Martedì mattina. Al bar la solita gente, ma questa volta il

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Martedì mattina. Al bar la solita gente, ma questa volta il
Martedì mattina.
Al bar la solita gente, ma questa volta il giornale è libero.
Del giornale cittadino mi interessa solo lo sport. La cronaca, la politica e le foto dei cani da
adottare nelle pagine centrali non mi interessano, un disinteresse del tutto immotivato.
Bevo il caffè, a banco, con il giornale in mano e chiuso. In prima pagina la sua foto mi colpisce
prima del titolo sopra di essa. È un primo piano sbiadito.
Sorrido, poi leggo il titolo e smetto.
Devo appoggiarmi da qualche parte. Mi sento mancare e un senso vago di svenimento mi coglie
alla testa, non tanto da far preoccupare il barista che continua a produrre cappuccini.
Penso all’ultima volta che l’ho vista.
Elena.
Era un martedì, come oggi, credo, spero, non lo so. Ero in casa sul divano, probabilmente il
giornale del giorno (all’epoca leggevo il manifesto) se ne stava stropicciato sul pavimento. Io
guardavo il soffitto senza nulla da fare, o meglio, senza nulla di urgente da fare. Mi piaceva
trascorrere le mie mattine a guadare il soffitto. All’epoca mi pareva un’occupazione interessante
come qualsiasi altra cosa avessi potuto fare, andare a lezione, leggere, guardare film. Preferivo
rimanere lì, immobile, ad ascoltare le voci per strada e far trascorrere il tempo. Un cardine
immobile attorno a cui il mondo continuava a roteare. Non avevo nessuna prospettiva, o meglio,
qualsiasi prospettiva non mi era ancora preclusa. Ero giovane, in forze e avevo tutta la vita davanti
per fare quelle cose che all’epoca non avevo voglia di fare.
Mi accendevo sigarette.
Ecco quello che facevo.
Mi accendevo sigarette e bevevo birra scadente mangiando tonno in scatola.
Quella era la mia vita, in fin dei conti.
Ci sono dei giorni che mi manca.
Mi manca non fare nulla e non sentirmi in colpa. Ora il senso di colpa quando trascorro la mattina
in cui sono a casa dal lavoro a non fare nulla mi colpisce puntuale come un treno di quando i treni
arrivavano puntuali.
Era martedì ed io ero sul divano. Magari ancora in pigiama. In quella tuta sintetica blu che usavo
come pigiama, quella con al centro del cavallo una bruciatura provocata da una canna fumata
comodamente stravaccato in poltrona. Forse indossavo quella tuta quando un messaggio sul
cellulare mi ha riportato alla vita, alle cose da fare, alla mancanza di voglia di fare alcunché.
Era lei, era Elena.
Prendiamo un caffè?
Così, dal nulla, dopo mesi in cui non la sentivo.
Ok.
Ho risposto così, perché io ad Elena non sono mai stato capace di dire no, o forse non ho mai
voluto dirglielo di no.
Lei era bella come sempre, come il primo giorno in cui l’ho vista, era primavera e indossava un
vestito a fiori piuttosto scollato, e aveva la pelle olivastra e gli occhi luminosi, esattamente come me
li ricordavo. Era bella. Io non lo so, io probabilmente non lo ero. Bevemmo il caffè nel solito bar in
cui eravamo soliti andare dopo lezione, quello in cui scherzavamo sulle dimensioni del suo seno
abbondante e sulle frasi malinconiche che ero solito scrivere sui banchi dell’università quando mi
annoiavo. Solitamente erano frasi estratte da canzoni di Guccini. Ero triste, quello lo sono sempre
stato.
Hai le labbra tristi, non solo gli occhi, mi aveva detto una volta Elena sotto le coperte del suo letto
dopo che avevamo fatto l’amore. Fare l’amore con Elena era un’esplosione, mi ricordo, me lo
ricordo come se fosse ieri, mi ricordo di quella volta che lei indossava una canotta gialla con un
buco sul fondo, una di quelle che ti metti solo a stare in casa, quei capi di abbigliamento a cui ti
affezioni senza motivo e che non riesci a buttare. Mi ricordo che lei era sdraiata sul letto, io avevo i
pantaloni tirati giù a metà coscia, ero già dentro di lei che mi aveva aperto la porta saltandomi in
braccio per baciarmi. Portami in camera, aveva detto, e io avevo ubbidito e presi dalla foga non ci
siamo nemmeno tolti i vestiti quella volta e lei aveva quella canotta gialla e il suo seno era bello e
tondo ed io, attraverso quella canotta, le vedevo i capezzoli mentre mi spingevo sempre più in fondo
dentro di lei.
Quel martedì mattina, seduti in quel solito bar, indossava invece un vestito a fiori e aveva i sandali
e i suoi piedi mi sfioravano le gambe. Non mi ricordo cosa ci siamo detti quella mattina, ma siamo
finiti a casa mia e abbiamo fatto l’amore. È stato triste e lei, mentre si allacciava il vestito a fiori,
non si è lasciata guardare in viso quando mi ha detto che doveva andare perché le partiva il treno. Io
credo di aver detto ok. Come del resto rispondevo a qualsiasi cosa, ok, senza aver ascoltato davvero
quello che mi era stato detto.
Non ci ho fatto caso a quel momento di tristezza, alla sua malinconia. Ho pensato che era bello
avere di nuovo Elena nella mia vita e mi sono acceso una sigaretta mentre lei chiudeva la porta
andandosene.
Mi sbagliavo, perché io Elena non l’avrei più rivista.
Fino a questa mattina in cui la sua foto è sul giornale perché ha ucciso la sua bambina che, leggo,
si chiama(va) Margherita. Penso che è un bel nome, quello di una regina, mentre sfoglio il giornale
per raggiungere la pagina richiamata in prima pagina. Nell’articolo c’è scritto che Elena, forse
resasi conto di quel che aveva fatto, si è poi gettata dal balcone. Abitava al quarto piano ed è morta
sul colpo. Una tragedia, leggo; c’è proprio scritto così.
Una tragedia.
Già, penso.
A pranzo sono silenzioso e mia moglie mi chiede se ho qualcosa, rispondo di no e faccio un
sorriso tirato e non so perché non le racconto tutto e non le dico come mi sento. Finito di mangiare
esco in balcone a fumare e poi mi sdraio sul divano a leggere un romanzo di Murakami, una vecchia
edizione Longanesi che mi ha prestato Ivano e che leggo con estrema cura perché è vecchia e quasi
le pagine si scollano sfogliandole ed anche io mi sento un po’ così, come un vecchio libro usurato
dalla passione per Elena e sento che le mie pagine si stanno scollando.
Mi appisolo su quelle pagine.
Mi sveglia mia moglie con una tazza di caffè fumante.
Ricordati di andare a prendere Ludovica all’asilo, dice.
Ludovica ha quattro anni. Gli stessi di Margherita che adesso non c’è più. Adesso Margherita sarà
rinchiusa per un tempo imprecisato dentro una piccola bara bianca e mi sento, di fronte a questa
immagine, pieno di angoscia e di nuovo penso che dovrei piangere, ma bevo il caffè e, di nuovo,
esco in balcone a fumare. Sul balcone sotto il mio i bambini che abitano nel piano inferiore stanno
giocando in mutande. Vederli mi fa sorridere, mia moglie esce per tornare in negozio.
Io mi faccio una doccia veloce e mi guardo allo specchio come se mi aspettassi di trovare qualcosa
di diverso che invece non c’è. Sono sempre io, l’immagine fedele di me, i soliti occhi, i soliti capelli
e la solita barba. Mi vesto ed esco in bicicletta.
Ludovica è nel giardino della scuola che gioca con i suoi amichetti, mi vede e mi corre incontro e
io la prendo in braccio ed annuso il profumo dei suoi capelli sudati, la bacio e le chiedo dove ha
lasciato il laccio per fare la coda, lei mi guarda con fare interrogativo, allarga le braccia, non lo sa,
io mi disinteresso della cosa che non è poi così importante, ci baciamo, salutiamo le maestre e lei
saluta i suoi amichetti, a domani, dice.
A domani, penso.
In bicicletta, mentre pedalo verso il parco giochi in cui trascorriamo spesso i pomeriggi nelle
giornate di bel tempo, mia figlia mi racconta che Pietro ha fatto il monello oggi, che l’ha graffiata e
che la tata l’ha messo in castigo, a riflettere, dice. Dice tutto questo ed io non ascolto davvero e la
bacio sulla testa ancora sudata, con quei capelli al vento, il loro profumo di certezze non colte a
pieno.
Lei vuole giocare nelle palline, io pago un quarto d’ora e mi siedo sull’asfalto fuori dalla struttura
e la guardo fermarsi sulla soglia, si volta, la saluto con la mano, lei mi viene incontro, mi abbraccia
facendosi largo attraverso le mie gambe incrociate, io tengo a distanza la sigaretta che mi sono
acceso e mi godo l’affetto di una figlia.
Papà, dice, ti sei dimenticato di togliermi le scarpe.
Ridiamo.
La mia è una risata triste.
La notte non riesco a dormire. Come se dovessi fare qualcosa, come se a tenermi sveglio fosse il
peso di quelle conclusioni che non sono riuscito a cogliere. Fisso il soffitto ascoltando il respiro
addormentato di mia moglie, mi alzo e cammino in silenzio e al buio nella camera di mia figlia,
accendo la lampada a forma di topolino, quella che fa la luce azzurra e che accendiamo quando lei
dice di aver paura del buio. Non sempre le viene ed io ancora non ho capito cosa succeda nei giorni
in cui chiede di lasciare la luce accesa perché non vuole rimanere al buio, penso a questo mentre mi
siedo sul tappeto a guardarla dormire. Dopo qualche minuto le accarezzo la testa e le do un bacio
delicato sulla fronte.
La mattina mi sento l’insonnia addosso e ancora il pensiero di Elena è qualcosa di vivo e pesante e
oleoso dentro di me, come quelle masse di petrolio galleggianti in mezzo al mare che si vedono sui
telegiornali, mi sento, insomma, come un uccello intrappolato in mezzo a tutto quel nero,
consapevole che lì sotto, oltre quella macchia scura e minacciosa, ci sia ancora il mare, l’azzurro e
l’infinito, ma sembra irraggiungibile, come quando dopo una settimana che piove ininterrottamente
ti dimentichi che oltre a quelle nuvole c’è comunque il sole.
Lascio che il mio turno di lavoro si concluda scivolandomi addosso e una volta a casa apro il
computer alla ricerca di notizie più approfondite. Leggo, per caso, in fondo ad un articolo,
dichiarazioni degli amici di Elena, degli abitanti del palazzo, del riserbo del marito che non ha
voluto rilasciare dichiarazioni, la data e il luogo del funerale.
Telefono al mio capo, e chiedo un permesso per il giorno dopo, mi chiede cosa è successo ed io
dico che non è successo niente. Spero, quasi, che il permesso non me lo conceda, non so spiegarmi
perché, ma alla fine dice di sì, forse perché sente la mia voce strana e pesante, atona, piatta e decisa.
Non lo so, non mi interessa.
Gioco con Ludovica il pomeriggio, come al solito ci fermiamo al parco, lei fa quattro giri sulla
giostra, io mi bevo una birra seduto su una panchina mentre la guardo girare aggrappata ad un
cavallo rosa, lo stringe come se fosse vero e si ricorda del codino da prendere soltanto all’ultimo,
quando la signora dietro al bancone lo lascia scendere così tanto da accarezzarle la guancia. Chissà
cosa pensa quando si estrania così, chissà se immagina di cavalcare davvero un cavallo a pelle,
senza la sella, in un prato infinito. Non lo so e non so nemmeno perché non glielo ho mai chiesto a
Ludovica. Perciò aspetto che scenda e, buttata la bottiglia vuota di birra nel cestino, me la carico
sulle spalle e le chiedo cosa pensa quando abbraccia quel cavallo rosa, e lei mi racconta che quando
era piccola aveva un cavallo ed uscivano di notte, di nascosto dal castello delle principesse per
cavalcare nei boschi e rincorrere le fate.
Avrei voglia di un’altra birra, ma guardo l’orologio ed è tardi.
A fare il bagnetto, dico.
E Ludovica ride ed io fingo di essere un cammello e dondoliamo così verso casa.
È una giornata magnifica.
Dovrebbe.
La sera Ludovica si addormenta presto, abbiamo mangiato pizza sul divano ed era tutta contenta,
la sua pizza preferita è ai wurstel e patatine fritte. Io ho bevuto una birra da mezzo litro e adesso,
dopo il caffè, mi sono versato la Sambuca in un bicchiere con del ghiaccio.
Mia moglie è sdraiata sul divano che legge una rivista, alza gli occhi quando apro il frigorifero,
addirittura?, chiede, cosa cazzo hai?, è arrabbiata. Lo capisco. Domani vado a Milano, dico. Che
cosa ci vai a fare a Milano? Devo sbrigare una faccenda. Una faccenda? Sì.
Esco in balcone e chiudo la conversazione accendendomi una sigaretta. Da lontano vedo due
ragazzi che camminano tenendosi per mano sul marciapiede.
Sul treno ripenso alla prima volta che ho visto Elena, non esattamente; penso più che altro alla
prima volta in cui le ho parlato. Era autunno ed era una bella giornata di sole, io avevo addosso, me
lo ricordo perfettamente e mi fa strano ricordare quello e non quello che, invece, indossava lei,
avevo addosso, dicevo, un maglione bordeaux fatto a mano da mia nonna ed una giacca di pelle
scamosciata uguale a quella che il mio cantante preferito indossava nel video della sua canzone più
famosa. Una cosa inguardabile, frange scendevano dalle tasche, da ogni cucitura e mi sentivo molto
bello. Stavo guardando la vetrina di un negozio, non so cosa avesse attirato la mia attenzione, ma
me ne stavo lì a fissare le cose dietro al vetro quando sento una voce roca quel tanto che basta da
riconoscerla al volo, una voce che mi fa:
- Credo sia giunta l’ora di offrirmi un caffè.
Io mi son girato e, nonostante io non ricordi come fosse vestita, mi ricordo perfettamente che era
bellissima, occhi marroni della stessa tinta dei capelli ed un’espressione sul viso intellegibile, la
stessa, che, ora non mi fa più sorridere come allora quando glielo dissi, potrebbe farla pensare in
grado di strapparti un braccio a mani nude senza che si senta, poi, minimamente in colpa.
Ci siamo seduti al tavolo di un bar, quello che sarebbe diventato poi il nostro bar. Io ho ordinato
un caffè, lei, credo, un succo di frutta. Abbiamo chiacchierato di non so cosa, ma abbiamo riso ed io
credo di aver imitato alla perfezione il professore di Linguistica Generale, una lezione che
seguivamo insieme.
In quella tarda mattinata e con quel caffè fuori orario lei mi ha dato il suo numero ed io ho
cominciato a tempestarla di messaggi, decantando i suoi pregi e riempiendola di complimenti,
mentre lei rimaneva sulle sue sottolineando come avesse un ragazzo nonostante le facessero
comunque piacere le mie attenzioni.
E poi mesi di silenzio. In cui i miei messaggi sono lettera morta. A lezione nemmeno incrocia il
mio sguardo e pare quasi sdegnata quando è costretta a dirmi un ciao. O minimizza le mie richieste,
le poche volte che riesco a parlarle da solo, rispetto a cosa sia successo. Niente, mi dice. Niente.
Cosa vuoi che sia successo?
È successo che io, piano piano, inizio a dimenticarmi di Elena. Fino ad un’estate che non riesco a
collocare. Un’estate di giovinezza passata a considerare la riviera romagnola un luogo di sentimenti
e perdizione. In questa estate eravamo in spiaggia alle undici del mattino a bere birra e cocktail
cercando ombra inesistente e fregandocene di un mare inguardabile. Lei aveva un costume a sfondo
azzurro con fiori bianchi, un bikini che a stento tratteneva quelle curve su cui tanto avevo
fantasticato, una vita stretta sotto un seno che l’amico al mio fianco non esitò a definire, allora,
enorme. Ciao, mi disse, e ciao le risposi senza degnare di uno sguardo l’amica che boccheggiava al
suo di fianco. Come stai?, chiese. Alla grande, risposi, sollevando baldanzoso la bottiglia di chissà
quale birra tenessi nella mano.
- Iniziate presto a festeggiare, eh.
Non era una domanda.
E io non sapevo come rispondere e tenevo gli occhi bassi, sentendomi uno stupido, un coglione al
suo cospetto.
- Venite alla festa al (nome di un locale che non riesco a ricordare)?
- Non lo so. Forse.
- Noi andiamo. Se vi va ci vediamo là stasera.
- Ok.
La festa era in un locale sperduto, gente non troppa, vestita meglio di me, ma per fortuna nessuno
mi fece storie prima di entrare. L’amico un ricordo ed io a ridere ad ogni parola di Elena. Ballai
musica inascoltabile. Fino al momento in cui lei mi disse che sarebbero tornate a casa. Io cerco
l’amico, non lo trovo, esco nel parcheggio, della macchina nessuna traccia, un messaggio sul
cellulare mi comunica che sono una merda e che lui si stava rompendo il cazzo, chiamati un taxi,
conclude. Cammino verso l’entrata del locale. Elena è lì, con le sue amiche. Prendiamo un taxi
insieme? Sarebbe una grande idea. Aspettiamo, fumiamo. Arriviamo in paese, il loro albergo,
scendiamo, ok, allora ciao, ci vediamo, ma no, dove vai?, è tardi, dormi qui, ci stai, dai tuoi amici ci
torni domani, ok, dai, grazie. La camera sono tre letti uniti in uno unico. Loro si preparano, io fumo,
non ricordo le conversazioni, probabile imbarazzo, mio soprattutto. Ci sdraiamo. Io ed Elena in
mezzo, le sue amiche ai lati. Respiri si fanno pesanti, il mio alito sa di alcol e sigarette, non credo
allora mi importasse. Sento lei, Elena, che si muove, la mano mi sfiora una gamba, io interpreto
come un segnale, sfioro la sua, nuda, con la mia, il suo sfiorarmi si trasforma in carezza, io salgo
con la mia mano sulla pancia, il suo tocco si fa più convinto, io salgo ancora, lei pure sale, io sono
ad accarezzarle il seno, anche lui nudo sotto la maglietta che usava come pigiama, lo stringo, lei mi
stringe l’erezione, io mi strofino, lei si strofina, con una mano sola mi slaccia bottoni, con l’altra
prende la mia mano e la fa scendere questa volta, giù, dentro ai pantaloncini, dentro le mutandine, la
trovo accogliente, io sono duro come non lo sono mai stato. Ci masturbiamo mentre ai lati nessuno
si prende la briga di essere sicuro non ci stiano sentendo.
La mattina le ragazze si alzano, escono, io e Elena, non so con che scusa, rimaniamo in camera.
Quella è stata la mia prima volta con lei.
Il treno sbuffa, frena, si ferma. Scendo, inebriato dall’odore di stazione. Mi è sempre piaciuto quel
profumo caldo, di ferro, di umanità frettolosa, sudore e chissà cos’altro. Ho una valigia piccola, mi
fermo per la notte, al tassista faccio vedere l’indirizzo dell’albergo. Arriviamo. La camera è piccola,
ma sembra pulita. Dopo una doccia veloce, mi vesto bene. Jeans scuri, una camicia azzurra ed una
giacca nera di lino, un regalo di mia moglie. Mi metto gli occhiali da sole. Al bar di fronte
all’albergo prendo un panino che mi sforzo di mangiare. Non ho fame, ma fa caldo e non so come
reagirò al funerale e mi dico che sarebbe il caso di andare a stomaco pieno. Bevo una spremuta, con
ghiaccio. Dopo il caffè pago ed esco. Mi accendo una sigaretta.
C’è un signore anziano seduto su una sedia di plastica dei gelati Sammontana che sembra stia
dormendo al sole come una lucertola, ha un cappello cachi, una polo verde e un paio di pantaloni
troppo corti. Finisco la sigaretta, con calma, in piedi. Torno dentro e chiedo al barista una mezza
d’acqua naturale e le indicazioni per raggiungere il cimitero in cui verrà seppellita Elena. Io non lo
so se sono sbagliato, ma mi sembra una bella cosa che Elena e Margherita vengano seppellite
vicine, insieme, ma al barista no, al barista pare una stronzata, lei doveva essere bruciata e le ceneri
buttate nelle fogne, quella puttana.
- Come si fa a fare una cosa del genere alla propria figlia? Eh? Come si fa?
Cerca appoggio. Io no, io avrei solamente un’incomprensibile voglia di saltare il bancone,
piombargli addosso e riempirlo di schiaffi, e calci e pugni e gomitate fino a quando non gli
rimarranno più denti in bocca, ma non lo faccio, mi trattengo. Rispondo che non lo so come si fa,
che è una cosa triste quella che è successa. Esco mentre il barista sta dicendo quella puttana, ancora,
per sottolineare il concetto. Il vecchio è sveglio, ha un toscano tra i denti.
- Cerchi il funerale?
- Sì.
- Per di là, sempre dritto, segui gli alberi. Non ti sbagli.
- Grazie.
- Era proprio bella la Elena.
- Sì, lo era.
Gli alberi sono cipressi, il sole è bello e se ne frega della tristezza e scalda queste strade desolate
come se proprio non gliene fregasse nulla. Io cammino, le mani in tasca, uccelli cantano nascosti, ad
un certo punto il paese finisce ed io mi ritrovo in questa pubblicità di una pasta per famiglie,
circondato da infiniti campi di grano che si perdono nell’orizzonte tremante di fronte a me. La
strada si fa salita, macchine iniziano a passarmi di fianco, guardo l’ora. Il funerale dovrebbe iniziare
a momenti, spero di arrivare in tempo.
La cerimonia è breve, c’è poca gente. Forse chi avrebbe voluto essere qui è stato sopraffatto dalla
vergogna, come se l’esserci avrebbe potuto infettarli con la follia del gesto commesso da Elena. Un
signore vestito elegante sorregge un ragazzo, giovane, come me. I nostri sguardi si incrociano per
un attimo. I miei occhi, per fortuna, al riparo dietro agli occhiali da sole. I suoi no, i suoi erano nudi.
I suoi sono occhi disperati. Gli occhi di chi ha perso tutto e ancora si chiede perché. Dietro quello
sguardo vuoto leggo l’ignoranza, il vuoto, il nulla e tutto quello che cerca di fagocitare con sé: la
sofferenza, il dolore, le spiegazioni, il dubbio, la consapevolezza, gli errori, l’amore, lo sguardo di
una figlia, la sorpresa, la passione, l’amore, il peso di una bimba di quattro anni lanciata nel cielo e
poi ripresa al volo, la sua risata, le sue lacrime, la sua gioia, i suoi capricci, le mani di una bimba
che non lo accarezzeranno più. Dietro quegli occhi vedo tutto questo e lo stomaco mi si stringe e il
panino mangiato inizia a sembrarmi una pessima idea, ho caldo, sudo, mi slaccio bottoni della
camicia. Le bare, una bianca, piccola, terribile, l’altra marrone scuro. Sudo, le ginocchia mi si fanno
deboli, la vista mi si appanna, un uomo in salopette di jeans, indifferente, lavora di spalle e argano
per collocare l’eternità di due morti atroci dietro un piccolo muro di mattoni e cemento, lavora di
cazzuola, il silenzio rende i suoi gesti definitivi, un riverbero dell’eternità, lì, ora, sigilla la piena
consapevolezza di quella famiglia privata di una figlia e di una moglie. La foto di Elena è
sorridente, il parroco c’è, ma non dice una parola, io non lo so come funziona, non so se sia proibito
dalla religione cattolica il funerale per una madre che ha ucciso la sua bambina, non lo so, ma non
mi interessa adesso.
Adesso quello che mi interessa è rimanere in piedi.
Perché Elena mi guarda da quella fotografia e mi guarda pure la sua bambina, gli occhi uguali, il
sorriso uguale. Continuo a sudare, il panino si conferma una pessima idea, mi sposto, mi trascino,
quasi striscio, le mani poggiate su fredde mura di mattoni, il cortile mi pare immenso, così come
immensa mi pare l’uscita di pietra, mi sembra di strisciare, tombe, Elena, Margherita, gli occhi di
quell’uomo. Un uomo finito.
Passo.
Dopo.
Passo.
Fuori.
Vomito.
Seduto su gradini guardo il panorama, indeciso se ho o meno le forze per sollevare la mia
sofferenza da lì. Nel dubbio mi accendo una sigaretta, i gomiti sulle ginocchia, il collo dolorante, la
testa, pesante. Davanti a me i cipressi. Dietro i cipressi un campo infinito di giallo che ti ricorda che
è estate. I costumi a sfondo blu con fiori bianchi, il sesso, il sudore.
- Salve.
L’uomo che credo essere il marito di Elena mi siede a fianco. La realtà è un pugno forte alle
tempie, la testa mi fa male.
- Salve.
- Non credo di conoscerla.
- No.
- No cosa?
- Non mi conosce.
- Io sono il marito.
- Immaginavo.
- Da cosa?
- Gli occhi.
-
Ah.
Sì.
Lei, invece è?
Roberto.
Ah, è lei?
Lei chi?
Prima di tutto le voglio dire che Elena è, cazzo… era una persona, diciamo… come cazzo fai a
raccontare ad uno sconosciuto che tua moglie è… era una pazza fottuta?
- …
- Ormai. Ormai l’ho detto, non è vero?
- …
- Sì, l’ho detto. Non sa come questo mi faccia stare meglio. Per quanto io possa stare meglio.
Ho perso una figlia, sì, insomma, cazzo, come farò mai a stare meglio? me lo riesce a spiegare
lei? Come potrò, per tutto il resto di questa cazzo di merdosa di vita, stare mai meglio? Come
potrò dimenticarmi anche solo per un paio di secondi al giorno che mia moglie ha ucciso mia
figlia? Un paio di secondi. Mi scorderò mai di quello che ho visto quando sono entrato in
casa? Di cosa ho visto quando ho aperto…
Piange. Il viso tra le mani.
Le mie dita vengono bruciate dalla sigaretta consumata fino al filtro. Non so quanto tempo passi
prima che l’uomo decida di pulirsi il viso con la manica della giacca gessata respirando a fondo,
ricacciando quel dolore nello stomaco, nell’intestino, più in fondo possibile.
- Ha una sigaretta?
- …
- Grazie. Mi fa accendere?
- …
- Mi scusi. Volevo farle una premessa prima di darle questo. Mi sono incartato. Quello che
volevo dirle è, ecco, sì, non si senta in colpa. Mi sembra giusto però che lo tenga lei questo. In
fondo è suo. Arrivederci.
Il biglietto, la lettera, è dentro ad una busta bianca, sopra c’è scritto il mio nome. È scritto a mano.
Una calligrafia risoluta, nessun tremore. Non piangeva Elena mentre la scriveva. Sorrido
riconoscendone, da reminescenze di appunti universitari, la scrittura.
Poi leggo.
E smetto di sorridere.
Come, credo, avrebbe fatto chiunque.