VINCENZO CARDARELLI, LA PROSA DEI PROLOGHI

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VINCENZO CARDARELLI, LA PROSA DEI PROLOGHI
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VINCENZO CARDARELLI
LA PROSA DEI “PROLOGHI”
1990
I Prologhi si aprono con i Dati biografici che costituiscono la presentazione dell’autore e della propria arte e mettono
subito in campo la persona morale del protagonista che domina con la prepotenza dell’io ogni pagina della sua opera.
Questo creatore si attribuisce subito una dote eccessiva, definendosi dall’inizio come una persona con qualcosa
in più, con un eccesso di energia.
La litote successiva (non ho mai potuto compiere un atto che non fosse ostacolato da un’immancabile
contrarietà) è la prima di una lunga serie di espressioni negative che si accumulano con frequenza impressionante in
tutto il testo, negazione rafforzata in questo caso dall’aggettivo mancabile. Solo in questa pagina troviamo questa
costruzione altre due volte:
“Non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni.
La mia lirica... non suppone che sintesi”.
La litote, come negazione che si annulla e come affermazione derivabile dal suo contrario, indica, nell’uso che ne
fa Cardarelli, un marcato esclusivismo, cioè un’affermazione netta di ciò che è espresso e una negazione o esclusione
categorica di tutto ciò che non lo è.
“All’innocenza ci son dovuto arrivare. Mi sono sempre alzato da una disfatta. La mia fiducia di creatore sta
nei molti e profondi errori che ho da riparare”.
La prima affermazione, fatta da Cardarelli come per scuotere il lettore con la dissonanza creata dal dichiarare
che lui non parte ma arriva all’innocenza, crea uno di quei contrasti che ci induce a riflettere su quel che leggiamo e
provoca uno stridore che tiene sveglia la nostra attenzione.
Questa volontà di raggiungere l’innocenza può far pensare all’aspirazione dell’autore allo stile, al possesso pieno
della parola purificata dagli eccessi e dagli sperimentalismi giovanili. Ma forse, in sintonia con quell’itinerario interiore
tracciato nei Prologhi, l’aspirazione è verso la verità, la certezza, la presa di coscienza e di possesso di sè, conquistata
attraverso continue cadute: cadute dolorose ma feconde, perché da esse egli si è sempre alzato e perché gli hanno
miracolosamente aperta la strada alla creatività.
Dunque la sua sicurezza, la sua fiducia di creatore egli l’ha conquistata faticosamente percorrendo fino in fondo
un cammino irto di difficoltà e ostacoli, tramite l’esperienza del mondo e dei suoi errori. Questa partenza dal negativo, il
fatto di averlo affrontato totalmente, gli dà la certezza di vincere e il suo atteggiamento da vincente è ribadito da una
scrittura verticale, dove l’io è al vertice e il resto sotto di lui, dove l’io domina e filtra la realtà disponendola nei suoi
schemi.
Anche la struttura del periodo risponde a delle precise esigenze dell’autore. Le frasi brevi sono incastrate in versi
più lunghi e articolati e se nelle prime il ritmo si fa più veloce e incalzante, nei secondi si allenta e si distende. Questo
serve a dare il massimo di incisività a quelle affermazioni centrali che assomigliano in questo modo a delle massime, a
delle sentenze, e alle quali Cardarelli affida maggior ricchezza di significati, il nucleo del suo discorso.
“La mia forza è quando mi ripiego. La mia massima musicalità quando mi giustifico. Non sono vittorioso che
in certe fulminee ricapitolazioni”.
Ed ecco altri tre esempi di frasi brevi, veloci e pregnanti a cui ora l’autore dà anche un nome; le chiama fulminee
ricapitolazioni e rappresentano il fulcro di questa sua dichiarazione poetica.
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La coscienza esasperata dell’io di Cardarelli, come l’ha definita Gargiulo 1) , il suo atteggiamento superomistico è
qui messo in evidenza, oltre che dalle dichiarazioni di forza e di vittoria, dall’uso continuo della prima persona e dal
ripetuto impiego di aggettivi possessivi e pronomi riflessivi.
Anche la presenza di verbi come ripiegarsi e giustificarsi, che potrebbero suggerire un Cardarelli in un tono più
dimesso, sono da lui usati con un significato particolare. Ripiegarsi non nel senso di arrendersi, cedere, ma in quello
figurato di ri-piegare in sè, di volgersi di nuovo al proprio io dopo aver osservato la realtà esterna, per filtrarla, analizzarla
e tirarci fuori dei significati. Anche quando si giustifica non vuole né scusarsi, né discolparsi per ciò che dice ma
dimostrare che le sue affermazioni sono giuste, sono verità indiscutibili.
Nel fare ciò gli argomenti che porta danno musicalità e a questo concetto già definito (perché un’espressione o è
musicale, o non lo è) egli aggiunge l’aggettivo massima attribuendo così a sé il superlativo della grandezza e
sottolineando ancora una volta quanta più risonanza hanno le sue parole rispetto a quelle degli altri.
La terza affermazione non fa che riconfermare l’atteggiamento costante di Cardarelli; lui si sente appunto
vittorioso e usa la litote proprio per dar risalto a questo aggettivo. Vittorioso soprattutto nelle fulminee ricapitolazioni
che, abbiamo detto, costituiscono il nucleo del suo processo conoscitivo; egli ricapitola, cioè riassume, ripercorre le varie
fasi, poi tira le fila del discorso e raggiunge il significato in sintesi rapidissime, fulminee appunto.
“E dipende soltanto dai significati che son capace d’inventare dalle conseguenze che ho il coraggio di
riconoscere, che la mia vita non sia un ammasso orrendo di combinazioni”.
Questi significati lui li ricava, come abbiamo visto, non li trova pronti, li inventa perché ne ha la capacità, ne
parla e se ne assume la responsabilità perché ha coraggio. Con questo ribadisce la sua unicità, il suo valore e la sua abilità
nel tirar fuori dagli elementi casuali, caotici e disordinati delle esperienze della sua vita qualcosa che abbia un senso, nel
combinare questi elementi in modo da originare quelle conoscenze contenute nelle fulminee ricapitolazioni.
A questo punto Cardarelli enuncia la teorizzazione del limite come principio di conoscenza:
“Il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione. Di ogni cosa vedo l’ombra in cui culmina. Affermo il limite,
principio dalla negazione: la realtà è l’eterno sottinteso.”
L’insoddisfazione diventa il fattore dinamico della conoscenza. E’ l’insoddisfazione per ciò che ha già scoperto
che lo porta a cercare ancora, e non perché le conoscenze già ottenute non siano valide, ma perché la luce che l’autore ha
gettato sulla realtà grazie ad esse proietta più in là una zona d’ombra che lo incuriosisce.
Ogni cosa culmina in un’ombra perché questa per l’autore è la parte più alta, più importante ed anche quella più
difficile da raggiungere come lo è la cima di una montagna. La realtà tutta è un insieme di conoscenze (luce) e di mistero
(ombra), una serie di dati raccolti e definiti a cui bisogna però sempre aggiungere un’incognita, l’eterno sottinteso, la
zona d’ombra, il non-conosciuto.
E se questo vale come principio fondamentale per il processo conoscitivo di Cardarelli è anche un avvertimento
per il suo lettore a far attenzione al non-detto, al significato nascosto degli enunciati.
Cardarelli afferma il limite nel senso che lo fissa, lo pone come dato imprescindibile. Parte dal negativo
(dall’insoddisfazione, dall’ombra, dalla disfatta) e lo esalta perché non lo considera l’esatto e l’astratto opposto della
verità, ma la strada per arrivare ad essa.
E’ interessante notare l’uso del verbo principiare invece dei più comuni iniziare o cominciare, dovuto forse alla
volontà dell’autore di dar risalto al ruolo attivo di creatore che lui assume in questo processo (in latino, infatti,
principiare deriva da prior, primus, princeps).
“Gli uomini che tengono un poco alla mia compagnia bisogna che si preparino a lasciarsi annullare. Io divoro
i fatti”.
Egli annulla gli uomini nello stesso senso in cui divora i fatti: il divorare non implica l’idea di distruzione
totale, ma quella di trasformazione e di assimilazione.
1)
Alfredo Gargiulo, “Vincenzo Cardarelli”, in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 435.
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“La mia lirica (attenti alle pause e alle distanze) non suppone che sintesi”.
L’avvertimento tra le parentesi è stavolta diretto in modo esplicito al lettore per richiamarlo sul significato dello
spazio bianco che sembra ricordare il rischio incessante del silenzio, ma soprattutto perché non sottovaluti l’importanza
delle pause e dei ritmi più o meno veloci nella sua prosa spezzata e metallica.
La conclusione dei Dati biografici offre la chiave di lettura per l’intero volume: Cardarelli dichiara di dare in
questi scritti solo immagini folgoranti e concentrate, le illuminazioni finali dei suoi pensieri e non l’intero procedimento
attraverso il quale le ha elaborate. In queste sintesi egli offrirà il massimo della concentrazione e del rigore espressivo e le
darà come essenza, in senso metafisico.
“Luce senza colore, esistenze senza attributo, inni senza interiezione, impassibilità e lontananza, ordini e non
figure, ecco quel che vi posso dare”.
La sintesi in quanto assoluta è di per sé autosufficiente e completa, così come la luce vera non ha bisogno dei
colori che creino il contrasto necessario a farla vedere, l’esistenza non ha bisogno di attributi che la qualifichino e come
l’inno non ha bisogno di interiezioni che ne mettano in risalto la solennità.
Egli ci dà ordini e non figure nel senso che ci offre la struttura e non gli elementi che l’hanno composta, il
culmine del percorso e non gli accidenti che ha dovuto affrontare, la parola poetica già purificata e non il diario interno
del suo supplizio. Egli esige impassibilità e lontananza dalla sua lirica perché solo il distacco dalle esperienze rende
possibile la vittoria delle ricapitolazioni e respinge così la forte moralità e la tensione vociana.
Le ultime parole di questa pagina (ecco quel che vi posso dare) contengono l’ennesima dichiarazione della sua
grandezza di autore e un’ulteriore conferma del sentimento mitico della propria eccezione. Esse non indicano una
carenza di risultati anzi, al contrario, visto che la realtà è piena di zone d’ombra ed è inconoscibile nella sua interezza, le
sue verità offrono molto e comunque sicuramente di più di quanto possano offrire gli altri autori.
I temi trattati da Cardarelli nei Dati biografici sono sviluppati e ripresi in tutte le altre pagine del libro, ripetuti
ossessivamente in una prosa lapidaria, pausata tra un capoverso e l’altro, che l’autore usa per dimostrare la ferma
convinzione nei suoi proponimenti e nei suoi ragionamenti stringenti, energici e precisi.
Sentiamo viva all’interno di quest’opera la personalità dell’autore, tanto che sembra siano la forza, la capacità
risolutiva, la tensione, il vigore polemico del suo carattere a dare il ritmo e il tono alla sua prosa.
Infatti, come ha già notato Mario Luzi in un saggio che analizza i rapporti tra la vita psicologica e l’opera del
poeta 2) , nel nostro autore l’attività letteraria ha avuto origine come esercizio indispensabile della sua personalità. E sono
proprio la personalità di Cardarelli e le riflessioni sulla propria arte le protagoniste incontrastate di Prologhi, un libro che
potremmo analizzare come una sorta di glorioso autoritratto.
Per prima cosa vediamo ribaditi con perentorietà e sicurezza gli atteggiamenti superumani di uomo d’eccezione:
“Io sono un uomo forte. Se penso che ho potuto aver paura di qualcuno, piegarmi a qualche intimidazione! Se
penso che a me, che non mi son mai fatto indicare una strada... ha potuto farmi paura la vita!”.
Si sente superiore a tal punto da rifiutare le vittorie ottenute con troppa facilità e il riconoscimento palese del
suo valore:
“io non ero uomo da potermi prendere soddisfazioni volgari... Ho persino difficoltà a compiacermi, anche
silenziosamente, se un fatto viene a dimostrare quanto le mie opinioni fossero indovine. Non mi piace che la realtà sia
con me”.
2)
Mario Luzi, “La personalità e la poesia in Cardarelli”, in L’inferno e il limbo, Firenze, Casa editrice Marzocco, 1949,
p. 88.
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“La rivelazione della mia potenza mi turba e mi corrompe. La lode mi contraria e mi disinganna”.
Nella polemica con gli altri la sua voce mantiene questo timbro d’eroismo accompagnato da una buona dose di
aggressività e di presunzione:
“Io so in coscienza di aver fatto tutto per voi... Io mi posso vantare d’aver sempre saputo bene dove sarei
riuscito più doloros quando vi battevo; voi no”.
“Non vi fidate di me. Non avrò pietà del vostro affetto. Io non ho nessuna ragione di rispettare un uomo
soltanto perché l’ho conosciuto... vi presenterò dei conti che non immaginate. Vi ricorderò dei particolari da
meravigliarvi come io abbia potuto notarli... Le mie ultime parole saranno tempestate di verità. - Avreste per caso la
forza di resistere ancora?”
E vede gli altri come esseri mediocri che sono costretti ad assistere alla sua grandezza e lo odiano per questo:
“quello che meno ci riuscì di tollerare in lui era la sua presenza...
Non gli potevamo perdonare di averci messo in questa infelice condizione di spettatori della sua esistenza... Che
proprio noi ci fossimo trovati ad essere i contemporanei di qualcuno!”.
“troppe velleità inconsolabili si sentono offese quando io mi esprimo”.
La celebrazione di se stesso e l’affermazione della sua superiorità è accompagnata dalla ripetizione continua del
calvario sofferto, delle esperienze negative che hanno scandito le fasi della sua vita. Il male affrontato e sconfitto gli ha
dato questa posizione di forza:
“Ho esplorato tutti i mali”, “ho sempre dormito nei disagi”, “Mi appoggio ai miei errori”, “Ho fatto più
esperienze che non ne avessi obbligo e intenzione, “ho ecceduto nella carne fino all’ironia... so cosa vuol dire far
esperienza d’una tentazione e liberarsi dal male a prezzo di tante cadute”.
Il rapporto con gli altri è ostacolato da questa sua diversità. E quando egli ha provato a superare questa difficoltà
e a costruire un legame più profondo con i suoi simili, non ha ottenuto che delusione e dolore. La sua fede nell’amicizia
era in contrasto con gli interessi degli altri (“E quelli che mi hanno toccato non s’erano lavate le mani e le intenzioni”, “E’
stato un matrimonio d’interesse”), che non hanno mai veramente compreso le sue più acute intuizioni (“L’uomo
s’accorge presto.... di dover sostenere le sue verità suscettibili e delicate in mezzo a ben sordide compagnie”), che gli
hanno fatto del male senza nemmeno accorgersene (“Le ferite più stridenti me le avete fatte senza saperlo”) e che lo
hanno costretto ad annullarsi per essere accettato (“Mi son tradito, mi son dimenticato... Mi son smarrito nelle vostre
parole, umiliato nelle nostre virtù. Mi son disprezzato nel vostro potere”, “ho preferito coprirmi d’ombra”).
L’accusa che Cardarelli con più frequenza lancia agli uomini è di essere indifferenti nei suoi confronti:
“il loro amore non era senza indifferenze profonde e disumane”,”Voi non vi siete mai curati di me; neppure per
assestarmi un bel colpo”.
La cosa che non tollera è la loro reticenza, la mancanza di una presa di posizione. Lui che con coraggio si è
sempre e comunque schierato, ha dato giudizi, ha pagato le conseguenze di ogni affermazione fatta assumendone la
paternità, si trova circondato da troppa vigliaccheria:
“Se oggi ritornasse Gesù Cristo, credete che si troverebbe almeno un Giuda disposto ad impiccarsi per lui? Tutt’al più qualche Ponzio Pilato, che era romano e uomo d’ordine, e indifferente alle epoche quanto alle opinioni”.
“Giudizi oculati, adesioni ristrette, inviti ad assuefarsi, aspettative senza brivido dei camerati: ecco quel che si trova”.
“Dove troverò un canto fermo, un uomo che mi faccia l’onore di non mentire?”
Egli esige almeno una negazione, preferisce essere negato piuttosto che ignorato (“spesso la semplice
constatazione è il peggiore giudizio che si possa fare d’un uomo”). La solitudine e l’orgoglio, due caratteristiche negative,
almeno quelle chiede gli siano riconosciute come fatti reali.
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All’impossibilità dello scambio sociale, alle contraddizioni della comunicazione interpersonale (“la verità è
quella che non riusciamo a dire”, “io non so conversare”, “La parola scorre come un polline che ciascuno riceve secondo
il suo impulso generatore. Il linguaggio degli uomini più comprensivi è sempre stato quanto di più allusivo e favoloso si
possa immaginare”) l’unico sbocco sembra essere la solitudine.
“E’ dunque scritto che io me ne debba star solo”, “non me lo impedirete... che io mi riduca ogni volta sempre
più silenziosamente in me stesso”, “La sua periodica necessità di nascondersi... quella sua maniera perfida di star
lontano... la sua orgogliosa infelicità nei contatti”.
L’immagine è quella di Narciso che, condannato alla solitudine e nell’attesa della morte, si ripiega e discorre con
se stesso. L’isolamento è orgogliosamente esibito e difeso da Cardarelli il quale, d’ora in poi, non tollererà dagli altri che
rare apparizioni e fuggevoli presenze:
“L’amore non ammetto ormai più che mi si dichiari... Mi piace la simpatia che arrossisce di sé e scappa
borbottando. Gradisco le attestazioni presupposte e dimenticate. Non tollero che rare apparenze”. “ho... accostato il
mio simile... rompendo a tempo la consuetudine e sapendomi guardare dalle intimità che mortificano tutto quel che ci
può essere di straordinario in una relazione”.
Egli soffre tanto per questi travagliati rapporti che gli diventa necessario troncare ogni legame con il prossimo e
allontanarsi dal mondo:
“ora bisogna che ci separiamo”, “Me ne andrò... Non scriverò e non riceverò più lettere da nessuno”, “Non c’è
amore che non riconosca l’inevitabilità di certi abbandoni”, “Siamo noi che dobbiamo capire. Toccate certe verità,
all’uomo non rimane che prendere, in silenzio e da buon traditore, la decisione che più gli conviene. La mia è sempre
quella. Partire”.
La solitudine gli è indispensabile anche per adempiere alla sua missione di creatore. La sua moralità consiste
infatti nell’assolvere il compito che si è assunto, nell’obbedire a quel comando che si è dettato. Come per i simbolisti, per
Cardarelli il poeta è un veggente, le cui visioni logiche, che paiono un momentaneo effetto della nostra ottica mentale...
sono invece il nostro reale domani che si annunzia.
Queste visioni logiche (che se da una parte fanno pensare a delle rivelazioni incontrollabili, a delle illuminazioni
percepite sensorialmente, dall’altro aggettivo logiche le definisce come cose razionali a cui si arriva con procedimenti
ordinati) diventano delle previsioni, annunciano la realtà futura. E il poeta deve rendersi conto dell’enorme
responsabilità che si è assunto con l’esprimere le sue visioni logiche, perché le parole si combinano, prendono vita
propria e ad un certo punto diventano atti, si realizzano.
“Guai a scordarsi delle proprie parole. Quello che ci si è presentato una volta come una candida invenzione
della fantasia, tornerà a presentarcisi immancabilmente nella forma dolorosa d’un fatto da accettare. Guai a non
averci pensato. L’uomo non è un mago, e i sistemi ch’egli suscita non sono spettacoli che si contentano di finire”.
“Le parole vogliono farsi atto. Gli scrupoli non possono trattenere la realtà dal divenire”.
La parola perde il carattere di candida invenzione, la forma con cui la si è usata inizialmente, per assumere
quella dolorosa nel futuro. Essa quindi non può essere adoperata per giuoco, ma impegna totalmente lo scrittore che
deve assumerla come fatto etico:
“Bisogna stare attenti a discorrere. Ogni affermazione è un giuramento che facciamo, un impegno d’onore che
ci accolliamo. Le parole non si dicono, si dànno. Si procede da quel che si è detto. In principio erat verbum. La vita d’un
uomo può essere più o meno grave secondo che egli si sia più o meno permesso di parlare”.
La consapevolezza dell’impegno che l’atto della parola comporta, la parola come gesto e che si identifica con il
fatto: concetti che stabiliscono certamente una relazione tra Cardarelli e movimento vociano. Ma non possiamo limitare
ad un generico appello moralistico quello che appare invece come una professione di fede nella forza attiva della
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parola 3) . Essa diventa per il nostro autore l’atto istitutivo di qualsiasi processo e, con questa rivalutazione prioritaria
della parola, egli capovolge il principio realistico per il quale prima c’è la cosa che poi viene definita dal linguaggio. La
letteratura diventa struttura.
C’è qualcosa di diverso in Cardarelli rispetto al vocianesimo, qualcosa che ci fa intravedere il futuro rondista: c’è
il valore oggettuale e insostituibile della parola, un valore sacro e irriducibile che non ammette abusi e che costringe il
discorso ad essere esecuzione ed obbedienza ad essa. E’ la certezza della parola che definisce il limite:
“Se c’è una cosa ch’io rispetti è il limite. Se c’è una cosa ch’io non conosca è il limite”.
L’aspirazione all’esattezza definitoria, alla compostezza e al possesso completo del linguaggio gli impone dei
limiti e lo porta a rifiutare le salienze espressive e l’esposizione violenta delle poetiche moderne che questo limite invece
ignoravano: infatti mentre futuristi e vociani operavano per una rottura del linguaggio, lui propone il ritorno ad un
classico equilibrio.
Ma la seconda affermazione rimette subito in discussione quello che poco prima aveva assertito con una forte
pronuncia di verità. Atteggiamento tipico in Cardarelli che, nel momento in cui afferma perentoriamente una cosa, per
cui si ha quasi l’impressione che l’abbia scolpita nel marmo, immediatamente la rimette in dubbio.
Il limite per lui, invece di essere un confine di ciò che non può essere superato, diventa uno spazio, un’apertura
nuova. Egli sembra fissare dei limiti solo per provocarli continuamente, come dice lui stesso: carattere tipico degli
scrittori di questo secolo e segno della modernità di Cardarelli, autore che mentre mette in evidenza alcuni segni molto
netti e verticali lascia dietro un immenso territorio che bisogna esplorare.
Ritornando al limite linguistico che egli si era proposto, vediamo che l’aspirazione ad una scrittura razionale
viene ostacolata da elementi di irrazionalità che si inseriscono nell’organizzazione formale della sua prosa (e per questo
contrasto quando Cardarelli parla di pazzi logici sembra alludere a se stesso). Il suo impulso e la sua passione non
conoscono limite e ciò che ha da dire ha bisogno qualche volta di essere urlato.
Rappresenta una trasgressione al limite la fisicità di espressioni come questa, la brutalità dell’immagine che essa
richiama:
“Ci sono giorni che lo sforzo della vita mi sradica alle gengive”.
E d’altra parte è la parola stessa a contenere l’elemento di irrazionalità che contraddice la sua certezza e rende
impossibile un uso preciso e un dominio completo di essa. Anche la parola, come la realtà, ha la sua zona d’ombra, il suo
corrispettivo taciuto, il sottinteso:
“le parole, se hanno qualche valore, è solo in virtù dei loro sottintesi”.
Questa impossibiltà di dominio completo della materia, l’oscura sofferenza del limite sconosciuto e insieme
trasgredito, la mancanza di certezza e il senso del dubbio in Cardarelli, sempre teso verso la verità e che fa delle
affermazioni il punto d’arrivo della sua poetica, provocano a volte uno stato di disperazione totale.
“Teso sul letto, sospeso e quasi inesistente, oscillo come un ago calamitato”.
Lui di solito così verticale è ora in una posizione orizzontale (teso sul letto), lui di solito impetuoso e sicuro di sé
ora si sente sospeso e inesistente, un ago calamitato in una tempesta magnetica.
3)
Bice Mortara Garavelli, “L’articolazione interna del discorso di Cardarelli”, in Atti delle giornate di studio su
Vincenzo Cardarelli, Tarquinia 25-27 settembre 1981, pp. 3-4.
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L’inerzia a cui si abbandona è vissuta come malattia e resa e i momenti di pausa (Pausa è anche il titolo di una
prosa che descrive appunto la sofferenza causata all’autore dal senso di sconfitta che lo fa astenere dalla lotta) li definisce
angosce letargiche che rappresentano per lui veri anticipi di morte, durante i quali diventa predominante la tendenza a
tacere e incombe su di lui la minaccia del silenzio.
“Bisogna che io non oda, non veda, non esista più. Una tremenda impossibilità mi accompagna”.
Ma il tacere non è l’approdo ultimo di quest’opera, caratterizzata invece dallo sforzo continuo dell’autore per
vincere il silenzio. Prologhi vive del dramma e della tensione del poeta alle prese con le proprie contraddizioni, dell’urto
fra disperazione e speranza e della tormentata avventura del suo personaggio che, come un eroe, perdendo le singole
battaglie prepara la vittoria finale.
E gli ultimi due testi del libro, Saggezza e Silenzio della creazione, probabilmente fra gli ultimi anche in ordine
di composizione, sembrano proprio suggerire una conclusione ed aprire una prospettiva positiva. Il titolo della prosa
Saggezza ci riporta ad un atteggiamento peculiare del Cardarelli dei Prologhi, quello del maestro impegnato a scandire le
sue sentenze e le sue definizioni, e se questo atteggiamento rimane, cambia però il soggetto delle sue affermazioni che
non è più l’io ma il noi. Egli non parla più di sé ma dell’uomo e in questo tentativo di innalzare il privato ad assoluto, in
questa volontà d’astrazione e di leggi universali, Cardarelli assomiglia di più al nicciano Zarathustra, spinto verso il
divenire e non più ripiegato sulle angosce e sulle sofferenze del passato, la cui grandezza non sta solo nel conoscere ma
soprattutto nell’effetto della sua conoscenza sugli uomini.
Inoltre, come un vero saggio, lo scrittore nelle due prose conclusive sembra volersi liberare da ogni sicurezza
immanente e aprirsi al dubbio, accettare l’esistenza delle contraddizioni ed il consumarsi della nostra vita in mezzo ad
esse. Le stesse affermazioni, punti saldi della sua poetica, paiono messe in discussione perché se parlare è compiere
un’infrazione, allora nelle affermazioni, dove si arriva a delle apparenti certezze, la trasgressione sarà ancora più grande
(quel che si conosce è che c’è qualcosa d’intollerabile in tutte le affermazioni); e infatti gli uomini più comprensivi, quelli
che hanno capito di più, parlano in maniera allusiva e non per affermazioni.
Cardarelli riconosce inoltre il suo destino di passione, la presenza continua nelle sue sentenze di quella passione
che aveva dichiarato nei Dati biografici voler annullare e respingere dalla sua lirica e prende coscienza della propria
imperdonabile superfluità e inutilità.
Neanche l’opera può consolare l’autore perché essa, una volta conclusa, appartiene a se stessa e la sua
sopravvivenza presuppone la scomparsa del poeta al quale oramai non rimane che assiste in silenzio alla sua
performance:
“Esprimere è restituirsi. L’opera che esce dalle nostre mani segue un suo destino. Giudicarlo non ci appartiene.
Non hanno valore, del resto, se non le opere e le azioni dimenticate. Come è vero che la grandezza di un’offerta si può
giudicare dalla facoltà di distacco e di oblio che è nel donatore. L’eterno silenzio succede all’estrema donazione”.
Alla consapevolezza di questo irrimediabile destino egli non reagisce con la rassegnazione ma propone qualcosa
di più:
“Distrutti gl’idoli e smesso di chiederci le ragioni; abbandonata in un’esperienza indiscutibilmente amara ogni
innocenza carnale; restituito alle antipatie il loro diritto, esaurite le impossibilità, provocati tutti i limiti; pieni d’ironia
verso ogni promessa, diffidenti contro ogni suggestione: coscienza, implacabilità, resistenza - tutte queste alla fine non
sono che superbe e necessarie premesse, ben lungi dall’escludere una dominante fiducia nell’avvenire”.
Con uno scarto della volontà Cardarelli supera il dramma e si proietta nel futuro. E nell’interpretare la
conclusione del libro come promessa di un superamento, concordiamo con Adele Dei, secondo la quale i “Prologhi”,
compiuto un percorso ristretto ma intenso, sperimentata la fecondità delle plurime negazioni, si chiudono con un
dissimulato scarto positivo, che giustifica allora la spinta in avanti del titolo, apre a un “dopo” oltre i rifiuti e gli addii...
Le negazioni, assaporate all’estremo con irritante insistenza, si identificano allora con le premesse - i “prologhi”
appunto - di un futuro diverso ma conseguente, che non si può alla fine non attendere con disincantata speranza 4) .
4)
Adele Dei, “Cadute e resurrezioni nei “Prologhi” cardarelliani del 1916”, in Atti delle giornate di studio su Vincenzao
Cardarelli, Tarquinia, 25-27 settembre 1981, pp. 11-2.
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A questo punto, per evidenziare la peculiarità di un’opera come Prologhi nell’ambito della produzione
cardarelliana, ci sembra opportuno analizzare l’atteggiamento dell’autore nei confronti del suo primo libro. Esso emerge
chiaramente in un tardo intervento dello scrittore sulla rivista “Rotosei” del 16 maggio 1958 5) , dove sono ribadite la
validità della svolta stilistica compiuta dopo Prologhi e la necessità del distacco dall’intellettualismo iniziale:
“Ancor oggi si discute se il meglio di quanto ho scritto sia rappresentato da quel primo, mitico volume, o dalle
mie opere successive. Chi è rimasto attaccato ad una visione complicata e artificiosa dell’arte, parteggia per Prologhi
senza esitazione, ma io non sono dello stesso parere. In questo senso posso dire che quel primo successo contribuì a
chiarirmi le idee, e mi aiutò a capire che in arte il vero progresso non ha direzioni intellettualistiche, ma consiste
nell’aderire sempre più alla pratica, al quotidiano, alla realtà oggettiva. Un paesaggio in effetti è più importante del
pensiero. Così, dopo Prologhi, compresi che dovevo distruggere quanto vi era in me di cerebrale, e distaccarmene
subito anche se ciò significava sforzo, fatica e lotta contro le proprie abitudini spirituali”.
Si capisce la preoccupazione di Cardarelli di trovarsi imprigionato dentro il volume di esordio. Per lui, nel ‘58,
essere solo l’autore di Prologhi è meno di niente. Quel giudizio che esalta la sua prima opera tende ad annullare le
successive, le quali poi sono quelle che più gli interessano, quelle a cui lo scrittore crede di aver consegnato l’immagine di
un autore originale, unico e inimitabile.
Da tale punto di vista si capisce meglio la polemica contro Prologhi, relegato dentro una visione complicata e
artificiosa dell’arte, dove i due aggettivi complicata e artificiosa stanno proprio a rappresentare quell’arte moderna che
si era cercata una propria fisionomia da contrapporre all’arte classica. Quel mitico volume agli occhi del neoclassico
appare come una resa al nemico.
Non gli potevano più piacere la temperatura, il forte cromatismo, l’esasperato individualismo, le violenze di una
soggettività, magari in catene, ma urlante. Cardarelli cioè rinnega Prologhi in nome di tutta la sua storia successiva, non
essendo fra l’altro il tipo da ammettere che in lui ci possano essere due poeti diversi.
Contro il dongiovannismo degli sperimentali egli sa che ad un poeta viene assegnata in sposa una sola forma: il
resto è libertinaggio e non può essere fecondo. E’ come se Cardarelli rinnegasse un figlio illegittimo. Non avrebbe mai
tollerato di essere ricordato come un prosatore espressionista, quale appare nell’opera dell’esordio.
Tuttavia a questo punto, senza sottovalutare ma anzi con la massima considerazione per il lirico e per il
prosatore degli anni successivi, Prologhi risulta segnato vittoriosamente dal linguaggio che all’inizio del Novecento
sembra aver avuto una delega di rappresentanza culturale dell’epoca. Erano a loro modo e in modo diverso espressionisti,
per testimonianza di Debenedetti, Pirandello e Tozzi nonché Gadda e, magari contro l’opinione dello stesso Debenedetti,
scrittori formatisi dentro “La Voce” come Savinio, Jahier, Rebora. Con qualche forzatura potremmo dire che anche
Prologhi è l’opera di un espressionista e pare destinato a tenere compagnia alle poesie, quando si dovessero indicare le
opere migliori dello scrittore di Tarquinia.
Malgrado il suo parere contrario, potremmo ipotizzare una specie di percorso carsico dell’opera prima di
Cardarelli. Alcuni suoi ingredienti ideologici e formali riaffiorano successivamente e vanno ad irrigare l’attività del poeta,
specialmente quello del tempo vociano, e straripano nel polemista culturale e letterario del saggista e del critico.
Roberta Ciurluini
5)
ora nell’ “Introduzione” di Clelia Martignoni, in Vincenzo Cardarelli, Opere, Milano, Mondadori, 1987, p. XXXIV.