Splendono di lustrini la svergognata Jenny e la pudica Polly

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Splendono di lustrini la svergognata Jenny e la pudica Polly
Splendono di lustrini
la svergognata Jenny
e la pudica Polly
di Enrico Groppali
C
i sono opere immortali di cui basta citare il titolo per essere edotti del loro contenuto al di là degli antecedenti che han dato loro vita. Basti per tutte il verdiano Rigoletto, di cui i profani continuano ad ignorare l’ascendenza letteraria di monsieur
Victor Hugo e dell’inequivocabile Il re si diverte, sostantivo sotto il quale si nasconde quel
libertino di Gualtier Maldé alias Duca di Mantova alle origini del sacrificio di Gilda. Ma
ce ne sono altre come L’opera da tre soldi, frutto congiunto di un librettista di grido di
nome Bertolt Brecht e di un musicista smaliziato e suadente chiamato Kurt Weill, di cui
molti, se non tutti, conoscono la filiazione diretta dall’Opera del mendicante scritta da Mr.
John Gay nel 1728, e cioè esattamente due secoli prima dello spregiudicato adattamento
novecentesco che tuttora ci manda in visibilio. Ma di cui si parla poco quasi fosse un disonore per Brecht-Weill aver messo le mani su un classico figlio delle gelide sponde della
superba Albione. Ma ora per fortuna, grazie a Luca De Fusco regista dell’edizione che
in queste righe andiamo ad ossequiare, ogni addebito rientra nel suo guscio o, pardon,
nell’alveo originario. Dopo Strehler, che per ben quattro volte la mise in scena (l’ultima
replicante dell’edizione originale fu la versione francese dove si udì persino la voce di
Brecht spuntar feroce dalle tenebre peggio dell’ammonimento finale del Commendatore
nell’opera di Mozart), vedemmo Bob Wilson al Berliner precipitar l’azione nelle secche
di un puzzle irto di sbarre trasversali che obbligavano i bravissimi interpreti ad agitarsi
come mosche imprigionate in diaboliche tele di ragno. E prima ancora, tra un Tato Russo
e un Paolo Rossi, fu la volta di un delizioso scherzo di Carriglio che giocò tutte le sue carte
ambientando la saga di Mackie Messer, bandito gentiluomo quant’altri mai, nella coloritissima Vucciria palermitana, tra i banchi trasudanti sanguigna carne di porco e le bancarelle grondanti pesce fritto, tra i soprassalti di Polly, ragazza innamorata dell’amore, e
il mesto contraltare di Jenny carcerata, come una fanciulla vittima della perfida strega
del sesso, tra le pareti del bordello da cui non uscirà più. Ora invece l’Opera di De Fusco si
trasferisce nell’immaginario bohémien di uno spazio neutro dove il bianco luttuoso delle
regine domina incontrastato tra i colori di fondo della scena. A tratti spruzzata di grigio,
come la piuma di un gabbiano, e a tratti tinta in vago nerofumo, come il viso infantile dei
monellacci fermati da Vincenzo Gemito nell’implacabile colata dei suoi ori. Brillano qua e
là, tra luci suadenti come baci capaci di mutarsi per incanto in brucianti sferzate, scritte
e disegni pubblicitari in stile futurista che ammiccano a pericolose predilezioni feticiste
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(ricordate le calzature femminili di cui fa incetta Buñuel nel Diario di una cameriera?) poste ad hoc a ricordarci che l’antro di Peachum, il re dei mendicanti, è una serra per palati
raffinati cultori di eccentrici piaceri. Siamo insomma, se vogliam proprio rifarci alla storiografia del ricordo, dalle parti di un maestro come Pabst. A suo tempo ingiustamente
vilipeso, nell’anno di grazia 1931, quando fissò nel lucido fotogramma di un bianco e nero
dove il male era riservato al lucore abbacinante delle ghette di Mackie Messer mentre
il bene, guarda caso, civettava col nero affondando nei cimiteriali bagliori della notte.
Un’estetica scelta a priori per funzionare da implicito messaggio cifrato, se non addirittura come attacco sornione alla borghesia, sempre abbagliata dal sapore trasgressivo
del bordello confortato dall’aura insolente del delitto. Anche se, come è noto, qui non
si tratta mai di condannare a morte – se non per suscitar qualche lacrimuccia prima
dell’assoluzione finale del colpevole – ma semmai di ammiccare tra i bordi del fazzoletto
alla tentazione di trasgredire.
Che differenza c’è in fondo tra l’antro di Peachum, tranquillo imbonitore di stampelle
per mendichi che camminano benissimo e di agghiaccianti protesi che paiono sbucare
dall’arsenale proibito del dottor Frankenstein, e le tremende gesta del nostro bandito
gentiluomo che la scena ci nega e di cui appuriamo la paternità solo dal canto lancinante
di Jenny? Lo spettacolo di cui parliamo è esplicito in proposito: l’attrezzeria è quasi la
stessa. E si riflette sinistra e prepotente nella vistosa truccatura dei volti come nelle elaborate parrucche che sfoggiano con sussiego sia il pater familias che la mater dolorosa
di Polly, ingenua sì ma fino a un certo punto. Siamo proprio sicuri che il signor Peachum
non obbedisca alle leggi implacabili della caricatura sulfurea, quella per intenderci che
animava il segno indelebile di Grosz quando, fingendo di additare i vizi del proletariato,
in rea­ltà mordeva a sangue l’habitus del ricco borghese, che transitava col medesimo
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aplomb dall’aulica navata della chiesa ai séparé profumati all’essenza di rose di certi edifici dalle finestre ermeticamente chiuse? Il Peachum di De Fusco non è certo un malfattore ma un onesto commerciante di carne umana. Che mescola l’acqua come un vinaio
momentaneamente sprovvisto di spumante con ciò che ha a portata di mano per non
deludere le oneste aspettative del cliente. Avendo a che fare col sentimento più ambiguo
che esista, quello della lacrimuccia che spunta in fondo agli occhi del privilegiato quando scorge il mendico tendergli implorante la manina, Peachum da artigiano consumato
arruola la sua armata di nullatenenti decorandoli di amputazioni degne dei carnefici che
hanno imperversato alla Bastiglia prima che la Rivoluzione ne abbattesse le mura. Il suo
scopo è quello di tramutare la visione che ogni uomo ha del mondo in cui si muove nel
gran teatro parallelo dell’immaginario. Dove ciò che conta non è la verità della carne viva
che si muove sotto l’uniforme del cencio ma l’ombra che la spoglia dell’individuo, rivestito a dovere della casacca della miseria, proietta sull’avventore che ne giudica il degrado.
Ciò che conta non è l’inoppugnabile documento ma il riflesso suscitato ad arte per far
scucire la moneta al cliente. Morte, malattia e paura del contagio fanno parte di un allestimento che culmina nello spettacolo, il prodotto da consumare in silenzio dopo l’esborso al botteghino dell’incanto. Qui nello spettacolo adombrato, se mai ce ne fosse ancora
bisogno, nell’irsuta parrucca inalberata dalla signora Peachum. Fatta apposta per conferirle l’aspetto di una vecchia Eva scacciata da secoli dal Paradiso Terrestre, compagna
perfetta di un Adamo imprenditore che sull’umanità vestita di stracci ha fondato il suo
impero. In altri termini la signora Peachum, senza mai essere sfiorata dal beneficio del
dubbio, si è mutata col tempo in una di quelle maîtresse che considerano la prostituzione
benefica a patto non coinvolga mai le sue figlie. Con l’avvertenza, mai ripetuta abbastanza, che il mondo di Brecht-Weill, da sempre a casa nostra ritenuto un simbolico atto d’accusa contro l’orrenda ingerenza borghese nel mercato della carne umana, è in realtà solo
il lucido spaccato di qualsiasi status di cose vigente in qualsiasi stato dell’universo mondo. Esattamente come in pieno diciottesimo secolo aveva proclamato ad oltranza John
Gay e dopo di lui, nel più vicino 1953, un cineasta della tempra di Peter Brook. Che in quel
capolavoro tuttora inspiegabilmente ignorato persino dai più accesi dei cinefili, che da
noi, ahimè, va sotto il nome del Masnadiero, ci presentava l’aitante Laurence Olivier nelle
vesti del libertino Mackie Messer. Perfetto nell’agitar la spada nelle sfide, abilissimo nel
lanciarla di prepotenza nei duelli, capace di ritagliare sul petto dell’avversario arabeschi
più squisiti del pennello di Beardsley. Sempre nel nome di quell’Opera del mendicante,
antesignana quant’altra mai della premiata “Opera” del signor Bertolt Brecht.
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