Politiche e derive dell`etnopsichiatria – P. Coppo

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Politiche e derive dell`etnopsichiatria – P. Coppo
POLITICHE E DERIVE
DELL'ETNOPSICHIATRIA.
NOTE A MARGINE DI UNA
POLEMICA FRANCESE*
di Piero Coppo**
L
’Homme, prestigiosa rivista francese di antropologia, pubblica sul
numero 153 del Gennaio-Marzo 2000 un articolo di Didier Fassin,
medico e sociologo, Les politiques de l’ethnopsychiatrie. La psyché
africaine, des colonies britanniques aux banlieus françaises (pp. 231250) che è in sostanza un duro attacco al lavoro e al pensiero di Tobie
Nathan. Questo articolo fa seguito a un altro dello stesso Autore pubblicato su una più modesta rivista, Genèses. Sciences sociales et histoire, L’ethnopsychiatrie et ses réseaux. L’influence qui grandit (1999,
35, 146-171) dello stesso tenore. Nathan non è nuovo ad attacchi anche
violenti cui risponde a tono e volentieri, con la vivacità che gli è propria. Di questo mi pare valga la pena di approfittare per cercare di chiarire aspetti del pensiero e del lavoro di Tobie Nathan mai davvero
esplicitati e perciò formalmente ambigui, occasioni e pretesti per equivoci e interpretazioni di ogni tipo e parte.
Fassin dichiara subito l’obiettivo del suo lavoro: «Insomma, la questione posta è quella del significato politico di un dispositivo di interpretazione e trattamento dei disturbi mentali e delle devianze sociali che costituisce l’alterità come un orizzonte teorico e pratico insormontabile» (p.
233). Per svelare il significato politico dell’impresa nathaniana, Fassin la
mette in parallelo con l’expertise di J. C. Carothers in Kenya nel 1954, in
* Questo testo (in stampa sulla rivista I Fogli di ORISS, e-mail: [email protected])
tiene conto di scambi di opinione sul tema con gli altri redattori, e in particolare di una
fitta corrispondenza con Salvatore Inglese. Con la sua autorizzazione ne riporto, in note,
alcuni passi.
** Neuropsichiatra, Lari (PI).
«I
FOGLI DI ORISS»,
n. 13/14 2000, pp. 119-140
PIERO COPPO
occasione della rivolta dei Mau-Mau. Si tratta di un episodio poco conosciuto e vale qui la pena di riassumere la ricostruzione che ne fa Fassin.
Nel 1954 il Governo britannico nomina un commissario speciale
per fornire alle autorità coloniali, alle prese col movimento Mau-Mau, i
mezzi per comprenderne i fondamenti e gestirne le conseguenze politiche. Questo commissario fu J.C. Carothers, medico, già direttore
dell’Ospedale Psichiatrico di Mathari a Nairobi, figura preminente
negli anni ‘40 dell’etnopsichiatria coloniale, autore di una monografia
pubblicata nel 1953 dall’OMS (The African Mind in Health and
Disease. A Study in Ethnopsychiatry, WHO, Ginevra). Nel suo rapporto (The Psychology of Mau-Mau) Carothers, riferisce Fassin, «fa di
questo movimento sociopolitico un fenomeno psicopatologico determinato sia dai tratti della personalità dei Kikuyu, strettamente connessi
alla loro cultura, sia dagli sconvolgimenti psichici collettivi prodotti
dall’incontro con la società europea» (p. 234). Carothers definisce i
Kikuyu individualisti, astuti, litigiosi, insicuri, sospettosi verso i vicini
e gli esseri invisibili, predisposti al segreto e alla violenza, facilmente
attirati dai rituali iniziatici, parte essenziale della loro organizzazione
segreta. Frustrati dalle speranze deluse di poter diventare come i britannici, avrebbero sviluppato contro di loro risentimento e rancore. Tutto
ciò spiegherebbe la loro “sleale” rivolta. La loro doppiezza criminale
non sarebbe per lo psichiatra che l’espressione dei tratti di dissociazione della personalità così marcati tra gli Africani.
Nel suo rapporto, Carothers non cita mai l’ideologia nazionalista del
movimento Mau-Mau, né la rivendicazione delle terre espropriate, né
le origini, la formazione, le ragioni politiche dei leader del movimento
(universitari, militari, capi sindacali) ben lontani dalla “psicologia primitiva” invocata a spiegare la ribellione. Carothers propone infine
misure atte alla reintegrazione sociale dei Kikuyu: si tratta di raggrupparli in unità di taglia modesta, lontano dalle città e dai loro effetti
destrutturanti, dove possano ritrovare la loro vita ancestrale.
Col rapporto di Carothers, «...il dibattito è ormai portato sul terreno
politico e l’etnopsichiatria diventa uno strumento ufficiale dell’amministrazione delle popolazioni colonizzate. Come nota lo storico australiano Jack McCulloch: “Con la monografia di Carothers, la scienza
etnopsichiatrica entra formalmente nel campo della azione politica. The
Psychology of Mau-Mau dimostrò fino a che punto l’etnopsichiatria
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faceva il gioco dell’elaborazione e della razionalizzazione delle credenze convenzionali dei coloni sugli africani”. Insomma, la nuova disciplina pretendeva fondare come teoria i pregiudizi sui popoli colonizzati e
legittimare nello stesso tempo, in nome del sapere scientifico, le pratiche della colonizzazione» (p. 235).
Fassin mette in parallelo quella storia con quella del Centre
Devereux e di Tobie Nathan, ben conosciute dai lettori di questa rivista,
di cui sottolinea innanzitutto il successo: l’influence qui grandit. Delle
seicento visite-perizie all’anno, richieste dalle varie istituzioni preposte
alla tutela materno-infantile, all’aiuto sociale all’infanzia e all’adolescenza, alla giustizia, alla sanità, il 96% riguardano immigrati.
Riferendosi poi in particolare al libro L’influence qui guérit, che ritiene
un vero e proprio “programma di gestione dell’immigrazione”, sottolinea tutti i passi in cui Nathan accenna all’importanza dell’appartenenza
culturale, fino a quello, ormai celebre, in cui raccomanda alle istituzioni francesi di «favorire i ghetti per non costringere mai una famiglia a
abbandonare il suo sistema culturale». Dunque, conclude Fassin, il successo crescente di T. Nathan presso le istituzioni repubblicane dimostra
che la sua pretesa marginalizzazione, la sua posizione di ribelle rispetto
alla République sono fittizie e invece nascondono una sostanziale convergenza di interessi: chiudere gli immigrati nelle loro culture di origine e quindi mantenerli fuori dalla società francese, opporsi alla loro
integrazione e a ogni meticciato. Proprio come Carothers aveva fatto
gli interessi della colonizzazione, occultando i motivi socio-politici
della rivolta e coprendoli con elementi psicologici e culturali, così
Nathan occulta il conflitto socio-economico che sta alla base del disagio dei migranti rivestendolo da problema culturale e psicologico. Così
come Carothers proponeva come soluzione la “villaggizzazione” dei
Kikuyu in unità piccole, isolate, lontane dalla città e dalla modernizzazione, Nathan risponderebbe ai disagi dei migranti chiudendoli con i
loro oggetti nei villaggi di origine, territorializzandoli, offrendo così il
razionale psicologico alle politiche razziste e xenofobe. Proprio questa
convergenza di interessi tra istituzioni repubblicane e opera nathaniana
ne spiegherebbe il successo che fatti e cifre svelano, contraddicendo la
protestata marginalità cui Nathan sarebbe condannato.
Per Fassin, ciò che a 50 anni di distanza avvicinerebbe Carothers a
Nathan è l’utilizzare un’esperienza clinica per erigere un modello di
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governo: Carothers con la sua “villaggizzazione”, Nathan con la ghettizzazione degli immigrati, la loro obbligatoria chiusura dentro il loro
mondo culturale originario. La differenza sta solo nella forma: Carothers
è totalmente coeso all’amministrazione coloniale e alla sua ideologia;
mentre Nathan si presenta come un contestatore dell’ordine stabilito, un
marginale; ma questa “retorica” non può nascondere la sostanziale connivenza con i poteri politici, non dissimile da quella di Carothers. Il suo
discorso, presentato come discorso di guerra, ha invece l’obiettivo di preservare “la pace sociale” (p. 240). Ulteriore analogia tra i due, la sostanziale ignoranza etnologica mascherata da profonda conoscenza dell’altro,
che è invece conoscenza non della sua specifica realtà, ma dell’altro
come stereotipo. Infine, la sovradeterminazione culturale finisce per
occultare la realtà dei rapporti economico-sociali. Culturalizzazione e
psicopatologizzazione, vizi connaturati secondo Fassin all’etnopsichiatria, nascondono i processi e i conflitti sociali, rendendo per questo
l’etnopsichiatria connivente con l’organizzazione dell’esistente, e implicandola come complice nella gestione pratica dei conflitti sociali.
Questi e forse altri interessi e connivenze nascoste spiegherebbero
la rete di collaborazioni su cui il Centre Devereux può contare, che ne
fanno, per le istituzioni repubblicane, il luogo privilegiato di expertise
sui problemi dei migranti. Tra detto e non detto, Fassin attribuisce a
Nathan un’appartenenza di destra, razzista e xenofoba.
Non mi interessa entrare nel merito di quali considerazioni abbiano
spinto Fassin, di cui conosco l’interessante e preciso lavoro sui sistemi
di cura a Pikine, periferia di Dakar1 , a impegnarsi su un simile terreno
e prendere, per iscritto, simili posizioni2 . Mi pare invece interessante
riflettere sugli impliciti politici dell’etnopsichiatria da un punto di vista
1
Fassin D. 1992 Pouvoir et maladie en Afrique, Parigi, PUF, prefazione di A.
Zempléni.
2
Per una simile analisi sarebbe evidentemente sviante considerare Fassin e Nathan
come monadi intellettuali, semplici individui. È inevitabile vederli come rappresentanti
di gruppi impegnati in un conflitto politico attraverso i portaparola delle discipline che li
rappresentano. Ciò che d'altronde Fassin sa bene, citando in apertura del suo libro M.
Foucault: “... non c'è relazione di potere senza costituzione relativa di un campo di sapere, né sapere che non presupponga e costituisca al tempo stesso delle relazioni di potere”. Fassin poi si interroga, suscitando illazioni e sospetti, sulla natura del gruppo di cui
Nathan è il rappresentante, ma non dichiara i connotati del gruppo che lui stesso rappresenta, e che tuttavia non può non conoscere perfettamente.
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più avanzato rispetto a quello, ancora prigioniero della politica spettacolare, che oppone “destra” a “sinistra”3 e che lega la constatazione
delle specificità biologiche e culturali all’uso fattone dal dominio nel
tentativo di giustificarsi (razzismo, ma anche “guerre etniche”, ecc.),
senza tener conto che oggi il dominio usa, con gli stessi obiettivi,
l’ideologia universalista4. Infine, credo sia importante, per chi lavori
nei «luoghi e lingue di confine tra antropologia, psicologia, medicina e
psichiatria», cogliere questa occasione per un’ulteriore riflessione sulle
ripercussioni di tutto ciò nell’ambito delle relazioni tra diverse discipline e dello statuto dell’etnopsichiatria.
DESTRA, SINISTRA E ALTRI BALLI IN MASCHERA
Per situare la questione bisogna innanzitutto domandarsi quali siano
le forze oggi in campo, e quali gli schieramenti. Lo schema più semplice è quello di una globalizzazione in corso, mondializzazione o occidentalizzazione, guidata dall’egemonia culturale, economica, finanziaria e militare dell’Occidente5 e in particolare del suo polo nordamericano, che tende a imporre al resto del mondo (in modo da renderlo compatibile col proprio funzionamento) il suo proprio specifico modello di
organizzazione produttiva e sociale. Le principali armi di questa colonizzazione sono l’economia e la politica finanziaria, cui si aggiunge, in
caso di crisi, la forza militare. Le principali agenzie esecutrici sono la
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione
3
Gli stessi uomini di governo, in questo, sembrano essere più lucidi di certi sociologi e intellettuali. Quando il Segretario del Ministro alla Difesa italiano (Governo di centro-sinistra) afferma pubblicamente la sua affiliazione alla destra storica, può rispondere
al giornalista che gli chiede se non c'è incoerenza nelle sue posizioni affermando di no,
dato che l'attuale governo di centro-sinistra è in realtà un governo di destra. Subito dopo
è costretto alle dimissioni perché ci sono cose che non si possono dire, anche se sono in
molti a pensarle.
4
Si vedano, a questo proposito, Sironi F. 1999 L'universalità è una tortura?, I Fogli
di ORISS, 11/12, pp.153-170, e Porete M. - Loguen J.W. 1999 Del dominio umanitario
e della civile barbarie, Ed. Colibrì, Milano, in particolare Cap. 2 “Continuità e metamorfosi del dominio”, 18-30 e Cap. 5 “Teologia dei Diritti”, 48-56.
5
Si veda, per una definizione dell'“Occidente” deterritorializzato, Latouche S. 1992
L'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino.
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del libero commercio, per l’imposizione del modello economico e
sociale; le agenzie che producono informazione e spettacoli e diffondono oggetti e idoli (merci), per l’imposizione del modello culturale; la
NATO, per gli interventi armati. Quest’ultima dovrebbe agire sotto
mandato ONU, ma interviene sempre più su pressioni statunitensi6
senza tuttavia incontrare alcuna decisa opposizione dalle Nazioni
Unite, le cui agenzie (UNICEF, OMS, OIM, PNUD, ecc.) sembrano
svolgere dunque, volenti o nolenti, funzione di copertura o giustificazione all’estensione dell’occidentalizzazione e alle relative operazioni
militari. Anche se su questo stesso terreno gli USA sono continuamente sfidati da altri poli emergenti, e anche se la loro egemonia suscita
reazioni e coalizioni avverse, fino ad oggi sono sempre risultati vincitori nelle lotte interne allo schieramento dominante, tanto che a ragione
il Presidente Clinton ha potuto affermare recentemente, nel Discorso
dell’Unione: non siamo mai stati così forti.
Si tratta dunque di capire quali siano gli assi portanti di questa tendenza, quali resistenze esse suscitino, quali siano le eventuali alternative in gioco, quali i movimenti, se ne esistono, di opposizione per collocare sensatamente la posizione di un singolo, un gruppo, una disciplina, in un contesto “politico”.
Molte centinaia di pagine sono state scritte su questo tema, ed è
impossibile qui anche solo tentare una sintesi delle caratteristiche del
modello egemone. Mi limiterò a dire che, di volta in volta, è stato chiamato capitalismo spettacolare integrato (perché sfrutta lo spettacolo in
quanto strumento di dominio e perché ha sussunto il capitalismo di
stato orientale e quello privato occidentale in un modello misto), dominio reale del capitale (perché l’economia governa direttamente l’intero
esistente), società postmoderna, modello liberista o neo-liberista, ecc.
Per ciò che interessa in questo contesto sottolineo solo che si tratta
di un modello di organizzazione dell’esistente che si basa su una ege6
“...secondo la mia opinione, gran parte delle ragioni che hanno spinto alla guerra
contro la Jugoslavia sono connesse con l'intenzione degli Stati Uniti di dominare la
NATO [...] La NATO funziona come una sorta di mafia: c'è un grosso boss al vertice e
i più piccoli stanno sotto, e questi s'intende che facciano ciò che dice il boss. In alto ci
sono gli Stati Uniti, e la NATO deve fare ciò che essi dicono.” (Chomsky N. 1999
Sovranità, diritti umani, imperialismo e globalizzazione a partire dalle vicende del
Kosovo, testo dell'intervento del 28.10.99 alla Limonaia di Pisa, “Guerre&Pace”,
Milano.)
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monia decentralizzata, diffusa, in cui tuttavia restano visibili i centri di
potere; che diffonde un tipo specifico di relazione tra umani e tra
umani e ambiente; che si giustifica con un apparato ideologico che fa
del progresso, della libertà e della democrazia valori portanti, senza tuttavia mai interrogarsi su cosa questi termini significhino oggi davvero
nei diversi contesti7; che si poggia sulla tecnica e sulla “scienza” come
valori assoluti di riferimento; che fa delle merci i veri soggetti8; che
oppone in modo secco civiltà e barbarie, progresso e stagnazione/recessione, società tecniche e società arretrate senza aprire nessun distinguo,
7
Lo svuotamento progressivo del termine “democrazia” si può cogliere, oltre che
dalle vicende di questi anni, anche dell'uso che del termine fanno le popolazioni che vi
sono state recentemente portate. In Mali, per esempio, nel linguaggio comune il termine
è spesso usato, come in Italia quello di “anarchia”, per indicare disordine, confusione,
perdita di senso collettivo, trionfo degli interessi particolari.
8
“Il regime della produzione industriale via capitalistica si è rappresentato come
forza di dominio sulla natura e sugli uomini. L'espianto geoculturale delle masse rurali
e la loro servitù salariata al mondo della produzione e del consumo ha rappresentato
l'equivalente di una guerra che ha distrutto un mondo per costruirne un altro su cui
estendere le regole della pacificazione sociale. In questa guerra permanente, i tecnici segnatamente i salariati della salute - sono stati mobilitati in forze per riparare e nuovamente umanizzare la massa malthusiana previamente ridotta al rango di un fattore
vivente (Marx, lavoro vivo) della produzione, opposto alle funzioni morte (lavoro
morto) - energia, macchine, materie prime e merci - della produzione stessa.
L'elemento non calcolato dalla critica sociale, latamente marxiana, ma immediatamente
riconosciuto da Debord e dalla critica situazionista - proprio perché minoranza intelligente di questa rivoluzionaria metamorfosi - è stato che il lavoro morto e i suoi prodotti
potessero avere infine l'autonomia di sostituirsi alle funzioni viventi umane per affermare una nuova soggettività pervasiva umanizzata - ovvero un simulacro della vita
materializzato nei prodotti serializzati e virtuali dell'immaginario. A questo punto i
prodotti, l'oggettualità reificata, sono diventati i nuovi soggetti della modernità presentando un proprio autonomo ciclo di vita e di morte. Sono gli oggetti che portano iscritti
nella loro matrice costitutiva i tempi e i modi della loro obsolescenza, sono essi che
presentano un orologio biologico in grado di scandire il desiderio e la necessità di una
loro infinita trasformazione attraverso una dinamica evolutiva propriamente detta - le
nuove forme sostituiscono quelle anteriori e si adattano all'ambiente, in primo luogo
dettando i tempi e le modalità della sua trasformazione.
Questa dinamica produttiva è il modello prototipico su cui si riprodurrà la realtà delle
guerre attuali giunte ormai al punto di non ritorno oltre il quale non possono più esistere guerre di combattimento (guerreggiate) ma solo di annientamento asintotico (pulizie
etniche, bombe intelligenti, parossismi della scarica bellica alternati a momenti di pacificazione apparente e temporanea) da parte di una forza preponderante ormai trasfigurata nella potenza incontrollabile dell'elemento naturale (terremoto, epidemia, eruzione,
etc.)” (Inglese S., inedito)
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sfumatura o alternativa, così che o si sposa quel modello, o si cade tra i
fautori del negativo assoluto e della barbarie9.
Tra le forme di resistenza la più celebre e compiuta è stata quella
zapatista in Messico; ma anche, recentemente, il boicottaggio della conferenza del libero commercio a Seattle; l’insurrezione contro la “dollarizzazione” in Ecuador; il lavoro quotidiano di tanti nei meandri della
società civile informale, il coraggio di pochi intellettuali che hanno saputo, e potuto, prendere pubblicamente la parola nei passaggi critici recenti.
Tra le opposizioni speculari, veri e propri riflessi condizionati, il
coagularsi di gruppi che si rifanno alla Tradizione, al Passato, alle
Etnie e alle chiusure difensive che per tanto tempo hanno caratterizzato
le società del bisogno, dello sfruttamento e del dominio.
Questo mi pare lo scenario, lo sfondo. Dove sta qui la destra e la
sinistra? La predicazione progressista dei miracoli del progresso, della
crescita economica, del mercato e del profitto come motori principali e
indispensabili dell’attività umana, la complicità in interventi quali
quello NATO in Kossovo (presentato come necessario all’installazione
dei Diritti Umani, e quindi come opera di civilizzazione10), sono di
destra o di sinistra? I governi socialdemocratici e socialisti di Europa si
sono messi all’opera di buona lena sapendo di dover essere buoni allievi, se non vogliono essere disarcionati, nel giro di qualche settimana,
dalle borse e dalle valutazioni delle agenzie finanziarie del mondo. Tra
conservatori e progressisti le differenze sono negli stili, nel ritmo e nel
tono, nel packaging delle misure sociali imposte dall’economia: non
nel senso del processo che li arruola e per cui lavorano. Non si tratta, in
fondo, che di differenze morali, di coscienze felici o infelici.
La questione, se si vuole collocare una persona o una posizione nella
mappa dei rapporti di forza esistenti, e quindi nella “politica”, va posta
9
Si veda, a proposito della funzione deterrente della barbarie, Semprun J. 1999
L'abisso si ripopola, Colibrì Ed., Milano.
10
A questo proposito, continua a stupirmi che persone intelligenti e colte affermino
di credere davvero che si sia trattato di un intervento di civiltà contro l'insorgere della
barbarie, sub specie di guerre etniche. Se questo fosse stato davvero il male contro cui si
sono mosse le armate occidentali, sarebbe ancor più terrorizzante la cecità e stupidità
degli esecutori, che hanno messo in opera un rimedio peggiore del male. È in fondo più
rassicurante pensare che si sia trattato di “normale amministrazione” delle emergenze, e
cioè di un episodio di guerra interna allo schieramento dominante (tra USA e Europa) e
nei confronti di poli di forza emergenti (Russia e Cina).
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altrimenti. Rispetto al modello egemone, che riassume in sé (come tante
esperienze di governo mostrano) le tradizioni delle destre e delle sinistre
storiche, come si colloca il lavoro, il progetto di ognuno? E anche: fino
a che punto si è legati, asserviti, per la posizione che si occupa, ricattati,
per il vantaggio che se ne vuole trarre, dal modello egemone?
Già il modo con cui si pone la questione può essere indicatore della
posizione di chi la pone. Se si sta all’opposizione, e ci si pone questa
domanda, è quasi tra sé e sé, per capire cosa è possibile mettere in
comune con l’altro. Denuncie pubbliche quale quella di Fassin, risultato evidente di inchieste e dossiers aperti e compilati, dichiarano
d’acchito la posizione del denunciante. Prendendo la parola in questo
modo su una rivista come L’Homme, Fassin ha già preso partito: e, tra
le varie bandiere che il fronte dominante esibisce, ha scelto quella della
scienza umanitaria, dell’umanitarismo egualitario, della scienza umana
“esatta” che osserva, nomina e classifica11 con cura, per poi passare,
magari, il dossier all’ufficio accanto. È un’operazione di denuncia tesa
a rafforzare la mainstream culture, indifferentemente se in versione
socialisteggiante e umanitaria o liberal-conservatrice.
Da una posizione di minoranza, o di opposizione, su questi temi ci
si muoverebbe in tutt’altro modo.
ERRORI E DISABILITAZIONI
Da tempo ho scelto di adottare, di “etnopsichiatria”, il significato
letterale: «.... la disciplina che pratica (e studia) l’arte del prendersi
cura della “psiche” in territori e gruppi umani definiti»12, accogliendone pienamente la radice ethnòs nel suo significato di razza, tribù, stirpe,
famiglia, ma anche provincia, territorio: indica la dimensione locale,
particolare, di una parte rispetto al tutto. È quindi la psichiatria
dell’“altro” solo in quanto istituisce un “noi” connesso a una storia, un
ambiente, una cultura specifica. Da una posizione etnopsichiatrica che
mi pare metodologicamente corretta, ho sempre sostenuto la necessità
di considerare la Psichiatria come una delle etnopsichiatrie, uno dei
11
12
Sottotitolo del numero de L'Homme in questione.
Coppo P. 1996, Etnopsichiatria, Il Saggiatore, Milano, p.9.
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sistemi di cura del “soffio vitale” (psuché) esistenti, culturalmente specifico, sia diacronicamente (rispetto alla sua posizione nel tempo, nella
storia) che sincronicamente (per la sua posizione nello spazio territoriale, geografico)13. Considero dunque l’etnopsichiatria una disciplina
legittimata a occuparsi della “follia degli altri” solo se costituisce
immediatamente un “noi” altro per altri. È questa la condizione minima
perché ci sia “etnopsichiatria critica”, e cioé etnopsichiatria post-coloniale e post-neo-coloniale, che guadagna progressivamente il necessario sguardo tendenzialmente meta-culturale, in grado di leggere i vari
sistemi come specifici, sottoponendo al massimo della tensione possibile le griglie e i modelli interpretativi e operativi provvisoriamente
adottati da ciascuno di essi. È proprio in questo movimento che, a mio
parere, l’etnopsichiatria produce i suoi frutti migliori, chiamando per
necessità al lavoro multidisciplinare e multiculturale. Non mi pare questa una posizione che l’etnopsichiatria possa scegliere, ma mi sembra
sia quella obbligata dal processo e dagli avvenimenti in corso. Questa
posizione genera ovvie resistenze e reazioni demolitrici dato che intacca la pretesa “naturalità” (per Scienza, per investitura divina che ne
autorizza le pretese di egemonia) della mainstream culture.
Nel testo di Fassin alcune pagine sono dedicate alla “doppia aporia
dell’etnopsichiatria”. Partendo dalla constatazione delle approssimazioni o addirittura degli errori linguistici, etnografici, antropologici di
Carothers e Nathan (cui aggiunge gli errori di Octave Mannoni), Fassin
sottolinea come questa etnopsichiatria «...pur riferendosi a un pensiero
del particolare contro il pensiero dell’universale, mette all’opera tecniche e significati che si accontentano di un disconoscimento dell’Altro e
che si mostrano, insomma, indifferenti alla differenza» (p. 243). Per
Fassin la ragione di questo non interesse allo studio puntiglioso
dell’Altro in quanto altro sta «....in una doppia operazione di culturalizzazione e psicopatologizzazione che si effettua fuori dal mondo sociale
in cui gli atti assumono senso per i soggetti e che non ha dunque bisogno di nessuna prova di validazione a posteriori poiché è fondata a
priori» (p. 243). La culturalizzazione porterebbe a interpretare i problemi in funzione di una griglia culturale indipendente dalle realtà sociali;
13
Coppo P. 1997, Western Psychiatry as Ethnopsychiatry, Transcultural Psychiatry,
34, 1, 53-57.
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la psicopatologizzazione a leggere le sofferenze e i comportamenti
sociali in chiave psicologica o psicopatologica. Questo doppio vizio
non minerebbe però solo il lavoro degli Autori citati, ma l’intero
impianto etnopsichiatrico. Si tratterebbe proprio di un «...metodo consustanziale all’impresa etnopsichiatrica: l’articolazione dello psichico e
del culturale passa attraverso una doppia riduzione a una cultura essenzializzata e a un sociale patologizzato» (p. 246).
Per Fassin il culturalismo comporta, occultandolo, il fantasma della
razza travestito da Cultura; mentre la psicopatologizzazione (o psicologizzazione) produce l’escamotage del politico nell’elaborazione delle spiegazioni dei fenomeni esistenziali e sociali. Carothers e Nathan quindi parlerebbero entrambe dell’Altro da una posizione minata dall’ideologia (culturalismo) o da un occultamento (della dimensione politica). Di conseguenza non vedrebbero, prima di tutto, la posizione che loro stessi occupano. «Ciechi l’uno e l’altro a ciò che il loro statuto può dire delle loro
visioni, muti entrambi sui benefici sociali che possono trarre dall’analisi
tanto politicamente conformista che producono, parlano dell’Altro da
sapienti al di sopra di qualsiasi soggettività politica» (p. 248).
Pur potendo capire le esigenze di correttezza etnografica e sociologica espresse dal medico socio-antropologo (e la morale politically correct che ne fa da sfondo), e perfino la richiesta di considerazione per il
ruolo e la categoria professionale che esse sottendono, mi sembrano
davvero argomentazioni e generalizzazioni troppo grossolane per chiedere per questo la disabilitazione dell’intera disciplina. Sembra, quello
di Fassin, un affondo corto e inefficace, destinato a colpire l’ombra di
una disciplina che è già altrove, continuamente rigenerantesi al suo
interno sotto la spinta della domanda con cui è costretta a misurarsi: la
conflittualità e l’antagonismo rappresentati dall’emergenza dell’alterità
culturale che si dà come soggettività vivente. Anche se spesso è usata e
prescritta come disciplina in grado di ridurre l’ansietà che l’incontro
con l’altro, e il conflitto che genera, scatenano sempre, l’etnopsichiatria
conserva inevitabilmente, se il metodo è corretto, il suo potere provocatorio. Questiona infatti saperi e pratiche “naturalizzati”, le relazioni
di potere che li sottendono, le ideologie e le visioni del mondo occultate nella presunta neutralità degli apparati tecnici. Disciplina dunque per
sua natura critica, destinata a provocare incessanti revisioni epistemologiche, che considera la cultura come l’ambiente indispensabile
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all’ominazione senza farne il “cuore della teoria” e che è inevitabilmente, e immediatamente, politica14. Per questo è oggetto di periodici
attacchi e di tentativi di delegittimazione e riduzione15.
IL CASO DI TOBIE NATHAN E DEL CENTRE DEVEREUX
Anche se qualche volta Nathan tende ad identificarla col suo pensiero e la sua opera, l’etnopsichiatria non è Tobie Nathan e il Centre
Devereux. Anzi, essi sono un caso particolare e estremo, per certi versi
purtroppo non riproducibile, nel multiforme universo dell’etnopsichiatria. Non ha senso quindi cercare di capire gli impliciti politici dell’etnopsichiatria tout court: dentro il contenitore si trovano le esperienze più
disparate, provenienti dai più diversi contesti, con i più diversi obiettivi.
Vediamo dunque alcuni impliciti connessi al pensiero e all’opera
nathaniana (il Centre Devereux ne è, in certo modo e non del tutto, la
traduzione pratica, modellata anche dagli obblighi istituzionali), che ci
aiutino a collocarli in una mappa politica sensata.
Tra individuo e comunità, Nathan sceglie la comunità, nel senso che
non considera gli individui come entità isolate e chiuse, ma come rappresentanti di gruppi. Questi gruppi possono essere visibili o invisibili,
14
Si veda il numero (7/8, 1997) di questa rivista dedicato al Disagio della globalizzazione, e in particolare l'articolo di Bibeau G. 1997 Psichiatria culturale in un mondo
in via di creolizzazione, I Fogli di ORISS, 7/8, 21-63.
15
“L'apertura di credito che il pensiero dominante dà all'etnopsichiatria è inevitabilmente a tempo e obbliga alla resa di interessi usurari: se essa accetta le limitazioni del suo
mandato allora potrà ricevere onore e successo, se invece si avventura nell'alchimia generativa di un mondo nuovo, in cui si discutono criticamente i fondamentali della vita
moderna associata, allora essa diventerà il discorso contro cui finalmente scatenare i pensieri e le pratiche aggressive legittimate (processo e inquisizione contro i "cattivi maestri").
Credo che la sostanza della persecuzione montante contro certi aspetti del pensiero e
della pratica di Tobie Nathan stia tutta qui. Non ci troviamo nel campo di un confronto
scientifico tra idee, ricerche, tecniche, ma nella pianura aperta in cui si scontrano per
l'ennesima volta modelli ideali di mondo. [...] Nella ricezione culturale delle ricerche di
de Martino e di Devereux si è presentato lo stesso tipo di polemica. L'effetto temporaneo che si è prodotto a carico dell'uno e dell'altro è stato: una prima abiura del mondo
magico come realtà storica alternativa al mondo della ratio tecnico-scientifica, da parte
di de Martino, un evitamento sistematico dello scontro radicale da parte di Devereux
condotto fino ai limiti del travestimento imitativo e della censura opportunista delle tecniche sciamaniche (sciamano come soggetto malato)” (Inglese S., inedito).
130
POLITICHE E DERIVE DELL'ETNOPSICHIATRIA
umani o non umani. Sono cioè la famiglia, la famiglia allargata, gli esistenti posti su quello che I. Sow chiama l’asse trasversale costituente la
persona16: i viventi depositari di una parte del nostro senso; ma sono
anche gli antenati e i discendenti, che, posti sull’asse verticale di I. Sow,
sono anch’essi depositari di una parte del nostro senso. Sono infine gli
esseri invisibili cui la cultura, fabbricandoci, ci ha legato: anch’essi
detengono una parte del nostro senso. Lavorare con una persona, migrante o migrata o indigena, significa sempre, per Nathan, riferirsi alla comunità che sottintende: non per necessità scientifica (o almeno non solo) ma
per scelta politica. Lavorare con una persona adottando il modello psicologico (modello etnico occidentale) significa infatti innanzitutto isolarla,
chiuderla nell’involucro fittizio della sua propria pelle. Anche questa è
una scelta, una scelta politica appunto, mascherata nella maggior parte
dei casi da obbedienza alla verità scientifica e al Progresso. Se i progetti
delle agenzie internazionali privilegiano le azioni che dissolvono i legami tradizionali delle comunità per istituire gli individui in modo che sia
possibile l’impianto del capitalismo competitivo, psicologizzare, e cioé
modernizzare la percezione di sé, orientare nella direzione dell’interiorità
e dell’individualismo psicologico un modello antropologico altro, attivo
in un determinato etnòs, significa fare azione politica. Ecco perché, per
esempio, il setting psicoterapeutico duale è una provocazione, all’interno
di comunità vive. Questa opzione Nathan non la assume solo verso gli
stranieri, ma anche verso gli indigeni: se deve rafforzare un modello,
cerca di scegliere consapevolmente quello che vuole rafforzare17. Ciò
che vale per i “neri”, vale anche per i “bianchi” e per tutte le sfumature
intermedie: si tratta di collegare, non di separare.
Nathan rende espliciti i rapporti di forza tra gruppi e culture, nel
momento in cui rinforza, dandole dignità, la cultura dello straniero.
16
Sow I. 1977 Pychiatrie dynamique africaine, Parigi, Payot.
L'opposizione tra individuo e comunità si riflette in quella tra modello psicologico
nato con la rivoluzione borghese e altri modelli antropologici più aperti (si veda in
Coppo P. 1998 Passaggi. Elementi di critica dell'antropologia occidentale, Colibrì Ed.,
Milano, in particolare Cap. III “Diventare moderni”, pp. 54-68). Non è ancora stata
abbastanza scavata la possibilità di un superamento dell'opposizione individuo-comunità, o forse il processo storico non è ancora maturo e si può solo cominciare a sentire il
bisogno di essere insieme individui e Gemeinwesen (si veda per esempio Camatte J.
Dialogando con la vita, Milano, Colibrì Ed., in stampa).
17
131
PIERO COPPO
Prende partito in un conflitto, nel conflitto che traversa il migrante,
sostenendone la parte in quel contesto (Parigi, Università, Psicologia
ecc.) più debole. È ovvio che non c’è, soprattutto nei migranti (ma in
nessuno, a stare ai dati recenti sulle personalità multiple e ai nuovi
modelli della mente) una sola identità ma una dialettica tra diversi
attrattori. Ponendosi come diplomatico tra gruppi, Nathan si pone come
uno specialista in conflitti, aprendo una terza possibilità tra pace (in
questo caso mimesi) e guerra (in questo caso opposizione per automatismo riflesso, per chiusura etnica, tradizionalista, che progetta l’annientamento dell’altro)18. Mi pare fondamentale passare dallo schema duale
(pace/guerra) così caro all’integralismo cristiano e ora al totalitarismo
spettacolare, a quello che privilegia la capacità negoziale e l’assunzione del conflitto. L’esplicitazione del conflitto culturale non è affatto
una copertura della questione sociale, delle ingiustizie economiche,
della violazione dei diritti dei migranti. È invece un’amplificazione, un
sottolineare un aspetto del conflitto che complessifica lo scenario. La
negoziazione necessaria è anche trasmissione di una competenza: quella che vede, assume il conflitto e lo lavora. Competenza valida in ogni,
anche diversa, situazione. Nathan, poi, non rinvia gli stranieri ai vuoti,
alle debolezze delle loro situazioni di origine; ma li riferisce ai pieni, ai
punti forti: ai guaritori e alle pratiche di salute e prevenzione che prende alla lettera e rispetta come macchine logiche efficienti. Il dispositivo
messo a punto da Nathan si propone dunque come produttore di uno
spazio terapeutico contraddittorio, dalle referenze multiple, all’interno
del quale il paziente può sviluppare un contropotere che lo porta a
interrogare i terapeuti presenti; più vicino in questo a un parlamento,
dice Nathan, che a un confessionale cattolico.
18
Le parole sono tre, dice G. Pagliarani: pace, conflitto e guerra. “È vero che spesso
noi usiamo impropriamente conflitto come sinonimo di guerra; ma non si tratta di sinonimi. Credo che la guerra sia un'elaborazione patologica insana del conflitto. (...) La
pace - paradossalmente - non è pacifica. Per cui arrivo a dire che è necessaria, urgente
una scienza della pace: l'irenologia, o la polemologia, di cui parlavamo negli anni '60
con Fornari, come scienza della complessità e della coesistenza degli opposti. Il conflitto è una realtà di tutti i giorni, è interno e relazionale, familiare, legato al lavoro e agli
affetti: individuali, di coppia e sociali. Il conflitto è la sostanza della vita di tutti i giorni;
è perciò di importanza primaria approfondire se siamo abili, capaci, all'altezza dell'elaborazione che il conflitto comporta”. (Pagliarani G. 1993 Violenza e bellezza, Guerini e
associati, Milano, pp.10-11).
132
POLITICHE E DERIVE DELL'ETNOPSICHIATRIA
Questa mi pare una scelta radicale, forse la più radicale finora agita
nell’area etnopsichiatrica, i cui sbocchi coerenti e necessari sono
modelli multicentrici e pluralismo terapeutico. Cercherò di chiarire in
breve perché questi due impliciti dell’azione nathaniana possano risultare insopportabili per l’ordine esistente.
Se davvero le culture sono dei sistemi prodotti dalle collettività e producenti le persone, sono l’acqua in cui quei determinati pesci possono
vivere, devono conservare con molta cura i loro dispositivi di riproduzione. Uno di questi è, ovviamente, l’attività terapeutica19. Scuola e Sanità
sono momenti essenziali nella fabbricazione delle persone, anche se nelle
società a forte impregnazione spettacolare e mercantile questa funzione
torna a essere soprattutto delle cose e degli idoli20. In particolare i processi psicoterapeutici, installando modelli e riorganizzando desideri e pensieri, hanno un alto effetto di inculturazione21. Come mai le società
dicentesi multietniche (o, nella versione politically correct, multiculturali
o, addirittura, molteplici o multiple) accolgono formalmente ristoranti e
negozi etnici, ma non l’installazione ufficiale di sistemi di cura altri?
Anche se tra le righe della normativa europea si accetta il principio che le
minoranze si diano i loro propri sistemi di cura, ancora non ho visto da
nessuna parte non dico sostenere o erogare risorse per, ma neppure tollerare pratiche altre che sarebbero incompatibili con la cultura occidentale22. Accettare un modello di coesistenza di diversità rispettose le une
delle altre (e cioè il modello che noi stessi suggeriamo nei paesi detti “in
via di sviluppo” in cui preconizziamo la penetrazione della Sanità) sem19
Per converso, in uno scontro tra culture, imporre all'altro i propri terapeuti è
sempre stato un fattore, e un segno, di successo. Si veda l'uso politico della Sanità nei
processi di colonizzazione: Piazza R. 1999 Medicina e colonialismo I Fogli di ORISS,
11/12, 39-72.
20
Per una specie di paradossale ritorno alle origini. Si veda in particolare Pezzella
M. 1999 Il volto di Marilyn. L'esperienza del mito nella modernità, Roma, Il manifestolibri.
21
Cosa che ben sanno i detentori dell'ordine attuale: si veda la rivendicazione di
proprietà del controllo sui processi trasformativi attraverso la formalizzazione dei sistemi psicoterapeutici, la critica alla new-age e alle sette.
22
Si vedano i vari casi, riportati dalla cronaca, in cui il semplice sacrificio rituale
di un animale comporta il sospetto di satanismo e pratiche di magia nera. Senza giungere a tanto, è una pratica come quella del portare lo chador a essere percepita come
violenta, un insulto al progresso e alla democrazia.
133
PIERO COPPO
bra impossibile per i paesi egemoni che comunque continuano a ritenere
di essere depositari di valori (morali, scientifici, umani) universali. Il pluralismo terapeutico istituzionale si è finora realizzato in Italia solo con
l’introduzione nei servizi pubblici di pratiche quali l’omeopatia, la fitoterapia e l’agopuntura: tecniche che non portano con sé alcuna visione del
mondo conflittiva con quella dominante in Occidente.
Il modello nathaniano, cioè, lascia intravedere una società davvero
molteplice, nel senso che la distribuzione delle risorse, del potere e
della parola vi sarebbe tale da permettere, anzi, da favorire la coesistenza di sistemi culturali anche molto diversi o addirittura conflittivi. Un
simile progetto, quello di una rete agerarchica autogestentesi e autorganizzantesi, che si avvicina alle esperienze e alle elaborazioni più avanzate del libertarismo comunitario (dal comunalismo di Bookchin alle
esperienze neo-consiliariste), è oggi pensabile e modellizzabile grazie
all’avvento delle reti e allo studio dei sistemi caotici23.
Che poi, nella pratica della singola seduta, si realizzi o no, il progetto di Nathan è trasferire la funzione di esperto dal terapeuta al paziente
stesso; o almeno è ciò che Nathan sostiene e scrive da sempre, e che in
parte mi pare avvenga, nei limiti che le situazioni di cura in particolare
comportano. Ciò sottintenderebbe che la guarigione è un processo,
innanzitutto, di autoguarigione. Il movimento è dunque verso (per
usare una parola così cara oggi agli ingegneri sociali) l’empowerment
del singolo e dei gruppi. Ciò avviene almeno per l’effetto disalieniz23
Si veda in proposito nel Manifesto de I Fogli di ORISS (1997, 7/8, 7-17) la
discussione sui possibili modelli di organizzazione: centrica, acentrica e policentrica. E
anche, a proposito di Nathan: “L'angoscia personale e culturale di Nathan è quella della
superbia, della sovranità, dell'istituzione di un monoteismo e di una monarchia del ceto
e del sangue perché è consapevole che proprio questa arroganza storica è stata generatrice di guasti e catastrofi. La molteplicità che gli interessa e con la quale si sente a proprio
agio è una molteplicità autodelimitata che rifiuta l'esercizio della sopraffazione, del
comando e del dominio. In fondo, a pensarci bene, i sistemi tradizionali conservano tutti
questa etica di fondo. Elevare una serie di angosce primarie controllabili solo attraverso
la gestione dei limiti e dei propri confini attraverso gli oggetti-sortilegio che altrimenti si
rivolterebbero contro coloro che volessero sottomettere il mondo in nome di un qualunque ideale universale. Credo che proprio questo tipo di messaggio risulti del tutto insopportabile, sia a livello tecnico che politico, perché, lo sappiamo, siamo determinati da
un'ideologia in cui la porzione prometeica, la sfida contro il limite, la conquista instancabile e a oltranza sono connaturati ad ogni nostra esperienza di questo mondo” (Inglese
S., inedito).
134
POLITICHE E DERIVE DELL'ETNOPSICHIATRIA
zante legato al prescrivere procedure di guarigione che avvengono
nell’area culturale, geografica, di sopravvivenza del paziente e non in
altri luoghi; e per un effetto attivante legato al fatto di rendere il
paziente responsabile, attore della sua ricerca (spesso proprio attraverso
peregrinazioni e successive scelte reali, non mentali).
Il senso profondo del progetto dichiarato da Nathan va dunque, che
egli lo sappia o meno e che gli piaccia o no, in senso contrario a quello
della cultura dominante. Sostegno a localismi e a comunitarismi, valorizzazione del potere generativo dei conflitti (non delle guerre!) e delle
negoziazioni relative, molteplicità reale e reale multiculturalità,
empowerment degli individui e dei gruppi, sostegno alle capacità critiche nei confronti degli esperti istituzionali e alle corporazioni, sono
solo alcuni dei tratti che caratterizzano il discorso suo e quello dei suoi
collaboratori.
UN EBREO-EBREO, FORSE EX–MAOISTA
Questi tratti del lavoro nathaniano si incrociano con alcune affermazioni pubbliche circa la sua propria collocazione e storia. L’ho sentito
pubblicamente rivendicare le sue simpatie maoiste nel corso degli anni
‘70, ma non ne so di più e non ce n’è traccia nei suoi scritti24.
Invece molto più forte, ed esplicita, è la sua rivendicazione di essere
un ebreo-ebreo. Cosa voglia dire oggi essere ebreo-ebreo non so; non
vuol dire certo un’appartenenza religiosa forte, almeno non nel caso di
Nathan che mi appare come un individuo sostanzialmente laico, del
24
I soli testi, a mia conoscenza, in cui si accenna all'ultima emergenza rivoluzionaria in Occidente, quella del 67-70, starebbero piuttosto a indicare una posizione critica
rispetto alla “contestazione” come riflesso condizionato e non come creazione, invenzione o scoperta (si veda in Nathan T. 1977 Sexualité idèologique et névrose, La pensée
sauvage, Parigi) e una sostanziale condivisione delle posizioni del Maestro G. Devereux
sul tema (lo cita in una nota nel suo articolo L'héritage du rebelle, Ethnopsy, 1, p. 199,
febbraio 2000: «Nel 1968, è furibondo: "Il mio cuore scoppiava di angoscia e preoccupazione per questi giovani che si preparavano un mondo invivibile, totalitario. Non avevano alcuna possibilità di realizzare il loro mondo anarchico e idealista”». Non ho alcuna informazione su posizioni pubbliche di Nathan sugli eventi critici degli ultimi anni,
come la lotta dei sans papiers o la guerra in Kosovo.
135
PIERO COPPO
genere “libero pensatore”, non certo vincolato nella sua vita dalle regole dell’osservanza, né propenso, mi pare, ad aderire a una cosmovisione monoteista. Credo piuttosto che il suo reclamarsi alla natura ebreaebrea sia, in generale, la rivendicazione di un’appartenenza etnica
forte, consapevole, annunciata; premessa indispensabile per il suo lavoro. Ma, in modo più specifico, significa anche dichiarare non di appartenere a un’etnia in generale, ma proprio a quella che ha saputo conservare, attraversando le vicissitudini note, più di ogni altra la consapevolezza della propria appartenenza e la volontà di perpetuarla pur vivendo
appieno la modernità. Un popolo, dunque, che ha sviluppato una competenza unica nel mettere assieme appartenenza forte, nomadismo,
deterritorializzazione25. Per questo, credo, Nathan afferma così fortemente la sua appartenenza; e a partire da questa affermazione costringe
gli altri a pensare, e a affermare, la propria. Da un lato, spinge al passato, alle proprie radici; dall’altro, suggerisce che è possibile sopravvivere in quanto esseri etnici nel vortice della modernità sia come persone
sia come gruppi e farlo addirittura in posizioni di forza.
È ovvio che si tratta di un tema delicatissimo che riattiva fantasmi e
ferite di ogni genere26. Tuttavia, riflettendo sugli impliciti politici
dell’opera nathaniana, e sul tipo di attacchi che suscita, credo non
possa essere taciuto. Nathan può essere sentito pericoloso per il progetto totalizzante perché afferma di essere competente su una via altra,
che non è né quella della omogeneizzazione universalista che rompe
con le radici etniche, né quella dell’etnicità tenebrosa fondata sul suolo
e sul sangue; e di condividere con una collettività questa competenza.
Dimostra che è possibile essere etnicamente specifici e avere successo
25
veda Boyarin D. - Boyarin J. 1995 “Diaspora: Generation and the Ground of
Jewish Identity” in Appiah K.A. - Gates H.L. (Eds), Identities, Univ. Chicago Press,
Chicago, pp. 305-337, recensito per I Fogli di ORISS da R. Piazza, 1998, 9, pp 159-165
e in particolare: “Vogliamo proporre la Diaspora, una dissociazione tra etnicità ed egemonia politica, come la sola struttura sociale che possa almeno iniziare a rendere possibile il mantenimento di un'identità culturale in un mondo che è divenuto estesamente e
inestricabilmente interdipendente (...) Assimilare la lezione della Diaspora, cioè che le
genti e le terre non sono naturalmente e organicamente connesse, può aiutare a prevenire
versamenti di sangue” (p. 164).
26
L'aspetto debilitante di questa appartenenza è, mi pare, un ritorno ossessivo alla
memoria della persecuzione, che impedisce a volte la serenità di giudizio rispetto ai
movimenti presenti, riportando sempre tutto allo stesso schema.
136
POLITICHE E DERIVE DELL'ETNOPSICHIATRIA
nella modernità, starvi con agio; e lo dimostra a partire da un’appartenenza etnica forte e insieme potente nelle dimensioni economica,
finanziaria, culturale e politica di questo mondo. È come se, anche
senza volerlo, svelasse l’ipocrisia dell’ideologia dominante e insieme
la possibilità concreta della sua propria teoria.
Infine, per chiunque abbia frequentato poco o tanto il Centre
Devereux, risulta impossibile pensarlo come una accolita di nazionalfascisti razzisti e xenofobi. Vi si respira al contrario un’aria davvero
multi e interculturale, proprio per questo piacevole, ricca e stimolante.
POLITICHE E DERIVE DELL’ETNOPSICHIATRIA
Nel 1982 ho pubblicato un articolo sull’etnopsichiatria in una rivista
italiana di psichiatria27. Concludevo, sostenendo che, nel dibattito in
corso tra tendenze biologiche, sociali e psicologiche in psichiatria,
l’etnopsichiatria poteva utilmente prendere la parola sui rapporti tra psicopatologia e cultura, chiarendo il ruolo di fattori di rischio e protezione, e facendo le parti tra ciò che è universale, proprio della natura
umana, e ciò che è determinato da fattori specifici, culturali, ambientali,
socioeconomici. Poteva arricchire l’armamentario terapeutico disponibile, inserendosi con intelligenza nel vastissimo movimento di sincretismo
terapeutico in corso. Poteva offrire le ragioni per sostenere i sistemi tradizionali di presa in carico là dove sono ancora vivi, e dove costituiscono un presidio di primo ordine nella costruzione della salute e nella cura
e prevenzione delle malattie. L’etnopsicologia, a sua volta, avrebbe
potuto collaborare a una migliore conoscenza dell’essere umano, della
sua natura e delle sue declinazioni locali. Nella bibliografia sono citate
opere di Devereux, Parin, Frighi e Banti, Jablensky, Binitié, Yap,
Lambo, Murphy, Sow. Nathan non è citato: lo è solo la rivista
Ethnopsychiatrica, che Devereux aveva fondato con lui nel 1978.
Il libro di Nathan Médecins et sorciers. Manifeste pour une psychopathologie scientifique, del 1995, è stato tradotto in italiano nel 199628. A
27
Coppo P. 1982 Il contributo dell'etnopsichiatria allo studio dei fenomeni psicopatologici e alla loro cura, Riv. Sper. Fren., 106, 5, 933-947.
28
La prima traduzione italiana di un testo di T. Nathan è del 1990 (La follia degli
altri. Trattato di etnopsichiatria clinica, Ponte alle Grazie, Firenze).
137
PIERO COPPO
parte alcuni interventi in ambienti specialistici, Nathan è stato conosciuto
dal grande pubblico italiano grazie ai suoi interventi pubblici nel corso
degli anni 1994-95-96, tra i quali il Congresso “Psicopatologia e culture”
a Firenze nel 199529. A partire da queste date si può misurare la velocità e
le dimensioni dell’impulso che ha mosso in questi anni l’etnopsichiatria e,
in generale, la critica epistemologica alle scienze umane applicate.
Tuttavia, deve essere chiaro che, se di etnopsichiatria si parla oggi tanto,
non è solo per l’importante lavoro di Nathan e di altri tecnici e intellettuali
europei, ma per la crescente provocazione portata in Europa dai migranti,
dalle loro culture, visioni del mondo, dai loro saper-fare terapeutici: sono i
viaggiatori i veri motori dell’etnopsichiatria.
Anche se presa al laccio, e pungolata, dalla urgenza della inquietudine istituzionale (rispetto alla quale funge da ansiolitico, impegnandosi a gestire il “disordine” “psichico” portato dai migranti), inquietudine
da cui trae anche i fondi, le risorse, i luoghi e le occasioni per l’attività
clinica e l’elaborazione teorica, l’etnopsichiatria tuttavia non si esaurisce in questa funzione sociale, né nei centri e luoghi della “clinica transculturale”. Altri filoni sono attivi e studiosi e ricercatori di varie
appartenenze si muovono su terreni altri.
Lo studio comparato dei dati epidemiologici, pur con tutti i limiti e
difficoltà metodologiche (a partire dai quali si è messo in moto un
profondo lavoro di revisione della nosografia psichiatrica) continua,
come lo dimostrano i molti articoli pubblicati sulle riviste del settore
(in particolare Transcultural Psychiatry). Esperienze, anche coraggiose, di esplorazione, conoscenza e sperimentazione di altri sistemi di
interpretazione e cura del “disagio psichico” in varie culture hanno
avuto luogo, e sono tuttora in corso. Tentativi consapevoli, coerenti e
tecnicamente raffinati di orientare e sperimentare sincretismi o inediti
dispositivi a partire da quelli etnici (occidentali compresi) rendono
sempre più complesso il sistema di cure in Occidente e altrove. In
Paesi che stanno costruendo e formalizzando il loro sistema di cura,
l’etnopsichiatria continua ad avere una funzione di orientamento e
sostegno delle pratiche locali.
Le politiche, e i terreni di lavoro, sono dunque molteplici e in divenire, e non possono essere ridotti a questo o quel singolo approccio.
29
138
Atti in I Fogli di ORISS, 10, 1998.
POLITICHE E DERIVE DELL'ETNOPSICHIATRIA
Recentemente ai “datori di lavoro” tradizionali degli etnopsichiatri ed
etnopsicologi se ne sono aggiunti di nuovi. A Parigi, il Centre Devereux
riceve incarichi di perizie e terapie dal Ministero degli Affari Sociali nei
confronti di individui “sfuggiti alle sette”; e si propone, in futuro, come
istituzione esperta nel trattare le “vittime delle psicoterapie”. Si tratta di
un terreno estremamente scivoloso e ambiguo, e basterebbe il titolo del
dossier stampato su Le Journal des psychologues” del Febbraio 2000, Le
sette: un pericolo per la professione, a segnalare il rischio che, per motivi ideologici o corporativi, si finisca per criminalizzare, insieme ad alcuni malfattori e ai loro seguaci, tutta un’area (dal guru new-age al fondatore di una nuova chiesa) che è ora in piena ebollizione e dove è possibile
si generino anche interessanti e feconde opposizioni e alternative al
Nuovo Ordine (si veda, in Cina, il caso Falun-gong). D’altro canto,
anche una sola occhiata al dossier citato porta direttamente nel mondo
paranoico degli X-files: si incoraggiano i famigliari a stare all’erta verso
gruppi che spingono alla rottura con la famiglia, a «restare il guardiano
fedele della personalità di prima» del congiunto “trasformato” dalla setta,
a segnalare il fatto alle associazioni e autorità competenti, a fare attenzione se una scuola di musica, o di disegno, un’associazione sportiva o una
“terapia” sembrano strane, o sempre più coinvolgenti...
Un altro terreno altrettanto infido sembra il reclutamento di etnopsichiatri e etnopsicologi nei programmi di riabilitazione delle vittime delle guerre,
in particolare quando tali programmi siano finanziati dagli stessi che hanno
compiuto l’intervento armato30. Pur tenendo conto delle necessità di trovare
spazi di lavoro individuali e istituzionali, simili iniziative incollano l’etnopsichiatria a dinamiche politiche che contraddicono le intenzioni di cui
prima si è parlato: non più pluralismo, ma una ratio centrale normativa,
unica legittimata a produrre “trasformazioni”; non più etnopsichiatria critica, ma braccio riparativo e terapeutico di dinamiche distruttive.
Queste mi paiono, a partire dalla mia posizione politica, liaisons
dangéreuses tra una disciplina (che si è affermata per il suo lavoro cri30
Come ad esempio l'attuale programma in Kosovo dell'Organizzazione
Internazionale per la Migrazione, finanziato dal Dipartimento di Stato USA e dalla
Cooperazione italiana, che non sono precisamente agenzie “umanitarie”. Per quello che
riguarda le riserve tecniche sul tipo di lavoro che gli “esperti” possono svolgere in queste occasioni, si veda ad esempio Beneduce R. - Taliani S. 1999 Politiche della memoria
e retoriche del trauma, I Fogli di ORISS 11/12, 101-121.
139
PIERO COPPO
tico, per il suo potenziale euristico e innovativo rispetto all’impianto
antropologico e scientista occidentale) e interessi normativi, corporativi, di egemonia che la reclutano per controllo sociale o nei piani
Marshall socio-psico-antropologici presenti e, temo, futuri.
Tornando alle critiche e ai sospetti di Fassin, credo che la lezione
che se ne può trarre è che coloro che lavorano nel terreno minato ai
confini tra culture, come diplomatici e esperti nella negoziazione tra
parti in conflitto, hanno tutto l’interesse a essere il più espliciti possibile circa il progetto politico che non possono non avere: si sarà attaccati
comunque, ma almeno dalla parte che si sente come avversa. Nessun
bisogno allora di polemiche, rettifiche, giustificazioni. Da questo punto
di vista, se una critica si può muovere a Nathan, non è di aver detto
troppo (le sue intelligenti provocazioni, che hanno contribuito al suo
successo pubblico, gli sono anche valse inutili inimicizie), ma di aver
detto troppo poco.
Oggi Tobie Nathan ha 52 anni. Non è affatto tardi per scoprire gli
impliciti politici del suo discorso, per lavorarli con i suoi amici e collaboratori a voce chiara e forte, qualunque essi siano. Siamo in un’epoca
che ha definitivamente superato i confini tra tecnica, politica e cultura.
Ogni operazione tecnica è immediatamente operazione sulla cultura e
nella polis. L’esplicitazione delle intenzioni, dei progetti per cui si lavora, produce agglomerazioni in gruppi di intenzione: per affinità elettive,
per esempio. Che sono nodi di appartenenza ulteriori, oltre a quelli etnici, di corporazione, di affiliazione; e certo non meno attivi e importanti.
In questo, Fassin si sbaglia: almeno in Italia, è su simili affinità, che
coinvolgono soprattutto giovani aperti e curiosi, impegnati con gli
“stranieri” alla costruzione di una società davvero molteplice, amanti
delle differenze, desiderosi di innovare discipline ammuffite nel chiuso
dei gelosi recinti accademici, che si fonda il successo di Nathan e di chi
ha lavorato con lui (a volte anche da posizioni molto diverse o addirittura conflittuali) in questi anni nell’area dell’etnopsichiatria.
Non so quanto Tobie Nathan si riconosca nella prospettiva che ho
qui indicato e che è quella, ovviamente, che mi sta a cuore: la parte che
ho preso. Qualunque sia la sua posizione, gli auguro comunque una
lunga vita, con ancora molta forza, entusiasmo e coraggio, e lo ringrazio davvero per ciò che fino ad oggi ci ha dato e ci ha aiutato a fare.
˙
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