premio letterario “c`era una svolta”

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premio letterario “c`era una svolta”
LICEO STATALE “GIORDANO BRUNO”
Indirizzi: SCIENTIFICO - CLASSICO - LINGUISTICO - ARTISTICO
Viale Pontelungo, 83 – 17031 ALBENGA (SV) Tel. 0182 555601 – Fax 0182 544403
sito web: www.liceogbruno.it
PREMIO LETTERARIO
“C’ERA UNA SVOLTA”
ANNO 2012 – TRACCIA DI MICHELA MURGIA
“Sei sicuro che la strada sia questa?”.
“Oh cavolo, non sono mica stupido, e poi le hai sentite anche tu le indicazioni del tizio
dell’agenzia!”.
“Sì, ma il navigatore ci ha già fatto sbagliare due volte”.
“Vuoi guidare tu?”, risponde Fabio sempre più nervoso. Caterina guarda fuori dal finestrino e non
risponde. E’ preoccupata. D’inverno il tramonto rotola nell’oscurità ad una velocità sorprendente. La
faggeta sempre più profonda e piena di mistero alimenta la sua ansia. I tronchi fitti dei faggi si
innalzano da un tappeto di foglie arrugginite, fruscianti sotto le ruote. Non si vede il cielo, ma le
sfumature ramate del sole accendono di riflessi la natura autunnale. Da quant’è che stanno viaggiando su
quella strada sterrata? Un’eternità. Stuzzicante l’idea di comprare una casetta nel bosco, come quella
delle fiabe. Un posto dove scappare nei fine settimana, dove ritrovare una dimensione intima, lontano dal
traffico della riviera. E poi vicino, mezz’ora di auto, diceva l’annuncio. Sì, mezz’ora…. L’agente
immobiliare avrebbe potuto accompagnarli. Invece all’ultimo momento quella telefonata di un cliente
importante. Certo, uno che vuole comprare una villa da un milione di euro, in bacheca da mesi, non può
aspettare. E così loro due, poverini, costretti ad andare a visitare la casa da soli. Fabio ha sbagliato ad
acconsentire. ‘La troveremo, non si preoccupi!’. Sempre troppo disponibile. Passano su un ponticello.
“Guarda che meraviglia!”, fa lui fermando l’auto. In effetti la cascatella è bellissima, un nastro
candido che rimbalza sulle rocce, incorniciato di muschio e felci. Un posto da fate.
“Sembra il set del ‘Signore degli Anelli’. Quasi mi stupisco che non compaiano gli Elfi! E dai,
Caterina, sorridi. Se la casetta rispetta le fotografie, stiamo per fare un acquisto che ci farà felici!”.
Caterina guarda l’acqua. Al di sotto della breve cascata c’è un laghetto minuscolo: a farci il
bagno, due bracciate e saresti dall’altra parte, ma stranamente cupo, come se fosse molto profondo.
Gelido, di sicuro. Si alza vento ed il parabrezza viene colpito da un turbine di foglie secche. Tutto molto
bello e molto poetico, ma lei non riesce a cogliere la grazia del luogo. Al suo cuore arriva piuttosto un
senso d’oppressione crescente, come un cattivo presagio, come se quel bosco fosse pervaso da un
maleficio.
“Torniamo indietro”.
“Ma sei scema? Hai piantato un casino che volevi la casa in montagna ma che non fosse troppo in
montagna, isolata ma abbastanza vicina al paese. Ti ricordo che abbiamo oltrepassato il negozietto di
alimentari e la fermata della corriera circa venti minuti fa e sarebbero molti meno con un’andatura un
po’ più allegra della nostra! Cosa ti prende?”.
“Non lo so… Sta venendo sera e se la strada fosse ancora tanto lunga, quando saremo là non
riusciremo a vedere più niente. E poi non sono più tanto sicura di volere la casetta nel bosco. Mi sembra
così inquietante questo posto”. Fabio guida senza ribattere niente. Superata una dorsale, imprevista la
nebbia. Effettivamente il paesaggio sta assumendo un’aria un po’ spettrale. Apre il finestrino e
l’abitacolo si riempie di aria umida e fredda, piena di profumi: di terra, di muschio, di funghi.
“Senti, senti che pr….”, ma non finisce la frase. La radura è improvvisa. La nebbia, come per un
segnale misterioso, dirada. Ecco lì la casetta, graziosissima, di pietra e legno, con il tetto di lastre di
ardesia come quelle di una volta ed il poggiolo ornato di gerani; hanno ancora qualche fiore. Intorno un
prato, brullo ma falciato da poco.
Quando stanno per scendere, dentro si accende una luce. Ma prima che possano scambiarsi un
commento, due fari illuminano la scena: un grosso fuoristrada nero sopraggiunge e si ferma. Il motore si
spegne e la strada del ritorno diventa irraggiungibile.
VINCITRICE: NICOLE VOLTA
“SETTE 0712”
LICEO “GALILEI” ALESSANDRIA
Le porte cominciarono ad aprirsi e gli uomini di Baunei si riversarono in strada, indossando
freneticamente cappotti laceri e brandendo attrezzi, forconi, lasciando intravedere sotto la pioggia
battente il luccichio di qualche canna di fucile. Le voci rimbalzavano da una parte all’altra del paese;
qualcuno urlava la fine del mondo, ma i vecchi, i saggi li redarguivano: “E’ la guerra, la guerra!”.
Ma la guerra non aveva portato sin lì i fragori di un fronte o i boati delle bombe. Sorpresi, straniati,
ammutolirono tutti in attesa, lasciando che la pioggia martellasse sui loro volti cisposi. Immobili.
La montagna ora taceva. Non restavano che il rombo dei tuoni e il fragore dell’acqua. E, in lontananza, il
gorgoglio del mare che borbottava la sua risposta al cielo.
Natalino sbattè gli occhi nell’oscurità. La salita era greve e limacciosa, ma lui conosceva bene la strada
anche se era notte, anche se il temporale gettava un silenzio fatto di caos sulla macchia fatta di arbusti
e alberi a basso fusto. Un odore pregnante saliva alle sue narici: era odore di marcio, di quel rancido
proprio della terra quando è zuppa, che non è sgradevole, ma un po’ opprimente e satura gola e narici.
Per chi, come Natalino era nato in quelle campagne brulle ed esposte al giogo degli elementi, il sangue
era intriso di quella stessa terra; perciò non poteva fare paura. L’atteggiamento era piuttosto una stoica
rassegnazione. Così Natalino risaliva il pendio, facendo uso non solo delle mani, ma di tutto il corpo,
perché la salita era tanto impervia che la terra franava sotto le dita, si depositava sotto le unghie e
macchiava gli abiti, i calzoni.
“Vado a vedere cos’è successo”. Era così che aveva detto a Giuseppe e Francesco, senza tradire il
fremito che lo invadeva tutto. Il sacco di farina, aveva ripetuto più volte, il sacco di farina. Voi pensate
a quello.
Quando raggiunse il pianoro, il cielo bestemmiava ancora sopra di lui, soffocando la voce della terra che,
nelle notti serene, emetteva fruscii e sussurrava placida il suo linguaggio primordiale. Lì, sul pianoro,
Natalino vide una sagoma più buia e nera della notte intorno. Da questa, monumentale e selvaggia, si
levava un filo di fumo argenteo che si perdeva tra le gocce di pioggia.
Osservava ancora la figura, quando il lampo più grandioso di quella notte nera senza luna squarciò in due
il cielo e illuminò ciò che restava di un piccolo aereo, accartocciato su se stesso come un giocattolino
pestato da un gigante.
Natalino non fece in tempo ad assaporare appieno l’immagine contorta ed affascinante del velivolo che il
lampo si spense, seguito dal tuono. Che esplose.
Sordo, assordante, un boato che spaccò i timpani, che squarciò tutto, il cielo, la mente, il bosco.
Natalino cadde in ginocchio, portandosi le mani sulle orecchie, stringendosi con veemenza il capo tra le
dita sporche di fango e di terra. Quando il suono si spense, rimase lì, immobile, inerte.
Il messaggio del cielo alla terra, questa volta, fu un urlo belvino di rabbia e sofferenza, sofferenza e
rabbia. Fu la sorda ribellione a quelle macchine accartocciate che fluttuavano lassù, tra le nubi, con
tutto il loro carico di odio, di umanità.
Lentamente, Natalino allentò la stretta delle sue dita tra i capelli, respirando piano sul colletto fradicio
del cappotto. Poi, in un rinnovato silenzio, aprì gli occhi e si alzò. Sentiva in sottofondo un suono diverso
che non era la pioggia, ma qualcosa di sgradevole e rivoltante, che metteva addosso una certa
ripugnanza.
Sembrava il respiro affannoso di un animale braccato. Natalino, che non era buono a contar per numeri,
sapeva però che quel suono era un qualcosa di innaturale e corrotto. Si avvicinò circospetto alla fonte
del suono. Poco lontano dall’aereo accartocciato c’era un uomo agonizzante. Emetteva respiri lunghi che
terminavano in un fischio acuto, metallico. Lo studiò con attenzione. L’uomo indossava una divisa nemica e
calcava in testa un elmo. L’aereo accartocciato doveva essere stato uno di quei velivoli piccoli che
passano sulle città a seminare morte. E lui, uno di quegli assassini inconsapevoli che avevano portato via
con sè suoi amici sul fronte, Renatino che doveva prender moglie, suo cugino Mario e tutti gli altri.
A Natalino montò una rabbia cieca e assoluta. Sputò con veemenza sul corpo e si inginocchiò di fianco. Il
vento portò verso il cielo un messaggio via terra: infarcito di aghi di pino, diceva lacrime e sangue.
Cosa fare di un uomo ferito gravemente, forse agonizzante che ha ucciso altri uomini, magari amici e
conoscenti. Questo si stava chiedendo Natalino. Una discesa impervia sotto una pioggia scrosciante, con
un peso in spalla assai maggiore di un sacco di farina bagnato. Il rischio è quello di non farcela, di
soccombere insieme.
Natalino guardò ancora l’uomo ansimante: non era mai stato bravo con gli esami di coscienza.
Si passò una mano fra i capelli, dubbioso, e poi decise. Si avvicinò al soldato, caricandolo sulle ampie
spalle.
I tuoni erano ormai un gorgoglio lontano e il mare ruggiva i suoi perché. La discesa fu lunga e difficile,
pregna di domande e carica di un peso opprimente.
Il soldato morì non appena fu deposto su un lettino dell’ambulatorio, mentre Natalino attendeva fuori, su
una panchina di legno marcio, osservando il cielo. Le ultime gocce di pioggia caddero scintillando nella
pozzanghera ai suoi piedi.
Il cielo mormorò così alla terra il suo ultimo messaggio: debito ripagato, passo e chiudo.