione è più spiccata negli stati più avanzati della malattia, quali i pazienti con cirrosi e ascite [10]. Le elevate concentrazioni plasmatiche di CO e l’aumentata attività di HO-1 osservata nel PMN dei pazienti cirrotici presentavano una correlazione con i livelli plasmatici di cGMP, di endotossina e con la presenza di circolazione iperdinamica. Gli autori concludevano che in corso di cirrosi epatica si verifica un’ipersitimolazione della HO inducibile (verosimilmente a causa dell’endotossina) e che questo fenomeno potrebbe contribuire alla genesi della circolazione iperdinamica in questi pazienti. È stato anche suggerito un ruolo della prostaciclina (PGI2) nella sindrome iperdinamica. La PGI2 viene liberata dall’endotelio e stimola il rilascio delle cellule muscolari lisce. Un incremento della PGI2 circolante è stato osservato nei pazienti con cirrosi e in conigli con ipertensione portale [2]. Anche altre molecole vasodilatatorie sono state studiate come possibili agenti nella sindrome iperdinamica: il fattore iperpolarizzante derivante dall’endotelio (EDHF), il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFa), gli endocannabinoidi, l’adrenomedullina, l’acido solfidrico (H2S). L’acido solfidrico è stato recentemente studiato come possibile mediatore nella patogenesi della disfunzione vascolare nella cirrosi. H2S è un gas sintetizzato endogenamente a partire dall’L-cisteina a opera di due enzimi, cistationina-γ-liasi e cistationina-β-sintasi. Questa molecola è in grado di indurre vasodilatazione attraverso l’attivazione dei canali KATP nelle cellule muscolari lisce vascolari e, come l’NO e il CO, rilascia il tessuto vascolare in modo indipendente dall’attivazione della via del CGMP. Un recente studio suggerisce un possibile aumento di H2S nella sindrome iperdinamica attraverso un meccanismo mediato dall’endotossinemia che, da sola o in combinazione con l’aumentata sintesi di NO, indurrebbe l’iperespressione della cistationina-γ-liasi con aumentata sintesi dell’H2S [1, 2]. L’endotossinemia è di frequente riscontro nella cirrosi epatica ed elevate concentrazioni di endotossine circolanti si osservano anche in assenza di qualsiasi evidenza clinica di infezione, forse per l’alterata clearance dei batteri intestinali da parte del fegato cirrotico. Col termine cannabinoidi endogeni si fa riferimento a una nuova classe di ligandi lipidici endogeni, di cui l’anandamide (arachidonil-etanolamide) è stata la prima a essere scoperta. La loro attività è mediata da due recettori di recente identificazione, CB1 e CB2, espressi sia a livello intraepatico (in particolare sulle cellule fibrogeniche) sia a livello delle cellule endoteliali dei vasi. Teixeira-Cler e coll. hanno dimostrato che i recettori CB1 risultano iperespressi nel fegato di soggetti cirrotici, in particolare a livello delle cellule fibrogeniche epatiche [2]. L’uso di un antagonista del recettore CB1 ha permesso di ottenere un ridotto rimodellamento della matrice a seguito di un danno epatico acuto e una diminuita risposta fibrogenica a seguito di un danno epatico cronico. Il ridotto accumulo di miofibroblasti epatici, mediante l’inibizione della proliferazione e l’accentuazione dell’apoptosi, è il maggior determinante dell’effetto antifibrotico dovuto all’antagonismo del recettore CB1. Se da una parte il CB1 ha una attività profibrogenica, il CB2 sembra avere un ruolo antifibrogenico. Studi futuri potranno essere volti a valutare l’effetto dell’uso combinato di antagonisti CB1 e agonisti CB2 come trattamento sinergico antifibrotico. Ipotesi patogenetiche Secondo l’interpretazione più tradizionale, l’evento primario nella genesi della sindrome circolatoria iperdinamica è rappresentato da una marcata vasodilatazione sistemica che comporta una riduzione delle resistenze vascolari periferiche, con conseguente squilibrio tra letto vascolare e volume ematico, nonostante l’aumento del volume ematico totale osservato in tali pazienti. La riduzione della “volemia efficace”, cioè del volume ematico che perfonde i parenchimi nobili, viene percepita dai recettori di volume e di pressione, in particolare quelli situati nel compartimento arterioso. Questi ultimi, al fine di mantenere l’omeostasi cardiocircolatoria, attivano i principali fattori costrittori endogeni: il sistema nervoso simpatico (SNS), l’asse renina-angiotensina (SRA), l’ormone antidiuretico o vasopressina (ADH) e le endoteline che, a loro volta, provocano un aumento del tono delle arteriole di resistenza, opponendosi alla caduta delle resistenze periferiche, e determinano un incremento della gittata sistolica, della frequenza cardiaca e conseguentemente della gittata cardiaca. Col progredire della malattia epatica, si viene a determinare un’iporesponsività e una desensibilizzazione di questi meccanismi controregolatori e varie sono le ipotesi per spiegare tale fenomeno: una downregulation recettoriale, difetti di transduzione post-recettoriale del segnale, l’incremento stesso dei vasodilatatori endogeni (NO, prostacicline, CO). I sistemi contro regolatori L’endotelina 1 (ET-1) fa parte dei sistemi controregolatori che risultano iperattivati nei pazienti cirrotici; è forse il più potente vasocostrittore noto prodotto dall’endotelio vascolare. L’ET-1 agisce prevalentemente come vasocostrittore paracrino, regolando il tono vascolare attraverso la sua azione sui recettori ETA e ETB espressi a livello delle cellule muscolari lisce dei vasi. Tuttavia, è stato dimostrato che l’ET-1 esercita anche un’influenza vasodilatatoria mediata dai recettori ETB localizzati a livello endoteliale, mediante il rilascio di vasodilatatori endotelioderivati come l’NO [9, 10]. Nei soggetti sani l’effetto costrittore dell’ET1 sulla muscolatura liscia vascolare predomina sulla vasodilatazione endotelio-dipendente. Nei cirrotici compensati è stata riscontrata una risposta vasocostrittrice pressoché conservata all’ET-1 (anche se modicamente ridotta), mentre nei pazienti con cirrosi avanzata e circolo iperdinamico la somministrazione di ET-1 causa una significativa vasodilatazione periferica, probabilmente mediata da una predominante risposta dei recettori ET-B, come sembra avvalorato dal riscontro di iperattività della NOS e da aumentati livelli di NO. Bibliografia 1. Laffi G, Foschi M, Masini E et al (1995) Increased production of nitric oxide by neutrophil and monocytes from cirrhotic patients with ascites and hyperdynamic circulation. Hepatology 22:1666–1673 2. Rockey DC (2003) Vascular mediators in the injured liver. Hepatology 37:4–12 3. Goh BJ, Tan BT, Hon WM et al (2006) Nitric oxide synthase and heme oxygenase espression in human liver cirrhosis. World J Gastroenterol 12:588–594 4. Iwakiri Y, Groszmann RJ (2006) The hyperdynamic circulation of chronic liver disease: from the patient to the molecule. Hepatology 43:S121–S131 5. Blei AT (2005) Monitoring cerebral blood flow: a useful clinical tool in acute liver failure? Liver Transpl 11:1581–1589 6. Guevara M, Bru C, Gines P et al (1998) Increased cerebrovascular resistance in cirrrhotic patients with ascites. Hepatology 28:39–44 7. Kwon S, Iwakiri Y, Cadelina G, Groszmann RJ (2004) Neuronal nitric oxide synthase plays a role in the vasodilatation observedin the splanchnic circulation in chronic portal hypertensive rats. Hepatology 40:184A 8. Chen YC, Gines P, Yang J et al (2004) Increased vascular Heme oxygenase1 espression contributes to arterial vasodilatation in esperimental cirrhosis in rats. Hepatology 39:1075–1087 9. De Las Heras D, Fernandez J, Ginès P et al (2003) Increased carbon monoxide production in patients with cirrhosis with and without spontaneous bacterial peritonitis. Hepatology 38:452–459 10. Tarquini R, Masini E, La Villa G et al (2009) Increased plasma carbon monoxide in patients with viral cirrhosis and hyperdynamic circulation. Am J Gastroenterol 104:891–897 A proposito di systemic capillary leak syndrome: pensarci in caso di shock ipovolemico a genesi ignota MARCO CICARDI, ANDREA ZANICHELLI, MARTA DEL MEDICO Dipartimento di Scienze Cliniche Università di Milano, Ospedale L. Sacco, Milano Un uomo di 56 anni si presenta in pronto soccorso per episodio presincopale (senso di mancamento, visione offuscata, sudorazione fredda, cardiopalmo, astenia agli arti inferiori). Il paziente riferisce inoltre comparsa di malessere generale, marcata astenia, poliuria e addominalgie diffuse il giorno precedente. In anamnesi una duodenocefalopancreasectomia per carcinoma dell’ampolla di Vater 8 anni prima, trattato con chemioterapia adiuvante (cicli di 5-F-uracile e cis-platino); follow-up riferito negativo. Non viene riportata alcuna altra patologia di rilievo in atto o pregressa. Il paziente non segue alcuna terapia continuativa e non ha assunto farmaci di recente. All’esame obiettivo risulta agitato, vigile, lucido, collaborante e orientato nello spazio-tempo. Apiretico, eupnoico a riposo, presenta sudorazione algida. Si evidenziano edemi pastosi in sede declive (fino al terzo prossimale di gamba, bilateralmente); mucose idratate e rosee. I polsi sono ipovalidi, simmetrici. Giugulari piane. Toni cardiaci tachifrequenti, validi, pause libere; al torace il murmure vescicolare è presente, le basi sono libere e mobili, non si apprezzano rumori patologici all’auscultazione. Non si osservano grossolani deficit neurologici. Frequenza cardiaca (FC) 104 bpm con alcune extrasistoli, Pressione Arteriosa (PA) 95/60 in clinostatismo, non valutabile in ortostatismo per comparsa di sintomatologia pre-sincopale. L’addome è trattabile, modestamente dolente, non vi sono segni di peritonismo, organomegalia o masse abnormi. Peristalsi valida. Non linfadenopatie superficiali. Quali sono le cause più probabili di edema? Quali quelle da escludere per prime? Il quadro è dominato da ipotensione associata a edemi declivi. Una possibile origine è quella cardiovascolare: uno scompenso acuto di circolo può manifestarsi tipicamente con edemi, insufficienza renale e ipotensione. Una sindrome nefrosica difficilmente si instaura in modo così rapido, la poliuria sembra inoltre essere solo transitoria, pertanto non appare la diagnosi più probabile. In assenza di una nota epatopatia e di segni di ascite, si può tralasciare l’ipotesi di una cirrosi. Altre possibili cause di edema con ipotensione sono la sepsi, i farmaci (diuretici, calcio-antagonisti, interleuchina-2), shock anafilattico, compressione di vasi venosi o linfatici, malnutrizione, ipotiroidismo. Al tracciato ECG non vi sono alterazioni di rilievo. La radiografia del torace non evidenzia addensamenti parenchimali o versamento, il mediastino e l’ombra cardiaca non appaiono allargati. Gli esami di laboratorio mostrano un quadro di emoconcentrazione: GR 7 710 000/mmc; GB 23 700/mmc; Hb 22,7 g/dl; Ht 67%; Plt 321 000/mmc; creatinina 2,2 mg/dl. L’anamnesi negativa per cardiopatie e il tracciato ECG negativo non rafforzano l’ipotesi cardiovascolare. Visti i sintomi iniziali è stata comunque dosata la troponina, risultata negativa su due prelievi. Alla luce dei dati strumentali e di laboratorio ci si può orientare su una ipovolemia efficace, dovuta a perdita di liquidi o al loro sequestro nell’interstizio; rimane però completamente non spiegata l’eziologia di una tale condizione. Poco dopo l’ingresso al Pronto Soccorso il paziente sviluppa un quadro di shock cardiocircolatorio (vasocostrizione periferica, ipotensione grave, incontattabilità) per cui viene trasferito nel reparto di rianimazione. Viene trattato con abbondante idratazione (soluzione NaCl 0,9% e plasma-expander), amine simpaticomimetiche e corticosteroidi. A causa della somministrazioni di abbondanti quantità di liquidi sviluppa un quadro di tipo anasarcatico, con edema generalizzato ai quattro arti e al tronco e abbondante versamento pleurico, associati a contrazione della diuresi. Ciò in assenza di una significativa correzione dell’ematocrito che inizia invece a realizzarsi in terza giornata ed è concomitante alla progressiva stabilizzazione del quadro emodinamico e ripristino di valori pressori soddisfacenti. Trasferito nel reparto di Medicina Interna, viene sottoposto a ulteriori accertamenti. Si osserva normalizzazione dei valori di ematocrito e della funzione renale. La proteinemia, inizialmente ridotta (Proteine tot. 5,6 g/dl; Albumina 3,0 g/dl), rientra nei limiti dopo alcuni giorni (Proteine tot. 7,2; Albumina 3,7 g/dl in quinta giornata). La PCR, il fattore reumatoide, il fibrinogeno e la VES risultano nei limiti, così come la formula leucocitaria. L’elettroforesi delle proteine sieriche mostra una componente monoclonale di tipo IgG/k. La funzione tiroidea, gli indici di sintesi, il metabolismo marziale risultano nei limiti. L’esame delle urine (effettuato durante la fase di risoluzione del quadro) mostra densità 1009, pH 6,0, proteinuria assente. Vengono effettuati dosaggi delle catecolamine urinarie, delle frazioni C3 e C4 del complemento, del C1-inibitore, del cortisolo plasmatico e urinario, tutti nei limiti. L’ecografia dell’addome non mostra alterazioni di rilievo. I marker neoplastici risultano negativi. La risonanza magnetica dell’encefalo (eseguita nel sospetto di patologia ipotalamo-ipofisaria) mostra piccole lesioni corticali e sottocorticali fronto-temporali e nei nuclei della base bilateralmente. Alcune delle lesioni corticali mostrano minima componente emorragica. Il quadro viene interpretato come compatibile con ischemia su base emodinamica ipotensiva. Per escludere una patologia linfoproliferativa associata alla componente monoclonale viene eseguita una biopsia osteomidollare, che risulta completamente nella norma. In considerazione dell’esito negativo degli accertamenti viene posta diagnosi di Systemic Capillary Leak Syndrome - SCLS (ipotensione, emoconcentrazione, ipoprotidemia). Il paziente viene inviato a un centro di riferimento terziario per una rivalutazione globale e per l’impostazione di una terapia profilattica. La diagnosi viene confermata e viene iniziato trattamento con verapamil 120 mg x 2 die e teofillina 300 mg die. Viene consigliato per il trattamento dell’attacco acuto l’utilizzo di plasma-expander preferendo le soluzioni contenenti molecole di alto peso molecolare, somministrabili in boli ripetuti (250 cc), a seconda della risposta pressoria, per evitare la somministrazione di una quantità eccessiva di liquidi, che potrebbe risultare dannosa nel periodo di recupero. L’evidenza La SCLS o malattia di Clarkson è una rara patologia a eziologia ignota, caratterizzata da episodi ricorrenti di shock ipovolemico correlato a stravaso di plasma dal letto vascolare allo spazio interstiziale, accompagnato da emocroncentrazione, ipoalbuminemia ed edema generalizzato. Fu descritta per la prima volta nel 1960 da Bayard Clarkson in una donna di 34 anni, che soffriva di ricorrenti episodi di edema generalizzato e grave ipotensione, associati a importante emoconcentrazione e ipoalbuminemia [1], che si verificavano caratteristicamente nella fase premestruale, per un periodo di due anni circa; la paziente morì in seguito a uno di questi eventi. Non era affetta da patologie concomitanti, né pregresse. Non soffriva di patologie ginecologiche, non presentava dismenorrea e aveva portato a temine 2 gravidanze senza complicanze di sorta. L’ipotesi immunologica è stata considerata sin dall’inizio come quella più probabile; si riteneva che la paziente, prima del ciclo sviluppasse una reazione di ipersensibilità nei confronti di un antigene endogeno. Per questo motivo, vista l’inefficacia dei farmaci cortisonici e l’incremento della frequenza degli episodi, la paziente fu sottoposta a isteroannessiectomia. Dopo tre mesi di apparente benessere gli episodi cominciarono a ripresentarsi. Gli unici reperti di anormalità furono lievi alterazioni della formula leucocitaria (lievi eosinofilia e linfocitosi) e una piccola componente monoclonale. L’autopsia non dimostrò alterazioni peculiari, ma solo lesioni focali dovute all’ipoperfusione degli organi legata alla marcata ipotensione durante gli attacchi. Nonostante le indagini diagnostiche fossero state inconcludenti, Clarkson e colleghi riuscirono a dimostrare, grazie a studi con albumina marcata, l’imponente stravaso proteico nel comparto extravascolare e quindi l’aumentata, ma transitoria, permeabilità vascolare. Si ritiene che fino al 70% del volume intravascolare possa fuoriuscire durante gli episodi acuti [2]. La frazione di plasma in grado di oltrepassare la barriera capillare è costituita da acqua e dai componenti plasmatici con peso molecolare fino a 200 KDa (quindi dalla maggioranza delle proteine ivi contenute) [3]. Non è chiaro il meccanismo patogenetico alla base di questo fenomeno: anche durante l’attacco acuto non sono state evidenziate alterazioni istologiche dei capillari tali da giustificare la massiva perdita di liquidi. È stato però osservato un cospicuo infiltrato cellulare linfocitario perilesionale CD8+, le cui cellule esprimevano il recettore per l’IL-2 nel derma di questi soggetti. Inoltre si è potuto dosare il medesimo recettore nel sangue del paziente. Si ipotizza dunque che queste cellule, capaci di attività citotossica, attivate dalla presenza di livelli elevati di interleuchina 2, medino il danno endoteliale alla base della formazione di edema. Negli strati più superficiali del derma si è riscontrata l’inusuale presenza di cellule CD1a/s100+, che svolgono tipicamente la funzione di cellule presentanti l’antigene. Si potrebbe dunque pensare che qualche molecola con caratteristiche di antigene possa fungere da trigger e scatenare l’attacco acuto [4, 5]. Tale ipotesi è avvalorata dall’evidenza di un quadro analogo in pazienti trattati con IL-2 ricombinante (rIL-2) [6] e in pazienti pediatrici sottoposti a trapianto di midollo [7]. La letteratura riguardo i provvedimenti terapeutici è scarsa, dato l’esiguo numero dei pazienti, la difficoltà a reclutarli e a sottoporli a studi randomizzati. Alla Mayo Clinic di Rochester 8 pazienti sono stati seguiti per circa 18 anni (follow-up medio di 9 anni) e sottoposti a profilassi con terbutalina e teofillina [2]. È stata riscontrata una sostanziale efficacia dell’associazione di questi due farmaci, con una netta riduzione del numero degli episodi (diminuiti di 30 volte) e della loro gravità. Da notare che nei pazienti che dimostravano recidive durante il trattamento i livelli di teofillina erano sub-terapeutici. Solo uno di essi morì durante un attacco acuto e un altro per le complicanze di una lunga terapia corticosteroidea. Purtroppo questo regime terapeutico fu, nella quasi totalità dei casi, causa di effetti collaterali legati ai suoi effetti simpaticomimetici (tremori, ansia, insonnia): è quindi necessario valutare il grado di compliance dei pazienti alla luce di tali effetti [2]. Un trattamento alternativo, che non trova però allo stato attuale evidenze, se non la nostra esperienza, è rappresentato dall’associazione di teofillina e verapamil. Il calcio-antagonista dovrebbe agire impedendo la contrazione delle cellule endoteliali e quindi l’allargamento delle giunzioni intercellulari. Potrebbe sembrare un paradosso dato che i calcio-antagonisti annoverano tra i loro più frequenti effetti collaterali proprio l’edema. Uno studio, effettuato paragonando l’azione di verapamil e diltiazem sulla permeabilità vascolare dei ratti, sembra dimostrare che il secondo ma non il primo sia in grado di aumentarla e quindi di mediare lo stravaso di plasma e albumina dal letto vascolare al comparto interstiziale, provocando edema [8]. Inoltre è citato in letteratura un case report in cui il verapamil è stato utilizzato durante la fase acuta di un attacco di SCLS e sembrerebbe aver avuto effetto, seppur temporaneo [9]. Epidemiologia Risulta molto difficile stimare l’incidenza della patologia a causa della sua bassa frequenza e della probabile presenza di casi non diagnosticati. Dalle revisioni della letteratura sono disponibili circa 100 report. L’età media è di 47 ± 13, con range compreso tra 3 e 68 anni. Il rapporto M:F è di 1,4 [10]. La mortalità, in assenza di profilassi, sembrerebbe essere pari al 76% a 5 anni dalla diagnosi [11]. Caratteristiche cliniche La caratteristica fondamentale di questa patologia è la comparsa di shock associato a ipovolemia efficace in almeno un episodio acuto. Non tutti gli attacchi acuti però evolvono verso un vero quadro di shock e si sono osservati casi in cui il paziente non presentava alcuna recidiva dopo il primo episodio. In circa la metà dei casi si osserva una sindrome prodromica caratterizzata da sintomi simil-influenzali (malessere, mialgia), dolore addominale, nausea o vomito, polidipsia, vertigine e rinorrea [10]. Di solito nei casi ricorrenti i pazienti riportano quasi sempre gli stessi sintomi prodromici. Durante l’attacco si osserva marcata ipotensione, generalmente accompagnata dalla comparsa concomitante di edema di entità variabile, spesso generalizzato [12]. Frequentemente si osserva sequestro di fluidi nel terzo spazio (versamento pleurico bilaterale, ascite, versamento pericardico [13]). Sono inoltre stati descritti quadri di edema cerebrale [14], edema della glottide e papilledema, con grave ipovisus. Lo stravaso di liquidi nei tessuti muscolari può determinare la comparsa di sindrome compartimentale e conseguente rabdomiolisi massiva [15], quadro che impone trattamento chirurgico con fasciotomia e un attento monitoraggio della funzionalità renale. L’insufficienza renale è quasi sempre presente durante gli attacchi ma è generalmente di tipo pre-renale e solo in pochi casi si è osservata riduzione della clearance anche dopo la risoluzione dell’attacco. Sono descritti inoltre casi di necrosi tubulare acuta. Bisogna far notare che, se in alcuni casi il quadro di shock è predominante e il paziente necessita di essere intubato e trattato in un reparto di rianimazione, ci sono state evenienze in cui i pazienti nonostante una marcata ipotensione (PAS 60–70 mmHg, PAD 40–30 mmHg) erano coscienti e in grado di mantenere la posizione eretta senza manifestare gravi sintomi presincopali o franca sincope. Durante la fase di risoluzione, che avviene di solito dopo pochi giorni dall’inizio dei sintomi, nei pazienti sottoposti a cospicua terapia infusionale di sostenimento (a volte si arriva anche a 40 L di liquidi somministrati in pochi giorni) si sono verificati casi di edema polmonare acuto, verosimilmente dovuto al sovraccarico di circolo conseguente al recupero di liquidi dall’interstizio [16]. Esami di laboratorio Un riscontro costante nella SCLS è l’incremento dell’ematocrito (fino a 70% nei casi più gravi). Il quadro di emoconcentrazione si caratterizza per l’aumento di tutte le serie cellulari, spesso accompagnato da bassi livelli di albumina e di proteine (che a differenza della componente corpuscolata del sangue tendono a passare nello spazio intercellulare) [11]. Un dato piuttosto frequente è il riscontro di modeste linfocitosi e eosinofilia. Vi è una forte correlazione tra la malattia di Clarkson e la presenza di gammopatia monoclonale all’elettroforesi proteica [17]. Nelle serie disponibili in letteratura, in circa la metà dei casi descritti si è riscontrata la presenza di una componente monoclonale (su 39 casi 28 presentavano catene IgG k, 8 IgG l, 1 IgA e 1 IgM) [10]. Diagnosi differenziale Lo stravaso capillare può essere associato a diverse condizioni, come la sepsi, la mastocitosi sistemica, il deficit di C1-inibitore (angioedema ereditario o acquisito), cause iatrogene (calcio-antagonisti, IL-2 [18], gemcitabina [19], interferone [20]), malattie linfoproliferative, sindrome di Sezary. Sono state descritte associazioni anche con il periodo post-partum. Generalmente la presentazione clinica è piuttosto drammatica e il paziente viene valutato durante la fase acuta. Le caratteristiche tipiche dell’episodio sono quindi l’ipotensione, fino allo shock ipovolemico, e la presenza di edemi importanti o generalizzati, a rapida insorgenza. Davanti a questo quadro vanno escluse in primis cause cardiovascolari di scompenso acuto (cardiopatia isdchemica, rottura di corde tendinee, tamponamento cardiaco, miocardite) e quadri di sepsi. A questo scopo sono utili i dati anamnestici (angor, cardiopatie note, traumi toracici, iperpiressia) e gli esami strumentali (radiografia del torace, ECG, ecocardiografia). Altre cause di edema e ipovolemia, come la sindrome nefrosica e lo scompenso ascitico, si instaurano generalmente in modo più lento. Elementi che depongono a favore della diagnosi di SCLS, oltre all’esclusione di altre cause di edema e ipotensione, sono: • la ricorrenza degli episodi; • la presenza di prodromi come quelli sopra descritti nelle 24 ore precedenti; • il riscontro di elevati valori di ematocrito associati a bassi livelli di proteine, indice di uno stravaso di liquidi accompagnati da macromolecole; • la scarsa risposta agli interventi terapeutici più comuni (infusione di liquidi, glucocorticoidi, amine vasoattive); • l’evoluzione benigna se accompagnata da un attento monitoraggio e da un’assistenza adeguata dal punto di vista della stabilità emodinamica. Naturalmente è necessario procedere, dopo la valutazione in urgenza, all’esclusione di malattie che possano scatenare quadri di SCLS secondaria, come le patologie neoplastiche, linfoproliferative o autoimmuni sopra citate, in particolare in presenza di componente monoclonale. Trattamento Non ci sono al momento protocolli validati per il trattamento acuto degli episodi di SCLS o per la profilassi delle recidive. Attacco acuto L’unica terapia parzialmente efficace sembra essere l’infusione di soluzioni di tipo plasma-expander, favorendo quelle contenenti molecole più pesanti (attualmente la più adatta presente sul mercato sembra essere una soluzione a base di poli-O-2 idrossietil-amido, con PM medio di 130 kDa). La posologia dei plasma-expander deve essere valutata in base al quadro emodinamico, considerando che buona parte del volume infuso costituirà un sovraccarico di circolo nella fase di regressione dell’attacco, quando cioè il flusso sarà dall’interstizio allo spazio vascolare. Sembra ragionevole l’infusione di boli di 250 ml da ripetere in funzione della risposta clinica. È stato proposto l’utilizzo di C1-inibitore che sembra dare buoni risultati nei pazienti pediatrici, ma non ci sono evidenze nell’adulto al riguardo. Terapia di mantenimento Per la prevenzione delle recidive si utilizzano farmaci che svolgono un’azione sulla contrattilità delle cellule endoteliali. A questo scopo sono stati utilizzati beta-bloccanti, teofillinici e calcio-antagonisti. In seguito alla nostra esperienza e in base alle evidenze di letteratura suggeriamo l’utilizzo di verapamil, 40 mg x 3 da incrementare se tollerato fino a dosaggio pieno di 80 mg x 3. Bibliografia 1. Clarkson B, Thompson D, Horwith M, Luckey EH (1960) Cyclical edema and shock due to increased capillary permeability. Am J Med 29:193–216 2. Tahirkheli NK, Greipp PR (1999) Treatment of the systemic capillary leak syndrome with terbutaline and theophylline. A case series. Ann Intern Med 130:905–909 3. Marasini B, Bergamaschini L, Boccassini G, Agostini A (1979) Systemic capillary leak syndrome. Evaluation of single protein fractions in serum and in interstitial fluid. Bibl Anat 18:41–43 4. Cicardi M, Gardinali M, Bisiani G et al (1990) The systemic capillary leak syndrome: appearance of interleukin-2-receptor-positive cells during attacks. Ann Intern Med 113:475–477 5. Cicardi M, Berti E, Caputo V et al (1997) Idiopathic capillary leak syndrome: evidence of CD8-positive lymphocytes surrounding damaged endothelial cells. J Allergy Clin Immunol 99:417–419 6. Rosenstein M, Ettinghausen SE, Rosenberg SA (1986) Extravasation of intravascular fluid mediated by the systemic administration of recombinant interleukin 2. J Immunol 137:1735–1742 7. 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De Pas T, Curigliano G, Franceschelli L et al (2001) Gemcitabine-induced systemic capillary leak syndrome. Ann Oncol 12:1651–1652 20. Yamamoto K, Mizuno M, Tsuji T, Amano T (2002) Capillary leak syndrome after interferon treatment for chronic hepatitis C. Arch Intern Med 162:481–482 Una riflessione sulla lettera di dimissione 1ROBERTO TARQUINI, 2CHIARA LAZZERI, 1DAVID COLETTA, 2GIAN GRANCO GENSINI 1Dipartimento Interaziendale per la Continuità dell’Assistenza, Ospedale di Castelfiorentino, Università di Firenze; 2Dipartimento Cuore e Vasi, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze La lettera di dimissione ospedaliera rappresenta lo strumento con cui l’ospedale fornisce (o dovrebbe fornire) indicazioni al paziente sul decorso clinico, le indagini effettuate, la diagnosi formulata e soprattutto sulle norme comportamentali e sulla terapia da assumere dopo il ricovero stesso. Rappresenta inoltre la modalità con cui si realizza nella pratica clinica il “passaggio di consegne tra Ospedale e Territorio”, in particolare tra Ospedale e MMG (Medico di Medicina Generale). Nella misura in cui essa contribuisce alla “continuità di cure” (mediante un’efficace comunicazione tra medico ospedaliero – paziente e medico ospedaliero – medico curante), riesce al contempo a influenzare, in modo positivo o negativo, l’aderenza alla terapia e, conseguentemente, il numero di nuovi ricoveri per la stessa diagnosi. Sebbene questo concetto possa apparire intuitivo, la letteratura dispo- nibile a proposito è scarsa e frammentaria, sostenuta da studi effettuati per lo più in realtà organizzativo-sanitarie diverse dall’Italia. Da una recente revisione delle evidenze è emerso che la comunicazione diretta tra medico ospedaliero e medico di famiglia si verifica poco frequentemente (3–20%) e il medico di famiglia si trova a “proseguire” le cure senza aver ricevuto tutti gli elementi potenzialmente utili. Inoltre le lettere di dimissione sono spesso prive di informazioni importanti ai fini clinici, quali i risultati di test diagnostici (che mancano dal 33 al 63% dei casi), la terapia somministrata o note sul decorso ospedaliero (carenti dal 7 al 22%) e la terapia alla dimissione (dal 2 al 40%). Il follow-up consigliato manca in un’elevata percentuale di casi (dal 2 al 43%) [1, 2]. Evidenze più recenti hanno documentato che alla “non completezza” della lettera di dimissione si associa una più bassa qua- lità di cure e sfavorevoli eventi clinici. Difatti, in uno studio di Moore e coll. è emerso che errori nel “trasferimento delle informazioni” al momento della dimissione si verificavano in un’elevata percentuale di pazienti (fino al 50% dei casi) e si associavano a un’aumentata incidenza di riammissioni [3].Van Walraven e coll. hanno documentato che il rischio di riammissione era molto più elevato per quei pazienti che venivano seguiti da medici ai quali non era stata consegnata una lettera di dimissione [4]. Al contrario, in uno studio di coorte effettuato in Canada, i pazienti seguiti dagli stessi medici avevano una riduzione del rischio di morte o di riammissione del 5% [5–8]. Roy e coll. hanno osservato come il 40% dei pazienti, al momento della dimissione, deve ancora ricevere i risultati di esami effettuati durante il ricovero, risultati che spesso non vengono comunicati ma che, nel 10% dei casi, richiederebbero un provvedimento successivo [5]. Infine, come recentemente descritto, i pazienti sono particolarmente esposti a errori medici nei giorni immediatamente successivi alla dimissione. Il 49% dei pazienti dimessi da ospedali è vittima di almeno un errore nei giorni successivi alla dimissione stessa, errore che riguarda più spesso la terapia. Circa il 19–23% dei pazienti presenta dopo la dimissione effetti collaterali di farmaci, effetti che potrebbero essere prevenuti da una più accurata e corretta comunicazione [8–12]. Sulla base di queste evidenze, il Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO) ha stabilito che la lettera di dimissione debba essere completata entro 30 giorni dalla dimissione e che debba comprendere “la causa del ricovero, gli elementi significativi emersi durante la degenza, le procedure e i test diagnostici effettuati, la terapia somministrata, la descrizione delle condizioni del paziente alla dimissione, la terapia consigliata e le informazioni fornite al paziente e alla famiglia”. Dal 1977 al 2005 sono stati pubblicati circa 18 studi relativi a “misure di intervento” tese a migliorare l’efficacia della comunicazione della lettera di dimissione. Più frequentemente viene proposta una lettera di dimissione preparata al computer rispetto a una compilata a mano; altri studi prevedono una diversa modalità di consegna (a mano vs elettronica o fax) o una differente modalità stesura. Nel loro complesso però questi studi sono eterogenei per popolazione inclusa (bambini vs adulti), endpoint e periodo di follow-up [1]. Sono stati effettuati soltanto tre studi randomizzati. Sandler e coll. hanno rilevato come la consegna a mano della lettera di dimissione si associava a una più celere presa visione da parte del medico curante (1 giorno vs 4 giorni) [1, 12]. Nello studio di Van Walraven e coll., grazie alla creazione di un database ospedaliero, un maggior numero di lettere di dimissione da questo ricavate (rispetto a quelle compilate su dettatura) era completo a 4 settimane della dimissione. Inoltre risultavano essere più complete, in quanto contenevano diagnosi di dimissione (100% vs 65%; p = 0,001), reperti obiettivi pertinenti (99% vs 87%, p = 0,001), risultati di esami radiologici (47% vs 39%; p = 0,08), e di esami di laboratorio (30% vs 17%; p = 0,01), terapia domiciliare (100% vs 93%; p = 0,006), terapia medica al follow-up (99% vs 95%; p = 0,57) e gli esami ancora da effettuare alla dimissione (41% vs 9%; p = 0,001) [4]. Nello studio di Marks, su di una popolazione pediatrica, sono stati valutati gli effetti di un programma di “plurimi interventi” (cosiddetto multimodal enhanced discharge planning, costituito da contatti telefonici post-dimissione, un programma di appuntamenti, brochure informative per i pazienti). Se confrontato con le strategie convenzionali, questo programma si è associato a un mag- gior grado di soddisfazione da parte dei medici di famiglia che si sentivano più coinvolti nel percorso di cura del piccolo paziente: lo studio non ha però raggiunto la potenza statistica per valutare gli effetti sulla morbilità (cioè frequenza di riammissioni per lo stesso motivo, numero di accessi al pronto soccorso) [1]. A nostro avviso, la consegna della lettera di dimissione è un atto importante e irrinunciabile nel rapporto medico-paziente, atto informativo e formativo al quale, nella dinamica degli eventi quotidiana, viene riservato troppo poco spazio. Non solo dovrebbe essere prestata grande attenzione nella compilazione della lettera stessa, ma dovrebbe essere riservato uno spazio (codificato) nel quale questa viene illustrata al paziente (e possibilmente ai familiari) e soprattutto verificata l’efficacia della comunicazione, ovvero quanto sia stato percepito dal paziente stesso in termini del proprio stato di malattia e delle norme (farmacologiche e non) da seguire. Proposta di lettera di dimissione uniformata La lettera di dimissione, indirizzata al medico curante, dovrebbe contenere: • diagnosi d’ingresso e diagnosi di dimissione; • relative storia clinica e obiettività; • note di decorso ospedaliero relativamente anche al trattamento; • risultati dei principali esami strumentali e di laboratorio; • eventuali consulenze effettuate; • le informazioni date alla famiglia; • condizioni del paziente alla dimissione; • terapia alla dimissione; • follow-up consigliato; • indicazioni sulla necessità di portare la lettera di dimissione a ogni controllo. Bibliografia 1. Kripalani S, LeFevre F, Phillips CO et al (2007) Deficits in communication and information transfer between hospital-based and primary care physicians: implications for patient safety and continuity of care. JAMA 297:831–841 2. Wachter RM, Goldman L (2002) The hospitalist movement 5 years later. JAMA 287:487–494 3. Moore C, Wisnivesky J, Williams S, McGinn T (2003) Medical errors related to discontinuity of care from an inpatient to an outpatient setting. J Gen Intern Med 18:646–651 4. van Walraven C, Mamdani M, Fang J, Austin P (2004) Continuity of care and patient outcomes after hospital discharge. J Gen Intern Med 19:624–631 5. Roy CL, Poon EG, Karson AS et al (2005) Patient safety concerns arising from test results that return after hospital discharge. Ann Intern Med 143:121–128 6. Forster AJ, Murff HJ, Peterson JF et al (2003) The incidence and severity of adverse events affecting patients after discharge from the hospital. Ann Intern Med 138:161–167 7. Standard IM.6.10: Hospital Accreditation Standards (2006) Oakbrook Terrace, Ill: Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations, pp 338–340 8. Lissauer T, Paterson C, Simons A, Beard R (1991) Evaluation of computer generated neonatal dischargesummaries. Arch Dis Child 66:433–436 9. 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Secondo una revisione sistematica pubblicata su Lancet nel 2005, più del 60% dei soggetti ultrasessantenni che risiedono nei paesi industrializzati soffre di ipertensione [1]. Peraltro proprio nell’anziano vi sono importanti peculiarità in termini diagnostici, prognostici e di trattamento, che rendono l’iperteso un paziente del tutto diverso dal giovane, come illustrato dalle recenti Linee Guida della regione Toscana (http://www.snlgiss.it/lgr_toscana_ipertensione_2009). La maggior parte degli studi epidemiologici sul paziente affetto da ipertensione arteriosa hanno escluso i soggetti più anziani, tanto che i dati a oggi disponibili per il trattamento dell’anziano iperteso non sono del tutto soddisfacenti. In un’indagine svolta dall’Università di Firenze è stato dimostrato che nel Comune di Dicomano il 50% degli ipertesi anziani non sapeva di esserlo e solo il 10% era ben trattato [2]. Ciò a conferma di altri studi italiani volti a valutare la persistenza al trattamento con farmaci antiipertensivi: questi ultimi hanno dimostrato che la percentuale dei non aderenti raggiunge un valore pari al 30–35% a sei mesi dall’inizio del trattamento farmacologico [3]. Inoltre sono ormai numerose le evidenze scientifiche prodotte sia in campo nazionale che internazionale a testimonianza dell’efficacia dell’aderenza alla terapia anti-ipertensiva [4, 5]. In particolare, lo studio di Mazzaglia e coll. [5], condotto sul database italiano di Medicina Generale Health Search, ha dimostrato una riduzione significativa, del 20%, per quanto concerne il rischio di eventi cardiovascolari acuti (infarto acuto del miocardio, angina, ictus, attacco ischemico transiente) per i soggetti alto-aderenti (almeno l’80% di copertura dei giorni di terapia) rispetto ai basso-aderenti (meno del 40% di copertura dei giorni di terapia). Queste informazioni indicano non soltanto la rilevanza clinica associata a un corretto uso dei farmaci, ma anche come l’interazione tra medico e paziente sia essenziale per il raggiungimento di target terapeutici importanti per il sistema sanitario nazionale. Cause di non aderenza Le cause che inducono il paziente a non utilizzare in modo costante la terapia farmacologica sono numerose. In primo luogo l’assenza di una sintomatologia specifica. Molte malattie infatti, tra cui l’ipertensione, non presentano sintomi che possono allarmare il paziente e spingerlo a utilizzare i farmaci prescritti con regolarità. Le reazioni avverse al trattamento possono essere fonte di interruzione dello stesso, come nel caso di un regime polifarmacoterapeutico, dove risulta più complicato ricordare l’assunzione contemporanea di più trattamenti. Se queste condizioni si vanno poi a sommare a deficit di memoria, a condizioni di disabilità e solitudine, a un numero elevato di medici prescrittori, caratteristiche che si riscontrano particolarmente nei soggetti anziani, il rischio di interrompere il trattamento farmacologico aumenta ulteriormente. Cosa fare? Come indicato precedentemente l’ipertensione rappresenta un patologia di elevato impatto clinico. Inoltre il mancato trattamento della stessa può determinare importanti conseguenze in termini di economia sanitaria. Il numero di ricoveri per cause cardiovascolari risulta infatti inversamente associato a un uso corretto della terapia anti-ipertensiva. In tale contesto il medico internista, al fine di identificare i predittori di non aderenza e, quindi, di facilitare l’utilizzo appropriato del trattamento farmacologico nel soggetto anziano, può adottare le seguenti strategie: • valutare, in anamnesi, la presenza di un regime politerapeutico, in particolare l’associazione di 5 o più farmaci; • accertarsi sul numero di prescrittori che lo hanno preceduto nel trattamento del paziente; • verificare il livello di autosufficienza del paziente qualora non vi sia la palese e costante assistenza di un familiare o comunque di persona terza in qualità di caregiver; • ricordare al paziente di non interrompere il trattamento in presenza di sospetti effetti collaterali se non dopo aver consultato il proprio medico; • ricordare al paziente di rivolgersi al proprio medico curante o al proprio farmacista qualora incontri difficoltà a ricordare il regime terapeutico prescritto. Bibliografia 1. 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Circulation 120:1598–1605 IMPRESSUM Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 5 Num. 5 Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano Copyright © SIMI, Società Italiana di Medicina Interna