Medicina Italia – Numero 05/2010 - Società Italiana di Medicina

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Medicina Italia – Numero 05/2010 - Società Italiana di Medicina
Number 5/10
edicinatalia
La sindrome circolatoria iperdinamica in corso di cirrosi
epatica III - I principali mediatori coinvolti
1ROBERTO TARQUINI, 2CHIARA
LAZZERI, 3GIACOMO LAFFI, 2GIAN GRANCO GENSINI
1Dipartimento
Interaziendale per la Continuità dell’Assistenza, Ospedale di Castelfiorentino, Università di Firenze; 2Dipartimento Cuore e
Vasi e 3Dipartimento di Medicina Interna, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
L’ipertensione portale costituisce la conseguenza fisiopatologica più
importante della cirrosi epatica responsabile, insieme con l’insufficienza d’organo, delle principali manifestazioni cliniche.
Nella patogenesi di questo quadro, accanto all’aumento delle resistenze intraepatiche, un ruolo importante è da attribuire alla marcata
vasodilatazione del distretto splancnico, sostenuto dagli shunt portosistemici che agirebbero sia direttamente, diminuendo le resistenze
periferiche, sia indirettamente, permettendo a sostanze vasodilatanti
di origine intestinale di by-passare il filtro epatico e raggiungere
immodificate il circolo sistemico.
Di seguito prendiamo in esame le principali sostanze/molecole coinvolte nella fisiopatogenesi dell’ipertensione polmonare in corso di cirrosi epatica.
Molecole coinvolte nel complesso meccanismo della vasodilatazione
Numerose molecole sono state prese in considerazione come possibili responsabili della vasodilatazione.
Il monossido di azoto (NO). È un fattore di rilascio derivante dall’endotelio, è la molecola chiave nella vasodilatazione arteriosa a livello
della circolazione splancnica e sistemica, responsabile della sindrome
iperdinamica nell’ipertensione portale. L’NO è sintetizzato da una
famiglia di tre ossido nitrico sintasi (NOS): due isoforme espresse
costitutivamente, NOS endoteliale (eNOS) e NOS neuronale (nNOS), e
una isoforma inducibile (iNOS). Tra queste isoforme, eNOS è la maggiore fonte enzimatica dell’iperproduzione di NO vascolare nella circolazione arteriosa splancnica.
Il monossido di carbonio (CO). Come l’NO, è una molecola gassosa
prodotta a livello endogeno che attiva la guanilato ciclasi solubile
determinando un aumento del cGMP, oltre a regolare il tono vascolare in maniera simile all’NO. Il CO è prodotto dalla scissione dell’eme a biliverdina attraverso l’azione dell’eme-ossigenasi (HO). L’emeossigenasi negli ultimi anni ha attratto l’interesse del mondo scientifico come regolatore di funzioni di cellule e organi e in fisiopatologia
epatica come un nuovo regolatore delle resistenze vascolari. Un
incremento nell’attività dell’HO-1 è stato riscontrato nell’aorta e nelle
arterie mesenteriche di ratti con cirrosi biliare, mentre nessun cambiamento è stato osservato nell’espressione dell’HO-2 [1–8].
L’iniezione intraperitoneale acuta di zinco protoporfirina, un inibitore
selettivo dell’attività dell’HO, in questi ratti con una dose che va a
normalizzare l’attività aortica dell’HO, migliora la sindrome circolatoria iperdinamica, suggerendo il ruolo del CO nella vasodilatazione
arteriosa splancnica. Il CO ha un ruolo anche nella vasodilatazione
intrapolmonare caratteristica della sindrome epatopolmonare sia nell’uomo che nei modelli animali sperimentali di cirrosi biliare. Il CO circola strettamente legato all’emoglobina, determinando la formazione
di carbossiemoglobina usata come indicatore di produzione di CO. È
stato osservato che i livelli di carbossiemoglobina nel sangue sono
significativamente incrementati in una coorte di pazienti con cirrosi e
nella sindrome epatopolmonare sperimentale [4–9]. L’inibizione della
HO polmonare normalizza i livelli di carbossiemoglobina arteriosa e
riduce la vasodilatazione. Nel cervello l’attivazione dell’HO-1 e la produzione di CO, ma non dell’NO, potrebbero essere una causa di iperemia cerebrale, che conduce allo sviluppo dell’edema cerebrale nell’insufficienza epatica acuta.
Il nostro gruppo ha recentemente dimostrato che il sistema HO/CO è
attivato nei pazienti con cirrosi epatica e che questa attivazione è più
spiccata negli stati più avanzati della malattia, quali i pazienti con cirrosi e ascite [10]. Le elevate concentrazioni plasmatiche di CO e l’aumentata attività di HO-1 osservata nel PMN dei pazienti cirrotici presentavano una correlazione con i livelli plasmatici di cGMP, di endotossina e con la presenza di circolazione iperdinamica. Gli autori concludevano che in corso di cirrosi epatica si verifica un’ipersitimolazione
della HO inducibile (verosimilmente a causa dell’endotossina) e che
questo fenomeno potrebbe contribuire alla genesi della circolazione
iperdinamica in questi pazienti.
È stato anche suggerito un ruolo della prostaciclina (PGI2) nella sindrome iperdinamica. La PGI2 viene liberata dall’endotelio e stimola il
rilascio delle cellule muscolari lisce. Un incremento della PGI2 circolante è stato osservato nei pazienti con cirrosi e in conigli con ipertensione portale [2].
Anche altre molecole vasodilatatorie sono state studiate come possibili agenti nella sindrome iperdinamica: il fattore iperpolarizzante derivante dall’endotelio (EDHF), il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFa),
gli endocannabinoidi, l’adrenomedullina, l’acido solfidrico (H2S).
L’acido solfidrico è stato recentemente studiato come possibile mediatore nella patogenesi della disfunzione vascolare nella cirrosi. H2S è un
gas sintetizzato endogenamente a partire dall’L-cisteina a opera di due
enzimi, cistationina-γ-liasi e cistationina-β-sintasi. Questa molecola è
in grado di indurre vasodilatazione attraverso l’attivazione dei canali
KATP nelle cellule muscolari lisce vascolari e, come l’NO e il CO, rilascia
il tessuto vascolare in modo indipendente dall’attivazione della via del
CGMP. Un recente studio suggerisce un possibile aumento di H2S nella
sindrome iperdinamica attraverso un meccanismo mediato dall’endotossinemia che, da sola o in combinazione con l’aumentata sintesi di
NO, indurrebbe l’iperespressione della cistationina-γ-liasi con aumentata sintesi dell’H2S [1, 2]. L’endotossinemia è di frequente riscontro
nella cirrosi epatica ed elevate concentrazioni di endotossine circolanti si osservano anche in assenza di qualsiasi evidenza clinica di infezione, forse per l’alterata clearance dei batteri intestinali da parte del
fegato cirrotico.
Col termine cannabinoidi endogeni si fa riferimento a una nuova classe di ligandi lipidici endogeni, di cui l’anandamide (arachidonil-etanolamide) è stata la prima a essere scoperta. La loro attività è mediata da
due recettori di recente identificazione, CB1 e CB2, espressi sia a livello intraepatico (in particolare sulle cellule fibrogeniche) sia a livello
delle cellule endoteliali dei vasi. Teixeira-Cler e coll. hanno dimostrato
che i recettori CB1 risultano iperespressi nel fegato di soggetti cirrotici, in particolare a livello delle cellule fibrogeniche epatiche [2]. L’uso
di un antagonista del recettore CB1 ha permesso di ottenere un ridotto rimodellamento della matrice a seguito di un danno epatico acuto e
una diminuita risposta fibrogenica a seguito di un danno epatico cronico. Il ridotto accumulo di miofibroblasti epatici, mediante l’inibizione
della proliferazione e l’accentuazione dell’apoptosi, è il maggior determinante dell’effetto antifibrotico dovuto all’antagonismo del recettore
CB1. Se da una parte il CB1 ha una attività profibrogenica, il CB2 sembra avere un ruolo antifibrogenico. Studi futuri potranno essere volti a
valutare l’effetto dell’uso combinato di antagonisti CB1 e agonisti CB2
come trattamento sinergico antifibrotico.
Ipotesi patogenetiche
Secondo l’interpretazione più tradizionale, l’evento primario nella
genesi della sindrome circolatoria iperdinamica è rappresentato da una
marcata vasodilatazione sistemica che comporta una riduzione delle
resistenze vascolari periferiche, con conseguente squilibrio tra letto
vascolare e volume ematico, nonostante l’aumento del volume ematico totale osservato in tali pazienti. La riduzione della “volemia efficace”, cioè del volume ematico che perfonde i parenchimi nobili, viene
percepita dai recettori di volume e di pressione, in particolare quelli
situati nel compartimento arterioso. Questi ultimi, al fine di mantenere
l’omeostasi cardiocircolatoria, attivano i principali fattori costrittori
endogeni: il sistema nervoso simpatico (SNS), l’asse renina-angiotensina (SRA), l’ormone antidiuretico o vasopressina (ADH) e le endoteline
che, a loro volta, provocano un aumento del tono delle arteriole di resistenza, opponendosi alla caduta delle resistenze periferiche, e determinano un incremento della gittata sistolica, della frequenza cardiaca
e conseguentemente della gittata cardiaca.
Col progredire della malattia epatica, si viene a determinare un’iporesponsività e una desensibilizzazione di questi meccanismi controregolatori e varie sono le ipotesi per spiegare tale fenomeno: una downregulation recettoriale, difetti di transduzione post-recettoriale del
segnale, l’incremento stesso dei vasodilatatori endogeni (NO, prostacicline, CO).
I sistemi contro regolatori
L’endotelina 1 (ET-1) fa parte dei sistemi controregolatori che risultano
iperattivati nei pazienti cirrotici; è forse il più potente vasocostrittore
noto prodotto dall’endotelio vascolare. L’ET-1 agisce prevalentemente
come vasocostrittore paracrino, regolando il tono vascolare attraverso
la sua azione sui recettori ETA e ETB espressi a livello delle cellule
muscolari lisce dei vasi. Tuttavia, è stato dimostrato che l’ET-1 esercita
anche un’influenza vasodilatatoria mediata dai recettori ETB localizzati a livello endoteliale, mediante il rilascio di vasodilatatori endotelioderivati come l’NO [9, 10]. Nei soggetti sani l’effetto costrittore dell’ET1 sulla muscolatura liscia vascolare predomina sulla vasodilatazione
endotelio-dipendente. Nei cirrotici compensati è stata riscontrata una
risposta vasocostrittrice pressoché conservata all’ET-1 (anche se modicamente ridotta), mentre nei pazienti con cirrosi avanzata e circolo
iperdinamico la somministrazione di ET-1 causa una significativa vasodilatazione periferica, probabilmente mediata da una predominante
risposta dei recettori ET-B, come sembra avvalorato dal riscontro di iperattività della NOS e da aumentati livelli di NO.
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A proposito di systemic capillary leak syndrome: pensarci
in caso di shock ipovolemico a genesi ignota
MARCO CICARDI, ANDREA ZANICHELLI, MARTA DEL MEDICO
Dipartimento di Scienze Cliniche Università di Milano, Ospedale L. Sacco, Milano
Un uomo di 56 anni si presenta in pronto soccorso per episodio presincopale (senso di mancamento, visione offuscata, sudorazione fredda, cardiopalmo, astenia agli arti inferiori).
Il paziente riferisce inoltre comparsa di malessere generale, marcata
astenia, poliuria e addominalgie diffuse il giorno precedente.
In anamnesi una duodenocefalopancreasectomia per carcinoma dell’ampolla di Vater 8 anni prima, trattato con chemioterapia adiuvante
(cicli di 5-F-uracile e cis-platino); follow-up riferito negativo. Non viene
riportata alcuna altra patologia di rilievo in atto o pregressa.
Il paziente non segue alcuna terapia continuativa e non ha assunto farmaci di recente.
All’esame obiettivo risulta agitato, vigile, lucido, collaborante e orientato nello spazio-tempo. Apiretico, eupnoico a riposo, presenta sudorazione algida. Si evidenziano edemi pastosi in sede declive (fino al terzo
prossimale di gamba, bilateralmente); mucose idratate e rosee. I polsi
sono ipovalidi, simmetrici. Giugulari piane. Toni cardiaci tachifrequenti,
validi, pause libere; al torace il murmure vescicolare è presente, le basi
sono libere e mobili, non si apprezzano rumori patologici all’auscultazione. Non si osservano grossolani deficit neurologici. Frequenza cardiaca (FC) 104 bpm con alcune extrasistoli, Pressione Arteriosa (PA)
95/60 in clinostatismo, non valutabile in ortostatismo per comparsa di
sintomatologia pre-sincopale. L’addome è trattabile, modestamente
dolente, non vi sono segni di peritonismo, organomegalia o masse
abnormi. Peristalsi valida. Non linfadenopatie superficiali.
Quali sono le cause più probabili di edema? Quali quelle da escludere
per prime?
Il quadro è dominato da ipotensione associata a edemi declivi. Una
possibile origine è quella cardiovascolare: uno scompenso acuto di circolo può manifestarsi tipicamente con edemi, insufficienza renale e
ipotensione.
Una sindrome nefrosica difficilmente si instaura in modo così rapido, la
poliuria sembra inoltre essere solo transitoria, pertanto non appare la
diagnosi più probabile.
In assenza di una nota epatopatia e di segni di ascite, si può tralasciare l’ipotesi di una cirrosi.
Altre possibili cause di edema con ipotensione sono la sepsi, i farmaci
(diuretici, calcio-antagonisti, interleuchina-2), shock anafilattico, compressione di vasi venosi o linfatici, malnutrizione, ipotiroidismo.
Al tracciato ECG non vi sono alterazioni di rilievo. La radiografia del
torace non evidenzia addensamenti parenchimali o versamento, il
mediastino e l’ombra cardiaca non appaiono allargati.
Gli esami di laboratorio mostrano un quadro di emoconcentrazione: GR
7 710 000/mmc; GB 23 700/mmc; Hb 22,7 g/dl; Ht 67%; Plt 321
000/mmc; creatinina 2,2 mg/dl.
L’anamnesi negativa per cardiopatie e il tracciato ECG negativo non
rafforzano l’ipotesi cardiovascolare. Visti i sintomi iniziali è stata
comunque dosata la troponina, risultata negativa su due prelievi.
Alla luce dei dati strumentali e di laboratorio ci si può orientare su una
ipovolemia efficace, dovuta a perdita di liquidi o al loro sequestro nell’interstizio; rimane però completamente non spiegata l’eziologia di
una tale condizione.
Poco dopo l’ingresso al Pronto Soccorso il paziente sviluppa un quadro
di shock cardiocircolatorio (vasocostrizione periferica, ipotensione
grave, incontattabilità) per cui viene trasferito nel reparto di rianimazione. Viene trattato con abbondante idratazione (soluzione NaCl
0,9% e plasma-expander), amine simpaticomimetiche e corticosteroidi. A causa della somministrazioni di abbondanti quantità di liquidi sviluppa un quadro di tipo anasarcatico, con edema generalizzato ai
quattro arti e al tronco e abbondante versamento pleurico, associati a
contrazione della diuresi. Ciò in assenza di una significativa correzione
dell’ematocrito che inizia invece a realizzarsi in terza giornata ed è
concomitante alla progressiva stabilizzazione del quadro emodinamico
e ripristino di valori pressori soddisfacenti.
Trasferito nel reparto di Medicina Interna, viene sottoposto a ulteriori
accertamenti. Si osserva normalizzazione dei valori di ematocrito e
della funzione renale. La proteinemia, inizialmente ridotta (Proteine
tot. 5,6 g/dl; Albumina 3,0 g/dl), rientra nei limiti dopo alcuni giorni
(Proteine tot. 7,2; Albumina 3,7 g/dl in quinta giornata). La PCR, il fattore reumatoide, il fibrinogeno e la VES risultano nei limiti, così come
la formula leucocitaria.
L’elettroforesi delle proteine sieriche mostra una componente monoclonale di tipo IgG/k. La funzione tiroidea, gli indici di sintesi, il metabolismo marziale risultano nei limiti. L’esame delle urine (effettuato
durante la fase di risoluzione del quadro) mostra densità 1009, pH 6,0,
proteinuria assente. Vengono effettuati dosaggi delle catecolamine urinarie, delle frazioni C3 e C4 del complemento, del C1-inibitore, del cortisolo plasmatico e urinario, tutti nei limiti. L’ecografia dell’addome non
mostra alterazioni di rilievo. I marker neoplastici risultano negativi. La
risonanza magnetica dell’encefalo (eseguita nel sospetto di patologia
ipotalamo-ipofisaria) mostra piccole lesioni corticali e sottocorticali
fronto-temporali e nei nuclei della base bilateralmente. Alcune delle
lesioni corticali mostrano minima componente emorragica. Il quadro
viene interpretato come compatibile con ischemia su base emodinamica ipotensiva.
Per escludere una patologia linfoproliferativa associata alla componente monoclonale viene eseguita una biopsia osteomidollare, che
risulta completamente nella norma.
In considerazione dell’esito negativo degli accertamenti viene posta
diagnosi di Systemic Capillary Leak Syndrome - SCLS (ipotensione,
emoconcentrazione, ipoprotidemia). Il paziente viene inviato a un centro di riferimento terziario per una rivalutazione globale e per l’impostazione di una terapia profilattica. La diagnosi viene confermata e
viene iniziato trattamento con verapamil 120 mg x 2 die e teofillina
300 mg die. Viene consigliato per il trattamento dell’attacco acuto l’utilizzo di plasma-expander preferendo le soluzioni contenenti molecole di alto peso molecolare, somministrabili in boli ripetuti (250 cc), a
seconda della risposta pressoria, per evitare la somministrazione di una
quantità eccessiva di liquidi, che potrebbe risultare dannosa nel periodo di recupero.
L’evidenza
La SCLS o malattia di Clarkson è una rara patologia a eziologia ignota, caratterizzata da episodi ricorrenti di shock ipovolemico correlato
a stravaso di plasma dal letto vascolare allo spazio interstiziale,
accompagnato da emocroncentrazione, ipoalbuminemia ed edema
generalizzato.
Fu descritta per la prima volta nel 1960 da Bayard Clarkson in una
donna di 34 anni, che soffriva di ricorrenti episodi di edema generalizzato e grave ipotensione, associati a importante emoconcentrazione e
ipoalbuminemia [1], che si verificavano caratteristicamente nella fase
premestruale, per un periodo di due anni circa; la paziente morì in
seguito a uno di questi eventi. Non era affetta da patologie concomitanti, né pregresse. Non soffriva di patologie ginecologiche, non presentava dismenorrea e aveva portato a temine 2 gravidanze senza
complicanze di sorta. L’ipotesi immunologica è stata considerata sin
dall’inizio come quella più probabile; si riteneva che la paziente, prima
del ciclo sviluppasse una reazione di ipersensibilità nei confronti di un
antigene endogeno. Per questo motivo, vista l’inefficacia dei farmaci
cortisonici e l’incremento della frequenza degli episodi, la paziente fu
sottoposta a isteroannessiectomia. Dopo tre mesi di apparente benessere gli episodi cominciarono a ripresentarsi. Gli unici reperti di anormalità furono lievi alterazioni della formula leucocitaria (lievi eosinofilia e linfocitosi) e una piccola componente monoclonale. L’autopsia
non dimostrò alterazioni peculiari, ma solo lesioni focali dovute all’ipoperfusione degli organi legata alla marcata ipotensione durante gli
attacchi.
Nonostante le indagini diagnostiche fossero state inconcludenti,
Clarkson e colleghi riuscirono a dimostrare, grazie a studi con albumina marcata, l’imponente stravaso proteico nel comparto extravascolare e quindi l’aumentata, ma transitoria, permeabilità vascolare.
Si ritiene che fino al 70% del volume intravascolare possa fuoriuscire
durante gli episodi acuti [2]. La frazione di plasma in grado di oltrepassare la barriera capillare è costituita da acqua e dai componenti
plasmatici con peso molecolare fino a 200 KDa (quindi dalla maggioranza delle proteine ivi contenute) [3].
Non è chiaro il meccanismo patogenetico alla base di questo fenomeno: anche durante l’attacco acuto non sono state evidenziate alterazioni istologiche dei capillari tali da giustificare la massiva perdita di
liquidi. È stato però osservato un cospicuo infiltrato cellulare linfocitario perilesionale CD8+, le cui cellule esprimevano il recettore per l’IL-2
nel derma di questi soggetti. Inoltre si è potuto dosare il medesimo
recettore nel sangue del paziente. Si ipotizza dunque che queste cellule, capaci di attività citotossica, attivate dalla presenza di livelli elevati
di interleuchina 2, medino il danno endoteliale alla base della formazione di edema. Negli strati più superficiali del derma si è riscontrata
l’inusuale presenza di cellule CD1a/s100+, che svolgono tipicamente
la funzione di cellule presentanti l’antigene. Si potrebbe dunque pensare che qualche molecola con caratteristiche di antigene possa fungere da trigger e scatenare l’attacco acuto [4, 5]. Tale ipotesi è avvalorata dall’evidenza di un quadro analogo in pazienti trattati con IL-2
ricombinante (rIL-2) [6] e in pazienti pediatrici sottoposti a trapianto di
midollo [7].
La letteratura riguardo i provvedimenti terapeutici è scarsa, dato l’esiguo numero dei pazienti, la difficoltà a reclutarli e a sottoporli a studi
randomizzati.
Alla Mayo Clinic di Rochester 8 pazienti sono stati seguiti per circa 18
anni (follow-up medio di 9 anni) e sottoposti a profilassi con terbutalina e teofillina [2]. È stata riscontrata una sostanziale efficacia dell’associazione di questi due farmaci, con una netta riduzione del numero
degli episodi (diminuiti di 30 volte) e della loro gravità. Da notare che
nei pazienti che dimostravano recidive durante il trattamento i livelli di
teofillina erano sub-terapeutici. Solo uno di essi morì durante un attacco acuto e un altro per le complicanze di una lunga terapia corticosteroidea. Purtroppo questo regime terapeutico fu, nella quasi totalità dei
casi, causa di effetti collaterali legati ai suoi effetti simpaticomimetici
(tremori, ansia, insonnia): è quindi necessario valutare il grado di compliance dei pazienti alla luce di tali effetti [2].
Un trattamento alternativo, che non trova però allo stato attuale evidenze, se non la nostra esperienza, è rappresentato dall’associazione
di teofillina e verapamil. Il calcio-antagonista dovrebbe agire impedendo la contrazione delle cellule endoteliali e quindi l’allargamento delle
giunzioni intercellulari. Potrebbe sembrare un paradosso dato che i calcio-antagonisti annoverano tra i loro più frequenti effetti collaterali
proprio l’edema. Uno studio, effettuato paragonando l’azione di verapamil e diltiazem sulla permeabilità vascolare dei ratti, sembra dimostrare che il secondo ma non il primo sia in grado di aumentarla e quindi di mediare lo stravaso di plasma e albumina dal letto vascolare al
comparto interstiziale, provocando edema [8].
Inoltre è citato in letteratura un case report in cui il verapamil è stato
utilizzato durante la fase acuta di un attacco di SCLS e sembrerebbe
aver avuto effetto, seppur temporaneo [9].
Epidemiologia
Risulta molto difficile stimare l’incidenza della patologia a causa della
sua bassa frequenza e della probabile presenza di casi non diagnosticati. Dalle revisioni della letteratura sono disponibili circa 100 report.
L’età media è di 47 ± 13, con range compreso tra 3 e 68 anni. Il rapporto M:F è di 1,4 [10]. La mortalità, in assenza di profilassi, sembrerebbe essere pari al 76% a 5 anni dalla diagnosi [11].
Caratteristiche cliniche
La caratteristica fondamentale di questa patologia è la comparsa di
shock associato a ipovolemia efficace in almeno un episodio acuto.
Non tutti gli attacchi acuti però evolvono verso un vero quadro di
shock e si sono osservati casi in cui il paziente non presentava alcuna
recidiva dopo il primo episodio. In circa la metà dei casi si osserva una
sindrome prodromica caratterizzata da sintomi simil-influenzali (malessere, mialgia), dolore addominale, nausea o vomito, polidipsia, vertigine e rinorrea [10]. Di solito nei casi ricorrenti i pazienti riportano quasi
sempre gli stessi sintomi prodromici.
Durante l’attacco si osserva marcata ipotensione, generalmente
accompagnata dalla comparsa concomitante di edema di entità variabile, spesso generalizzato [12]. Frequentemente si osserva sequestro di
fluidi nel terzo spazio (versamento pleurico bilaterale, ascite, versamento pericardico [13]). Sono inoltre stati descritti quadri di edema
cerebrale [14], edema della glottide e papilledema, con grave ipovisus.
Lo stravaso di liquidi nei tessuti muscolari può determinare la comparsa di sindrome compartimentale e conseguente rabdomiolisi massiva
[15], quadro che impone trattamento chirurgico con fasciotomia e un
attento monitoraggio della funzionalità renale. L’insufficienza renale è
quasi sempre presente durante gli attacchi ma è generalmente di tipo
pre-renale e solo in pochi casi si è osservata riduzione della clearance
anche dopo la risoluzione dell’attacco. Sono descritti inoltre casi di
necrosi tubulare acuta.
Bisogna far notare che, se in alcuni casi il quadro di shock è predominante e il paziente necessita di essere intubato e trattato in un reparto di rianimazione, ci sono state evenienze in cui i pazienti nonostante
una marcata ipotensione (PAS 60–70 mmHg, PAD 40–30 mmHg)
erano coscienti e in grado di mantenere la posizione eretta senza manifestare gravi sintomi presincopali o franca sincope.
Durante la fase di risoluzione, che avviene di solito dopo pochi giorni
dall’inizio dei sintomi, nei pazienti sottoposti a cospicua terapia infusionale di sostenimento (a volte si arriva anche a 40 L di liquidi somministrati in pochi giorni) si sono verificati casi di edema polmonare
acuto, verosimilmente dovuto al sovraccarico di circolo conseguente al
recupero di liquidi dall’interstizio [16].
Esami di laboratorio
Un riscontro costante nella SCLS è l’incremento dell’ematocrito (fino a
70% nei casi più gravi). Il quadro di emoconcentrazione si caratterizza
per l’aumento di tutte le serie cellulari, spesso accompagnato da bassi
livelli di albumina e di proteine (che a differenza della componente corpuscolata del sangue tendono a passare nello spazio intercellulare)
[11]. Un dato piuttosto frequente è il riscontro di modeste linfocitosi e
eosinofilia. Vi è una forte correlazione tra la malattia di Clarkson e la
presenza di gammopatia monoclonale all’elettroforesi proteica [17].
Nelle serie disponibili in letteratura, in circa la metà dei casi descritti si
è riscontrata la presenza di una componente monoclonale (su 39 casi
28 presentavano catene IgG k, 8 IgG l, 1 IgA e 1 IgM) [10].
Diagnosi differenziale
Lo stravaso capillare può essere associato a diverse condizioni, come la
sepsi, la mastocitosi sistemica, il deficit di C1-inibitore (angioedema ereditario o acquisito), cause iatrogene (calcio-antagonisti, IL-2 [18], gemcitabina [19], interferone [20]), malattie linfoproliferative, sindrome di Sezary.
Sono state descritte associazioni anche con il periodo post-partum.
Generalmente la presentazione clinica è piuttosto drammatica e il
paziente viene valutato durante la fase acuta. Le caratteristiche tipiche
dell’episodio sono quindi l’ipotensione, fino allo shock ipovolemico, e
la presenza di edemi importanti o generalizzati, a rapida insorgenza.
Davanti a questo quadro vanno escluse in primis cause cardiovascolari di
scompenso acuto (cardiopatia isdchemica, rottura di corde tendinee,
tamponamento cardiaco, miocardite) e quadri di sepsi. A questo scopo
sono utili i dati anamnestici (angor, cardiopatie note, traumi toracici, iperpiressia) e gli esami strumentali (radiografia del torace, ECG, ecocardiografia). Altre cause di edema e ipovolemia, come la sindrome nefrosica e
lo scompenso ascitico, si instaurano generalmente in modo più lento.
Elementi che depongono a favore della diagnosi di SCLS, oltre all’esclusione di altre cause di edema e ipotensione, sono:
• la ricorrenza degli episodi;
• la presenza di prodromi come quelli sopra descritti nelle 24 ore
precedenti;
• il riscontro di elevati valori di ematocrito associati a bassi livelli di
proteine, indice di uno stravaso di liquidi accompagnati da macromolecole;
• la scarsa risposta agli interventi terapeutici più comuni (infusione
di liquidi, glucocorticoidi, amine vasoattive);
• l’evoluzione benigna se accompagnata da un attento monitoraggio e da un’assistenza adeguata dal punto di vista della stabilità
emodinamica.
Naturalmente è necessario procedere, dopo la valutazione in urgenza,
all’esclusione di malattie che possano scatenare quadri di SCLS secondaria, come le patologie neoplastiche, linfoproliferative o autoimmuni
sopra citate, in particolare in presenza di componente monoclonale.
Trattamento
Non ci sono al momento protocolli validati per il trattamento acuto
degli episodi di SCLS o per la profilassi delle recidive.
Attacco acuto
L’unica terapia parzialmente efficace sembra essere l’infusione di soluzioni di tipo plasma-expander, favorendo quelle contenenti molecole
più pesanti (attualmente la più adatta presente sul mercato sembra
essere una soluzione a base di poli-O-2 idrossietil-amido, con PM
medio di 130 kDa). La posologia dei plasma-expander deve essere
valutata in base al quadro emodinamico, considerando che buona
parte del volume infuso costituirà un sovraccarico di circolo nella fase
di regressione dell’attacco, quando cioè il flusso sarà dall’interstizio
allo spazio vascolare. Sembra ragionevole l’infusione di boli di 250 ml
da ripetere in funzione della risposta clinica. È stato proposto l’utilizzo
di C1-inibitore che sembra dare buoni risultati nei pazienti pediatrici,
ma non ci sono evidenze nell’adulto al riguardo.
Terapia di mantenimento
Per la prevenzione delle recidive si utilizzano farmaci che svolgono
un’azione sulla contrattilità delle cellule endoteliali. A questo scopo
sono stati utilizzati beta-bloccanti, teofillinici e calcio-antagonisti.
In seguito alla nostra esperienza e in base alle evidenze di letteratura
suggeriamo l’utilizzo di verapamil, 40 mg x 3 da incrementare se tollerato fino a dosaggio pieno di 80 mg x 3.
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Una riflessione sulla lettera di dimissione
1ROBERTO TARQUINI, 2CHIARA
LAZZERI, 1DAVID COLETTA, 2GIAN GRANCO GENSINI
1Dipartimento
Interaziendale per la Continuità dell’Assistenza, Ospedale di Castelfiorentino, Università di Firenze; 2Dipartimento Cuore e
Vasi, Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze
La lettera di dimissione ospedaliera rappresenta lo strumento con cui
l’ospedale fornisce (o dovrebbe fornire) indicazioni al paziente sul
decorso clinico, le indagini effettuate, la diagnosi formulata e soprattutto sulle norme comportamentali e sulla terapia da assumere dopo il
ricovero stesso. Rappresenta inoltre la modalità con cui si realizza nella
pratica clinica il “passaggio di consegne tra Ospedale e Territorio”, in
particolare tra Ospedale e MMG (Medico di Medicina Generale).
Nella misura in cui essa contribuisce alla “continuità di cure” (mediante un’efficace comunicazione tra medico ospedaliero – paziente e
medico ospedaliero – medico curante), riesce al contempo a influenzare, in modo positivo o negativo, l’aderenza alla terapia e, conseguentemente, il numero di nuovi ricoveri per la stessa diagnosi.
Sebbene questo concetto possa apparire intuitivo, la letteratura dispo-
nibile a proposito è scarsa e frammentaria, sostenuta da studi effettuati per lo più in realtà organizzativo-sanitarie diverse dall’Italia.
Da una recente revisione delle evidenze è emerso che la comunicazione diretta tra medico ospedaliero e medico di famiglia si verifica poco
frequentemente (3–20%) e il medico di famiglia si trova a “proseguire”
le cure senza aver ricevuto tutti gli elementi potenzialmente utili. Inoltre
le lettere di dimissione sono spesso prive di informazioni importanti ai
fini clinici, quali i risultati di test diagnostici (che mancano dal 33 al
63% dei casi), la terapia somministrata o note sul decorso ospedaliero
(carenti dal 7 al 22%) e la terapia alla dimissione (dal 2 al 40%). Il follow-up consigliato manca in un’elevata percentuale di casi (dal 2 al
43%) [1, 2]. Evidenze più recenti hanno documentato che alla “non
completezza” della lettera di dimissione si associa una più bassa qua-
lità di cure e sfavorevoli eventi clinici. Difatti, in uno studio di Moore e
coll. è emerso che errori nel “trasferimento delle informazioni” al
momento della dimissione si verificavano in un’elevata percentuale di
pazienti (fino al 50% dei casi) e si associavano a un’aumentata incidenza di riammissioni [3].Van Walraven e coll. hanno documentato che
il rischio di riammissione era molto più elevato per quei pazienti che
venivano seguiti da medici ai quali non era stata consegnata una lettera di dimissione [4]. Al contrario, in uno studio di coorte effettuato in
Canada, i pazienti seguiti dagli stessi medici avevano una riduzione del
rischio di morte o di riammissione del 5% [5–8]. Roy e coll. hanno
osservato come il 40% dei pazienti, al momento della dimissione, deve
ancora ricevere i risultati di esami effettuati durante il ricovero, risultati
che spesso non vengono comunicati ma che, nel 10% dei casi, richiederebbero un provvedimento successivo [5]. Infine, come recentemente
descritto, i pazienti sono particolarmente esposti a errori medici nei
giorni immediatamente successivi alla dimissione. Il 49% dei pazienti
dimessi da ospedali è vittima di almeno un errore nei giorni successivi
alla dimissione stessa, errore che riguarda più spesso la terapia. Circa il
19–23% dei pazienti presenta dopo la dimissione effetti collaterali di
farmaci, effetti che potrebbero essere prevenuti da una più accurata e
corretta comunicazione [8–12].
Sulla base di queste evidenze, il Joint Commission on Accreditation of
Healthcare Organizations (JCAHO) ha stabilito che la lettera di dimissione debba essere completata entro 30 giorni dalla dimissione e che
debba comprendere “la causa del ricovero, gli elementi significativi
emersi durante la degenza, le procedure e i test diagnostici effettuati,
la terapia somministrata, la descrizione delle condizioni del paziente
alla dimissione, la terapia consigliata e le informazioni fornite al
paziente e alla famiglia”.
Dal 1977 al 2005 sono stati pubblicati circa 18 studi relativi a “misure di intervento” tese a migliorare l’efficacia della comunicazione della
lettera di dimissione. Più frequentemente viene proposta una lettera di
dimissione preparata al computer rispetto a una compilata a mano;
altri studi prevedono una diversa modalità di consegna (a mano vs
elettronica o fax) o una differente modalità stesura. Nel loro complesso però questi studi sono eterogenei per popolazione inclusa (bambini
vs adulti), endpoint e periodo di follow-up [1].
Sono stati effettuati soltanto tre studi randomizzati. Sandler e coll.
hanno rilevato come la consegna a mano della lettera di dimissione si
associava a una più celere presa visione da parte del medico curante
(1 giorno vs 4 giorni) [1, 12]. Nello studio di Van Walraven e coll., grazie alla creazione di un database ospedaliero, un maggior numero di
lettere di dimissione da questo ricavate (rispetto a quelle compilate su
dettatura) era completo a 4 settimane della dimissione. Inoltre risultavano essere più complete, in quanto contenevano diagnosi di dimissione (100% vs 65%; p = 0,001), reperti obiettivi pertinenti (99% vs
87%, p = 0,001), risultati di esami radiologici (47% vs 39%; p =
0,08), e di esami di laboratorio (30% vs 17%; p = 0,01), terapia domiciliare (100% vs 93%; p = 0,006), terapia medica al follow-up (99%
vs 95%; p = 0,57) e gli esami ancora da effettuare alla dimissione
(41% vs 9%; p = 0,001) [4]. Nello studio di Marks, su di una popolazione pediatrica, sono stati valutati gli effetti di un programma di “plurimi interventi” (cosiddetto multimodal enhanced discharge planning,
costituito da contatti telefonici post-dimissione, un programma di
appuntamenti, brochure informative per i pazienti). Se confrontato con
le strategie convenzionali, questo programma si è associato a un mag-
gior grado di soddisfazione da parte dei medici di famiglia che si sentivano più coinvolti nel percorso di cura del piccolo paziente: lo studio
non ha però raggiunto la potenza statistica per valutare gli effetti sulla
morbilità (cioè frequenza di riammissioni per lo stesso motivo, numero
di accessi al pronto soccorso) [1].
A nostro avviso, la consegna della lettera di dimissione è un atto
importante e irrinunciabile nel rapporto medico-paziente, atto informativo e formativo al quale, nella dinamica degli eventi quotidiana,
viene riservato troppo poco spazio. Non solo dovrebbe essere prestata
grande attenzione nella compilazione della lettera stessa, ma dovrebbe essere riservato uno spazio (codificato) nel quale questa viene illustrata al paziente (e possibilmente ai familiari) e soprattutto verificata
l’efficacia della comunicazione, ovvero quanto sia stato percepito dal
paziente stesso in termini del proprio stato di malattia e delle norme
(farmacologiche e non) da seguire.
Proposta di lettera di dimissione uniformata
La lettera di dimissione, indirizzata al medico curante, dovrebbe contenere:
• diagnosi d’ingresso e diagnosi di dimissione;
• relative storia clinica e obiettività;
• note di decorso ospedaliero relativamente anche al trattamento;
• risultati dei principali esami strumentali e di laboratorio;
• eventuali consulenze effettuate;
• le informazioni date alla famiglia;
• condizioni del paziente alla dimissione;
• terapia alla dimissione;
• follow-up consigliato;
• indicazioni sulla necessità di portare la lettera di dimissione a ogni
controllo.
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L’aderenza alla terapia anti-ipertensiva nell’anziano: una
componente essenziale per il raggiungimento di target
terapeutici
F. LAPI, A. MUGELLI, A. VANNACCI
Dipartimento di Farmacologia Preclinica e Clinica, Università degli Studi di Firenze, Firenze
L’ipertensione arteriosa ha un’elevata prevalenza nella
popolazione anziana. Secondo una revisione sistematica pubblicata su Lancet nel 2005, più del 60% dei
soggetti ultrasessantenni che risiedono nei paesi industrializzati soffre di ipertensione [1].
Peraltro proprio nell’anziano vi sono importanti
peculiarità in termini diagnostici, prognostici e di
trattamento, che rendono l’iperteso un paziente del
tutto diverso dal giovane, come illustrato dalle
recenti Linee Guida della regione Toscana (http://www.snlgiss.it/lgr_toscana_ipertensione_2009). La maggior parte degli studi
epidemiologici sul paziente affetto da ipertensione arteriosa hanno
escluso i soggetti più anziani, tanto che i dati a oggi disponibili per il
trattamento dell’anziano iperteso non sono del tutto soddisfacenti.
In un’indagine svolta dall’Università di Firenze è stato dimostrato che
nel Comune di Dicomano il 50% degli ipertesi anziani non sapeva di
esserlo e solo il 10% era ben trattato [2]. Ciò a conferma di altri studi
italiani volti a valutare la persistenza al trattamento con farmaci antiipertensivi: questi ultimi hanno dimostrato che la percentuale dei non
aderenti raggiunge un valore pari al 30–35% a sei mesi dall’inizio del
trattamento farmacologico [3].
Inoltre sono ormai numerose le evidenze scientifiche prodotte sia in
campo nazionale che internazionale a testimonianza dell’efficacia dell’aderenza alla terapia anti-ipertensiva [4, 5]. In particolare, lo studio di
Mazzaglia e coll. [5], condotto sul database italiano di Medicina
Generale Health Search, ha dimostrato una riduzione significativa, del
20%, per quanto concerne il rischio di eventi cardiovascolari acuti
(infarto acuto del miocardio, angina, ictus, attacco ischemico transiente) per i soggetti alto-aderenti (almeno l’80% di copertura dei giorni di
terapia) rispetto ai basso-aderenti (meno del 40% di copertura dei
giorni di terapia).
Queste informazioni indicano non soltanto la rilevanza clinica associata a un corretto uso dei farmaci, ma anche come l’interazione tra medico e paziente sia essenziale per il raggiungimento di target terapeutici
importanti per il sistema sanitario nazionale.
Cause di non aderenza
Le cause che inducono il paziente a non utilizzare in modo costante la
terapia farmacologica sono numerose. In primo luogo l’assenza di una
sintomatologia specifica. Molte malattie infatti, tra cui l’ipertensione,
non presentano sintomi che possono allarmare il paziente e spingerlo
a utilizzare i farmaci prescritti con regolarità.
Le reazioni avverse al trattamento possono essere fonte di interruzione
dello stesso, come nel caso di un regime polifarmacoterapeutico, dove
risulta più complicato ricordare l’assunzione contemporanea di più trattamenti. Se queste condizioni si vanno
poi a sommare a deficit di memoria, a condizioni di disabilità e solitudine, a un numero elevato di medici prescrittori, caratteristiche che si riscontrano particolarmente nei soggetti anziani, il rischio di interrompere il trattamento farmacologico aumenta ulteriormente.
Cosa fare?
Come indicato precedentemente l’ipertensione rappresenta un patologia di elevato impatto clinico. Inoltre il mancato trattamento della stessa può determinare importanti conseguenze in termini di economia
sanitaria. Il numero di ricoveri per cause cardiovascolari risulta infatti
inversamente associato a un uso corretto della terapia anti-ipertensiva. In tale contesto il medico internista, al fine di identificare i predittori di non aderenza e, quindi, di facilitare l’utilizzo appropriato del
trattamento farmacologico nel soggetto anziano, può adottare le
seguenti strategie:
• valutare, in anamnesi, la presenza di un regime politerapeutico, in
particolare l’associazione di 5 o più farmaci;
• accertarsi sul numero di prescrittori che lo hanno preceduto nel
trattamento del paziente;
• verificare il livello di autosufficienza del paziente qualora non vi sia
la palese e costante assistenza di un familiare o comunque di persona terza in qualità di caregiver;
• ricordare al paziente di non interrompere il trattamento in presenza di sospetti effetti collaterali se non dopo aver consultato il proprio medico;
• ricordare al paziente di rivolgersi al proprio medico curante o al
proprio farmacista qualora incontri difficoltà a ricordare il regime
terapeutico prescritto.
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IMPRESSUM
Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 5 Num. 5
Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano
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