L`importanza di leggere il Mein Kampf

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L`importanza di leggere il Mein Kampf
IL FOGLIO
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ANNO XXI NUMERO 138
Delitti
I quattro che hanno ucciso le ex:
uno strangolandola, uno a colpi
di pistola, gli altri a coltellate
Michela Baldo, 29 anni. Di Spilimbergo
(Pordenone), cassiera in un supermercato
Lidl, «timidissima, tranquilla, riservata, sempre sorridente». Tre anni fa si era fidanzata
con Manuel Venier, 37 anni, dipendente di
un supermercato a Codroipo con un passato
da guardia giurata. I due erano andati a vivere assieme nella casetta accanto a quella
dei genitori di lei, ma da un anno il rapporto
si trascinava tra alti e bassi e così la Baldo,
mercoledì 1° giugno, aveva detto basta. Quel
giorno il Venier le aveva restituito le chiavi
di casa ed era tornato a vivere con sua madre
a Codroipo, una ventina di chilometri più in
là. Da allora, però, s’era fatto ogni giorno più
cupo. La sera di martedì 7 giugno prese la
sua Smith & Wesson da guardia giurata, entrò in casa di Michela usando il secondo mazzo di chiavi che lei celava in una nicchia a lui
nota, la aspettò, e quando la vide entrare le
sparò un colpo alle spalle e uno al cuore.
Mentre la ragazza agonizzava creò un gruppo
su WhatsApp chiamandolo «Addio» in cui
spiegava ad amici e parenti di aver ucciso
l’ex perché «senza di lei non posso vivere».
Infine si puntò la Smith & Wesson alla tempia e fece fuoco.
Sera di martedì 7 giugno a Spilimbergo
(Pordenone).
Federica De Luca, 30 anni. Sposata con
Luigi Alfarano, 50 anni, medico e coordinatore dell’Ant (Associazione nazionale tumori), insieme avevano un figlioletto di 4 anni di
nome Andrea. Moglie e marito non andavano
più d’accordo e ormai era arrivato il momento della separazione. Per il pomeriggio
di martedì 7 giugno la donna aveva appuntamento dall’avvocato per firmare le ultime
carte. Più tardi i coniugi, nella casa dove abitavano da quando si erano sposati, iniziarono l’ennesima discussione che si concluse
quando lui la prese per il collo e la strangolò.
Subito dopo Alfarano prese con sé il bambino, lo fece salire in auto, lo portò nella casa
di campagna che usavano quando volevano
trascorrere qualche giorno di vacanza e lì gli
sparò con una Beretta 98 legalmente detenuta. Infine rivolse l’arma contro se stesso e si
ammazzò.
Serata di martedì 7 giugno in un appartamento in via Galera Montefusco a Taranto e
poi in una casa di campagna, località Pino Di
Lenne, tra Chiatona e Palagiano.
Slavica Kostic, 38 anni. Serba, badante a
Trieste, qualche tempo fa aveva lasciato il
marito Dragoslav Kostic, 60 anni, che alla fine della storia non s’era mai rassegnato. La
sera del 26 aprile costui andò a casa di lei e,
convinto che avesse fatto l’amore con un altro, forse la strangolò, forse l’accoltellò, di sicuro andò a gettare il cadavere in una discarica di materiale per l’edilizia appena oltre
il confine sloveno, a Kreplje. Quindi tornò a
Kucevo, il suo paese. Incastrato dalla polizia,
ieri portò gli agenti nella discarica dove Slavica giaceva sotto un cumulo di macerie.
Martedì 26 aprile a Trieste.
Alessandra Maffezzoli, 46 anni. Di Pastrengo (Verona), a detta di tutti «una donna fin
troppo buona» che dalla vita aveva avuto più
difficoltà che fortune: il padre dei suoi due
figli l’aveva lasciata quando il secondogenito era ancora piccolissimo, il lavoro da maestra in una scuola elementare a Lazise non le
aveva mai dato l’indipendenza economica
che sognava. Lo scorso settembre aveva troncato la relazione con Jean Luca Falchetto, 52
anni, barista di origini svizzere. Lui però non
si rassegnava e ogni tanto si ripresentava.
Lei s’era quasi decisa a denunciarlo per
stalking, poi aveva cambiato idea. Mercoledì
sera il Falchetto andò di nuovo a casa sua,
forse per chiederle indietro 5.000 euro che le
aveva prestato qualche mese fa. Scoppiò una
lite e l’uomo, dopo una rispostaccia e uno
schiaffo di lei, le spaccò in testa un vaso e poi
la infilzò una decina di volte con un coltello.
Quindi se ne andò. Ricomparve dopo svariate ore davanti al portiere di notte di un hotelcampeggio a Castelnuovo del Garda, insanguinato e graffiato gli raccontò di essere caduto nel lago. Poi, una volta seduto, gli fece
chiamare i carabinieri: «Digli come mi chiamo, mi staranno cercando».
Sera di mercoledì 8 giugno in una villetta
in via Maggiore Negri di Sanfront a Pastrengo, nel Veronese.
Sekine Traore, 27 anni. Originario del Mali, ospite nel campo profughi di San Ferdinando (Reggio Calabria), disturbi mentali e
un’abitudine alle droghe, l’altra mattina,
armato di coltello, provò a ferire altri immigrati. Per calmarlo gli offrirono cibo e sigarette, ma lui non si placò per niente. I
profughi chiamarono i carabinieri, arrivò
con un collega l’appuntato Antonino Catalano, sposato, un figlio appena nato. Catalano si trovò di fronte Sekine con in mano
ancora il coltello, gli andò incontro a mani
nude, cercando di immobilizzarlo, e ricevette una prima coltellata al braccio. Provò
a tranquillizzarlo parlandogli, ma per tutta
risposta si beccò un’altra coltellata, all’occhio destro. Quando Sekine gli si avventò
addosso per la terza volta, il carabiniere
schivò il fendente, tirò fuori la pistola e
sparò senza capire dove, ferendolo mortalmente al torace.
Mattina di mercoledì 8 giugno nel campo
profughi di San Ferdinando, provincia di
Reggio Calabria.
quotidiano
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016 - € 1,50
DIRETTORE CLAUDIO CERASA
L’importanza di leggere il Mein Kampf
Tutti contro il Giornale che porta in edicola il manifesto del nazismo. Ma il vero dramma di quel libro fu che non lo lesse nessuno, tantomeno le élite
«Mannaggia il giorno che m’è venuta quest’idea...» (Alessandro Sallusti). L’idea del
direttore del Giornale è stata quella di allegare al quotidiano, per «decine di migliaia di copie», il Mein Kampf, il libro scritto da Adolf Hitler considerato il manifesto
del nazismo [1].
versione braille per i non vedenti e ogni
coppia di sposi riceve in dono un volume in
versione rilegata. Nel tornante conclusivo
della Seconda guerra mondiale le tirature e
le vendite superano i 10 milioni di copie,
senza contare la diffusione all’estero grazie
alle 16 lingue in cui venne tradotto [4].
«Siamo rimasti sorpresi dalla decisione de
il Giornale. Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la
Shoah» (ambasciata d’Israele a Roma).
«Operazione indecente» (Renzo Gattegna,
presidente dell’Unione delle Comunità
ebraiche italiane). «Che qualcuno abbia
pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti» (Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme). E poi ancora:
«Squallido, mai più» (Matteo Renzi), «Decisione grave, la memoria merita rispetto»
(Laura Boldrini), «Uno scandalo totale, sono
esterrefatto e disgustato» (Giuseppe Sala),
«Squallido e indecente riesumare persino
Hitler per strizzare l’occhio all’estrema destra nelle città al voto» (Piero Fassino) [2].
Gentiloni: «I biografi di Hitler da tempo
hanno ricostruito che in molti misero le mani sul manoscritto per renderlo leggibile e
presentabile, depurandolo tra l’altro da errori grammaticali e ripetizioni ricorrenti.
L’autore stesso non mancò di ridimensionarne la natura fino a condurla a un insieme di articoli o contributi sporadici. E tuttavia quelle pagine contribuirono a incendiare l’Europa negli anni tra le due guerre.
[...] Il nucleo delle idee portanti è noto: la
razza come chiave di lettura delle stratificazioni sociali, lo spazio vitale come orizzonte e frontiera di ogni conquista necessaria, la violenza del più forte come esercizio
di identità rinnovate, la dittatura come approdo di un progetto di trasformazione. Il significato del libro nel dibattito tra gli studiosi ha oscillato tra due estremi: una piattaforma ideologica che contiene le premesse dell’ascesa successiva o al contrario uno
scritto marginale che non merita particolari attenzioni» [4].
Sallusti: «Non è un’operazione elettorale.
Su una tragedia simile non si gioca, semmai
è il contrario. Con certi venticelli che soffiano qua e là in Europa e in Medio Oriente,
serve capire dove si annida il male per non
ripetere un errore fatale» [2].
Churchill lo definì «il Corano della fede e
della guerra». Fu ispirato, come ammise lo
stesso Hitler, dal libro L’ebreo internazionale
(1920), opera dell’industriale Henry Ford in
4 volumi dai toni antisemiti. Scritto durante
la detenzione nel carcere di Landsberg per
la condanna dopo un colpo di stato fallito, il
Mein Kampf (La mia battaglia) fu pubblicato
in due volumi tra il luglio del 1925 e il 1926 e
all’inizio fu tutt’altro che un successo [3].
La casa editrice Franz Eher-Verlag lo mise
in circolazione con un prezzo impegnativo, 12
marchi. Nel 1929 il primo volume aveva venduto 23 mila copie, mentre il secondo raggiungeva le 13 mila. Un punto di partenza
che s’intreccia con il percorso dei successi
del partito, con l’ampliamento dei consensi
e dei potenziali sostenitori. Tra il 1930 e il
1932 le copie diventano 80 mila. Con la presa del potere, l’anno successivo viene superato il milione e mezzo di copie. Una marcia
inarrestabile: dal 1936 viene predisposta la
In Italia la prima edizione (abbreviata rispetto all’originale) è del 1934 per i tipi di
Bompiani. Prima dell’edizione allegata al
Giornale era stato ripubblicato diverse volte, tra cui una a cura del politologo Giorgio
Galli per Kaos edizioni [5].
Domenico Quirico: «Appena dietro piazza
Tahrir, al Cairo, dove si consumava, allora,
2011, l’ennesima, imperfetta primavera del
mondo, [...] c’era una libreria. In vetrina il
volume era al centro: con il volto dell’imbianchino pestifero, disteso su una fila di
croci runiche. Sì: Mein Kampf, edizione in
arabo. Il libraio, saldo e aitante, sordo al tumulto che gli rombava intorno, mi mostrò le
900 pagine, le sguaiate ostentazioni, senza
enfasi o cautela: «Si vende, si vende, soprattutto a giovani, venti, trent’anni». Sono tornato al Cairo, due anni dopo: il tumulto si
era spostato proprio nella via della libreria,
che era chiusa. Ma il Mein Kampf era sempre lì, ben sistemato in vetrina. [...] L’ho trovato nelle librerie e nelle biblioteche di
tanti, troppi paesi musulmani, dal Libano
all’Iran, alla Turchia. In Marocco, al festival
Note: [1] Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 11/6; [2] Alberto Custodero e Piera Matteucci, repubblica.it 11/6; [3] Focus.it 11/6; [4] Umberto Gentiloni, lastampa.it 11/6; [5] Il Post 2/12/2015; [6]
del libro di Casablanca era negli stand: provocò appena un cauto scandalo» [6].
E tutto comincia già negli anni Trenta,
stentatamente: dal mondo arabo arrivavano a
Berlino gioiose proposte di traduzione, ma
erano i tedeschi a opporre rinvii e rifiuti.
Non volevano versioni edulcorate, ovvero
senza le brutali asserzioni della superiorità
degli ariani sui semiti. Eppure agli arabi,
che stramaledicevano l’Inghilterra, piaceva
il Reich. La Germania non li aveva colonizzati e voleva mandare in pezzi l’ordine di
Versailles. Soprattutto suonavano dolcissime le sfuriate antiebraiche di Mein Kampf:
gli ebrei dannati, con l’aiuto degli inglesi,
stavano colonizzando la Palestina, la compravano ettaro dopo ettaro. Il gran mufti di
Gerusalemme, Amin al Husayni, fu tra i primi a spedire telegrammi di lode. Qualche
anno dopo si fece fotografare, esule giulivo,
accanto a Hitler: controllava soddisfatto i
conti della Soluzione finale [6].
Dopo la Seconda guerra mondiale vennero
distrutti milioni di copie della «Bibbia del
nazionalsocialismo». I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera (era
l’ultimo posto in cui Hitler era stato registrato come residente) che vietò qualsiasi
edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono scaduti il 31 dicembre 2015
e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per la prima edizione (commentata e scientificamente corretta) tornata nelle librerie tedesche a inizio 2016 dopo
70 anni di damnatio memoriae. Curata da un
team di storici dell’Institut für Zeitgeschichte (l’istituto di storia contemporanea) di
Monaco di Baviera con il dichiarato scopo di
smontare il mito che aleggia ancora attorno
al manifesto del Führer. Due volumi, 59 euro, 2mila pagine, 3.500 note critiche; il testo
originale sulla parte superiore della pagina
destra, sotto delle notazioni grammaticali e
le differenze nelle varie edizioni, sulla pagina di sinistra commenti di contesto e spiegazioni. Gli autori: «Abbiamo circondato Hitler con le nostre note» [5].
Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E
così la prima edizione legale in Germania
dal 1945 ha scatenato una corsa all’acquisto
dell’oggetto di «culto»: la prima tiratura – 4
mila copie – è andata esaurita il primo giorno, l’8 gennaio. I librai tedeschi non hanno
fatto neppure in tempo a ricevere i volumi,
già tutti prenotati. Una delle prime copie è
stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila
euro. Anche se la maggior parte dei librai ha
deciso di non esporre il testo, vendendolo
solo su richiesta, dal giorno di uscita è tra i
cento libri più venduti in Germania [7].
Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato
di suscitare polemiche. Il presidente del
Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef
Schuster, ne ha sostenuto l’utilità: «Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler». E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole.
Per altro in Germania le edizioni non commentate restano vietate. Ma pochi giorni fa
un editore di Lipsia, come riportato da Bild,
ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell’edizione originale, senza alcun commento a
supporto. Si tratta della casa editrice di
estrema destra Der Schelm (letteralmente il
«briccone»). La procura di Bamberga ha
aperto un’inchiesta. Sacchi: «Insomma in
Germania, e non solo, che si tratti del Mein
Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del
Führer, come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio
che incuriosisce e divide. Forse è proprio
per questo che va studiato e non nascosto [7].
Ruggeri: «Il vero dramma di questo libro fu
la sua non lettura. Tutti i tedeschi dell’epoca
ne possedevano una copia (Hitler incassò 12
milioni di marchi di diritti), ma rimaneva intonso sugli scaffali di casa, oppure letto come fosse Nostradamus. Peggio, non fu letto
dai leader occidentali dell’epoca, dalle varie cancellerie, dagli intellò non ebrei. In
politica, così come nel management, bisogna
leggere tutto dei nemici, e pure degli amici
che nemici possono diventare» [8].
Charles De Gaulle nel 1939 urlando inascoltato che le difese francesi erano insufficienti per fermare l’avanzata nazista, ripeteva: «Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf!» [7].
Nota. Nel pomeriggio di sabato ci siamo affacciati in cinque edicole romane: «Avete il
Mein Kampf?»; «No, mi dispiace, esaurito».
Domenico Quirico, lastampa.it 11/6; [7] Matteo Sacchi, il Giornale 8/6; [8] Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 23/1.
Grillismo e salvinismo svaniranno se centrodestra e centrosinistra seguiranno il modello Milano
L
asciamo stare per un attimo Silvio Berlusconi e
la sua piccola avventura in ospedale (auguri
Cav.) e proviamo a osservare un punto non troppo valorizzato di questa campagna amministrativa e dei relativi ballottaggi di domenica prossima.
Al contrario di quello che si potrebbe credere, dopo aver letto i
giornali della scorsa settimana,
molti dei quali divenuti misteriosamente i portavoce del popolo
grillino, il movimento 5 stelle ha
dimostrato ancora una volta di essere, salvo i casi di Roma, di Torino e dell’importantissima Carbonia, non la prima, non la seconda
ma la terza forza politica del paese e se il trend segnato da queste
elezioni comunali dovesse essere
rispettato anche alle prossime politiche, referendum permettendo,
il risultato sarebbe clamoroso: la
vera sfida per la conquista del
paese rischierebbe di essere non
una partita tra il centrosinistra e il
movimento 5 stelle ma – gulp! – tra
il centrosinistra e il centrodestra.
C’
Noi, come è noto, non crediamo
nella maniera più assoluta che le
elezioni comunali abbiano un
qualche concreto e preciso riflesso nazionale ma se c’è una lezione, quantomeno numerica, che
deriva dal voto di una settimana
fa, bisogna mettere i dati in fila. Il
professor Roberto D’Alimonte ha
calcolato che, nei comuni con più
di 15 mila abitanti, su 111 città il
centrosinistra è arrivato al ballottaggio in 83 comuni mentre il
centrodestra in 54, il triplo del
movimento 5 stelle (arrivato al secondo turno in 19 comuni). Per
stare ai comuni più grandi, quelli
capoluogo, la situazione è ancora
più netta. Tra le venti città che
andranno al voto domenica, in
tredici casi – Benevento, Bologna,
Caserta, Crotone, Grosseto, Milano, Novara, Olbia, Pordenone,
Ravenna, Savona, Trieste, Varese
– il centrodestra e il centrosinistra si sfideranno al ballottaggio,
a volte con coalizioni omogenee,
altre volte con coalizioni più disomogenee. Immaginare il futuro
del centrodestra, è ovvio, è molto
complicato. Lo è sull’immediato
(il centrodestra sosterrà o no il
centrosinistra nei comuni in cui
la sfida al ballottaggio è tra Pd e 5
stelle?) e lo è ancora di più
proiettandosi sul futuro prossimo
venturo – ed è ovvio che nei prossimi mesi ci saranno mille variabili incontrollabili e indipendenti che determineranno la direzione dei post berlusconiani (le amministrative, il referendum, la tenuta di Renzi, lo sgonfiamento
della bolla grillina e ovviamente
la salute del Cav.).
Al netto della retorica sul berlusconismo o non berlusconismo,
però, è evidente che, sotto questa
prospettiva, la sfida di Milano tra
Sala e Parisi assume un carattere
completamente diverso. I candidati di centrodestra e centrosinistra, come è noto, presentano diversi punti di contatto ma su molti temi (non ultimo la giustizia)
esprimono caratteri marcatamente differenti che li rendono più alternativi che complementari. Parisi e Sala sono il volto moderno
di un centrodestra liberale e di
un centrosinistra liberal e osservare chi si imporrà nella capitale
economica del nostro paese potrebbe aiutarci a capire qualcosa
di più su quello che potrebbe essere lo sbocco naturale di un’Italia di domani progressivamente
degrillizzata. Naturalmente lo
schema descritto ha un senso solo
nella misura in cui il centrodestra
capirà che per essere competitivo
e non tradire il berlusconismo, e
tutto quello per cui ha lottato per
una vita il Cav., non può permettersi di rincorrere né il salvinismo né il grillismo e deve semplicemente accettare di confrontarsi
sullo stesso terreno battuto da
Renzi, senza fare dell’anti renzismo l’unico tratto culturale del
proprio programma politico (non
è un caso che Parisi, un nazarenico puro, sia considerato credibile
da molti elettori del centrodestra
pur essendo un silente sostenitore del referendum costituzionale).
Il modulo di gioco prevede dunque non una rottamazione ma una
marginalizzazione drastica del
salvinismo, una trasformazione
del cocchino dei talk show in un
semplice puntello di un’alleanza
più grande del centrodestra. E’
vero che Parisi a Milano è riuscito a nascondere il salvinismo dalla sua corsa elettorale (11 per cento la Lega, il doppio Forza Italia
al primo turno) ma è anche vero
che a livello nazionale lo schema
di Milano è reso difficilmente imitabile da alcuni fattori importante. La visione dell’Europa. Le posizioni anti Euro. Il grillismo di
fondo. La declinazione estremista
di lepenismo e trumpismo.
La scelta del centrodestra del
futuro, oggi come non mai, è tutta
qui e passa naturalmente anche
da Milano. E’ una scelta che prevede una decisione chiara: o si
proietta il centrodestra verso il
modello Le Pen regalando a Renzi e a Grillo la partita per la guida
del paese o si proietta il centrodestra verso il modello Milano
rendendo marginali grillismo
e salvinismo. La salute degli
eredi del Cav. passa da qui,
prima ancora che dai risultati dei prossimi ballottaggi.
Signore, dammi un casto euroscetticismo, ma non subito
è stata un’Eurocomunità prima che i britannici aderissero.
Insularità impero e tradizionalismo culturale e legale
hanno sempre dato a Londra
qualcosa che non è riconoscibile nella sola
idea di una capitale sovranazionale e burocratica come Bruxelles. Alla moneta unica,
questi esperti di finanza mondiale che popolano la City, non hanno creduto abbastanza da aderire all’eurozona, e sono egregiamente sopravvissuti quando la manica ha
isolato il Continente dall’Inghilterra. Dunque Brexit o non Brexit, uno potrebbe dire,
chi se ne impipa.
Ma non è così semplice, è chiaro che il detonatore dell’uscita eventuale del Regno
Unito dall’Unione europea farebbe o potrebbe far saltare un equilibrio già messo a
dura prova. Se è per questo anche Roma,
Madrid, Berlino e Parigi, per non parlare
degli scandinavi e degli olandesi, possono
pretendere una particolarità irriducibile,
un’ombra maestosa che insegue ciascuna
identità nel bosco della memoria. Sappiamo
più o meno quel che c’è da sapere: il progetto europeo come lo conosciamo, secondo la
sua evoluzione che è monetaria, finanziaria,
intergovernativa, regolatrice, non è popolare, e non solo a Londra. I dati dei sondaggi
d’opinione sono abbastanza univoci: i popoli antipatizzano in maggioranza, sebbene poi
siano immense le quote dei giovani e degli
europeisti “nativi” che non si ritroverebbero in un ristabilimento dei confini senza libertà di traffico e movimento, in un ripristino del commercio nazionale, delle svalutazioni competitive, della concorrenza fra stati e sistemi economici che nel mondo di oggi, tra America e Asia e Africa, sono pigmei.
Quando si dice: Europa vuol dire pace, dopo
ben due guerre mondiali e una lunga guerra
civile europea, la gente nuova, che non sa
più dove stiano di casa la storia e il suo concetto, si guarda intorno e si domanda: “guerra? quale guerra? di che state parlando?”.
I greci, per dire, sono antieuropei da sondaggio al 93 per cento. Eppure hanno avuto
il loro momento della verità. Hanno visto
che cosa può succedere. Può succedere, a
forza di trafficare in dati falsi e di impinguare l’economia dell’imbroglio, a forza di
denunciare la dittatura delle banche e di
sparare molotov in piazza contro gli idoli
della lotta di classe internazionale, può succedere di finire con le banche chiuse per
settimane e con la disponibilità di sessanta
euro al giorno, ma anche questi solo per intervento liberale della Banca centrale di
Francoforte. L’alternativa era la miseria più
nera, una prospettiva di isolamento ideologico e geografico, un’insolvenza che avrebbe
segnato almeno una generazione. Va bene,
lo scambio non è giusto o non è capito: la
Germania ha guadagnato troppo in questi
anni, e i suoi alleati nell’Unione hanno pagato prezzi sociali troppo alti, almeno per
l’obiettivo di rara robustezza di avere in tasca, noi italiani, spagnoli, francesi, e tanti altri, la stessa moneta commerciale che corre
in un sistema economico piuttosto operoso e
compatto come quello tedesco. La crisi dell’immigrazione e dell’esodo politico di masse sterminate, con le vistose e irredimibili
complicazioni della resa multiculturalista e
della presenza minacciosa dell’islam politico, cioè dell’islam, ci piace attribuirla all’Europa, che non la ha saputa fronteggiare:
ma in caso di disunione, che cosa sarebbe
successo? Basta provare a domandarselo
per darsi una risposta inquietante. Certo, le
élite europee sono il colmo del distacco dalla sovranità politica e dal rapporto democratico con le loro constituencies, con i famosi popoli e i famosi populismi, ma è da dimostrare il divorzio di Europa tecnocratica
e democrazia politica, dopo i fascismi e i
bolscevismi che hanno solcato il continente
e lo hanno ridotto a luogo sperimentale della tirannia totalitaria. L’Unione è secolarista
in modo ingenuo, droitdelhommiste e scanzonatamente lontana dal meglio della sua
storia civile, dunque anche cristiana, va bene, ma è questa Europa il prodotto della
scissione transumanistica e irreligiosa, non
l’inverso.
Spero, tutto sommato, e con tutto il mio
fervore conservatore per le idee correnti nel
movimento euroscettico più consapevole, che il Brexit non ci sia.
Amori
I passeri maschi si accorgono
quando la compagna li tradisce.
La serenata di Vincenzo Nibali
SEME/1 L’atleta britannico Greg
Rutherford, medaglia d’oro nel salto in lungo ai Giochi di Londra, prima di partire per
le Olimpiadi di Rio si farà congelare lo
sperma. Motivo: ha paura del virus Zika,
che è sessualmente trasmissibile e può provocare problemi neurologici anche in età
adulta. Susie Verrill, compagna dell’atleta
con cui ha già messo al mondo un figlio:
«Dopo che più di cento esperti hanno affermato che i Giochi dovrebbero essere
spostati abbiamo preso questa decisione.
Vogliamo avere altri bambini, e non voglio
mettermi in situazioni che potevo prevenire». Nei giorni scorsi il ciclista statunitense Tejay Van Garderen ha annunciato che
non sarà alle Olimpiadi: sua moglie è incinta ed è spaventato dall’idea di essere
contagiato dalla zanzara. Altri atleti hanno
espresso preoccupazione e anche i golfisti
Marc Leishman e Vijay Singh hanno già dato forfait (Corrieredellosport.it 8/6).
SEME/2 C’è una ricerca scientifica che
vuole spiegare perché gli esseri umani fanno sesso orale. Il motivo è questo: le donne
ingoiano il seme del partner affinché il corpo si abitui a quel Dna. Ciò le aiuta in gravidanza a non identificare come estraneo
lo sperma. Invece quando è praticato dagli
uomini sulle donne serve a scoraggiare il
tradimento: più la partner ne riceve, meno
cerca altrove, di conseguenza l’uomo ha più
probabilità di garantirsi la paternità (Emma-Louise Pritchard, Cosmopolitan 7/6 e
Dagospia).
NIDO Osservando per dodici anni i passeri dell’Isola di Lundy, nel canale di Bristol, alcuni studiosi hanno scoperto che i
maschi capiscono quando vengono traditi
dalla compagna e la puniscono portando
meno cibo al nido. Inoltre si è sempre pensato che i passeri fossero fedeli, dal momento che formano coppie stabili. Invece
c’è una certa promiscuità: i maschi vogliono garantirsi la paternità del maggior numero possibile di pulcini, mentre le femmine si accoppiano con più compagni poiché sono alla continua ricerca delle migliori caratteristiche genetiche da trasmettere alla progenie. I maschi controllano il
comportamento delle femmine durante il
periodo fertile, tenendo conto, per esempio, di quanto tempo esse trascorrono lontane dal nido. Lo studio ha anche evidenziato che una femmina con una maggiore
attitudine all’infedeltà cambia comportamento se un nuovo compagno si dimostra
più attento e disponibile rispetto al precedente (Emilio Vitaliano, Repubblica.it 8/6).
PADRE Un ingegnere di mezza età solo
nel 2012 ha scoperto di essere padre di un
ragazzino di 11 anni. È accaduto quando la
madre del bambino gli ha chiesto il mantenimento e gli arretrati. I giudici hanno stabilito che l’uomo dovrà pagare 50mila euro.
In primo grado la cifra era di 66mila euro:
la donna aveva fatto richiesta per 500 euro
al mese che sarebbero dovuti decorrere dal
2001, anno di nascita del bambino, ma i giudici hanno abbassato la cifra a 200 euro, almeno fino al 2012, perché «nei primi 11 anni di vita del ragazzino il padre naturale
aveva appena cominciato la sua carriera e
i suoi guadagni non avrebbero consentito
un contributo maggiore». Il papà, che intanto aveva già messo su un’altra famiglia,
non intende venire meno ai suoi obblighi, e
ha rilanciato facendo causa alla madre del
ragazzino, colpevole di non averlo mai
informato della gravidanza e quindi di
avergli negato la paternità (Claudia Osmetti, Libero 6/6).
ROSE ROSSE/1 «Ho fatto una serenata
sotto casa di Rachele, la sera prima di sposarmi. In Ciociaria si usa così. Ho cantato
Rose rosse per te» (Vincenzo Nibali, ciclista)
(La Gazzetta dello Sport 5/6).
ROSE ROSSE/2 Gianna Nannini da ragazza era innamorata di Massimo Ranieri:
«Gli facevo la posta in albergo, a Viareggio.
Una volta sono anche riuscita a portarlo in
moto, sgasavo e cantavo “Rose rosse per te,
ho comprato staseraaa”» (Fiamma Tinelli,
Oggi 1/6).
COPPIE/1 Per iscriversi all’agenzia matrimoniale Ivy International bisogna sborsare 15mila euro l’anno. In cambio, però, si
ha la certezza quasi matematica di trovare
davvero qualcuno adatto. Chi si rivolge all’agenzia, che ha sede ad Anversa, viene
raggiunto da una delle consulenti che ascolta per ore problemi ed esigenze dell’iscritto, prende nota dei suoi desideri e passioni.
Solo dopo quest’intervista vengono forniti
dei nominativi che possano andare bene.
Ivy International garantisce otto incontri
l’anno, ma in media ne bastano sei per trovare l’anima gemella. Si iscrivono più donne che uomini: le più giovani e audaci sono
le svizzere, quelle più difficili le milanesi
(Stefano Landi, Corriere della Sera 11/6).
COPPIE/2 Il sito Pairish mette in contatto persone partendo da un test psicologico
preparato dal professor Schmale dell’università di Amburgo. Mentre Meetic ha lanciato corsi e passeggiate per far conoscere
al di fuori dello schermo di un computer individui con interessi simili (ibidem).
IL FOGLIO QUOTIDIANO
ANNO XXI NUMERO 138 - PAG 2
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
Un italiano su tre fa sport prima di andare al lavoro. Pochi sindaci alla prima tornata elettorale
Cinquantamila.it,
domenica 5 giugno
Amministrative Oltre 13 milioni di elettori, per la precisione
FIOR DA FIORE
13.316.379, oggi sono chiamati alle urne per le Amministrative. I Comuni
interessati al voto sono 1.342, di cui 25
capoluoghi di provincia (Rebotti, Cds).
Ali Muhammad Ali, nato Cassius
Marcellus Clay nel 1942 a Louisville
nel Kentucky, tre volte campione del
mondo dei pesi massimi, 21 anni sul
ring, 56 combattimenti, 5 sconfitte, è
morto in un ospedale di Phoenix, in
Arizona, piegato a 74 anni dal morbo
di Parkinson che lo aveva aggredito
da oltre tre decenni (Colombo, Cds).
Vescovi Papa Francesco ha stabi-
lito che i vescovi che coprono i preti
pedofili potranno essere rimossi. Il
«compito» di proteggere i minori dagli abusi – scrive il Papa – tocca «specialmente» i pastori ed eventuali loro «gravi mancanze di diligenza» potranno essere perseguite. Il riferimento è ai casi di insabbiamento
delle denunce e di copertura dei fatti, attuati per esempio con il trasferimento dei colpevoli senza chiamarli in giudizio e senza impedire
che tornino ad avere contatti con mi-
nori (Accattoli, Cds).
Sport Secondo la ricerca «Italiani e sport al mattino» realizzata dall’Osservatorio Doxa-Aidepi, un italiano su tre fa sport al mattino prima
di andare al lavoro almeno due volte alla settimana, in totale 11 milioni
di persone (Bergamin, Sta).
Il dato più chiaro del primo turno delle amministrative è che, ormai, non c’è più nulla di chiaro
Benvenuti nel tripolarismo imperfetto
S
Il Sole 24 Ore, martedì 7 giugno
ono elezioni difficili da
decifrare. Come spesso
succede quando si vota a
livello locale. Le percentuali di voto ai partiti dicono poco o nulla perché
sono troppe le liste civiche che falsano il risultato. Inoltre nei 132 comuni superiori ai
15mila abitanti, e dove si è votato con
il sistema maggioritario a due turni anche nelle precedenti elezioni, solo in 21
casi il sindaco è già stato eletto. Per gli
altri occorre aspettare il 19 giugno. Cinque anni fa negli stessi comuni i vincitori al primo turno erano stati 40. Il fenomeno non è solo legato alla presenza
di un terzo polo – il M5s – ma anche alla crescita della frammentazione.
Restringendo l’analisi ai 24 capoluoghi di provincia i sindaci eletti sono
quattro: Cagliari, Rimini, Salerno e Cosenza. Nei primi tre casi ha vinto il candidato del centrosinistra, a Cosenza
quello del centrodestra.
I risultati definitivi sono troppo pochi per poter trarre delle conclusioni
affidabili. Ma i numeri nudi e crudi
raccontano solo una parte della storia.
Il M5S non ha vinto ancora in nessuno
dei 132 comuni, ma è un dato oscurato
dall’ottimo risultato della Raggi a Roma e della Appendino a Torino. Bastano questi due casi per dare l’idea di un
grande successo del Movimento. Ma il
quadro complessivo è più variegato. A
Milano, Napoli, Bologna non è andato
bene. Nella maggior parte dei 132 comuni superiori la sfida per la vittoria
finale rimane una contesa senza un
candidato pentastellato. I ballottaggi
che vedono in corsa il M5S sono solo 19
(11 con un candidato di centro-sinistra,
3 casi con un candidato di centro-destra, 2 con un candidato di destra, 3 con
un candidato di liste civiche). In questo
il M5S paga il fatto di correre da solo
contro candidati sostenuti da coalizioni formate da più liste. Alla fine dei
giochi non saranno molte di più di ora
le città governate dal M5S, ma il risultato finale di Roma e Torino sarà determinante. A Roma è molto probabile che la Raggi sia il prossimo sindaco
e a Torino l’esito del ballottaggio è incerto. E questi due comuni contano
molto di più di Parma e Livorno che fino ad oggi rappresentano i due maggiori successi del M5S.
Torino merita una riflessione a parte. In fondo i risultati di Milano, Roma
e Napoli rispettano più o meno le
aspettative. Torino no. Roma è stata
una città governata male dove il Pd aveva una montagna da scalare. È una specie di miracolo che Giachetti sia arrivato al ballottaggio. Torino invece è una
città governata bene, con un sindaco
che gode di un buon livello di popolarità. E nonostante ciò Fassino rischia di
non essere riconfermato. Perché? Abbiamo fatto i flussi elettorali tra il primo turno del 2011 e quello di oggi. Nel
2011 Fassino ottenne 255.242 voti, il
56,7% e vinse subito. Adesso ne ha presi 160.023, il 41,8%. Dove sono finiti i
90mila voti che mancano? Una parte, il
14%, è andata verso l’astensione ma il
32% è andato direttamente alla Appendino. Questo è il dato più clamoroso.
Solo in parte compensato dal fatto che
il 26% degli elettori del candidato del
centrodestra nel 2011 hanno votato Fassino nel 2016. In sintesi Fassino ha
“sfondato” al centro, ma ha perso di più
verso il M5S. Cosa ci sia dietro questo
fenomeno è cosa da approfondire. Intanto tra due settimane vedremo come
si comporteranno al secondo turno gli
elettori di sinistra e quelli del centrodestra. Sarà un test interessante.
E altrettanto interessante sarà il voto degli elettori del M5S a Bologna dove al ballottaggio si sfidano il candidato del Pd e la candidata della Lega
Nord. Per il Pd e il centro-sinistra in generale è presto per fare un bilancio. Bisogna vedere cosa succederà a Milano
e soprattutto a Torino e Bologna. Le
sconfitte a Roma e Napoli erano attese.
Complessivamente i dati non sono del
tutto negativi. Il centrosinistra ha già
vinto in tre capoluoghi di provincia, tra
cui Salerno dove il suo candidato ha ottenuto addirittura il 70% dei voti, e questo è un caso cui andrebbe dedicata
maggiore attenzione. In 17 capoluoghi
di provincia su 24 è andato oltre il 30%.
Ha vinto in moltissimi comuni sotto i
15mila abitanti. Ha collezionato il maggiore numero di ballottaggi: 83 comuni
sui 111 in cui ci sarà un secondo turno.
Il Pd ha confermato di essere il primo
partito nel paese. Quello con un radicamento territoriale più diffuso. Però
dimostra anche una fragilità preoccupante in certe aree. Renzi non ama dedicarsi al partito. Preferisce il governo.
Ma qualcosa dovrà fare. Da quanto tempo non si riunisce la segreteria? Ha
senso che uno dei vice-segretari, per
quanto brava, sia anche presidente di
una giunta regionale?
Anche per la valutazione dello stato
di salute del centrodestra occorre
aspettare i ballottaggi. Al momento il
risultato non è esaltante, ma nemmeno
disastroso. A Roma e Torino è andato
male, ma nella capitale poteva andare
meglio se fosse stato unito. Però anche
dove era unito le percentuali di voto
dei suoi candidati-sindaco sono andate raramente oltre il 30%. Nell’insieme
dei 24 comuni capoluogo questo è successo 8 volte. Tuttavia ha vinto a Cosenza ed è andato bene a Milano, Trieste, Pordenone, Varese. Né si può sottovalutare il fatto che i suoi candidati
andranno al ballottaggio in 54 comuni
su 111. Dentro il centrodestra il vero
problema è il declino di Forza Italia.
Solo a Milano il partito di Berlusconi
ha ottenuto un risultato discreto. In
molti capoluoghi è ben sotto il 10%. Anche in questo caso però occorre cautela. La presenza di molte liste civiche
rende problematica la lettura di questo
dato. Ma la crisi di Forza Italia è evidente. Solo la vittoria di Parisi a Milano potrebbe attenuarne temporaneamente la portata. In ogni caso resterebbe aperto il problema della ricomposizione di questo schieramento. Tanto
più che alle prossime politiche in competizione ci saranno le liste e non le
coalizioni, se l’Italicum non cambierà.
In sintesi, siamo di fronte ad un quadro molto frammentato, che presenta
luci e ombre per ognuno dei maggiori
schieramenti. Non si può dire che questa consultazione abbia un vincitore o
riveli una tendenza definita. È una altra fotografia di un paese fluido.
Roberto D’Alimonte
Le rimonte ai ballottaggi succedono
L
la Repubblica,
sabato 11 giugno
a remontada, il mito
dello sconfitto al primo turno
che smentisce tutte le
previsioni.
Il candidato che lascia di
sasso i più raffinati analisti
politici e conquista l’inattesa vittoria per la disperazione del favorito della vigilia. Ogni ballottaggio, naturalmente, fa storia a sé.
Ma nel corso del tempo anche i ballottaggi sono cambiati. «Nello scontro a due –
osserva Lorenzo Pegliasco,
cofondatore di Youdem –
contano sempre meno le indicazioni di partito». Infatti
negli ultimi anni l’apparentamento ha perso appeal.
Con la trasformazione dei
partiti in gruppi di opinione non sempre uniti al loro
interno, l’indicazione di un
leader per il candidato di
un’altra formazione politica ottiene sempre meno seguito.
All’inizio della storia dei
ballottaggi, subito dopo il
varo della legge per l’elezione diretta dei sindaci,
nel 1993, Torino conosce
due clamorose remontade,
tutte favorevoli a Valentino
Castellani, candidato del
centrosinistra. Nel ’93 Castellani vince contro Diego
Novelli in uno scontro sini-
stra-sinistra che sarebbe rimasto sostanzialmente unico nella storia politica delle grandi città italiane. Lì il
gioco fu relativamente semplice: Castellani arrivò per
un soffio al secondo turno
ma di fronte alla prospettiva di consegnare la città a
una maggioranza fondata
sui consiglieri di Rifondazione comunista, riuscì a
coagulare su di sé il voto di
tutti gli altri, dai liberali di
Zanone agli ex comunisti
del Pds.
È una regola di fondo:
spesso chi subisce la remontada ha consumato al
primo turno tutte le sue cartucce e si trova senza colpi
nello scontro decisivo. «La
prima regola – dice Pregliasco – è quella di considerare la partita del primo turno come se non esistesse.
Nei tempi supplementari
un incontro di calcio ricomincia da zero».
Ma la seconda regola, che
spiega sconfitte clamorose,
è che al secondo turno non
ci sono i voti di preferenza:
«Al ballottaggio un candidato dalla personalità forte
senza partiti forti alle spalle vince quasi sempre su
chi aveva fatto il pieno di
preferenze al primo turno».
È il cosiddetto «sgambetto
della zia». Al primo turno
delle elezioni locali i candidati sindaci che hanno
molte liste a sostegno finiscono per usufruire indi-
Ruggeri ancora in cerca di segnali deboli
Bere birra
a New York
rende zombie
di Riccardo Ruggeri
rettamente del voto degli
amici e dei parenti di centinaia di candidati. Ma al
secondo turno quell’effetto
svanisce.
Questo spiega, in parte,
perché, tradizionalmente,
al secondo turno l’affluenza
si abbassi del 5-10 per cento. «Il caso classico – sottolinea Pregliasco – è quello
di de Magistris a Napoli nel
2011». Al primo turno il candidato del Pdl, Lettieri, aveva ottenuto quasi 180mila
voti grazie al «voto della
zia». Ma al secondo turno,
privo delle liste di appoggio, perse 40mila voti mentre l’avversario raddoppiò i
suoi perché era più personaggio, più capace a imporsi sulla scena.
Un’altra categoria tipica
dei ballottaggi italiani è
quella del tradimento. «Anche se in gran parte chi ha
votato per un candidato al
primo turno lo fa anche al
secondo, c’è chi al ballottaggio perde molti voti», dice Pregliasco. Il caso di
scuola è quello di Francesco Rutelli alle comunali di
Roma del 2008: vinse il primo turno con quasi 760mila
voti e perse il secondo con
676mila. «Una delle spiegazioni – dice Pregliasco – è
che al primo turno del 2008
si votava anche per le elezioni politiche e ci fu un effetto di trascinamento che
al secondo turno era svanito». Ma forse ci furono an-
che altri motivi se ancora
un anno fa, in un’intervista
televisiva, Rutelli sostenne
che «in quella occasione ci
fu anche nel centrosinistra
qualcuno che tradì».
L’ultimo rischio, soprattutto nelle città in cui governa da più tempo lo stesso gruppo dirigente, è che al
ballottaggio si verifichi la
«sindrome del pescecane».
Le variazioni nelle affluenze tra il primo e il secondo
turno sono una somma algebrica: non ci sono solo gli
elettori che rinunciano a votare la seconda volta. Ci sono anche quelli che, di fronte a un primo turno che consegna una fotografia meno
scontata delle forze in campo, si precipitano al voto al
secondo turno come lo
squalo che vede il sangue, si
risveglia dal torpore e addenta la preda. In economia
si direbbe che vanno al voto
coloro che ritengono che la
poltrona di sindaco, inizialmente data per assegnata,
sia diventata inaspettatamente contendibile.
Soprattutto, consigliano
tutti gli osservatori ai candidati, quelli da tenere
d’occhio sono i numeri assoluti dei voti, non le percentuali, per loro natura ingannevoli. Una regola generale per chi si occupa di
politica. Un imperativo categorico nei turni di ballottaggio.
Paolo Griseri
ItaliaOggi, martedì 7 giugno
i sono chiesto: e se questa fosse la prima epoca
della Storia ove il Popolo, in termini culturali e
valoriali, sopravanzi le élite al potere? Me ne sono
convinto vivendo in diretta e con ruoli diversi i quasi trent’anni intercorsi dalla caduta del Muro, il declino progressivo di queste élite, lento nei primi 1520 anni, galoppante dopo il 2008. Questo è da sempre
il tema dei miei Camei, dei miei viaggi, specie a New
York alla ricerca di segnali deboli, del terrore che come cittadino provo verso questo sciagurato modello
(ceo capitalism).
Nei colloqui con i miei referenti-amici newyorchesi avevo preso l’impegno ad analizzare i risultati di
due elezioni che domenica 5 giugno si sarebbero tenute, una in Svizzera (referendum Rbi, «reddito di base incondizionato»), una in Italia (elezioni per i sin-
M
Candidate/1
la Repubblica,
giovedì 9 giugno,
eggendo l’articolo di
Concita De Gregorio su la
Repubblica, le due candidate
sindache [Virgiania Raggi e
Chiara Appendino, ndr]
appaiono come ragazze
«normali», come tante del
nostro Paese costrette ai salti
mortali per sopravvivere e
spesso ad andare all’estero
per trovare un lavoro, che
«normalmente» e senza alcun
aiuto o privilegio sono arrivate
alla candidatura a sindaca di
Roma e Torino. Ma di cosa
stiamo parlando? Di due
ragazze che hanno avuto la
strada spianata per entrare
nel mondo professionale o
dell’imprenditoria. Virginia
Raggi ha iniziato a 25 anni il
praticantato nello studio
Previti, a 29 anni è stata
presidente del cda di Hgr di
Roma. Chiara Appendino,
invece, nasce nel mondo della
buona borghesia
imprenditoriale torinese,
famiglia che non ha certo
problemi a supportare una
figlia alla Bocconi, dove riesce
a fare una tesi di marketing
sulle strategie di entrata nel
mercato cinese, materiale che
ha avuto dal padre (braccio
destro del presidente di
Confindustria Piemonte) e
responsabile dello sviluppo
internazionale di Prima
Industrie in Cina. Per poi,
dopo uno stage alla Juventus
(anche questa «ordinaria
amministrazione» che ogni
ragazza a Torino può
ottenere…), entrare
nell’azienda di famiglia dove,
da eletta in Comune, non ha
problemi ad avere «permessi
retribuiti», rimborsati dal
Comune (circa 23 mila euro
l’anno). Anche dal punto di
vista politico le due ragazze la
strada l’hanno avuta spianata
dai vertici del movimento e
sono arrivate a candidarsi in
città importanti come Roma e
Torino senza passare sotto le
forche caudine del voto on
line (per l’Appendino era
successo anche per la
candidatura in consiglio
comunale del 2011),
disattendendo una regola del
Movimento: candidature
ratificate dal voto della base.
Non c’è nulla di male a
provenire da famiglie agiate e
borghesi, un po’ più grave – e
parlo ora di Chiara Appendino
– saltare a piè pari regole che
valgono per tutti gli altri nel
M5S. Decisamente più grave la
disattenzione ai problemi e ai
diritti delle donne, su cui in 5
anni di Consiglio abbiamo più
volte tentato di coinvolgerla.
Infine, siamo sicure che
queste donne siano così libere
dal potere maschile, che siano
così indipendenti da quel
«direttorio» formato
prevelentemente da maschi
che decide chi deve o non
deve rimanere nel
movimento? Il caso di Patrizia
Bedori, esclusa dalla
candidatura a sindaca di
Milano perché «brutta, grassa
e casalinga», è sintomatico. E
che le donne del M5S, tra
queste Chiara Appendino, non
abbiano sentito l’esigenza e
avuto la sensibilità di dare
solidarietà, è inquietante.
Laura Onofri
lunedì 6 giugno
Ballottaggio In nessuna delle quattro grandi città chiamate alle urne si
avrà il sindaco al primo turno. Per
conoscere i nomi dei nuovi sindaci
di Milano, Roma, Napoli e Torino bisognerà aspettare il voto previsto tra
due settimane. A Milano il candidato del centrosinistra Sala è in leggero vantaggio su quello del centrodestra Parisi. Nella Capitale sfonda la
grillina Virginia Raggi mentre per il
secondo posto è testa a testa tra Gia-
Facebook,
mercoledì 8 giugno,
llora ve lo spiego meglio:
Virginia Raggi e Chiara
Appendino non sono donne
bensì uomini, uomini politici
selezionati da Casaleggio, così
come uomo, uomo politico, era
Giovanna Melandri
selezionato invece da Veltroni.
Le donne si chiamano semmai
Rosa Luxemburg o Paz de la
Huerta.
Fulvio Abbate
A
Patrimonio Secondo le stime
Muhammad Ali lascia un patrimonio
valutato per circa 50 milioni di dol-
lari, frutto di compensi record negli
anni d’oro della boxe e di investimenti redditizi. L’esecutore testamentario sarà la moglie Lonnie, ma
non sarà facile distribuire la ricchezza con le altre consorti, Veronica Porsche, Belinda Boyd, mentre la
prima sposa, Sonji Roi, è deceduta
nel 2005. Poi ci sono i nove figli frutto dei suoi matrimoni e di due relazioni extra coniugali (Sarcina, Cds).
(segue nell’inserto I)
E’ ridicolo pretendere che le persone votino con la testa sgombra dalle frustazioni quotidiane
L
Candidate/2
chetti e Meloni. A Torino Fassino
(Pd) dovrà sostenere l’assalto di
Chiara Appendino (M5S). A Napoli
nettamente avanti il sindaco uscente De Magistris che, come cinque anni fa, bisserà il duello con Lettieri
(Fi) (Sta).
I
Anche il Pil va alle urne
Corriere della Sera, mercoledì 8 giugno
l Pil ha un difetto: anche se non è iscritto alle liste elettorali vuole votare sempre. E si muove così non per rivendicare un astratto primato dell’economia sulla politica ma perché sa che gli elettori (o forse è meglio dire le persone) oggi, più che
in passato, possono essere convocati ai seggi per
qualsiasi tipo di consultazione ma, da quando
vanno a pescare nei cassetti la scheda elettorale
a quando mettono nell’urna la loro preferenza, non riescono a togliersi dalla testa le condizioni di contesto. In parole povere il tasso di disoccupazione e l’incertezza sulle regole della pensione oppure la telefonata di conferma dello stage che non arriva o quella commessa che è stata annullata. Le persone non si dilettano, come noi addetti ai lavori, a discutere delle differenze di previsione del Pil tra
un istituto di ricerca e l’Ocse, tra una banca e l’Istat, il clima di «non ripresa» lo respirano tutti i giorni: sanno benissimo che l’uscita dalla recessione non è stato un pranzo ma nemmeno una merenda di gala. Tutto ciò ha avuto un
peso nelle consultazioni municipali di domenica scorsa e
– cosa più importante – lo avrà anche al momento di votare per il referendum costituzionale di ottobre.
Per carità, il quesito sulla riforma del bicameralismo ha
un valore storico nell’infinita transizione politica italiana
ma nessuna campagna dall’alto e nessun guru venuto dall’America potrà impedire al Pil di votare. Nessuno potrà
pretendere che dopo i lunghi anni della Grande Crisi le
persone si rechino al voto con la testa completamente sgombra rispetto alle ansie legate non a un ciclo economico particolarmente sfavorevole ma a cambiamenti epocali che investono il modo stesso di «vivere» il capitalismo. Il più navigato dei candidati del Pd in corsa, Piero Fassino, l’ha detto chiaramente e voglio sperare che non l’abbia fatto solo
per trovare un alibi.
Basta, infatti, dare
un’occhiata a cosa
La Stampa, martedì 7 giugno
sta succedendo con
ista dall’alto, la mappa elettola cavalcata di Dorale di Roma è un mare grillinald Trump nel Paese leader dell’Occi- no in tempesta che circonda una
dente, in quegli Sta- zattera rosé: il centro storico e i Pati Uniti che con il rioli sono gli unici due municipi
trionfo della tecnolo- dell’immensa capitale in cui ha
gia stanno segnando prevalso il Pd. Una foto epocale. Il
il nuovo secolo, per partito della fu-sinistra che sfonda
averne contezza. I solo nei quartieri dove vivono i
dolorosi aggiusta- ricchi e i turisti, mentre non trova
menti dovuti al post più le parole per comunicare con la
crisi vengono perce- nuova plebe del pubblico impiego
piti al di qua e al di e del piccolo cabotaggio, così come
là dell’Atlantico co- a Torino fatica a placare le ansie
me autentiche e in- del ceto medio impoverito. (Va un
tollerabili ingiusti- po’ meglio a Milano, città di comzie. Con la ragione e mercianti inclini alla moderazione
l’aiuto della scienza per necessità di mestiere).
Con tutti i suoi immani difetti, il
economica noi italiani sappiamo che non Pd rimane l’unica comunità politiè del tutto così, che ca che vanti ancora uno straccio di
per tanti anni abbia- classe dirigente. Non si può negamo vissuto al di so- re che i Fassino e i Giachetti, ripra delle nostre pos-
sibilità e che la globalizzazione per un Paese industriale
come il nostro non poteva che causare una redistribuzione delle quote di mercato, ma ciò non toglie che il riallineamento invece di sanare i vecchi squilibri ne sta generando dei nuovi.
In Italia la disuguaglianza ha inequivocabilmente il volto dei giovani che restano al di fuori dei cancelli del mercato del lavoro. Le distorsioni che il fenomeno produce sono innumerevoli e investono il rapporto con le famiglie di
origine, l’impossibilità di crearne di nuove, la quasi certezza di non poter coronare i propri sogni/le proprie ambizioni di ascesa sociale e professionale. Che nei quartieri popolari delle grandi città, a Borgo Vittoria di Torino o a Tor
Bella Monaca di Roma, questa delusione potesse tradursi
in un voto al Movimento 5 Stelle era una conseguenza ampiamente prevedibile. È il partito che non ha precedenti
responsabilità di governo, che ha presentato facce nuove
e che per lo stretto legame con la Rete è predisposto a intercettare il rancore delle basse frequenze della società.
Poco conta che i programmi siano bizzarri e facciano sorridere i competenti, all’elettore marginale appaiono comunque come uno straordinario megafono da usare per far
sentire la propria voce. Del resto quante volte la sinistra
nel nostro Paese si è imposta mettendo in campo una formidabile macchina politica capace di tradurre in consensi il disagio sociale? E un giovane elettore che abbia anche solo qualche simpatia con i Cinquestelle alla fine li vota perché vede che i posti di lavoro non aumentano, e per
di più ministero, Istat e Inps non riescono nemmeno a mettersi d’accordo sui dati.
Si dirà... ma a Milano i grillini son rimasti al palo. Giusto, è un’altra conferma però che il Pil vota. Nella città più
dinamica d’Italia e che pensa addirittura di scalare le classifiche europee i due candidati, molto simili tra loro, hanno presentato programmi di ulteriore
sviluppo della città e
spettivamente cresciuti alla grande così hanno monoposcuola di Berlinguer e Pannella, sia- lizzato più dell’80%
no più preparati e affidabili delle dei voti. Aggiungo
loro rivali a Cinquestelle. Una del- che nelle periferie –
le quali, la Raggi, non brilla nep- per altro assai diverpure per simpatia. Ma l’aria che tira se da quelle romane
è quella del 1789. Il Terzo Stato de- – un centrodestra
gli esclusi e dei penalizzati dalla moderato e non isteglobalizzazione rivolge la propria rico ha addirittura
rabbia contro i detentori del pote- recuperato la sua trare e la traduce in disgusto. Ieri una dizionale base popolettrice mi ha scritto: «Smettetela di lare. Come si può veintervistare i famosi, non hanno nul- dere c’è sempre da
la di interessante da dirci. Intervi- imparare dagli orienstate i poveri cristi che si arrabat- tamenti degli elettori
tano per arrivare a fine mese». Lo ed è evidente che il
spirito del tempo è questo. Una primo a doversi sotclasse dirigente che non ha più con- toporre a quest’esertatti con le periferie dell’esistenza cizio di umiltà è il
smette di essere élite e diventa premier. Dal 40,8%
aristocrazia. Ciò che la conduce alla delle Europee semdistruzione è che non se ne rende bra passato un secolo
nemmeno conto.
e invece è accaduto
Massimo Gramellini solo due anni fa.
Dario Di Vico
Parioli Democratico (PD)
V
Statali, un problema sempre più grave
I
Corriere della Sera,
venerdì 10 giugno
dipendenti pubblici sono tre
milioni e trecentomila e i
loro stipendi costano più di 10
punti di Pil. A prima vista,
sembrano cifre enormi, ma
tutto è relativo. In confronto
ad altri grandi Paesi europei,
siamo sotto le medie. Se però
usiamo indicatori di rendimento, l’Italia scende verso il fondo delle graduatorie Ue.
Pochi giorni fa, nella sua Relazione
annuale, la Corte dei conti ha puntato
il dito contro le «perduranti criticità»
del pubblico impiego, riassumibili in
due parole: bassa efficienza e scarsa
produttività. Le cause sono quelle note
da decenni. Si va dall’assenza di controlli e incentivi alla «prevalenza di una
cultura giuridica, a scapito di professionalità specifiche» (un giudizio importante, visto che è dato da una «Corte»); dai condizionamenti politici sull’attività gestionale alla diffusa corruzione; dall’eccessiva anzianità del personale ai suoi bassi livelli d’istruzione.
È sempre sbagliato fare di ogni erba un
fascio. Ma non si può neppure fare finta di niente.
Rispetto ai privati, i dipendenti pubblici sono in una botte di ferro per
quanto riguarda il posto di lavoro. È di
ieri una sentenza della Cassazione
che conferma la non applicabilità della riforma Fornero e del Jobs act al settore statale. Una interpretazione forse
daci delle principali metropoli), caricata dal premier
Renzi di valenze riferite al prossimo referendum di
ottobre, ormai connotato come plebiscito sulla sua
persona, «voto on/off» lo definisce lui.
Il referendum svizzero su Rbi ha uno spessore più
mistico che politico-economico, prevede infatti che
ogni cittadino maggiorenne, solo perché cittadino, indipendentemente dalla sua ricchezza o povertà, riceva 2.500 franchi/mese, 625 se minorenne (esentasse).
La Svizzera ha appena 7 milioni di abitanti, la disoccupazione è al 3,5%, 2.500 franchi/mese sono la soglia
di povertà, mentre per la famiglia classica (2 adulti e
due figli minorenni), saremmo a un dignitoso 6.250
franchi/mese. Rbi costerebbe allo Stato 208 miliardi/anno (oltre il 30% del Pil). Togliendo da questa cifra 55 mld di prestazioni sociali (Avs e sussidi di malattia) contabilmente già coperte dal reddito di base,
non obbligata, ma oggettivamente in linea con il frastagliato quadro normativo vigente. La Corte sostiene che per
estendere le nuove regole sul licenziamento ai dipendenti pubblici occorre un intervento di «armonizzazione normativa».
In altre parole: è il governo che deve
muoversi. Nel settore statale i sindacati
sono molto radicati e altrettanto agguerriti. E poi di mezzo ci
sono milioni di voti. Questi
due elementi spiegano
perché nessuna delle tantissime «riforme» sia riuscita rendere la macchina pubblica più efficiente e produttiva. Il posto a
vita è sempre stato un
tabù che non si poteva
neppure menzionare. Gli
ostacoli al cambiamento
sono ancora tutti lì. Ma è
un segnale positivo che almeno oggi se ne discuta
apertamente.
Ci sono almeno due fronti
su cui è urgente passare subito
dalle parole ai fatti. Il primo riguarda
frodi e assenteismo. La sentenza della
Cassazione riguardava il caso di un dipendente licenziato perché faceva il
doppio lavoro. Il malcostume più diffuso
è quello delle assenze abusive e delle
vere e proprie frodi in materia di «cartellini». Il governo si appresta a varare
un decreto legislativo che dovrebbe accrescere l’effettività delle sanzioni e
la copertura richiesta sarebbe di 153 miliardi, da reperire, o con imposte, o con nuove tasse, o con massicci aumenti dell’Iva. I promotori «palesi» del referendum sono i partiti di sinistra, quelli «nascosti» i radical chic, gli intellò, i banchieri. Nulla di nuovo, ricordiamo le «lotte feroci» di Buffett, di Soros per pagare più tasse (sic!), in questi giorni a Ny 40 miliardari dai nomi celeberrimi propongono di essere tassati
di un’imposta pari al 9,99% da destinare ai newyorchesi poveri (sic!). È il vecchio gioco delle tre carte dei
loschi riccastri per gabbare i poveri sprovveduti.
Il popolo svizzero, ricordiamolo di antica matrice
contadina e montanara, non si è fatto gabbare, ha risposto al quesito referendario con un secco No: 26
cantoni su 26, 77% dei votanti. Non mi ha stupito la
sprovvedutezza dei promotori palesi (le varie sinistre)
del cui afflato sociale in buona fede sono certo, che
contrastare il diffuso lassismo di molti giudici del lavoro. Il vero test sarà il
comportamento dei dirigenti, ai quali
competono i controlli e l’attivazione dei
provvedimenti disciplinari.
Il secondo fronte riguarda gli incentivi alla produttività. Si tratta di una
questione persino più importante della prima. Non solo per le sue ricadute
sul piano del rendimento, ma anche perché una corretta valorizzazione
del merito contrasterebbe l’omertà diffusa e attiverebbe
un interesse «dal basso» a differenziare tra chi s’impegna
e chi no. La prassi dei premi
a pioggia deve finire, anzi essere espressamente sanzionata. Marianna Madia
ha annunciato un intervento del governo per riordinare la questione del
«salario accessorio», legandolo a misurazioni
puntuali dei risultati.
Era ora. Nel solo comune
di Roma sono stati accertati 350 milioni di premi a
pioggia indebitamente erogati.
È vero che costa poco rispetto agli
standard europei. Ma la nostra amministrazione pubblica non vale le risorse che assorbe e ha più che mai bisogno
di una scossa. Per diventare più efficiente, facilitare la crescita e, non da ultimo, per recuperare la dignità perduta agli occhi dei cittadini.
Maurizio Ferrera
non si sono soffermati a ragionare sul circolo vizioso
che Rbi creerebbe, minando alla base la creazione di
ricchezza, riducendo quindi i mezzi disponibili per
garantire prestazioni di sicurezza sociale che superano l’importo del reddito di base. Non mi ha invece
stupito che le élite, seppur in modo mascherato, lo abbiano spinto. Il modello attuale si basa sullo schema
pikettiano «1-99», con una crescita guidata dalla finanza di Wall Street e dalle felpe californiane che, a
termine (2040), comporterà la distruzione del 40% degli attuali posti di lavoro (lo dicono loro stessi).
Secondo costoro occorre ridisegnare una società
mista, in parte non più cittadini ma consumatori a
reddito garantito dallo Stato, e in quest’ottica Rbi è
perfetto. I cittadini svizzeri l’hanno capito, hanno rifiutato di diventare zombi di stato, hanno votato No.
Votare No significava opporsi ai G7 (segue nell’inserto I)
IL FOGLIO QUOTIDIANO
ANNO XXI NUMERO 138 - PAG I
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
A Rimini è vietato tenere al fresco gli alcolici nelle ore della movida. Aumenta la compravendita di immobili
Buonanno Gianluca Buonanno, 50 anni, europarlamentare della
Lega Nord, è morto ieri per un incidente automobilistico
sulla pedemontana lombarda, nei
pressi di Gorla Maggiore (Varese).
Secondo le prime ricostruzioni,
avrebbe tamponato un’auto ferma
per un guasto (M. Cre., Cds).
(segue da pagina due)
martedì 7 giugno
Moutaux Grégoire Moutaux, 25 anni, allevatore, arrestato il 21 maggio
scorso in Ucraina al posto di frontiera di Yagodyn, verso la Polonia, teneva nella sua Renault Kangoo sei kalashnikov, tre lanciarazzi anti-carro,
125 chili di esplosivo, 100 detonatori e
5000 munizioni. «È un estremista di
destra che progettava di compiere 15
attentati in Francia durante gli europei di calcio», ha annunciato ieri in
una conferenza stampa a Kiev il capo
dei servizi ucraini Vassil Grytsak. Le
autorità francesi sembrano scettiche
sulla versione ucraina. Un po’ per
non alimentare la paura del terrorismo, e un po’ perché Vassil Grytsak
non ha una credibilità di ferro: il 21
marzo, dopo gli attentati di Bruxelles
poi rivendicati dall’Isis, si affrettò a
ipotizzare una fantasiosa pista russa,
e anche nella conferenza stampa di
ieri ha voluto sottolineare i legami
del sospetto con il Donbass e la guerriglia filo-russa (Montefiori, Cds).
Anche a Londra c’è tanta voglia di un pronunciamento di pancia per punire l’establishment
L
Il sonnambulo inglese
Il Sole 24 Ore, mercoledì 8 giugno
o spettro sui cieli di Londra ha la forma
di un populismo senza bandiere, prodotto meticcio di una destra di stampo ultraconservatore e di una sinistra tanto scomposta quanto estrema. Il concetto, come
vedremo, è meno banale di quanto possa apparire ed è all’origine di una crescita del consenso per Brexit che va oltre
quanto dicono i sondaggi, ma è ben rappresentato dalle
oscillazioni della sterlina, in rapido declino dopo il rimbalzino di maggio. Non scopriamo ora, per intenderci, che
la demagogia illumina il cammino dei brexiters, ma le radici di tanta resistenza non sono imputabili soltanto all’euroscetticismo, male endemico in un popolo afflitto da una
percezione di sé, nel mondo di oggi, a dir poco eccessiva.
Le ragioni di tanta miopia e il ruolo giocato dai media nell’acuirla – tanto da quelli popolari quanto da quelli di qualità – saranno tema di future considerazioni. Oggi, dal regno di Elisabetta II e dall’Inghilterra in particolare esce
un’istantanea inattesa e largamente sottovalutata.
A due settimane dal referendum, Brexit appare un rischio
superiore di quanto fosse un mese fa, a conferma che il dibattito è impermeabile alla logica dei numeri e all’evidenza dei fatti. Il fronte Leave non è mai riuscito, sul punto economico, a tracciare un quadro se non convincente almeno
sostenibile. Non ha neppure scalfito la trincea alzata da Fmi,
Ocse, Banca d’Inghilterra, Tesoro di Sua Maestà, per citare solo le ricerche delle istituzioni più celebrate, compatte nel denunciare i rischi del divorzio anglo-europeo. Leave sta vincendo, si obietterà, sull’altro grande capitolo del
confronto, l’immigrazione intraeuropea, malamente gestita dal premier David Cameron, generoso nello spendersi
con promesse insostenibili. È vero, ma non basta questo per
spiegare la tenuta, anzi la spinta dei brexiters.
Sull’umore popolare grava, in realtà, una voglia anti-sistema che va molto oltre i temi-chiave del dibattito, siano
essi le conseguenze sull’economia o le politiche sull’immigrazione. Sta emergendo una volontà di frattura che sfugge alla solidità dei numeri, alla linearità logica del contraddittorio, all’essenza stessa del voto.
La voglia di un pronunciamento irrazionale per punire
l’establishment, per colpire i banchieri, per frenare le dinamiche globali, cresce come mai prima d’ora non appena si esce dal mondo ovattato di Londra. La capitale stessa, idrovora che succhia le risorse di un Paese intero, è spesso percepita nelle marche del Regno come il nemico da umiliare. È una resistenza spontanea e disorganizzata che abbiamo avvertito emergere con forza fra le voci raccolte lontano dalla City e che si somma all’eurofobia dell’Ukip, all’euroscetticismo tradizionale – quello endemico, appunto – di tanti conservatori e di pochi laburisti britannici.
A tutto ciò si deve aggiungere la possibilità che molti elettori vadano alle urne con lo stesso spirito con cui vanno alle
amministrative o alle suppletive, ovvero con il desiderio
esplicito di punire il governo in carica. Se il referendum
di adesione è interpretato come mid-term test per David
Cameron c’è, infatti, da aspettarsi un’impennata ulteriore del “no” a Bruxelles. Un rischio aggravato dall’habitus
mentale dell’elettore britannico, uso al maggioritario
secco, sistema che spesso nega alla maggioranza “reale”
la vittoria elettorale. Il referendum si regge ovviamente sul
peso di ogni singolo voto.
Quello che si profila è dunque la minaccia di una Brexit
à la carte, ovvero un’offerta capace di soddisfare tutti. Un
boccone all’eurofobo provinciale middle class, un altro
all’euroscettico conservatore di antichi e nobili lombi, un
altro ancora all’euroscettico laburista poco incline all’internazionalismo, uno al giovane ribelle “anti-tutto”, uno
infine all’elettore mosso dal desiderio di punire il premier in carica. Le ragioni per votare “no” rischiano di essere troppe per poterle arginare. Tutti uniti, appassionatamente, da un anti-europeismo diverso e accidentale, frutto per taluni di un’antica convinzione per altri di un impulso casuale.
Un sonnambulo che cammina verso l’abisso, a questo assomiglia Londra in queste ore che credevamo fossero tarde abbastanza per tracciare il profilo di un “sì” consolidato. Un sonnambulo sordo a tutti i richiami, eccetto quelli
della pancia dettati, come sono, da un menu variabile che
spesso con l’Europa non ha niente a che fare. I rischi di un
referendum, si dirà. Certo, i rischi di un referendum che,
proprio per questo, non si doveva fare.
Leonardo Maisano
S
detesterebbe quest’idea. Dato il dogma economico che predomina all’interno del Paese, una leadership tedesca in politica economica equivarrebbe a una posizione mercantilista del
complesso della zona euro, imposta attraverso la moderazione salariale in
tutta l’area e non con una svalutazione della moneta. Se la Germania fosse il leader incontrastato, i suoi seguaci dovrebbero accettare un conflitto
molto più acuto con la Banca centrale europea. La Germania non ha mai
veramente riconosciuto la definizione dell’obiettivo d’inflazione vicino al
2% come mandato per la stabilità
dei prezzi. Per la Germania, un tasso
d’inflazione fra zero e uno per cento
rientra nella definizione di stabilità
dei prezzi. Finirebbe per esportare disinflazione nel resto dell’area euro e
per rendere impossibile agli altri
Paesi di ridurre l’eccesso di debito. Se
un Paese così fosse il solo vero leader,
il Quantitative easing della Bce dovrebbe fermarsi oggi. Cosa comporterebbe una scelta del genere per
l’Italia? Quantomeno, la obbligherebbe a un’applicazione stretta delle
regole del «fiscal compact» da subito,
e neanche quello riuscirebbe a rassicurare i mercati finanziari.
Il risultato di un simile pacchetto
di politiche d’ispirazione tedesca sarebbe un surplus delle partite correnti che cresce a vista d’occhio in tutti
i Paesi dell’area euro, e investimenti interni perennemente depressi.
Con la Germania leader incontrastato, non ci sarebbe mai alcuno strumento comune di debito e nessuna
unione bancaria oltre quella che abbiamo già oggi con regole comuni, vigilanza comune, una cascata di attivi
bancari da colpire con il bail-in – dalle obbligazioni ai depositi – e nessuna assicurazione comune.
Ma appunto: la Germania non ha
mai fatto domanda per quel posto da
leader. Ed è un bene, perché finirebbe per distruggere l’euro. Sospettiamo anche che il governo tedesco lo capisca. Il problema di queste discussioni sulla leadership tedesca è che gli
altri magari vorrebbero che la Germania la esercitasse, dato che le sue
performance restano insuperate; ma
preferirebbero che Berlino guidasse
a Hillary Clinton, a Silicon Valley,
a Wall Street, al Ttip, alla globalizzazione selvaggia. Ho
raccontato agli amici newyorchesi l’irrilevanza delle
elezioni amministrative in Italia, per l’irrilevanza della figura del sindaco. Rispetto alla retorica del sindaco onnipotente di qualche anno fa, oggi si è ridotto a
un fantasma con fascia tricolore, senza un euro in cassa, debiti mostruosi, aziende municipalizzate fallite,
parte dei dipendenti affamati di diritti ma insensibili
ai doveri, cittadini furibondi (vedi Roma). Sindaci deboli si interfacciano con premier forti (specie gli ultimi) che fingono di mantenere invariate le tasse a livello centrale, togliendo però ogni dotazione agli enti periferici, se vogliono fare un minimo di gestione sono
costretti ad aumentare le tasse locali, diventando imbarazzanti pungiball delle rabbie. Un’interessante
partita in Italia si giocherà il 2 ottobre con il referen-
(segue da pagina due)
nella direzione che vogliono loro.
Vorrebbero che l’economia più grande assumesse la responsabilità dell’equilibrio generale della zona euro ed
esercitasse «soft power», il potere di
far sì che gli altri Paesi vogliano ciò
che vuole il Paese leader.
Purtroppo, questa combinazione
non è sul mercato. Non è mai stato inteso che lo sarebbe stata. Al cuore del
progetto dell’euro si trova una colossale carenza di leadership politica con
cui bisogna fare i conti, se si vuole che
l’unione monetaria sopravviva nel
lungo periodo.
Un’alternativa alla leadership tedesca potrebbe essere un direttorio
informale composto da Germania,
Francia e Italia; purtroppo però queste costruzioni sono per loro natura instabili, soggette ai capricci di politici egocentrici e ai loro appuntamenti elettorali. Per il momento nessuno
dei tre leader nazionali è in condizioni di contribuire granché a un’efficace leadership comune.
Per questo, l’unica possibilità di assicurare la sopravvivenza della zona
euro nel lungo periodo è una qualche
forma di unione politica che non dipenda dalla Germania. È essenziale
che l’unione monetaria vada verso istituzioni e politiche comuni, e dipenda
di meno dalla cooperazione fra governi nazionali.
La direzione dovrebbe essere
l’unione politica. Ciò implica che gli
italiani (e i francesi, e gli spagnoli) la
smettano di parlare con magniloquenza del sogno di un Europa federale e accettino la realtà: la netta perdita di sovranità, o di controllo da parte delle élite locali, che qualunque
unione politica implica. A quel punto l’Italia dovrebbe tenere la rotta e
mantenere l’impegno anche quando
i gruppi d’interesse all’interno del
Paese gridano all’ingiustizia e accusano l’«Europa», non appena le loro
rendite di posizione vengono sfidate.
Se rifiutiamo l’unione politica,
con le sue implicazioni reali,
l’alternativa immediata è già chiara:
una Germania che esercita
l’influenza maggiore nell’area euro,
che ci piaccia oppure no.
Federico Fubini
Wolfgang Münchau
dum renziano «on/off», stesso dilemma Hillary-Donald
in America. Sarà autunno caldo.
* * *
ItaliaOggi, mercoledì 8 giugno
Arrivi a Ny, ti guardi intorno, ti butti sui telegiornali, leggi il Nyt, subito capisci che la presidenza Obama è finita, quel bel signore, invecchiato precocemente, è lì per dovere, educato e gentile, non vede l’ora
di spegnere la luce, avendo preso atto che è finita.
Passerà alla storia come colui sotto la cui presidenza
è stato certificato l’inizio del declino degli Stati Uniti come Impero d’Occidente. Caduto il Muro, lo divenne del mondo intero, illudendoci che «la storia fosse
finita». Niall Ferguson l’aveva anticipato, la storia degli Imperi insegna che, quando le spese per pagare
Africa
Corriere della Sera,
domenica 29 maggio
in corso una gran
discussione sull’Africa. Un
po’ perché il continente –
prevede l’Ocse – sarà la
seconda area del mondo in
termini di velocità di crescita,
dopo l’Asia dell’Est: il 3,7%
quest’anno e il 4,5% il prossimo,
pur con grandi differenze
(l’Etiopia probabilmente
ancora sopra al 10% e in
generale la parte Est del
continente in crescita nel 2016
del 6,3%; Nigeria e Angola
invece in recessione e il Sud
dell’Africa lento, a non più dell’
1,9% ). Un po’ perché aumenta
la preoccupazione per gli 11
milioni di giovani che ogni
anno devono trovare lavoro e,
se non lo trovano a casa, lo
cercheranno all’estero, in
buona parte in Europa: una
delle ragioni per le quali
l’Italia ha proposto alla Ue un
Migration Compact. Uno studio
appena pubblicato proprio
dall’Ocse sostiene che una
delle chiavi dello sviluppo del
continente, forse la principale,
sarà l’urbanizzazione. Tra il
1995 e il 2015, la popolazione
che vive nelle città è
raddoppiata, a 472 milioni.
«L’urbanizzazione – dice lo
studio – è un megatrend che sta
trasformando profondamente
le società africane». Nel 2015,
879 milioni di africani vivevano
in Paesi considerati a «basso
sviluppo umano», mentre altri
295 milioni vivevano in Paesi «a
medio o alto sviluppo umano».
Serve insomma molta crescita e
la creazione di mercati
integrati tra Paesi della
regione è una delle strade
principali per renderla
possibile: in questo, le città
hanno un ruolo chiave. Inoltre,
la popolazione urbanizzata ha
maggiori opportunità di lavoro,
di studio, di curarsi e si
emancipa più facilmente dalle
costrizioni imposte dai
meccanismi di potere dei
villaggi (soprattutto quella
femminile). Nelle città,
migliora anche l’organizzazione
politica per contrastare
corruzione e inefficienza dei
governi. L’Ocse prevede che nel
2050 quasi un miliardo e 400
milioni di africani saranno
urbanizzati, su una popolazione
di un po’ più di due miliardi e
300 milioni. Una sfida politica e
infrastrutturale enorme alla
quale il continente non sembra
preparato: solo un 12% di
economisti africani interpellati
da un sondaggio ha detto che
l’urbanizzazione del proprio
Paese è sostenibile dal punto di
vista economico (il 17% dal
punto di vista sociale, l’ 8% da
quello ambientale). Il
Migration Compact europeo
dovrebbe tenere conto di
queste tendenze.
Danilo Taino
E’
Germania, il (non) leader d’Europa
Corriere della Sera, giovedì 9 giugno
i passa molto tempo
nell’area euro in questo periodo a discutere se la Germania
debba o meno essere
il Paese leader. È un
dibattito inutile, per
quanto affascinante.
Se non altro per carenza di alternative pronte, il Paese più grande dell’area sembrerebbe anche la guida
più plausibile di un esperimento monetario che rimane ancora in bilico.
La Francia si è arenata nella sua interminabile traversata del deserto,
resa ancora più dura dai continui ostacoli a qualunque riforma. E malgrado tutto il suo attivismo, Matteo Renzi resta il primo ministro di un’economia incatenata dal debito e da una
competitività debole. La Germania, almeno in apparenza, ha l’economia e
il sistema politico meno in difficoltà
e nel tempo si è dimostrata persistente nelle sue politiche europee. Non
sorprende che Berlino pesi tanto nelle decisioni dell’area, o che tanti dall’estero guardino al governo tedesco
per cercare di capire dove sta andando la zona euro.
Resta fuori un dettaglio, però. La
Germania non ha mai presentato domanda per quel tipo di ruolo da leader. Non lo voleva quando rinunciò al
marco nel 1999, e psicologicamente
oggi non è più preparata dell’Italia o
della Francia a rivestirlo. La Germania, costituzionalmente, non è un leader. Quasi sempre il suo dibattito
politico o economico nazionale è
orientato in senso domestico almeno
tanto quanto quello di qualunque
altro Paese dell’area euro. Gli economisti tedeschi considerano l’enorme
surplus esterno del Paese sulle partite correnti come una questione di orgoglio nazionale o, nel migliore dei
casi, un residuale dettaglio: una visione completamente incompatibile con
qualunque ruolo di àncora del Paese
in un’unione monetaria da 10 mila miliardi di euro di prodotto lordo.
Immaginiamo per un secondo la
Germania nelle vesti di leader incontrastato dell’area euro. Poiché non ne
avrebbe alcuna legittimazione democratica, gran parte delle persone
Alcol Il comune di Rimini ha
emesso un’ordinanza che vieta ai titolari di minimarket e negozi al dettaglio (non ai bar) nella zona della
movida di tenere bevande alcoliche
pronte per la vendita in frigorifero.
Obiettivo dichiarato: limitare il consumo di birre e liquori nelle ore più
intense della movida, spesso all’origine di violenze ed eccessi.
L’ordinanza, scattata il primo giugno,
Iran
la Repubblica,
mercoledì 8 giugno
Iran cerca tutte le strade
per avvicinarsi al mondo e
ogni volta puntualmente le
trova bloccate. Riuscirà ora a
realizzare una riforma che in
Occidente può sembrare
secondaria ma che qui troverà
ostacoli enormi? La Camera di
Commercio di Teheran ha
proposto al governo di
cambiare i giorni festivi,
mantenendo la sacralità del
venerdì (la nostra domenica)
ma attaccando come secondo
giorno festivo il sabato al posto
del giovedì. Oggi in Iran uffici
pubblici, aziende, addetti al
turismo finiscono per avere
solo tre giorni di lavoro
effettivi, lunedì, martedì e
mercoledì. Il governo sembra
favorevole, ma lo sarà anche la
Guida suprema? Khamenei ha
detto in questi giorni che lo
sviluppo economico deve
essere oggi il primo obiettivo
del paese. La speranza di una
ripresa economica si fa
aspettare nonostante la firma
dell’accordo nucleare. Le
banche europee, memori delle
multe gigantesche che hanno
dovuto pagare agli Stati Uniti
per non aver ottemperato alle
sanzioni, ora esitano ad aprirsi
a nuovi investimenti. La
popolazione iraniana è sempre
più delusa mentre i nemici del
presidente moderato Rouhani
non perdono occasione per
screditarlo nella speranza di
riprendersi al più presto il
potere.
Vanna Vannuccini
L’
prevede pena multe tra i 300 e i 500
euro (Del Frate, Cds).
piate rispetto al 2014, passando da
31,8 miliardi a 62,1 (Di Frischia, Cds).
mercoledì 8 giugno
Case Nel primo trimestre di quest’anno le compravendite di case sono aumentate del 20% rispetto allo
stesso periodo del 2015. Anche le erogazioni di mutui sono cresciute: lo
scorso anno le nuove concessioni di
finanziamenti sono di fatto raddop-
Hillary Hillary Clinton, stando ai
calcoli, ha vinto la nomination del
Partito democratico superando la soglia di 2.383 delegati. È il primo candidato donna alla Casa Bianca in 240
anni di storia Usa. L’agenzia di stampa Associated press ha fatto i calcoli dopo la vittoria di Clinton nelle
primarie di Porto Rico e le ha attribuito i delegati necessari per sfidare
Donald Trump anche prima del risultato della California e degli altri 5
Stati che hanno votato stanotte. Clinton, dunque, avrebbe già 2.383 delegati, mentre Bernie Sanders è intorno a quota 1.950 (Sarcina, Cds).
Berlusconi Silvio Berlusconi da ie(segue nell’inserto II)
ri sera
Amatemi, maledetti! Perché la vittoriosa Hillary non conquista
il cuore degli americani? Indagine su un’antipatica di successo
S
u Hillary Clinton si racconta questa storiella. Lei torna
col marito Bill in Arkansas
e, passando davanti a un distributore, dice: «Guarda,
quel benzinaio era il mio
ex fidanzato!». Bill fa una
smorfia ammiccante, e replica: «Pensa, se lo avessi sposato, invece
di fare la First Lady saresti finita anche
tu a pompare benzina». Lei allora si volta e, senza perdere minimamente la calma, risponde: «No, lui sarebbe diventato
presidente degli Stati Uniti, e tu ora saresti qui a riempirci il serbatoio» [1].
Hillary Clinton sarà la candidata del
Partito democratico alle elezioni per la
presidenza degli Stati Uniti il prossimo
8 novembre. Ha raggiunto la maggioranza assoluta dei delegati eletti con le primarie e dei superdelegati – cioè dirigenti del partito – che voteranno alla convention di Filadelfia del prossimo 25 luglio e
che la sceglieranno formalmente come
candidata del partito [2].
Hillary Clinton è la prima donna della
storia candidata alla Casa Bianca. «È una
vittoria che va dedicata a ogni bambina
che ha grandi sogni e che d’ora in poi saprà che tutto è possibile, persino diventare presidente degli Stati Uniti» ha detto festeggiando a Brooklyn mercoledì
scorso [3].
Se è stato chiaro settimane fa che Donald Trump avrebbe vinto le primarie repubblicane, quelle democratiche si sono decise davvero solo negli ultimi giorni, nonostante Hillary sia stata sempre
in vantaggio e favorita. Il suo sfidante, il
senatore del Vermont Bernie Sanders,
nonostante avesse perso matematicamente già prima dell’ultimo voto di martedì scorso, non si è ritirato e non ha
nemmeno ammesso la sconfitta, come
fanno normalmente tutti i candidati
sconfitti per ricompattare il partito in
vista delle elezioni vere e proprie. Sanders ha invece detto che lui e i suoi sostenitori porteranno avanti la loro battaglia alle elezioni di Washington, D.C. e
alla convention estiva [4].
Paolo Mastrolilli: «Sanders ha dominato soprattutto fra i giovani, e in parte fra
le donne, portandosi via un pezzo importante della coalizione che aveva fatto vincere Obama. Ora il presidente può
aiutare Hillary a recuperarla, ma diversi elettori dicono che se Sanders non
sarà il candidato, non andranno alle urne. Davanti alla possibilità di una sfida
molto ravvicinata a novembre, i democratici non possono permettersi di perdere neppure un voto, e per riuscirci
avranno bisogno del sostegno convinto
di Bernie per Hillary» [5].
L’endorsement di Obama è arrivato giovedì, con un video online: « Conosco Hillary Clinton e vi posso dire che non c’è
mai stato nessuno così qualificato per ricoprire questo incarico. Ha coraggio,
compassione e cuore per ricoprire questo incarico. E lo dico io, che ho dovuto
partecipare a più di 20 dibattiti con lei».
Obama ha poi incontrato Sanders per
convincerlo a farsi da parte e ad appoggiare Hillary [6].
Nelle scorse settimane Sanders ha accusato più volte il Partito Democratico – anche senza fondamento – di aver forzato
le regole della competizione allo scopo
di sfavorirlo. In realtà i dati sulle primarie democratiche mostrano che Clinton
ha ricevuto molti più voti in termini assoluti, ha vinto in più Stati, ha ottenuto più
delegati eletti con le primarie e ha ottenuto più superdelegati. Quelli sulle primarie Repubblicane invece mostrano come candidati di cui si è parlato molto all’inizio delle primarie abbiano preso pochissimi voti se paragonati a Trump, per
il fatto di essersi ritirati presto [4].
I numeri assoluti alla fine delle primarie democratiche:
• Hillary Clinton: 16.005.486 voti
(55,63%, 2.777 delegati)
• Bernie Sanders: 12.279.680 voti
(42,68%, 1.876 delegati)
• Martin O’ Malley: 110.872 voti (0,39%,
0 delegati) [4].
gli interessi sul debito sono superiori a quelli per la
difesa, l’Impero è avviato al declino, e sarà irreversibile. Niall lo scrisse in tempi non sospetti. Durante il
primo mandato di Obama, il cambio di verso è avvenuto, ma colpi mortali a questa costruzione altri
l’avevano già data, prima Clinton con una sciagurata
politica economica, poi Bush con guerre troppo costose per le sue finanze. Il I secolo del secondo millennio
sarà per l’America l’equivalente del III secolo D.C.
per Roma?
Ai più credo sia sfuggito un lunghissimo articolo
comparso ad aprile sul mensile The Atlantic, a firma
di Jeffrey Goldberg, national corrispondent della rivista. Molti giornali europei, specie quelli di regime,
l’hanno snobbato o si sono autocensurati. È storytelling pura, ma non banale, si sente la sofferenza di un
leader mai diventato tale, non so cosa dirà la storia
I numeri assoluti alla fine delle primarie repubblicani:
• Donald Trump: 13.445.461 voti
(44,24%, 1.542 delegati)
• Ted Cruz: 7.729.494 voti (25,43%, 559
delegati)
• John Kasich: 4.201.695 voti (13,82%,
161 delegati)
• Marco Rubio: 3.513.387 voti (11,56%,
165 delegati)
• Ben Carson: 825.483 voti (2,72%, 7 delegati)
• Jeb Bush: 286.342 voti (0,94%, 4 delegati)
• Rand Paul: 66.746 voti (0,22%, 1 delegato)
• Chris Christie: 57.572 voti (0,19%, 0 delegati) [4].
Per 14 anni consecutivi – e 20 in totale
– Hillary Clinton è risultata la donna più
ammirata dagli americani nel sondaggio
ricorrente della Gallup. E allora perché
ha avuto così tante difficoltà nello sconfiggere un socialista ultrasettantenne come Sanders? [1].
Alcuni dicono: è perché è donna, altri
che è troppo algida, troppo seria, troppo
secchiona. Altri ancora dicono che è
troppo establishment [7].
Un’altra spiegazione che si dà frequentemente è che Hillary
piace quando perde,
ma risveglia odi ancestrali quando vince, o
anche solo rischia di
farlo [1].
Anna Momigliano:
«Un tempo, quando
tutto era più semplice, quando non s’era
capito bene quale
fosse la portata del
ciclone Trump, quando un esercito di Millennials bianchi non
era ancora stato sedotto da un settantenne del
Vermont, un tempo, si
diceva, la chiamavano
“inevitable Hillary”: Hillary l’inevitabile, quasi la
sua nomination democratica, se non addirittura l’elezione alla Casa Bianca,
fosse già scritta, una questione
d’ineluttabilità storica dalle implicazioni velatamente marxiane. Oggi c’è chi la
chiama “unlikeable Hillary”, Hillary
l’antipatica» [7].
Hillary Diane Rodham Clinton, classe
’47, di Chicago. «Moglie, madre, avvocato,
attivista per le donne e i bambini, first
lady dell’Arkansas, first lady degli Stati
Uniti, senatore, segretario di Stato, scrittrice, proprietaria di cane, icona di acconciature, patita di tailleur, incrinatrice
di soffitti di cristallo» (il suo primo tweet,
il 10 giugno 2013).
Figlia maggiore di Hugh Rodham, dirigente di una fabbrica di tessuti e Dorothy
Emma Howell, casalinga, due fratelli più
giovani, Hugh e Anthony, educazione metodista: famiglia, tempio, scuola, obblighi
sociali [3].
Partì dal Wellesley College, la severa
scuola femminile nel Massachusetts, fino
ad arrivare all’Università di Yale, facoltà
di legge. Lì nell’estate del 1971 conobbe
Bill. Sarcina: «Si trasferì a Washington,
dove fu assunta nei migliori studi di avvocati; coltivò la passione politica, spostandosi gradualmente da posizioni un
po’ bacchettone verso la difesa dei diritti civili, la protezione delle famiglie, dei
bambini. A 35 anni era già tra i primi
cento legali del Paese, su un totale di oltre un milione» [2].
Mastrolilli: «Diventato presidente, lui le
aveva affidato il progetto più ambizioso
del proprio mandato, la riforma sanitaria, e lei aveva fallito, inseguita dall’odio
naturale dei suoi avversari e da scandali devastanti come il suicidio del suo
grande amico Vince Foster. Eppure, una
volta sconfitta, la gente aveva cominciato ad amarla, forse proprio perché era diventata vera e reale. Stesso discorso per
lo scandalo Lewinsky, dove la determinazione con cui aveva affrontato il dolore
di lui, di certo lui è una persona seria, perbene, così
a occhio, forse l’unico del G7. In tutti i miei incontri
a Ny ho sempre usato questo articolo come check list
per le mie domande, specie di politica estera, con
scarsi ritorni, essendo nota la focalizzazione degli
americani sull’economia. Così Trump può trattare la
politica estera a colpi di slogan, sapendo che qualsiasi battuta faccia non ne avrà alcun danno.
Un pezzo d’altri tempi questo di Goldberg, giornalismo classico ove c’è tutto, racconto, intervista, analisi, battute, affetto verso l’uomo, mixati con grande
professionalità. Si vede che in questi otto anni è stato l’ombra giornalistica del Presidente, come Hunter
S. Thompson (mio riferimento di scrittura «gonzo journalism») lo era stato per Nixon. La sintesi che ne
emerge, letta con occhi europei, la trovi in un passaggio, «è stato un Presidente che col passare del tempo,
l’aveva resa persino simpatica, spianandole la strada all’elezione come senatrice di New York» [1].
La sconfitta contro Obama nel 2008 era
stata un altro punto basso: lei, prima
donna candidata favorita, con le referenze positive del mandato senatoriale,
demolita da un giovane nero alle prime
armi [1].
In quelle primarie del 2008, quando un
giornalista le domandò «cosa ha da dire
agli elettori che apprezzano il suo curriculum ma non riescono a votarla perché
la trovano antipatica?», lei rispose: «Mi
ferisce». Obama finse di rincuorarla:
«Dai, sei abbastanza simpatica» [7].
Eppure, invece di voltargli le spalle,
aveva accettato di servire Obama come segretario di Stato, tornando a scalare i
sondaggi di popolarità. Proprio in coda
al mandato, però, era arrivato l’attacco di
Bengasi che ancora la perseguita, e all’inizio della nuova avventura presidenziale è esplosa la leggerezza commessa nell’usare la mail privata al dipartimento di
Stato, come il nuovo scandalo che potrebbe ancora azzopparla [1].
Giuseppe Sarcina: «L’ex segretario di
Stato ha costruito una campagna con uno
schema politico e psicologico
che prevedeva una leadership
indiscussa, naturale: la sua.
Ma l’America del 2016 si è rivelata piena di sorprese. Il
percorso di Hillary si è fatto
via via più difficile. Il suo
programma riformista, pragmatico, accurato non è apparso sufficiente per catturare l’entusiasmo dei giovani e anche di una parte significativa dell’elettorato
femminile» [2].
Per l’editorialista del
New York Times David
Brooks il problema di
Hillary starebbe tutto
nella sua immagine di
«workaholic»,
una
stakanovista senza una vita privata e, di conseguenza, priva di un
lato umano: «Sappiamo cosa fa Obama
per divertirsi: golf, basket, eccetera. Sappiamo, purtroppo, anche quello che
Trump fa nel tempo libero. Però quando
la gente parla di Clinton, è sempre solo
in termini professionali», ha scritto
Brooks. «Come figura pubblica, trasmette una vibrazione esclusivamente professionale: laboriosa, calcolatrice, concentrata sul risultato, diffidente. È difficile
farsi un’idea su di lei come persona» [7].
Hillary ha ammesso di non essere «un
talento naturale della politica, come Obama o mio marito», ma cerca di compensare da secchiona. Paolo Mastrolilli:
«Conosce tutti i dettagli dei temi nel dibattito politico, e offre il realismo rassicurante di “un progresso che possiamo
realizzare”. Questo, però, nell’anno delle candidature insurrezionali, populiste
e anti establishment, in cui lei sembra
una vecchia zia un po’ pedante, capace
di convincere solo le persone anziane e
un po’ pedanti, in cerca di continuità e
immobilità» [1].
C’è un’ultima domanda: suo marito Bill
è un punto di forza o un punto di debolezza? Paola Peduzzi: «Le femministe che la
detestano dicono che lei non può essere
simbolo di niente, essendo arrivata là in
alto come “la moglie di”. Dicono anche
che, avendo perdonato un marito traditore impenitente, non ha fatto un favore alla causa delle donne, anzi, ha mostrato fino a che punto le donne sanno umiliarsi
in nome di un senso di conservazione autodistruttivo. Dicono anche la cattiveria
più grande: se non sei riuscita a farti
amare da tuo marito, perché dovremmo
amarti noi?» [8].
(a cura di Luca D’Ammando)
Note: [1] Paolo Mastrolilli, La Stampa 8/6; [2]
Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 9/6; [3] Arturo Zampaglione, la Repubblica 9/6; [4] il Post
9/6; [5] Paolo Mastrolilli La Stampa 9/6; [6] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 9/6; [7] Anna Momigliano, rivistastudio.com 30/5; [8] Paola Peduzzi, rivistatudio.com 29/4.
è diventato sempre più fatalista sulla possibilità degli Stati Uniti di poter guidare gli eventi mondiali».
Di contro, analisi ineccepibile quella che Obama fa
sugli altri suoi compari del G7: «Questi scrocconi mi
irritano», termine feroce ma giusto, per criticare le
basse spese per la difesa dei G6, media europea 1,3%
del Pil, per noi 0,95%, contro i 3,4% degli Usa. Chiunque sarà il futuro Presidente, i G6 dovranno investire molti quattrini sugli armamenti se vorranno difendersi, giustamente gli americani non lo faranno più
per noi.
L’aspetto più interessante è che Obama è perfettamente conscio del giudizio che i suoi compari del G7
danno di lui: «leadership inadeguata rispetto ai problemi che hanno gli Stati Uniti», che è poi il giudizio
dei media europei. Quello che non conoscevamo è il
giudizio feroce di Obama sugli altri (segue nell’inserto II)
ANNO XXI NUMERO 138 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
Bomba a Istanbul: undici morti. Ogni anno in Asia vengono torturati e cucinati trenta milioni di cani
sera
è ricoverato per uno
scompenso cardiaco
al San Raffaele di Milano. Ha avuto affanno
domenica sera, sul volo che lo portava da Roma a Milano (Ravizza,
Cds).
(segue dall’inserto I)
Turchia Ieri, giorno d’inizio del
Ramadan, al centro di Istanbul, una
bomba, piazzata in un’automobile e
innescata con un comando a distanza, è stata fatta esplodere al passaggio di un autobus della polizia, alle
8,35. A terra sono restati 11 morti, 7
agenti e 4 civili. L’azione non è stata
rivendicata, le autorità pensano che
sia stata organizzata dai ribelli curdi
del Pkk; più probabile, tuttavia, che
l’attacco sia stato portato a termine
da gruppi radicali (Rep).
giovedì 9 giugno
Israele Ieri sera due cugini palestinesi hanno cenato al ristorante
Max Brenner in un centro commerciale a Tel Aviv, poi hanno aperto il
fuoco sulla folla. Il fuggi fuggi è stato immediato ma nel giro di un minuto i proiettili avevano già colpito dieci persone: tre moriranno al loro arrivo in ospedale, un’altra ha perso la
vita poco dopo, altre sono in gravi
condizioni. Gli sparatori, due ventenni provenienti dal villaggio di Yatta,
a sud di Hebron, sono stati catturati
dagli agenti. L’attacco è stato festeggiato da Hamas, ma a c’è il timore di
infiltrazioni dell’Isis (Salom, Cds;
Olimpio, Cds).
Cucchi «Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni:
pestato, ucciso dai servitori dello Stato in divisa e col camice. Bisogna evitare che muoia per una terza volta».
Sandrelli, i settant’anni di una monella in ciabatte
«I litigi con Germi, le risate con Scola e quella lettera d’amore di Trintignant. Il cinema per me è stato una danza collettiva»
P
il Fatto Quotidiano, domenica 5 giugno
iù che il tempo, teme la noia: «Ai
moralisti ho sempre preferito i
mascalzoni, i peccatori e i monelli forse perché un po’ mascalzona,
monella e peccatrice sono stata
anch’io». Stefania Sandrelli oggi
compie settant’anni. Tra un albero
in regalo e l’altro: «Mi è capitato di
dire che li avrei desiderati in dono in tv da Fabio
Fazio e per la disperazione di Giovanni Soldati, il
mio compagno, stanno arrivando veramente», festeggia: «Con le solite persone. I parenti, i figli, le
amiche che sono riuscita a racimolare. Sul set, a lavorare, avrò trascorso il 5 giugno un paio di volte
nella vita al massimo». Con la stessa inconsapevole leggerezza che in Io la conoscevo bene, da aspirante parrucchiera, la faceva precipitare nella gaffe
senza intenzione: «Ma non mi invecchieranno?», le
domanda una cliente dubbiosa «Le mèches dice?
Ma no, se le fanno anche le vecchie per sembrare
più giovani», Sandrelli è arrivata all’età: «Di un
compleannone tondo, tondo». È nata nello stesso
giorno della proclamazione della
Repubblica, ma per i tanti italiani rapiti da un’interpretazione
donata a Bertolucci, Germi, Monicelli, Pietrangeli o Scola, si
potrebbe sostenere anche il
contrario.
Il divorzio prima del divorzio nella Sicilia del delitto
d’onore, le terrazze in cui litigare con Gassman: «Lei è un
imbecille», «Lei una cretina»,
le torride giornate in un metro
di ascensore con Alberto Sordi in tonaca: «Le dispiace se
mi tolgo la maglietta?», le
promesse di futuro di Luciana Zanon da Tresaghis in
C’eravamo tanto amati: «Avevamo dei progetti: sposarci,
comprarci una Lambretta, fare dei bambini, non necessariamente in quest’ordine».
Casta o nuda, ma sempre diva: «Macché, sono una popolana, una
donna semplice», tra un premio, una montée des
Marches a Cannes e una pigrizia casalinga: «Fosse
per me starei sempre in ciabatte», nei decenni Stefania c’è stata sempre. Nella speranza che i nipoti
le lascino un’ora per raccontarsi: «Adesso dormono,
mi auguro che non si sveglino», in una settimana di
celebrazioni, Stefania è alle prese con il ruolo della nonna e osserva l’estate filtrare dalle vetrate affacciate su una Roma che guarda a nord: «Gli ultimi due anni per me sono stati un po’ tosti, ma sono
pazza di loro. Per farmi passare qualsiasi stanchezza o preoccupazione mi basta vederli sorridere».
Per lei sono giorni di festa, ma nella sua vita non
c’è stato spazio per la sola allegria.
«Il dolore fa parte dell’esistenza di chiunque. Per
carattere sono una che non si lamenta mai e cerca
di tirare avanti, ma la morte di mio padre, ad esempio, fu una sofferenza vera e arrivò quando avevo
solo otto anni dopo un tempo lietissimo fatto di giochi in strada, passeggiate in riva al mare d’inverno,
biciclettate in pineta o alla Darsena ed estati ai bagni Aurora».
Il mondo, da Viareggio, l’ha esplorato anche lei.
«È accaduto tutto per caso. Io adoro la musica e
volevo danzare. Alla fine il cinema per me è stato
questo: una danza collettiva. Un concerto in cui il
regista dirige l’orchestra e gli orchestrali collaborano alla partitura tentando di realizzare la più soave delle melodie. Il bello del cinema è questa ossessione condivisa con un gruppo di persone che sono nella stessa barca e provano a remare nella stessa direzione. Tutti pensano a migliorare la scena e
a dare il meglio in un’ottica comune. Fare l’attore
è come vivere una vita al cubo».
Come si è orientata?
«Con l’istinto. Non ho mai fatto calcoli né operazioni a tavolino. Mi sono buttata. “Questo è un bel
copione – pensavo – lo trasformeremo in un film ancora migliore”».
Come iniziò la sua corsa?
«Andavo di fretta ed ero sveltissima, ma io sono
pigra e forse non ho corso mai. Sono andata di corsa, che è una cosa diversa».
Sembra una contraddizione.
«Non dico mai cose scolpite sulla pietra tipo tavole di Mosè, ma senza contraddizioni la vita sarebbe un diagramma piattissimo. Cambiamo idea, passioni, amori, punti di vista».
Non ha mai corso, diceva.
«Ho corso solo per andare al cinema. Con mio fratello Sergio che era più grande e che adoravo, eravamo sempre lì. Ancora mi ricordo i nomi delle sale: l’Eden, il Supercinema, l’Eolo, l’Odeon. Vedevamo di tutto, da Cassavettes a Olmi. Facevamo filmini amatoriali tra noi. Esperimenti. Un passo di Sergio, un uomo altissimo, valeva quattro dei miei.
Quando mi voleva tenere a bada mi metteva dolcemente le mani sulle spalle. E io capivo».
sei premier. «Non sono all’altezza
(segue dall’inserto I)
del ruolo», secondo lui non hanno nessuna lungimiranza e disponibilità di spendere il loro capitale politico per raggiungere obiettivi graduali e di lungo periodo. Ha ragione, sono dei poveretti, pensano solo a
come essere rieletti.
Come raffinato intellettuale liberal Obama è convinto che nella Storia ci sia una parte «giusta» e una
«sbagliata», e che costoro siano nella seconda. Una
cosa è certa, oggi possiamo dirlo, non aver voluto far
guerra ad Assad, dopo aver fatto l’errore di estromettere Gheddafi per colpa dello squallido duo francoinglese ed essersi pentito, e non considerare più il
Medio Oriente una priorità americana ma europea,
lo porterà probabilmente dalla parte «giusta» della
Storia. E lascerà noi dalla parte «sbagliata». Ce lo
meritiamo.
Si ricorda il primo bacio al cinema?
«In Gioventù di notte di Mario Sequi, con Sami
Frey. Di certo non mi disturbò e se il regista chiedeva un ciak in più non ci disperavamo. Sami era
molto carino. Mi piaceva e io piacevo a lui. Ce la siamo un po’ goduta, ma solo un po’. Non è che abbiamo fatto i porcelli, non è che abbiamo spinto sull’acceleratore».
Prima di Giovanni Soldati, con cui sta da tempo immemorabile, conosciuto sul set di Novecento, le storie
d’amore non le sono mancate.
«All’inizio avevo dei preconcetti: “Non mi metterò mai con un uomo più giovane di me”. Con Giovanni il pregiudizio è caduto e stiamo insieme da
più di trent’anni. Gli uomini che ho amato comunque, li ho amati veramente. Nel rischio e nell’incertezza. Senza recitare. Partendo, tornando, sbattendo
la porta. Soffrendo e facendo soffrire. Capitava di
innamorarsi. E anche lì, niente calcoli. La sola idea
di mettermi con qualcuno, magari con un produttore importante per avere la strada spianata come a
certe colleghe pure capitava, mi metteva i brividi».
Le sono sempre piaciuti i belli.
«No, mi sono sempre piaciuti gli
uomini che mi piacciono. E quelli che hanno saputo conquistarmi senza che io dovessi conquistare loro. Sono stata anche molto fortunata. Ho potuto scegliere sia le persone con cui accompagnarmi, sia i registi con cui lavorare».
Quanto era importante
l’attrazione fisica?
«Non avrei mai potuto condividere l’intimità
con qualcuno che non
mi attraeva. Mi sarebbe
automaticamente cresciuta una cintura di castità. Così, dalla sera alla
mattina».
Che cosa la respingeva
invece?
«Il collezionista di attrici mi ripugnava. Ho sempre
diffidato di certe tipologie di uomini,
forse proprio perché sono attrice. Alla fine della fiera, non me so fidà».
Neanche Anna Magnani si fidava di Fellini chiudendogli in faccia la porta di casa sua nel film Roma.
«Posso farti una domanda, Anna?», «No Federì, nun
me fido».
«Attrice grandissima e donna spiritosa. Una dote,
l’autoironia, che ho sempre apprezzato. Nella nostra famiglia ridere al di là delle sofferenze che toccano chiunque è sempre stato fondamentale. Avevamo senso dell’umorismo noi Sandrelli e ci circondavamo di gente che sapeva cosa voleva dire essere
ironici».
Niky Pende sosteneva che quando le piaceva un uomo lei iniziasse a sorridere con le gengive.
«Non ho mai capito cosa volesse dire, così come
non ho mai creduto a quella definizione che mi riguardava e che attribuirono a Moravia».
«Quando incede, Stefania sparge sesso».
«Non l’ho mai letta né mai vista, quindi per me
non esiste. Non è che mi offendesse la frase in sé,
questo no. Però insomma non mi sono mai considerata né particolarmente brava né particolarmente
bella. Non mi sono mai sentita una fica».
Non ci dica così.
«L’altra sera ho incontrato Luigi Biamonte, una
persona deliziosa, press agent ai tempi gloriosi di
un certo cinema italiano. Mi ha portato una foto pazzesca. C’ero io ragazza, a Sciacca, con un berretto da
pescatore sulla testa, sul set di Sedotta e abbandonata. Era il 1963. Non mi sono riconosciuta. Avevo gli
zoccoli ai piedi e una che si sente una fica non si
mette gli zoccoli. Una fica va scalza e io scalza praticamente non so stare».
Ha sempre amato le ciabatte, ha detto prima.
«Sul set di Io ballo da sola, nella campagna toscana, in un clima di grande rilassatezza generale, tra
figli dei fiori che avevano fatto il ’68 e al ’68 erano
rimasti, andavano tutti a piedi scalzi per chilometri.
Un giorno vado da Bertolucci: “Senti Bernardo, ti
prego, dammi un paio di ciabatte, non sono come i
matti che hai riunito qui”. Lui rise come un pazzo».
Con Bertolucci alla regia condivise la lunghissima
esperienza di Novecento.
«Venimmo sequestrati per un tempo che di mese in mese si dilatò fino a darci l’impressione che
il film non dovesse finire mai. Io non avevo fatto teatro e star così tanti mesi lontano da casa mi turbò.
Era tutto bello, c’era un cast magnifico, ma insomma, ero abbastanza stravolta e un po’ di magone ce
l’avevo».
Ha mai fatto arrabbiare un regista? Gli ha mai
mancato di rispetto?
«Non credo proprio. Qualche volta, soprattutto
con Germi, mi ha fatto arrabbiare il regista. Sul set
di Divorzio all’italiana, il primo giorno, non ci prendemmo benissimo. Io ero distratta e ancora lontana da un’idea professionale del mestiere. Mi sputta-
navo la diaria girando per negozietti e arrivavo sul
set un po’ straniata. Germi, che è stato un grandissimo direttore della recitazione, un regista che amava gli attori più di se stesso, se ne accorse e la prese male. Lui voleva delle cose precise, le chiedeva
bruscamente e io quelle cose non sapevo riprodurle: “Senta – gli dissi – sono appena arrivata da Viareggio e se lei si infuria e mi tratta male a prendere il treno per tornarci non ci metto niente”».
Nonostante gli inizi tumultuosi, Germi è uno dei
registi che ha amato di più.
«I litigi duravano cinque minuti. Mi chiudevo in
roulotte e poi, dieci minuti dopo, avevamo già fatto
pace. A Germi devo molto. Mi fece interpretare un
film che girò il mondo. Osservarlo mi incantava. Lo
spiavo mentre impostava la scena e faceva le prove. Pensava a ogni dettaglio. Piangeva, urlava, cantava. Ero ammirata».
A sua volta, Sergio Staino è ammirato da lei. L’ha
anche citata in una vignetta sulle intenzioni di voto di
Sabrina Ferilli a Roma. Uno dei personaggi dice a Bobo: «Sabrina Ferilli voterà Cinque Stelle». Bobo risponde: «L’importante è che non li voti la nostra Stefania Sandrelli».
«Con te Bobo verso l’infinito e oltre!».
La politica piaceva molto a Ettore Scola.
«Quanto abbiamo riso insieme. E che film straordinari girò. Tutti giustamente ricordano C’eravamo
tanto amati e La terrazza, ma quello a cui sono più affezionata è La Famiglia. Era un gioiello e avrebbe
meritato di vincere dieci Oscar. Ma l’Academy la conosciamo. Ignorò Mastroianni e per decenni anche
quel genio di Pierino Tosi. Una dimenticanza che
essendo Pierino cento volte più talentuoso di tanti
altri suoi colleghi aveva del paranormale».
Cosa amava di Scola?
«Gli si chiudevano gli occhi dal ridere, fino alle
lacrime. Da ragazzo forse era bruttarello, poi, all’improvviso, diventò un bell’uomo. Una sorte comune
a tanti ex bruttarelli che da adulti, pensi a Gaber,
pensi a Jannacci, si trasformarono in belli».
Rimpianti?
«Mi sarebbe piaciuto interpretare La ragazza di
Bube nel ruolo che poi toccò a una superba Cardinale e lavorare con De Sica ne Il giardino dei Finzi
Contini. Ma la Documento film, così si chiamava la
società che produceva, pretendeva di riconoscermi
molto meno di quanto fossi stata pagata al mio esordio. Erano passati quasi dieci anni. Era inaccettabile. Con dolore, lo dissi a De Sica sperando potesse aiutarmi: “Cosa devo fare per campare? I filmetti?”. Non se ne fece niente e mi dispiacque perché
era stato lo stesso Giorgio Bassani a dirmi: “Sei perfetta per il ruolo”».
Al suo posto venne scelta Dominique Sanda.
«Era molto brava e aveva tratti più nobili dei
miei. Dominique si è dimostrata sempre una vera
amica. Un giorno mi telefonò e mi disse: “Mi spiace di darti questa notizia, ma sarò io a fare il film.
Me l’ha chiesto De Sica e non ho saputo né voluto dire di no. Sai come diciamo da noi? à la guerre comme à la guerre».
Lei capì?
«Apprezzai enormemente la sincerità. E non provare una sola stilla di rancore, ma addirittura una
sorta di felicità per lei, rappresentò una verifica importante con me stessa. Con Dominique ci incontrammo nuovamente sul set. Mi preparava tisane rilassanti. Parlavamo per ore».
Altri film saltati per un soffio?
Mi proposero La noia, il film tratto dal romanzo di
Moravia. Carlo Ponti mi convocò in ufficio. Alberto
era nei dintorni. Non lo vedevo, ma sentivo distintamente la sua voce. Gridava “È lei, è lei”. E la
proiezione già mi indispose. Io sono io e non posso
essere un’altra neanche quando recito. Poi arrivai
davanti a Ponti. Tirò fuori un paccone di soldi: “Sono per te, ragazzina”. Il gesto mi disturbò tantissimo
e mi vergognai per lui. I cinematografari, anche
quando di gran passione e talento come Ponti, potevano essere cafonissimi. Mi alzai di scatto e quasi scappai dall’ufficio per correre a parlarne a Gino Paoli. A quell’epoca mi consultavo spesso con Gino».
Era un consigliere acuto?
«Acuto e intelligente, Gino è sempre stato. Fosse
stato per lui però, a iniziare da Io la conoscevo bene,
non avrei dovuto recitare quasi mai. Aveva sempre
un’eccezione, un distinguo, una critica».
È stato lui a scriverle la più bella lettera d’amore
che lei abbia mai ricevuto?
«È stato Jean-Louis Trintignant, ai tempi de Il
conformista di Bertolucci. Mi scrisse che avrei potuto fare e scegliere qualsiasi cosa, che lui mi avrebbe amato in qualunque caso e che visto che il film
era finito si sentiva finalmente autorizzato a dirmelo. “Sei come il mare che ti rinnovi, ti ritiri e poi rinasci sempre”. Così scrisse. Non me lo sono più dimenticato. Con Jean-Louis diventammo molto amici. Una volta mi invitò a Uzès, in campagna, dove si
era ritirato con Nadine. Guidava da dio e mi volle
stupire su qualche strada non trafficata con le sue
evoluzioni al volante. Facemmo un paio di testa-coda. Mi spaventai moltissimo. Gliel’ho detto, sono un
tipo tranquillo. Non sono poi così selvaggia».
Malcom Pagani
Di una cosa sono certo, Barack Obama fra 10 anni
sarà dalla parte «giusta», non avrà un patrimonio personale di 150 milioni $, come Clinton (Bill).
* * *
ItaliaOggi, giovedì 9 giugno
Molti non hanno capito l’innovatività della strategia
di marketing oggi dominante nel mondo delle bevande. «Bere americano 2016», è una genialata che può
avere una connotazione politica (lo vedremo dopo). Il
cambio di strategia nel mondo del bere è molto più sociologicamente interessante dell’evoluzione dell’auto
verso l’elettrico o verso la guida autonoma. In un caso
è visione prospettica, nell’altro sopravvivenza.
Budweiser (per gli americani sinonimo di birra, come
lo era Kodak per la fotografia, prima che fallisse) per
Lo ha detto il procuratore generale
Eugenio Rubolino nell’aula dove si
celebra il processo d’appello bis per
la morte del geometra, avvenuta all’ospedale Pertini il 22 ottobre 2009, una
settimana dopo il suo arresto per droga. Il pg chiede quattro anni di carcere per il primario Aldo Fierro, tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici accusati di omicidio colposo per
non aver fornito a Cucchi le cure necessarie affinché non morisse (Pasolini, Rep).
Gatti
Rivistastudio.com,
martedì 7 giugno
onathan Franzen odia i
gatti perché ama gli uccelli.
E i gatti, si sa, mangiano gli
uccelli. La logica conclusione,
sostiene l’autore di Freedom e
di Purity, è che «i gatti devono
morire affinché gli uccelli
possano vivere».
Recentemente lo scrittore ha
infatti tessuto le lodi di un
libro contro i gatti di prossima
pubblicazione. Il testo in
questione si intitola Cat Wars:
The Devastating Consequences of
a Cuddly Killer e uscirà ad
ottobre per i tipi della
Princeton University Press. I
due autori, il naturalista dello
Smithsonian Peter Marra e il
giornalista Chris Santella,
sostengono che «sempre più
dati scientifici confermano
che i gatti randagi stanno
uccidendo uccelli e altri
animali a milioni, soltanto
negli Stati Uniti». Sulla
fascetta pubblicitaria del
saggio, riporta The New
Republic, compare un
endorsement di Franzen: «A
pochissime persone piace
pensare al problema
disastroso che i gatti randagi
rappresentano per la
biodiversità, e ancora meno
hanno il coraggio di parlarne
apertamente. Il libro di Marra
e Santella è quindi
doppiamente benvenuto. È
una lettura importante per
chiunque abbia a cuore la
natura. Con il suo approccio
pacato e scientifico, e grazie al
modo in cui tratta con
compassione una questione
molto scivolosa, questo è
anche un libro che si potrebbe
leggere per piacere». In
precedenza, il celebre
romanziere non aveva fatto
mistero del suo essere
disposto a sacrificare i gatti
per salvare gli uccelli: «La
posizione della comunità degli
amanti degli uccelli è che
dobbiamo sbarazzarci dei gatti
allo stato brado, e questo
significa che i gatti devono
morire», ha detto Franzen,
stando a quanto riferisce il
magazine New York. «La cosa
ci dispiace, ma ci sentiamo
giustificati da un punto di vista
morale».
J
Gufi
la Repubblica,
sabato 4 giugno
l gufo appartiene all’ordine
degli Strigiformi. È un
uccello notturno, di giorno
dorme dentro le cavità degli
alberi, mimetizzato. Concentra
tutte le sue attività –
procurarsi cibo, mangiarlo,
difendersi dai nemici, fare
sesso – dopo il calar del sole.
Fedele al vecchio proverbio
«ciò che non strozza, ingrassa»,
il gufo è diventato celebre per
la sua abilità di girare la testa
di 270 gradi, oltre che in
direzione verticale. Ma pochi
sanno che questo talento è
solo la conseguenza della
totale incapacità di muovere
gli occhi. E oltretutto non ha
orecchi. O meglio, li ha, ma
non dove te li aspetteresti.
Quei pennacchietti pelosi che
sfoggia esattamente nel punto
in cui dovrebbero essere gli
orecchi, del tutto simili a
orecchi, sono infatti solo
pennacchietti. Porta sfortuna,
secondo la tradizione. Per via
del lugubre canto e
dell’aspetto terrificante che
assume quando spalanca le ali
e gli occhi contro i nemici.
D’inverno, si appollaia
insieme ad altri gufi sugli
alberi, formando delle piccole
comunità di sfaccendati. In
primavera si rianima e parte
in cerca di una femmina con
cui accoppiarsi. Come molte
altri specie, il gufo sta sulla
terra un po’ a caso, a perder
tempo. A fornire ispirazione a
romanzi, poesie, ritratti...
proprio come noi.
Elena Stancanelli
I
tutta l’estate sostituirà su bottigliette e lattine il suo
marchio (sic!) semplicemente con la parola «America».
Una rivoluzione culturale incredibile nel mondo
del marketing dei beni di largo consumo, il più sensibile alle tendenze nascoste dei consumatori, il più
vicino alla politica e ai miei interessi riferiti ai «segnali deboli» che condizionano i trend. In un’intervista, un suo alto dirigente l’ha spiegato: «Visto che sarà
l’estate più americana di questa generazione, con la
Coppa America di calcio negli Usa, con le Olimpiadi
a Rio dove gli americani contano di sbancare, con le
presidenziali, noi ci saremo con “America”».
Lo stesso ha fatto Pepsi Cola, in proposito volevo intervistare Mauro Porcini, suo chief design officer, ma
il Corriere (La Lettura) mi ha bruciato. Questi ha ridisegnando l’intera gamma di prodotti con nuovi concetti (Nacked, Tropicana, Gatorade, Lipton,
Cani Ogni anno in Cina, Corea del
Sud, Vietnam e altri paesi asiatici 30
milioni di cani finiscono a pezzi sul
banco del mercato. I venditori rubano i cani dai cortili a padroni ignari.
Prima della macellazione li torturano
e li espongono come trofei, appesi ai
bastoni. La tortura prima della lavorazione è un metodo consigliato per preservare le presunte proprietà energetiche della carne (De Bac, Cds).
venerdì 10 giugno
Cuore Alberto Zangrillo, medico
di fiducia di Berlusconi, dice che il
leader di Forza Italia «ha rischiato
di morire: l’unico modo per risolvere
il problema cardiaco è l’intervento
chirurgico». Dovrà dunque sottoporsi a un intervento per sostituire la
valvola aortica. Sarà operato martedì dal primario di Cardiochirurgia
Ottavio Alfieri
(segue a pagina tre)
Le regole per lavorare con la Fallaci:
«Niente ferie, aumenti e scarpe da tennis»
A
Libero, giovedì 9 giugno
ll’attenzione di Daniela Di Pace con
preghiera di diffusione a tutte le segreterie del gruppo.
Per l’ufficio:
– L’ufficio deve essere aperto puntualmente alle 9 del
mattino. La puntualità è indispensabile perché le 9 am di New York corrispondono alle 3 pm del pomeriggio in
Italia e da quell’ora in poi vi sono – per
l’Italia – poche ore lavorative a disposizione.
– L’impiegato deve restarvi fino alle
13, ora in cui – salvo necessità e mia richiesta specifica – deve lasciarlo chiudendo bene la porta a chiave. Durante
le quattro ore se ne allontanerà soltanto su mio incarico. Cioè per venire a casa mia oppure recarsi a fare una commissione per me.
– Al telefono risponderà semplicemente «Rizzoli Publishers». Se qualcuno chiede di me, non deve dare informazione alcuna. Comportarsi con cortesia ma distacco, come farebbe una centralinista. Arrivano, ovvio, telefonate
dalla Rizzoli di Milano o di Firenze (signora Calchetti) o da miei amici e collaboratori che mi cercano per riferirmi
qualcosa. Ma arrivano anche telefonate
di estranei, indiscreti, gente che cerca
contatti con me. E questi non devono
sapere nemmeno se sono o non sono a
New York. Quindi: «Non so nulla. Rispondo a telefono e basta. La prego di
lasciare nome e cognome nonché il motivo della chiamata. Riferirò alla direzione di questi uffici (non dire a me, altrimenti è chiaro che sono in città eccetera)».
– Il telefono del mio ufficio serve a
me e basta, all’ufficio e basta. Proibite
le chiamate personali e in particolare
le long-distance. Il costo delle chiamate personali e in particolare delle longdistance non deve assolutamente gravare sulle mie spese!
– Tutti i fax devono essere copiati e
messi in un fascicolo onde poterli all’occorrenza ritrovare. Idem, le telefonate.
Ogni telefonata che arriva deve essere
trascritta con l’ora e il giorno e il nome
della persona che ha chiamato. Tale trascrizione deve essermi consegnata, ben
scritta a macchina, e la copia deve essere messa da parte coi fax.
– Non vi sono vacanze. Questo tipo di
lavoro non prevede vacanze come in un
lavoro a tempo pieno e con contratto.
Per tutta l’estate ad esempio io avrò disperatamente bisogno di una persona in
ufficio. Quindi se uno ha bisogno della
vacanza non può assumere l’impegno di
questo lavoro. Per vacanza intendo anche il giorno saltuario.
– Quattro ore al giorno sono poche,
quindi tutte quelle quattro ore devono
essere fatte. Niente richieste per recarsi dal dentista o dalla zia che ha la polmonite. Del resto il lavoro è pagato a
ore.
– Il compenso è quello stabilito. Niente di più, niente di meno, e ovviamente
niente richieste di aumenti. Dodici dollari al giorno equivalgono a circa 26.000
lire italiane: cifra che in Italia è lungi
dall’essere bassa. E i conti io li faccio
in italiano perché queste spese vengono
sostenute da me da Milano in denaro
italiano, ahimè, e trasferite in dollari.
Incrementi sono quindi impossibili.
– Le disposizioni che do devono essere scrupolosamente eseguite. Niente dimenticanze o distrazioni o ritardi. E
niente iniziative personali di alcun tipo.
IL FOGLIO
quotidiano
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e Marco Valerio Lo Prete
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Redazione: Giovanni Battistuzzi, Annalena
Benini, Alberto Brambilla, Eugenio Cau, Mattia
Ferraresi, Luca Gambardella, Matteo Matzuzzi,
Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi,
Giulia Pompili, Daniele Raineri, Marianna Rizzini.
Giuseppe Sottile
(responsabile dell’inserto del sabato)
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La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90
Lays/Doritos), arrivando all’inaugurazione di Kola
House (lo troverete fra Google e Chelsea Market) nel
mitico Meatpacking District di Ny.
Ma per noi vecchi, stupefatti di vivere così a lungo, e ancora più stupefatti di essere più ricchi dei nostri figli e nipoti (qua a Ny ho capito il perché: con
questo modello i giovani saranno sempre più poveri
in termini strutturali, mentre noi la sfangheremo solo mangiandoci i risparmi di una vita), ci ha pensato
Nestlé.
Nel dopoguerra, Nestlé l’ho identificata con il latte in scatola, aveva lo stesso sapore del latte materno
(ne ho fatto poco uso, visto che la mamma si è prosciugata per 13 mesi per offrirmi il suo, quello sì bio, dandomi così lunga vita). Nestlé ha messo a punto una
nuova strategia, grazie ai nostri Big Data, con prodotti innovativi che stanno nella terra di mezzo fra
Per l’impiegato o impiegata:
– Deve trattarsi anzitutto di persona
decorosa, bene educata, rispettosa, cortese, e ovviamente in grado di scrivere
senza errori in italiano e in inglese.
– Deve saper prendere, eventualmente, il testo di una lettera o di un messaggio o di un fax. Far questo con ragionevole velocità e soprattutto senza errori,
quindi trascriverlo e inviarlo. Senza
farci fare brutta figura come è successo in passato. Questa è una casa editrice, non un’agenzia di importazione vini-e-salami.
– Deve saper usare la macchina da
scrivere, il computer, e le altre diavolerie che si usano oggi. Deve saper spedire la posta e il fax nonché i pacchi che
mandiamo via Dhl o Federal Express.
Questo è molto, molto importante.
– Deve essere sempre vestita in modo
decoroso, dignitoso. Niente giovanotti e
ragazzette vestite da pagliacci, niente
scamiciati (magari puzzolenti come è
successo) o con le scarpacce da tennis.
Niente T-shirt e disinvolture estetiche.
Su questo punto non ammetto discussioni. Se un candidato o una candidata
si presenta con abiti o apparenze inaccettabili, che sia scartato subito anche
se è Leonardo da Vinci o Madame Curie. Proprio per questo preferisco una
persona matura (anche un pensionato o
una pensionata) agli studenti di passaggio eccetera.
– Deve essere persona capace di assoluta discrezione e abbastanza intelligente da capire se qualcuno chiama
per indagare e aver contatti con me.
(Giornalisti, studenti che preparano tesi, tipi curiosi o appiccicosi.) Una persona, inoltre, capace di risolvermi piccoli problemi quotidiani che mi distraggono dal lavoro. (Conti da pagare,
piccole vertenze da risolvere, piccoli
acquisti da fare ecc.).
– Deve essere persona in grado di venire a casa mia ogni volta che lo chiedo, portarmi la posta e i fax e i messaggi e i pacchi. La distanza tra l’ufficio e
casa mia è limitata, ma ovviamente non
posso permettermi persone che non sono in grado di camminare. E a tal proposito ricordo che è per me augurabile
che il segretario o segretaria non debba venire tutti i giorni a casa mia perché ciò interrompe il mio lavoro in maniera catastrofica. A volte però è necessario che venga tutti i giorni per quanto la cosa mi disturbi...
– Spiegare che vi sono giorni frenetici e giorni (assai più spesso) in cui non
c’è da far nulla fuorché stare in ufficio
a sorvegliare i fax e il telefono e la posta. In questo secondo caso non voglio
gente che poi mugugna «mi annoio», e
tantomeno gente che si allontana per la
passeggiatina o il caffè lasciando
l’ufficio incustodito. Se si annoia, pace.
– La persona non deve familiarizzare
con gli altri uffici che, si sa, sono occupati da giornalisti ossia da persone interessate a me e alla mia vita. Deve farsi
i fatti suoi, cioè, tenersi alla lontana dai
curiosi.
– La persona deve rendersi anche
conto che tale lavoro non si limita all’ufficio; facendo così entra praticamente
nella mia vita. Ad esempio deve avere il
mio numero di telefono (segreto, unlisted) nonché il mio indirizzo. E questa
è prova di grande fiducia. Deve quindi
impegnarsi a non tradire quella fiducia
anche se se ne va.
– Le altre cose le spiegherò a voce all’interessato o interessata.
Oriana Fallaci
© La paura è un peccato
(Rizzoli, pp. 368, euro 20)
Presidente: Giuliano Ferrara
Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c
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Copia Euro 1,50 Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post.
ISSN 1128 - 6164
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«l’alimentare e il farmaceutico».
Gli esperti mi hanno spiegato che sono cibi e bevande utili per combattere le patologie di noi vecchi (diabete, deficit di attenzione, perdita di memoria), a volte hanno pure un alto contenuto farmacologico. Sono
prodotti psicologici, per chi ci crede sono utili, per me
apòta sono meno dell’acqua fresca (le mie bevande sono solo due: vino e acqua, quando voglio eccitarmi mi
butto su Fizzy, sconosciuta gazzosa ticinese).
In conclusione, la battuta migliore su queste innovazioni di marketing 2016 l’ha fatta, gongolando, il
markettaro Trump: «Sanno che con la mia rivoluzione
politica rilancerò l’America e hanno deciso di approfittarne, rubandomi il brand “America”». Fa marketing di secondo livello a costo zero sfruttando idee e investimenti altrui, comunque tecnicamente impossibile se dietro non ci fosse un bisogno di (segue a pagina tre)
ANNO XXI NUMERO 138 - PAG 3
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
Bill Gates donerà centomila pulcini ai poveri. Calano i residenti in Italia: non accadeva dal 1925
(segue dall’inserto II)
(Ravizza, Cds).
Sirte Le milizie di Misurata, sostenute dai volontari arrivati da Tripoli sotto il controllo diretto
del nuovo gabinetto di unità nazionale appoggiato dall’Onu e guidato da
Fayez al Serraj, nelle ultime ventiquattro ore sono riuscite a cacciare
l’Isis dalla città di Sirte. Ahmed Hadiya, responsabile dell’ufficio stampa
di Misurata afferma che l’Isis è adesso circondato nel centro città (Cremonesi, Cds).
Ali A Louisville, in Kentucky, si è
svolto il funerale islamico, ma aperto a tutti, di Muhammad Ali. Nella
Freedom Hall, dove Ali nel 1961 aveva combattuto il suo primo incontro
da pugile professionista, l’imam Zaid
Shakir ha pregato per lui insieme a
16mila persone. Oggi la cerimonia
d’addio ufficiale allo Yum Center:
l’ingresso, per volere dello stesso pugile, sarà gratuito. Allo Yum Center
parleranno Bill Clinton, Billy Crystal, le figlie, l’ultima moglie. Poi una
processione lo accompagnerà per
tutta la città. Infine la sepoltura nel
cimitero di Cave Hill (Audisio, Rep).
Polli Bill Gates donerà 100mila pul-
Ecco il nuovo lessico da curva che ascolteremo durante il derby di Chinatown, Milan-Inter
«Che la vostra prole nasca senza culo!»
C’
il Fatto Quotidiano, martedì 7 giugno
era una volta l’Inter. Che forse
si chiamerà Inter Suning… ma
no, non subito. L’arma dei cinesi è la pazienza. Aspettano il
momento giusto: per ora gli va
bene Internazionale. Nel nome,
il destino. Coraggio, cugini bauscia! Fatevene una ragione:
l’Inter è ormai cinese a tutti gli effetti. E affetti. Fra
poco lo sarà pure il Milan.
Vent’anni fa, Zhang Jindong, il nuovo padrone dell’Inter, vendeva condizionatori d’aria nel suo negozio
di Nanchino. Oggi è proprietario di una multinazionale di elettrodomestici e ha un giro d’affari di circa 16
miliardi di dollari. Vent’anni fa i padroni del calcio milanese si chiamavano Moratti e Berlusconi e lo stadio
Meazza veniva chiamato la “Scala” del calcio: la Coppa dei Campioni spesso restava a Milano. Oggi i Moratti e i Berlusconi hanno issato bandiera bianca. Come
il Meazza, non sono più all’altezza dei tempi.
Ci sono già le maglie nerazzurre col logo dello sponsor Pirelli in ideogrammi (pure quest’altro simbolo
della milanesità è diventato cinese): si legge “Pilelli”,
giacché in cinese non esiste la erre. Inutile chiudere
gli occhi. Il calcio meneghino si è arreso all’opa made
Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare, capo della commissione che ha varato un ponderoso documento (50 punti), il Piano di Riforma del Calcio. Il
football è «priorità geopolitica». Obiettivo: formare 50
milioni di calciatori. Creare tre squadre tra le prime
venti del mondo. Varare una nazionale competitiva.
Per questo, hanno bisogno di maestri. Come quelli italiani. Non ci resta che adeguarci. In modo bipartisan:
per il derby Chinatown Milan-Inter della prossima stagione. Cominciando col nuovo lessico da curva.
«Ni Xi Huan Zu Qiu?» («Ti piace il calcio?»), «Shi»
(Sì) oppure «Bu Shi» (No). «Wo Men Yi Qi Xue Xi Hao
Ma?» («Giochiamo insieme?»). Normalmente una domanda del genere rivolta a tifosi di fazioni avverse provocherebbe una risposta sprezzante, «ma che cazzo dici!». I cinesi sono più cauti. Mascherano la volgarità
con espressioni piuttosto enfatiche. Per esempio:
«Huaidan». Letteralmente vuol dire «uovo rotto». Tra-
slato, «bastardo». Più tosta l’espressione «Wugui
wángbà dàn», che è un bastardo davvero bastardo. Molto pittoresche sono alcune invettive, assai popolari sugli spalti cinesi: sanno di antico, resistono all’usura del
tempo. Nei secoli, i cinesi non solo hanno insegnato
l’Arte della Guerra, ma anche l’Arte dell’Offesa. Un
esempio: «Wo Zhou nì sheng Haizi méi pìyan»: un mix
di maledizione e irrisione, «Che la vostra prole nasca
senza culo!».
I cinesi sono assai scaramantici, la Cina è la patria
della superstizione e ai numeri si attribuiscono forte
potere simbolico. Per esempio, nessun giocatore in Cina indosserà mai una maglia con il numero 4, perché
rappresenta la sfortuna. Lo evitano come la peste. Alcuni numeri sono insulti mascherati. Se vi capitasse di
assistere a una giocata maldestra, potete gridare contro l’incapace calciatore «Èrbaiwù». Cioè «250»: descrive un idiota. Se vi soddisfa infliggere uno squillante
«stupido», usate «chun». L’ideale sarebbe «Chun Zhu».
Ha un doppio significato. Vuol dire «stupido maiale»
e/o «deficiente». Se volete offendere sul serio, gridate
«Cao ní ma». Alla lettera, «cavallo fango ed erba». Ma
con accenti diversi si trasforma nel triviale e peggiore
degli insulti: «Fottiti tua madre». Con l’aggiunta di
«Shabi», «figlio di puttana», l’effetto è devastante.
E le sfottiture? Come pigliare per i fondelli il presuntuoso «venezia», il giocatore che scarterebbe sua nonna, pur di far scena? Basta urlargli: «ji ni Suan lao?»,
«chi ti credi di essere?». E se insiste perniciosamente,
copritelo di sprezzanti, «Dadi xing»: disgustoso, schifoso. Non vi soddisfa? Rincarate la dose: «Ibe san», «miserabile, mascalzone». Sino alla gran madre dell’insulto, un classico cinese che più cinese di così si muore:
«Cad wo ni zuzong Shiba Dai», «fanculo i vostri antenati per diciotto generazioni» è la versione soft. Quella
hard, «Zhòu ni zuzong shíba dài, zisun sanshíba dài».
«Maledico i vostri antenati per 18 generazioni e la tua
discendenza per altre 38!». Fate voi i conti.
Dimenticavamo l’arbitro: «Cai pan Yuan». Ho chiesto al milanista Huiquing Hu, gestore del CaffédelBaffo di viale Bligny, come si dice «arbitro cornuto».
Ha risposto che in Cina non si dice. L’ho corretto: non
ancora. Ghe pensemm nun. Ve lo insegniamo noi.
Leonardo Coen
Pavia, l’altra faccia dei cinesi nel calcio
C’
la Repubblica, domenica 5 giugno
è una storia a cui i tifosi di Milan e Inter e in generale gli appassionati del calcio italiano
dovrebbero guardare con attenzione in queste ore di trattative senza sosta sull’asse Milano-Pechino: la storia del Pavia
Calcio; ovvero, di come una
prestigiosa squadra di provincia è stata scaraventata
sull’orlo di un disastro socio-psico-finanziario in soli
due anni.
Una storia che comincia nel 2014, quando l’allora
presidente Pierlorenzo Zanchi vende per un euro la
squadra ad un fondo cinese guidato da due manager
«appassionati di Italia» Xiaodong Zhu e Qiangming
Wang. All’inizio ogni cosa sembra andare per il meglio. Zhu e Wang si affidano a un dirigente locale, Massimo Londrosi e insieme a lui mettono su una squadra discreta per la Lega Pro. I primi buoni risultati
sciolgono quel filo di brina tutta pavese con cui la città
aveva accolto i nuovi arrivati; i tifosi dapprima, poi i
giornali e le tv, e infine le autorità locali cominciano
tutti a guardare persino con simpatia a quel connubio; fino a quando, pochi mesi dopo, la qualificazione
ai play off minaccia di ricollocare Pavia direttamente in provincia di Shanghai.
Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2015, l’inizio
della fine. Un’altra società di Zhu crolla in borsa ad
Hong Kong. Ancora non si sa quale sia il nesso di causa-effetto. Quello che si sa è che, da quel giorno,
l’impegno di Zhu nel Pavia cambia. La squadra viene
smantellata, Londrosi allontanato. Al suo posto viene
ingaggiato Nicola
Bignotti già collaboratore di Preziosi al Genoa. I
risultati si fanno
Bue
via via sempre
garofanato
meno brillanti. E
Per bue, inpresto si capisce
tendo carne
che cosa sta sucgrossa, comprencedendo. I cinesi
dendovi, cioè, il manhanno smesso di
zo e la vitella. Prendepagare.
I primi a non te un bel tocco di magro nella covedere più un eu- scia o nel culaccio, battetelo, e poro, a ottobre, sono netelo in infusione nel vino la sei fornitori; poi a ra per la mattina di poi. Dato che
gennaio di que- il pezzo sia di un chilogrammo alst’anno non ven- l’incirca, steccatelo con lardone e
gono pagati i con- quattro chiodi di garofani, legatetributi previden- lo e mettetelo al fuoco con mezza
ziali dei dipen- cipolla tagliata a fette sottili, burdenti; infine, da ro e olio in quantità eguali e salafebbraio, saltano
gli stipendi dei calciatori. I tifosi brontolano. Zhu e
Wang, forse per crearsi una via d’uscita, alzano il tiro:
«Andremo in A e in Champions, e faremo uno stadio
nuovo». Poi lasciano la città. Da quel giorno nessuno li
ha più visti. Il povero Bignotti, che fino a pochi giorni
fa ha sempre negato la crisi, viene abbandonato di
fronte alla marea di proteste e di decreti ingiuntivi (ad
oggi sono circa 120), e perde la testa: «I giocatori si dividono in generali, soldati e merde. Identificate le
merde, farebbe piacere a tutti poterle sciogliere nell’acido», dice a TelePavia dopo una scoppola contro il
Padova che aveva portato al siluramento di mezzo staff
tecnico.
Nel frattempo la Covisoc aveva bussato alle porte
della società chiedendo conto di cinque versamenti da
oltre un milione e mezzo di euro arrivati nelle casse
del Pavia da due misteriose società di Hong Kong – la
Fingered Media Company Limited e Tat Wai Trading.
«Finanziamenti di soci in conto capitale», dicono i cinesi nel bilancio. Fondi destinati a ripianare le perdite. Ma secondo la Covisoc, «non è chiarito il legame
tra i terzi in esame ed il socio che ha autorizzato
l’appostazione». «Sono soldi miei», fa sapere Zhu
preoccupato da una eventuale indagine per riciclaggio. E chissà se la sua spiegazione basterà alla guardia
di finanza e alla procura federale che nel frattempo
hanno avviato due indagini.
«L’andamento delle scommesse in occasione delle
due partite con la ProPatria del 2014-2015 sono state decisamente sospette», dicono quelli di Federbet rafforzando i timori della piazza che in fondo l’intera operazione “Cina a Pavia” nascondesse ben altre finalità.
Quali fossero realmente, queste finalità forse non si saprà mai. Quello
che si sa è che nei
giorni scorsi la fine della prima
esperienza dei citelo. Rosolatelo da tutte le parti e nesi nel calcio
strutta la cipolla, versate un bic- italiano è stata ufchier d'acqua e, coperta la bocca ficializzata daldella cazzaruola con un foglio di l’arrivo in sede di
carta a due o tre doppi tenuti fer- quelli di Equitami dal coperchio, fatelo bollire lia: la società non
adagio fino a cottura. Scioglietelo aveva mai pagato
e servitelo col suo sugo all’intor- Inail, Inps e Irpef.
«I cinesi sono
no, passato e digrassato. I lardelli
di lardone, come vi ho detto altre tornati a Shanvolte, è bene tenerli grossi un di- ghai – alza le mani Bignotti – non
to e condirli con sale e pepe.
Non lo credo cibo confacente vogliono più aveagli stomachi deboli.
re rapporti con
(La scienza in cucina e l’arte di Pavia, chiudono i
mangiar bene di Pellegrino rubinetti».
Artusi, prima edizione 1891)
Marco
Mensurati
STOMACI
(segue dall’inserto II) cambiamento profondo. Per quanto
mi riguarda questo modello culturale portato avanti
dal ceo capitalism e dai suoi servi lo combatto con tutte le mie forze, sono un cittadino, e come tale voglio
essere trattato, mentre quelli al potere vogliono trattarmi da consumatore. Io non ci sto!
* * *
ItaliaOggi, venerdì 10 giugno
Ho raccontato ai miei referenti-amici newyorchesi lo stato dell’arte del libro che Tommy e io stiamo
cercando di scrivere da un paio d’anni, in verità con
tanta sofferenza. Sarà un libro bino, due versioni,
una scritta con la struttura tipica del saggio e con il
linguaggio dei nati prima del 1985, una con la struttura tipica del colloquio fra un vecchio (io) e un gio-
FOR TI
vane (Tommy), usando il linguaggio dei nati dopo il
1985. Il tema è una domanda/risposta che ci rende furibondi «Perché lor signori sanno tutto di noi e noi
nulla sappiamo di loro?».
Evgeny Morozov, sociologo e giornalista bielorusso, ha così sintetizzato il suo pensiero: «Le élite di Silicon Valley odiano chiunque si permetta di ficcare
il naso nella loro vita privata, ma loro lavorano per
convincerci che la privacy non esiste». Lo confesso,
sono sconvolto che tutti quelli che si dichiarano liberali, che sbandierano le loro costituzioni, che alla libertà si ispirano (gli anglosassoni in particolare), noi
del mondo della stampa che della libertà di stampa
ci riempiamo la bocca, nulla facciano contro una
manciata di aziende-canaglia (frightful five, i terribili 5, come il Nyt chiama Google, Microsoft, Apple,
Amazon, Facebook, ai quali aggiungere i fratellini
cini ai Paesi più poveri del mondo.
Ciò per permettergli di avviare aziende agricole. Crescendo e vendendo
polli un contadino con una fattoria da
250 polli può guadagnare 1.250 dollari all’anno (la soglia sotto la quale si
è in povertà estrema è 700 dollari) (Sideri, Cds).
sabato 11 giugno
Brexit I timori per l’esito del refe-
Firme
A cura di Giorgio Dell’Arti. Redazione: Francesco Billi, Luca D’Ammando, Jessica D’Ercole.
Grafici: Roberto Vespa, Giuseppe Valli.
Hanno collaborato: Daria Egidi, Roberta Mercuri. Realizzato da: Bcd Srl.
ABBATE FULVIO.
59 anni di Palermo.
Scrittore.
Critico
d’arte.
Marchese.
Creatore di Teledurruti. Ha lavorato con
L’Ora di Palermo,
l’Unità, Il Foglio, il
Fatto Quotidiano e Il
Garantista. Nel 1996
alla Graceland Wedding Chapel di Las
Vegas ha sposato Fiorella Bonizzi. Una figlia di nome Carla.
ACQUAFREDDA
Pietro. Critico musicale, autore di All’Opera!
(Raiuno), ha diretto le
riviste Piano Time,
Applausi, Music@.
ARTUSI Pellegrino. Forlimpopoli 4
agosto 1820 – Firenze
30 marzo 1911. Scrittore, gastronomo, critico letterario. Curò
personalmente, prima di morire, le 790
ricette de La scienza
in cucina e l’arte di
mangiar bene.
BARBAGLI Marzio. 78 anni giovedì, di
Montevarchi. È stato
direttore dell’Istituto
Cattaneo, professore
ordinario di sociologia a Bologna e Trento, visiting scholar in
diverse
università
straniere e consulente del Ministero dell’Interno. Ora è professore emerito a Bologna e Accademico
dei Lincei.
BIANUCCI Piero.
71 anni, torinese. Editorialista scientifico
della Stampa. L’Unione Astronomica Internazionale ha chiamato con il suo nome
un asteroide.
COEN Leonardo.
67 anni milanese e
milanista, è tra i fondatori di Repubblica., dopo avere avuto
esperienze significative all’Avvenire e al
Giorno. Scrive per il
Fatto quotidiano e su
repubblica.it tiene il
blog Blog Trotter.
D’ALIMONTE Roberto. Classe 1947 di
Guglionesi (Campobasso). Politologo. Direttore del Cise. Dal
1974 fino al 2009 ha
insegnato presso la
Facoltà di Scienze
Politiche all’Università degli Studi di Firenze. Dal 2010 è alla
Luiss. È considerato
il padre dell’Italicum. Editorialista del
Sole 24 Ore. Ha scritto che «la democrazia
è come il sesso. Non
si insegna a scuola, si
impara per strada,
nelle discussioni tra
gli amici, dalla lettura dei giornali, dalla
tv, da Internet e soprattutto dall’esito
delle elezioni».
DI VICO Dario. 63
anni, di Ceccano
(Frosinone). Ha cominciato al Mondo di
Giulio Anselmi. Assunto due volte al
Corriere della Sera
(nell’89 e nel ’95), ne è
stato vice-direttore
per cinque anni. Successivamente è tornato a fare l’inviato e si
occupa di Nord, Pmi
e partite Iva.
FALLACI Oriana.
Firenze, 29 giugno
1929 – Firenze, 15 settembre 2006. Inviata
di guerra, decine di
libri tradotti in tutto
il mondo. Ha cominciato a 16 anni all’Europeo e ha scritto poi
per il Corriere della
Sera. Fumava fino a
50 sigarette al giorno.
FERRERA Maurizio. Napoletano, classe 1955. Professore
ordinario di Scienza
Politica all’Università di Milano. Dal
2004 è editorialista
del Corriere della
Sera. «È uno dei massimi esperti di Welfare State, è un grande
conoscitore dei meccanismi decisionali
dell’Ue: Bruxelles è
casa sua» (Michele
Salvati).
FUBINI Federico.
50 anni, di Firenze.
Vicedirettore ad personam del Corriere
della Sera. Per due
anni è stato inviato
ed editorialista di
Repubblica. Ultimo
libro: La via di fuga
(Mondadori).
GRAMELLINI
Massimo. 55 anni, torinese.
Direttore
creativo di Iredi, editrice della Stampa.
Dal 1999 scrive il corsivo Buongiorno. Ha
cominciato al Corriere dello Sport nell’agosto 1985 per sostituire un amico che
partiva
militare.
Ospite fisso del talk
show di Raitre Che
tempo che fa. Nel
tempo libero tifa Toro. Per sua fortuna,
dice, ha poco tempo
libero.
GRISERI Paolo. 59
anni, inviato di Repubblica, vive e lavora a Torino dove si
occupa di Fiat e dintorni. Fino al 2000 ha
scritto per il manifesto. Tra i suoi libri, La
Fiat di Marchionne
(Einaudi).
MAISANO Leonardo. 58 anni, milanese.
Inizi al Giornale, dal
1996 è al Sole 24 Ore,
oggi corrispondente
da Londra. Nel tempo libero legge e cucina, soprattutto pesce.
MENSURATI Marco. 40 anni, romano.
Dal 1998 a Repubblica, si occupa di sport.
Con Giuliano Foschini ha scritto Lo zingaro e lo scarafaggio
(Mondadori).
MUNCHAU Wolfgang. Giornalista tedesco, presidente del
sito Eurointelligence.com. È editorialista del Financial Times e dello Spiegel.
Vive a Bruxelles.
ONOFRI Laura.
Consigliere comunale per le pari opportunità a Torino.
PAGANI Malcom.
40 anni, romano. Inviato del Fatto Quotidiano. Ha lavorato all’Unità, Skysport, il
m a n i f e s t o ,
l’Espresso. È pigrissimo, pazzo di Paolo
Conte. Una figlia,
Giulia.
ROVELLI Carlo.
60 anni, veronese. Fisico. Lavora al Centro
di Fisica teorica dell’Università del Mediterraneo di Marsiglia. Collabora con il
Corriere della Sera e
Il Sole 24 Ore. Arrestato nel 1987 per renitenza alla leva.
RUGGERI Riccardo. 81 anni, torinese.
Prima operaio a Mirafiori, poi dirigente
di primo piano del
gruppo Fiat. Consulente internazionale,
imprenditore, editore (Grantorino Libri).
Collabora con ItaliaOggi. Gran tifoso
del Torino.
SOLINAS Stenio.
64 anni, editorialista
del Giornale. Ultimo
libro Il corsaro nero
(Neri Pozza). Hobby:
nuota, legge, viaggia.
TAINO Danilo. 60
anni, di Cremona.
Corrispondente da
Berlino del Corriere
della Sera, columnist
di Sette. Una figlia:
Asia. Paese dell’anima: l’India.
VA N N U C C I N I
Vanna. Fiorentina, inviata di Repubblica,
di cui è stata corrispondente dalla Germania. Ha seguito le
Guerre balcaniche, e,
dal 1997, l’Iran.
L’apertura di prima pagina
è realizzata da Francesco Billi
rendum britannico sulla Ue fanno
crollare le Borse. Milano è la peggiore con una perdita secca del 3,6%,
ma il segno meno compare un po’
ovunque sulle piazze europee, con
Madrid che perde più del 3%, Parigi
e Francoforte oltre il 2 e Londra che
paradossalmente soffre meno (-1,8%).
A fine giornata l’Europa «brucia»
174 miliardi in una sola seduta. Cede anche Wall Street. Gli analisti dicono che la volatilità è normale, a
pochi giorni da un voto così impor-
tante, previsto per il 23 giugno (Polidori, Rep).
Italiani Per la prima volta da 90
anni, dice l’Istat nel suo ultimo rapporto demografico, gli italiani sono
diminuiti: siamo 60,66 milioni, di cui
più di 5 milioni stranieri. Il saldo
complessivo del 2015, rispetto all’anno precedente, è negativo di 130.061
persone. Diversi i fattori che hanno
concorso al calo degli italiani: nascono meno bambini (-16.816 nel 2015
sull’anno precedente) e così i neonati sono stati meno di mezzo milione.
Lo scorso anno c’è stato inoltre un fenomeno di accentuata mortalità degli anziani, mentre oltre 70 mila italiani si sono trasferiti all’estero (Iossa, Cds).
Roberta Mercuri
(ogni mattina il Fior da Fiore quotidiano su www.cinquantamila.it)
Chiese vuote, mai vista una partecipazione così bassa. Finito anche l’effetto Francesco. Conseguenze
In Italia non c’è più religione
Lavoce.info,
mercoledì 1° giugno
ual è lo stato di salute della religione
in Italia? Come è
cambiato negli ultimi decenni? Gli
scienziati sociali sono concordi nel ritenere
che
l’indicatore
più
adatto per rispondere a tali domande sia la frequenza
con la quale la popolazione di un paese si reca in un luogo di culto. Alcuni
studiosi, analizzando i dati, sono arrivati alla conclusione che in Italia la
quota di praticanti regolari (persone
che vanno a messa almeno una volta
alla settimana) è diminuita dal 1956 al
1981, mentre è rimasta quasi costante,
o ha conosciuto deboli inversioni di
tendenza, nel decennio successivo.
Ma cosa è avvenuto dopo? L’ultimo
ventennio è stato un periodo di grandi cambiamenti, alcuni dei quali, come l’invecchiamento della popolazione e l’immigrazione, supponiamo abbiano fatto crescere la quota dei praticanti, mentre di altri (la lunga crisi
economica) non sappiamo se abbiano
avuto effetti in questo campo. Secondo i dati dell’archivio Istat (senza
dubbio i più affidabili fra quelli esistenti), dal 1995 al 2015, la quota di chi
va a messa almeno una volta alla settimana è passata dal 39,7 al 29 per
cento, perdendo circa mezzo punto all’anno. Questo si è verificato in tutte
le regioni del nostro paese, cosicché
le distanze territoriali sono rimaste
immutate. Oggi, come venti anni fa, i
praticanti sono più numerosi nel Mezzogiorno e nelle isole.
Abbiamo l’impressione di trovarci
di fronte a un declino progressivo,
lento, dolce, senza salti bruschi. Tuttavia, se approfondiamo l’analisi, ci
accorgiamo che in alcuni casi vi sono
state delle forti cadute. La quota di
chi va regolarmente in chiesa varia a
seconda dell’età. La relazione è stata
rilevata molte volte, ma i dati Istat ci
permettono di osservarla meglio. Nel
1995, la percentuale dei praticanti
raggiungeva il picco fra i ragazzi dai
6 agli 11 anni. Diminuiva fortemente
nelle classi di età successive, fino a
raggiungere il livello più basso fra i
30 e i 39 anni. Poi riprendeva a salire
fino a 80 anni. Scendeva ancora dopo
quell’età. Questo andamento era probabilmente effetto sia della generazione di appartenenza che dell’età,
cioè della fase della vita. Così, ad
esempio, se coloro che avevano fra 60
e 80 anni andavano in un luogo di culto più spesso dei più giovani era perché si erano formati in un periodo
storico nel quale la religione aveva
maggiore importanza. Ma probabilmente era anche effetto dell’età perché, invecchiando, si sentivano più
deboli e fragili e cercavano conforto
nella religione. Se gli ottantenni andavano a messa meno dei settantenni
era anche perché uscivano meno
spesso di casa. Era inoltre riconducibile all’età e non alla generazione di
appartenenza il fatto che i preadolescenti andassero così frequentemente in un luogo di culto. Ci andavano,
verosimilmente, anche quando i loro
genitori avevano smesso di essere
praticanti o erano diventati agnostici,
perché accompagnati dai nonni.
Nell’ultimo ventennio, il declino
della partecipazione religiosa è avvenuto non solo in tutte le zone del paese, ma anche in tutte le classi di età.
Ma è stato minore fra gli anziani o
nelle età di mezzo e maggiore fra i
giovani. È stato forte per la classe fra
i 12 e i 19 anni, fortissimo in quella
successiva, dai 20 ai 29. Fra i ventenni, la quota di chi va in un luogo di
culto almeno una volta alla settimana
è scesa, dal 1995 al 2015, dal 26,8 al
14,6 per cento. Un vero e proprio crollo, il cui significato appare ancora più
evidente se analizzato per zona. Nelle classi più anziane, il declino della
pratica religiosa è stato minore nelle
regioni meridionali e insulari che in
quelle centro settentrionali. Invece,
fra i ventenni, la flessione dei praticanti è stata notevole ovunque, ma
nel Sud è stata più ampia che nel
Nord. È anzi questa l’unica classe di
età nella quale le tradizionali differenze territoriali sono diminuite.
Dunque, né l’invecchiamento della
popolazione, né l’arrivo di milioni di
immigrati né la lunga crisi economica
hanno arrestato il processo di secolarizzazione. E neppure il carisma di
due papi eccezionali – Giovanni Paolo II e Francesco I – è bastato a riportare gli italiani nelle chiese e nelle
parrocchie. La partecipazione religiosa ha raggiunto oggi il livello più basso nella storia del nostro paese. La
fortissima flessione che ha avuto luogo fra i ventenni fa pensare che il processo continuerà a lungo e avrà effetti rilevanti sulla vita politica e sociale. Non direttamente sull’esito delle
elezioni, perché, da quando è scomparsa la Democrazia cristiana, la pratica religiosa ha smesso di essere un
buon predittore delle scelte di voto.
Ma certamente sulla vita intima, domestica, sul modo in cui si formano e
si rompono le famiglie, le coppie etero e omosessuali, sui comportamenti
sessuali e riproduttivi, sulle decisioni
riguardanti la fine della vita.
Marzio Barbagli
Ma non siamo il paese più gay al mondo
S
il Giornale,
venerdì 3 giugno
iamo davvero il Paese
più gay al
mondo, come
scrive
sul
New
York Times
Frank Bruni? Le pezze d’appoggio esibite, per la verità sono discutibili: siamo il paradiso
dell’abbigliamento maschile, geograficamente rassomigliamo a uno stiletto, nel
senso del tacco a spillo, i
lampadari veneziani evocano fantasie da Gay-Pride, il
David di Donatello farebbe
la gioia pubblicitaria di una
palestra homo. Frank Bruni
è americano, anche se il cognome tradisce antenati di
casa nostra (casa, non cosa,
sia chiaro) e quindi va scusato: scambia il cattivo gusto per mascolinità e la bellezza per gayezza, pensa che
più la vita è colorata e meno
è eterosessuale.
È un errore concettuale
come ha ben spiegato Franco Zeffirelli a Walter Mariotti nell’intervista che
chiude il bel libro curato da
quest’ultimo e non a caso
intitolato Bellezza (Arc Vision Edizioni): «L’etimologia della parola gay mi infastidisce. Nasce dalla cultura puritana, l’idea cioè che
per bilanciare questa anomalia, devi essere simpatico, gaio. E così in America
vediamo questa roba da
carnevale, si truccano come
pagliacci, tutti felici e allegroni, sei così spiritoso e divertente che ti chiamo gay.
Una specie di attenuante.
Ma si può? Dire a Michelangelo che è gay? A Leonardo? Andiamo, essere omo-
Uber, Airbnb) che stanno per diventare, per usare il
loro linguaggio, i provider dello smantellamento di
infrastrutture essenziali nella finanza, nella salute,
nell’educazione, in qualsiasi tipo di business. In particolare, come dice Luciano Floridi (professore di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Oxford Advisor
Council), queste ormai «...hanno il potere visibile del
monarca, del politico, del dittatore, peggio, quello
che si dice potere grigio, che influenza chi formalmente lo esercita pur non essendone né legittimato,
né accontauble».
I nostri nonni e bisnonni americani all’inizio del
’900 avevano avuto il coraggio di smantellare i monopoli criminali di allora, salvando il modello capitalistico che per oltre un secolo, con luci e ombre
certo, ma con le prime prevalenti sulla seconde, ha
dato ricchezza all’Occidente e al mondo intero. Ma ci
sessuali significa portare
un grave peso di responsabilità, scelte difficili: sociali, umane e di cultura».
Il fatto è che l’Italia è uno
strano Paese, già difficile
da capire per chi ci è nato
e ci vive, figuriamoci per
chi viene da oltreoceano.
Enunciata la tesi che «spiritualmente» siamo gayssimi,
Bruni non riesce a spiegarsi l’antitesi che quanto a riconoscimenti civili siamo,
stando alle denunce delle
organizzazioni omosessuali,
in fondo alla classifica, dietro persino all’Albania e alla Bulgaria. Come sintesi
prova ad abbracciare
l’ipotesi di una doppia morale, pubblica e privata, sui
cui preme il retaggio cattolico e la presenza dello Stato vaticano. C’è del vero, ma
non è sufficiente.
Facciamo un passo indietro e torniamo a quell’aristocratico romano che nell’Italia del secondo dopoguerra, seccato dalla petulanza con cui la moglie di
un diplomatico statunitense lo perseguitava a proposito della amoralità degli
italiani, rispose in perfetto
inglese: «Mia cara signora,
quando voi vivevate ancora
sugli alberi e vi dipingevate
la faccia, noi eravamo già
froci». In fondo l’Ars amandi l’ha scritta Ovidio, mica
Guy Talese, e fra Settecento, Ottocento e Novecento la
dolcezza del vivere e la libertà dei sensi gli anglosassoni e i mitteleuropei sono
venuti a cercarla in Italia, e
insomma sul tema c’è poco
che da oltre confine gli altri
ci possano insegnare e/o
possano capire.
È un percorso plurisecolare, e man mano che
l’Italia dei Comuni e delle
Signorie cedeva il passo alla dominazione degli Stati
nazionali stranieri, si cominciò a verificare il caso
paradossale di un Paese
conquistato che continuava
a sedurre i suoi conquistatori. C’era tutto in Italia, e
troppo di tutto se le truppe
di Carlo VIII invaderanno
la penisola al grido «Nous
conquerons les Italies»,
plurale, non singolare, e
quel surplus stava per un
continuum che dall’antichità classica arrivando al
Rinascimento l’aveva popolata di città e palazzi, marmi e arazzi, bellezze fisiche
e naturali, all’ombra di un
clima senza eguali. Nel Settecento, quando la decadenza, politica e sociale,
raggiunse l’acme, il Grand
Tour della migliore aristocrazia europea non trovò di
meglio che fare di un’Italia
non ancora nazione la patria designata dell’educazione intellettuale e sentimentale, come se solo lì fosse possibile un’educazione
alla bellezza estetica ed etica allo stesso tempo.
Se non si capisce questo,
non si capisce niente e si
prendono lucciole omosessuali per lanterne eterosessuali, si confonde la permissività con la libertà dei
costumi, il puritanesimo
con il dogma, la licenza con
la trasgressione. Gli italiani
sono sempre stati più avanti della classe politica chiamata a rappresentarli e sono sempre stati recalcitranti a codificare i comportamenti in norma giuridica.
Quando lo hanno fatto è
perché non se ne poteva
più fare a meno.
In fondo, eravamo da po-
rendiamo conto dell’atteggiamento criminale di Tim
Cook che ha rifiutato di collaborare con Fbi e la Corte Suprema? Com’è possibile che costui non sia stato immediatamente imprigionato? Ma che mondo è
quello in cui i frightful five possono sottrarre i miei
dati per venderli ai pubblicitari ma non fornirli alla Giustizia perché questa la possa esercitare per difendermi da terroristi criminali?
Luciano Floridi la soluzione l’ha, come tutte quelle geniali è semplice e radicale: «Vietare la pubblicità online». La legge, e i magistrati che la applicano,
sono gli unici baluardi ai distruttori della libertà di
tutti, i precedenti delle industrie del tabacco, della
farmaceutica, dell’alimentare, ne dimostrano
l’efficacia. Morozov ha un’idea aggiuntiva, creare
una Bbc dei dati, un servizio pubblico dove raccogliere i contenuti scollegati dagli identificativi per-
co una Repubblica quando
Mario Scelba, ministro degli Interni, lanciò la guerra
contro «l’uso da parte di
giovani bagnanti del cosiddetto slips» e giunse persino a dettarne le misure in
una circolare. La guerra
venne combattuta e persa a
Capri, dove Scelba, appena
sbarcato, si imbattè nel ballerino tedesco Julius Spiegel, caprese ad honorem,
con le sue mani ricoperte di
anelli, una camicia di seta
rossa, uno scialle bianco
sulle spalle e la papalina di
lana sulla testa: «È un
esperto di danze giavanesi»
gli disse imbarazzato il sindaco. In piazzetta Scelba si
ritrovò avvolto da un proliferare di teste ossigenate
maschili, gambe femminili
che sbucavano trionfanti da
pantaloncini tagliati ad
hoc, catene, catenelle e
pendagli. Alla «rivolta della mutanda», inscenata da
un codazzo di giovani sotto
il suo albergo, partecipò anche il diciassettenne Fabrizio Ciano, il figlio di Edda e
di Galeazzo, a dimostrazione che lo slip non era né fascista né antifascista, di destra o di sinistra, ma patrimonio nazionale. Capri era
allora il regno di Francesco
Caravita di Sirignano, detto
Pupetto, principe e nullafacente. Pilota di auto sportive, si era messo in testa di
rinverdire sull’isola gli allori della Targa Florio. A
uno spettatore che, pensando di averlo riconosciuto,
democraticamente gli gridò
«Ma tu, si’ Pupetto?», risponderà: «No, so pu’ u’ culo». Ma in che senso è difficile da spiegare a Frank
Bruni.
Stenio Solinas
sonali, a tutela degli utenti e a beneficio dell’innovazione e della concorrenza.
Editori e media dovrebbero cavalcare questa lotta
per la libertà di stampa, come insegna il capitalismo
classico. I servizi dei «terribili 5» non possono essere
gratis, noi vogliamo pagarli, quello deve essere il loro modello di business (fornire un servizio ed essere
pagati a prezzi di mercato), ma la legge non può essere delegata a degli osceni privati, come le giovani felpe californiane. Sulla loro incapacità a pagare le tasse vale il modello Chicago anni ’30, applicato con successo al mitico Al Capone, del quale hanno molti tratti, salvo il sigaro.
Con le loro «piattaforme» vogliono dominarci, vogliono trasformare noi cittadini in consumatori zombie, non dobbiamo permetterlo, costi quel che costi.
Riccardo Ruggeri
ANNO XXI NUMERO 138 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
ROBA DA FARCI VEDERE LE STELLE
Specchi, laser e telescopi che faranno distinguere perfino i fari di un’auto sulla Luna. Perché in cielo ci sono cose che noi umani non possiamo ancora immaginare
C
La Lettura, domenica 5 giugno lo così limpido come l’Atacama.
i sono più cose in cielo e in terra,
Il Nord del Cile è il luogo della Terra che più soOrazio, di quante non ne sogni la tua miglia a Marte. Un immenso deserto che si estende
filosofia». Così Amleto al suo dolce per migliaia di chilometri solo di pietra, sassi e una
e colto amico nella tragedia di terra brulla e rossastra. Non un albero, non un ceShakespeare, a esprimere l’inquieta spuglio, neppure un filo d’erba per centinaia di chiconsapevolezza rinascimentale sul- lometri. Una strana struttura orografica che confonla limitatezza del nostro sapere. La de chi è abituato alle Alpi: ripida e scoscesa vicino
scienza moderna non ha cancellato all’oceano, si alza e si appiattisce verso gli immensi
questa consapevolezza, anzi si radica in essa, e pro- altipiani andini, che salgono fino a oltre 5 mila meprio grazie a essa continua a cercare, a estendere e tri di altezza. Come se chi ha disegnato le Ande si
far evolvere la nostra comprensione del mondo.
fosse divertito a scambiare il ruolo di pianura e monIl percorso non si ferma. La rilevazione delle on- tagna, mettendo pianura in alto e montagne in basde gravitazionali pochi mesi fa, per esempio, ci ha so. Per chi come me ama il deserto, forse non c’è poentusiasmato perché conferma una predizione del- sto altrettanto magico che queste altissime vaste piala teoria di Einstein; ma ora che l’entusiasmo del nure di sassi: la sensazione dello sterminato nulla.
momento si sta calmando, comincia a chiarirsi un E sopra questo nulla un cielo da mozzare il fiato: lumessaggio contenuto nel segnale osservato, a cui al- ce accecante di giorno e, nelle notti senza luna, la
l’inizio avevamo dato poco peso: l’onda è stata pro- più impressionante distesa di stelle che si possa imdotta dallo scontro di due buchi neri di massa deci- maginare: il cielo del deserto dell’Atacama.
ne di volte il Sole. Se appena accesa l’antenna si è viPer l’assoluta limpidezza di questo cielo, conversto questo, significa che nell’universo ci devono es- gono qui gli astronomi del mondo. L’altezza riduce lo
sere molti grandi buchi neri di questa taglia,
e questo non ce l’aspettavamo. Là fuori c’è ancora molto di cui non sospettiamo l’esistenza.
L’universo ha sorprese in serbo per noi.
La Stampa, lunedì 6 giugno
Il luogo privilegiato dove cercare le cose
n articolo di Monya Baker pubblicato il 26 maggio su
che ancora non sogna la nostra filosofia – o la
Nature ha fatto diventare un rombo quello che prima
nostra fisica – resta quello di sempre: il cielo. Perché? Perché il pianeta che abitiamo è era un sussurro. Su 1.576 scienziati intervistati, più del 70
un granello infinitesimo nella vastità del co- per cento dice di avere difficoltà nel riprodurre risultati
smo, ed è guardando fuori che vediamo altro. di altri ricercatori. Uno scienziato su due (52%) ritiene che
Per questo è stata l’osservazione del cielo a la riproducibilità degli esperimenti stia attraversando una
fare nascere l’astronomia alessandrina, pri- «crisi significativa», il 38% una crisi parziale, solo il 7% afma grande scienza matematica dell’umanità; ferma che non c’è crisi, il 3% non sa rispondere. Il camper questo, guardando il cielo con uno stru- pione di Nature comprende 703 biologi, 106 chimici, 95
mento nuovo, Galileo ha dato inizio alla scienziati della Terra e dell’ambiente, 203 medici, 236 fiscienza moderna; per questo in tempi recen- sici e ingegneri, 233 ricercatori di altre discipline.
La mancata riproduzione del risultato di un esperimenti la cosmologia ha cambiato la nostra comprensione del posto che abbiamo nella natu- to può dipendere da un errore in buona fede. In questo
ra, mostrandoci quanto sia infinitesimo il no- caso, ben venga. La scienza procede così. Ma la frode non
stro pianeta nella vastità dell’universo. Per è da escludere. Nel libro Cattivi scienziati Enrico Bucci,
questo viene dal cielo, dalla scoperta della estrapolando dati statistici, arriva a una conclusione inmateria oscura, l’indicazione che il Modello quietante: il 15 per cento delle pubblicazioni scientifiche
Standard delle particelle elementari non ba- nasconderebbe una frode più o meno grave. I ricercatori
sta... Poche cose ci hanno aiutato e continua- nel mondo oggi sono dieci milioni: i disonesti sarebbero
no ad aiutarci a comprendere il mondo, quan- qualcosa come 1.260.000. Il trattamento delle immagini
con software tipo Photoshop è la tecnica più usata,
to guardare il cielo.
Ma per guardare il cielo, serve un cielo lim- l’oncologia la disciplina nella quale le pubblicazioni trucpido. E non ci sono posti al mondo con un cie-
spessore dell’atmosfera. L’aridità estrema riduce
quasi a nulla l’umidità dell’aria. Guardare il cielo da
qui è quasi come guardarlo da una capsula spaziale. I migliori strumenti che l’umanità ha oggi per
scrutare il cielo sono qui. Il deserto dell’Atacama, il
luogo più desolato e vuoto del mondo, è diventato
l’occhio dell’umanità verso le stelle.
Diversi tra i telescopi più avanzati sono europei,
gestiti dall’Eso, l’European Southern Observatory,
ente scientifico che raccoglie diverse nazioni europee più il Brasile, e a cui l’Italia partecipa in maniera importante. L’Eso gestisce Alma, radiotelescopio
formato da 66 grandi antenne mobili dislocate su un
vasto pianoro a 5 mila metri di altezza. Osserva microonde (come quelle dei forni da cucina) provenienti dal cielo, prodotte da grandi nubi molecolari interstellari, da regioni intorno ai buchi neri, da
sostanze organiche nello spazio e altri fenomeni. Su
ciascuno di questi Alma sta offrendo una messe di
informazioni. In collegamento con una rete di altri
telescopi sparsi per il pianeta, Alma dovrebbe arrivare nel giro di qualche anno a darci immagini ve-
re del grande buco nero, di massa un milione di volte il nostro Sole, che risiede nel centro della nostra
galassia.
Ma gli strumenti più spettacolari nell’Atacama restano forse quelli ottici: i diretti discendenti del telescopio di Galileo. Sulla cima spianata di una montagna di 2.700 metri a picco sul Pacifico, il Cerro Paranal, giganteggiano quattro grandi tozze torri bianche immacolate. Ciascuna racchiude un grande telescopio con uno specchio principale di oltre otto
metri di diametro. Sotto di solito l’oceano non si vede, perché è generalmente coperto da una scintillante distesa di nubi bianche. Ma le montagne salgono molto più alte delle nubi, là dove l’aria è secca e limpidissima. I quattro telescopi si chiamano
Antu, Kueyen, Melipal e Yepun, che nella lingua
mapuche , parlata in Cile prima dell’arrivo degli europei, significano Sole, Luna, Croce del Sud e Venere. Ciascuno di loro riesce a vedere stelle con una
luce quattro miliardi di volte più debole delle stelle visibili a occhio nudo. Funzionando insieme, riescono a raggiungere la risoluzione angolare dell’or-
dine di un miliardesimo di secondo d’arco: potrebbero distinguere i due fari di un’auto sulla Luna.
Una nuova tecnologia che i telescopi di Cerro Paranal stanno raffinando in questi giorni permette di
eliminare quasi completamente anche il residuo effetto dell’atmosfera, e ottenere immagini più dettagliate di quelle spettacolari che solo qualche anno
fa ha cominciato a fornire Hubble, il telescopio in
orbita nello spazio.
La nuova tecnologia si chiama ottica adattiva, ed
è basata su quattro potenti laser puntati verso il cielo. I laser proiettano un puntino sul cielo, che gli
astronomi chiamano «stella artificiale». L’utilità
della «stella artificiale» è che sappiamo esattamente dove si trova, e se la vediamo muoversi sappiamo
che si tratta di movimento apparente causato dall’atmosfera. In questo modo sappiamo esattamente
quale sia il movimento apparente generato in ogni
istante dall’atmosfera e possiamo sottrarre questo
movimento all’immagine delle stelle vere che il telescopio osserva. Parte della correzione è attuata in
tempo reale distorcendo gli specchi riflettenti, che
non sono rigidi. Grazie a questa tecnica si
riesce a correggere le distorsioni di immagine provocate dall’atmosfera e ad avere immagini ancora più nitide di quelle che Hubne di Higgs con un acceleratore di particelle lungo 27 chi- ble registra dallo spazio.
lometri discriminando la particella cercata tra miliardi
Ma il vero grande salto in avanti è nel
di altri eventi, e di Lhc ce n’è uno solo, sia pure attrez- prossimo futuro, e si chiama E-Elt: European
zato con esperimenti diversi che danno risultati conver- Extremely Large Telescope. Da Cerro Paragenti. Vedono il bagliore residuo del Big Bang con stru- nal si vede un monte a poca distanza (qualmenti in orbita che captano nel cielo differenze di tem- che chilometro, ma nell’aria limpidissima
peratura di centomillesimi di grado. Vedono onde gravi- dell’Atacama tutto sembra più vicino), il Certazionali che deformano un apparato lungo 4 chilometri ro Armazones. Il picco del monte è stato
di un millesimo del diametro di un protone, che a sua vol- spianato, la strada di accesso è costruita.
ta misura un milionesimo di miliardesimo di metro. Del- Presto si inizieranno a erigere le strutture
le onde gravitazionali c’è finora una sola osservazione portanti del grande telescopio. Entro il decon le antenne americane: è essenziale che entri presto cennio dovrà entrare in funzione il progetto
in misura l’antenna europea (italo-francese, per la pre- più ambizioso dell’Eso: un telescopio ottico,
cisione) vicino a Pisa. Esperimenti su fenomeni presumi- dotato di ottica adattiva e con uno specchio
bilmente rarissimi attribuiti alla presunta materia oscu- principale di 40 metri di diametro. Come lo
ra danno risultati diversi in laboratori diversi. Teorie chiama l’Eso: «Il più grande occhio del mondella gravità quantistica come quella delle stringhe so- do verso il cielo».
Vedremo cose che – rubando le parole di
no lontane da possibili prove sperimentali. Dal cannocchiale di Galileo a oggi gli strumenti sono enormemente Rutger Hauer in Blade Runner – noi umani
cambiati ma usiamo ancora ingenuamente la parola «ve- ora non possiamo ancora immaginare. Perdere». Forse è lo statuto scientifico di questo verbo a esi- ché, ne siamo certi, ci sono più cose in cielo
e in terra, di quante non ne sogni oggi la nogere un aggiornamento.
Piero Bianucci stra filosofia.
Carlo Rovelli
I test scientifici sono una frode? Polemica basata sui numeri
U
cate risultano più numerose. Bucci, che viene dalla ricerca e quindi conosce il mestiere, ha elaborato un software per smascherare la manipolazione delle immagini.
L’Eurobarometro dice che due cittadini su tre dell’Unione hanno fiducia nella scienza. Non dissipiamo questo capitale di credibilità e di razionalità.
Nella crisi della riproducibilità dei risultati sperimentali c’è poi un altro aspetto più sottile ed è la costosissima complessità degli strumenti di ricerca più avanzati.
Gli esperimenti – un corpo che cade, un pendolo che oscilla – sono domande rivolte alla natura. La risposta non dipende da chi pone la domanda. Altri scienziati, con lo
stesso esperimento troveranno la stessa risposta. Da
quando Galileo fondò il metodo scientifico, la riproducibilità degli esperimenti da parte di scienziati indipendenti è diventata la carta costituzionale della ricerca. Ma in
termini galileiani che cosa è davvero riproducibile nella
scienza contemporanea?
Tra l’oggetto osservato, l’osservatore e il risultato dell’osservazione si interpone un numero crescente di mediazioni. Galileo con il suo piccolo cannocchiale vedeva
i satelliti di Giove e, pur negandolo, li vedevano i suoi
colleghi aristotelici. Oggi gli scienziati «vedono» il boso-
Morire a sedici anni tra gli invisibili del Forlanini
Se n’è andata così Sara Bosco, il corpo pieno di droga su una lettiga arruginita nei sotterranei del vecchio ospedale romano, in quel sottomondo che ci rifiutiamo di guardare
U
na ragazza di 16 anni, di
nome Sara Bosco, è morta mercoledì scorso nei
sotterranei del Forlanini di Roma, un ospedale
abbandonato e oggi rifugio di senzatetto, prostitute, spacciatori. A trovarla, rannicchiata su una lettiga arrugginita, è stata la madre Katia Neri, 41 anni, ex
tossicodipendente [1].
Marco de Risi e Alessia Marani: «Era eroinomane e probabilmente a stroncarla è stata
un’overdose. Aveva trovato riparo, e non era
la prima volta, in uno dei padiglioni finiti
nella galassia di disperati che hanno trasformato i vecchi reparti in giacigli di fortuna
sommersi da montagne di rifiuti ed escrementi di topi. La mamma era arrivata da
Santa Severa per cercarla proprio lì. Quando l’ha trovata la ragazza stava già morendo,
era cianotica, pallida, “bianca come un lenzuolo”». In attesa dell’arrivo dell’ambulanza
ha provato a farle un massaggio cardiaco ma
non c’è stato niente da fare [2].
Figlia di genitori separati, Sara viveva con
la madre e il suo compagno in un edificio comunale abbandonato alle porte di Santa Severa, raggiungibile attraverso una strada
bianca, dove abitano altri disperati. Tempo
fa nel casolare c’era stata un’infestazione da
scabbia [3].
Un metro e 65, capelli castani rasati ai lati, un piercing sotto il labbro, il numero “IV”
tatuato sul polso destro, una “M” sul dito
medio e una “S” sull’indice della mano sinistra [4]. La madre: «Fino a un anno fa sorrideva sempre, amava la musica e andare a
ballare con le amiche», poi nel 2015 tutto è
cambiato: «Frequentava l’Alberghiero ha
conosciuto un ragazzo che l’ha portata a Termini. E lì ha incontrato un giovane afgano.
Sembrava un tipo a posto, faceva il cuoco.
Fra quei due e forse la scuola, non so, Sara
ha cominciato a drogarsi. Eroina da subito.
In breve è stata bocciata e ha lasciato gli studi». Poi Termini, Ostiense, Pigneto, e alla fine i sottopassi del Forlanini, dove la sedicenne era ormai conosciuta, anche da polizia e carabinieri. [5].
«Non mi sono accorto di niente, fino a
quando ho capito che rubava, che andava a
Roma da maumau, gli zingari, gli stranieri a
comprare l’eroina. Ho cominciato a dirle anche io qualcosa: “Sì papà te lo prometto”, ripeteva invece poi ricominciava» (il padre
Francesco Bosco, ex muratore in pensione
che vive sull’Aurelia con il figlio dodicenne,
fratello di Sara, che si chiama Francesco anche lui) [6].
La notte del 14 gennaio scorso Sara scompare da Santa Severa. Il caso finisce anche su
Chi l’ha visto?. Rori Cappelli: «A fine gennaio
la madre con due giornalisti di Rai3 va a cercarla al Pigneto: la riconosce un barista.
L’ha vista dormire con un ragazzo nei luoghi
più improbabili. È un altro ragazzo che indica dove ha dormito quella notte: porta la
madre e i giornalisti in un garage. Sara è lì:
si altera, dice di voler restare con il suo fidanzato, cerca di andarsene. La madre la tira per un braccio e la costringe a seguirla a
Termini: si fermano per mangiare e Katia
spiega a Sara che il tribunale l’ha affidata ai
servizi sociali. Sara va in bagno. E scappa.
Alla fine, a metà marzo, la ritrovano. Viene
ospitata nel centro di accoglienza “Il monello”, di Monte San Giovanni Campano, in provincia di Frosinone [4].
Arrivata a Frosinone alle 7 di sera, alle 10
del mattino del giorno dopo si era già calata
da dieci metri di altezza con un lenzuolo annodato. Una fuga rovinosa che la fa finire al
Gemelli con diverse fratture. Spiega la madre: «È rimasta due mesi al Gemelli. È tornata a casa, era pulita e io ero contenta, ma
è scappata ancora per drogarsi. E allora è
finita nel centro per minori vicino a Perugia.
Ma non ci voleva più stare» [5]. Da lì è scappata il 5 giugno scorso.
«Anche la nonna di Sara sarebbe morta anni fa per una overdose. Paolo Fallai: «Un gene di disperazione si è impossessato di tre
generazioni della stessa famiglia. Ma noi dove eravamo quando succedeva tutto questo?» [7].
Un commercialista di 50 anni che è si è offerto di pagare le spese per il funerale della
ragazza: «Questa creatura dalla vita non ha
avuto nulla. Ho avuto un cugino morto tre
anni fa per overdose, una battaglia che non
siamo riusciti a vincere, uno strazio terribile. E lui era un adulto. I sedici anni dovrebbero essere il momento più bello della vita,
invece per Sara è arrivata la morte nell’indifferenza e nel degrado. Anche se non la
conoscevo, mi sento anch’io un po’ responsabile per quest’indifferenza. Almeno una funzione dignitosa a questa ragazza la dobbiamo» [4].
Tra un mese arriveranno i risultati degli
esami tossicologici dell’autopsia che chiari-
GIUBILEI
P
er la prima volta, nella storia dei Giubilei, fece la sua apparizione l’aereo.
Nel corso dell’Anno Santo la Twa (Trans
World Airlines) aumentò i propri voli tra
New York e Roma sino a sessanta ogni settimana e l’Air France trasformò in giornaliero il volo settimanale Parigi-Roma. Il
volo rappresentava per molti un’esperienza nuova e una indimenticabile avventura che suscitava meraviglia e stupore:
«Sulla pista in cemento armato il superbo
quadrimotore diretto a Roma ci aspetta
alto e solenne – si poteva leggere in un articolo del periodico Pro Familia. Poiché il
tempo si mostra favorevolissimo, il comandante dell’aereo ha deciso di cambiare rotta: invece di quella solita per Lione
e Marsiglia raggiungeremo Roma sorvo-
ranno quale tipo di sostanza Sara abbia assunto. Secondo i medici della Sapienza, il
sovradosaggio di droga sarabbe aggravato
dal periodo di astinenza a cui Sara si era
sottoposta nel centro di recupero. Sulle
braccia e sulle gambe sono stati inoltre riscontrati segni di autolesionismo ma non
sarebbero emersi segni di punture. Quindi
l’ipotesi è che Sara abbia fumato o sniffato
la dose letale di eroina [8]. Per ora alla Procura di Roma non resta che indagare sull’ipotesi di istigazione al suicidio o aiuto al
suicidio e cercare chi ha venduto la droga
a questa ragazzina [3].
L’inchiesta potrebbe coinvolgere nelle
prossime ore anche lo stato di abbandono e
di degrado della struttura [8]. Il presidente
della Regione Zingaretti ha stanziato 400
mila euro per una prima ripulitura e vuole
farci un “quartier generale” per startup,
una palazzina per i carabinieri, un’altra per
la polizia e uffici regionali per risparmiare
negli affitti. Gli accordi sarebbero tutti
di Pietro Acquafredda
lando le Alpi e passando poi per Torino e
Genova... Il velivolo sfida i monti e li domina, capacità che non è presunzione, scienza esatta alla quale si accompagna una
non so che antica suggestione. Nell’interno dell’apparecchio dell’Air France vi è
completo silenzio: ognuno è intento a contemplare dai finestrini lo spettacolo dei
monti, che vanno ora abbassandosi e allontanandosi. Ecco alla nostra sinistra Torino, con le strade tagliate con precisione
geometrica e poi Genova come un fiore...
Davanti all’apparecchio Roma si distende
ben presto con tutta la sua invitante grandiosità».
(Anno Santo 1950.
Almo Paita. La vita a Roma
negli Anni Santi, 1999)
pronti «ma da mesi attendiamo il nulla osta
della Soprintendenza per un muro» [9].
della popolazione generale, circa 320mila
persone. Più maschi che femmine [12].
Intanto nei sotterranei ci abita un esercito
di profughi afgani, o “arabi”, ma anche famiglie italiane e romene di senzatetto. Paradossalmente le stanze dei profughi sono le
più curate. Boccacci: «Ma regna il popolo
delle risse notturne e dell’eroina che si è impadronito di questa che era la piccola Versailles costruita nel Ventennio per proteggere Roma dal “terribile male”» [9].
Mary Tagliazucchi: «Dagli anni ’70-80 a oggi nulla è cambiato, se non la qualità. Un tempo era di quella “buona” (bianca, thailandese, brown indiano, gialla siriana), ma i pusher ora preferiscono la quantità. Il principio attivo presente nella sostanza è infatti
sceso al 10/15%. Il resto, come dicono in gergo i tossicodipendenti, è taglio. Con la crisi,
la cocaina è diventata troppo cara (50 euro
al grammo) mentre l’eroina si attesta sui
20/30 euro» [11].
«La morte di Sara deve far riflettere tutta la
politica che da anni ha scelto il silenzio sul
problema delle tossicodipendenze perché
argomento scomodo che non porta voti»
(Massimo Barra, fondatore del Centro Antidroga della Cri) [3].
Stando ai dati del Ceis il consumo di eroina, sta conoscendo una nuova impennata. Il
presidente Mineo: «A Roma lo scenario è inquietante con un aumento del 37% rispetto al
dato di due anni fa. Sono soprattutto i minorenni i principali consumatori» [10].
La dipendenza da eroina colpisce a tutte le
età. In cura, ai tanti Sert dislocati nella Capitale, ci sono ragazzi di 14 anni e persone con
più di 70 anni. Il 26,2% degli utenti è nella fascia di età 30-39 anni, il 33,3% rientra in
quella 40-49, il 16,4% va dai 50 anni fin oltre
i 60, mentre la fascia di popolazione giovanile fino a 24 anni segna il 13,6%. Un numero
che crescerà. Roberto Mineo: “Dalle nostre
statistiche è risultato che c’è stato un incremento del 18% di consumo di eroina fra gli
studenti romani tra i 15 e i 19 anni”». [11].
I consumatori in età da liceo, preferiscono
la “white”, che si sniffa o si fuma [11].
Il consumo di eroina almeno una volta
nella vita ha coinvolto quasi 800mila italiani tra i 15 e i 64 anni (2%), di questi 300mila nella fascia 15-34. Negli ultimi 12 mesi il
consumo di eroina ha riguardato lo 0,8%
Anche a New York, dove si può trovare a 10
dollari al grammo, l’eroina ha fatto il suo
grande ritorno. Nel 2014 le morti per overdose hanno superato le 47 mila (più degli omicidi): fra queste, 10.500 sono state causate
dall’eroina [13].
«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, trascinarsi all’alba in cerca di una siringata rabbiosa di
droga» (Allen Ginsberg) [7]
Paolo Fallai: «L’eroina è confinata in un
sottomondo che ci rifiutiamo di guardare, in
quella sterminata periferia tutta uguale dove vivono non “le menti migliori” ma i nuovi miserabili della nostra società. Fino a
quando la morte di una ragazzina di 16 anni non ci sbatte in faccia il colore livido della nostra indifferenza» [7]».
(a cura di Jessica D’Ercole)
Note: [1] Tutti i giornali 10/6; [2] Marco de Risi e Alessia Marani, Il Messaggero 9/6; [3] Alessia Marani e Monica Martini, Il Messaggero 10/6; [4] Rory Cappelli, Repubbica.it 10/6; [5] Rinaldo Frignani, Corriere della Sera 10/6; [6] Raffaella Troili, Il Messaggero 11/6; [7] Paolo
Fallai, Corriere della Sera 11/6/2016; [8] Francesco Salvatore e Flaminia Savelli, la Repubblica 10/6; [9] Paolo
Boccacci, la Repubblica 9/6; [10] AdnKronos 3/6; [11]
Mary Tagliazucchi, La Stampa 24/3; [12] Relazione annuale al Parlamento sulle dipendenze 2015 del Dipartimento delle politiche antidroga; [13] Andrea Marinelli, Corriere della Sera 19/5.