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Mary
Shinsaibashi si sveglia per affari, nel trambusto metallico
delle saracinesche tirate su, mentre setole di scopa grattano il
cemento. Nel via vai di gente in giro, alcuni impiegati leggono il menù sulle vetrine dei ristoranti e studenti fuori corso
ammazzano il tempo che manca al crepuscolo. Tra margini di
antenne e tabelloni, il tramonto ha le sfumature delle arance
sanguigne.
L’edificio in cui lavoro è nella squallida periferia del quartiere dei locali notturni. Il cuoco del ristorante delle anguille alla
griglia sotto di noi sta levandosi lo sporco dalle unghie con lo
stuzzicadenti, ciondolando sulla soglia. Ci salutiamo con un
cenno del capo all’apparire dell’insegna del Big Echo Karaoke
col ronzio delle sue palme fluorescenti.
Il Sayonara bar è vuoto; soltanto il sottofondo spettrale degli Spandau Ballet si diffonde sul palco e sulla pista da ballo
deserti. Ogni tavolo è collocato in una pozza di luce itterica,
e con gli abat-jour a nappe sospesi fin giù, il locale sembra
pronto per una seduta spiritica o psichiatrica.
Nello spogliatoio il pavimento è ingombro di scarpe, riviste
e fazzoletti sporchi di rossetto appallottolati. Alcune camicie
con le ascelle macchiate di deodorante sono appese all’attaccapanni del divisorio ammaccato. In mezzo a tutto questo, Elena scruta lo specchio deformante, picchiettandosi il correttore
sotto gli occhi. Ci scambiamo un sorriso e un saluto tramite
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Sayonara bar
il vetro. Le volto le spalle e comincio a svestirmi, lanciando la
t-shirt e i jeans sul cumulo di indumenti nell’angolo. Chiudo la
zip fasciandomi in un top di paillette dorate che mi ha prestato
Katya e una gonna nera al ginocchio. Elena si scosta in là per
farmi spazio allo specchio. «Niente male, questi lustrini» dice.
«Lo so. Dove altro potevo permettermelo, se non qui. Com’è andata la giornata?».
«Il solito: sveglia alle sette per far preparare Eiji e Tomo, poi
mi è toccato pulire dove tutti e due...».
Elena è minuta, esausta e tende a lamentarsi per noia esistenziale. È arrivata in Giappone con il certificato TEFL e un
contratto di quattro mesi per insegnare inglese. Oggi, sei anni
dopo, ha un marito giapponese, un figlio di cinque anni e un
vasto catalogo di angosce interculturali. Mi fa sentire ancora
inesperta, buona a nulla come il ciarpame. La osservo mentre,
tenendo tesa la palpebra, stende il kohl ben temperato lungo
le ciglia.
«Hai saputo della mia disavventura di ieri sera?» mi chiede.
«Sì. Che bestia insopportabile. Dovrebbero fargli mettere la
museruola o qualcosa del genere».
Ieri sera il tipo, un impiegato, ha smagliato i collant di Elena
e poi, infilandole una banconota da mille yen nel corpetto, le
ha detto di comprarsene un paio nuovo. Elena gli ha risposto
che le sue calze costano molto di più. Allora lui le ha strappato anche l’altra e ha cercato di infilarle ancora mille yen nel
vestito.
«Quando ho protestato, Mama-san mi ha detto che non ho
senso dell’umorismo».
«È proprio disgustosa».
«Lo so. A fine mese vado via».
«Dovresti farlo».
Lo vorrei davvero, ma sono già due anni che lavora qui e
scommetto che ci resterà ancora un bel pezzo dopo che sarò
andata via io.
Le trema la mano, e l’eyeliner ha un sobbalzo. «Merda. Mi
passi un fazzolettino?... Prima lascio questo posto, e poi divorzio da Tomo».
«Mmm…» borbotto, senza molta voglia di ascoltare i suoi
problemi matrimoniali.
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Mary
Guardiamo davanti le nostre immagini riflesse. Mi sfumo
un po’ di ombretto viola MAC Purple Haze. Elena si disegna
il contorno delle labbra di rosso lampone.
«Cos’hai combinato di bello, oggi?» mi chiede.
Mi sono svegliata a casa di Yuji che saranno state le due.
Abbiamo provato ad alzarci, ma ci sembrava di sprofondare
nel letto come nelle sabbie mobili. Così siamo rimasti lì, in
un groviglio di bocche e membra. Un pomeriggio intero a
rotolarci da un lato all’altro in fregola, con le tende chiuse e il
chiacchiericcio della televisione in sottofondo. Sono certa che
ci fosse qualcosa che contava prima di conoscerlo, ma Yuji ha
trovato il modo di farmi dimenticare cosa.
«Niente di particolare» rispondo.
Nello specchio, Elena si chiude un orecchino e sorride.
Le altre hostess arrivano mentre comincio ad avviare il
bar. Yukiko e io negoziamo uno scambio di turni per darle
la possibilità di andare a vedere la band del suo ragazzo che
suona al Metro venerdì prossimo. Mandi ci mostra, attorno
all’ombelico, il tatuaggio all’henné che si è fatta fare a Bangkok. Katya arriva in ritardo, con un cartoccio del take-away
stretto in mano, spingendosi tra le labbra una patatina fritta. Si
è raccolta i capelli sulla nuca in un foulard di seta, e il cappotto
di pelliccia sintetica le dondola sui polpacci troppo scarni. Appena mi vede si avvicina. Sorride sfiorandomi una tempia con
un bacio untuoso all’aroma di sigaretta al mentolo. «Ehi,» dice
«quel top è orribile. Meno male che me ne sono liberata».
«Grazie, Katya. Apprezzo la tua sincerità».
«Dove sei stasera?».
«Servizio bar. E tu?».
«Al box del karaoke. Mr Mani-Tremule lo ha prenotato per
il suo novantasettesimo compleanno. Vuoi far cambio?».
Declino l’offerta con un sorriso di disappunto. Mr ManiTremule ha il parkinson: Katya sa essere davvero crudele, a
volte. Strizza gli occhi e se ne va impettita nello spogliatoio,
azzannando un’altra patata fritta. Per il servizio bar lottiamo
con le unghie e coi denti, perché si passa tutta la serata a porgere bevande al banco e ci si limita a scampoli di conversazione pacata.
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