Untitled - Istituto per la storia della Resistenza

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Untitled - Istituto per la storia della Resistenza
LUIGI MORANINO
Il primo inverno
dei partigiani biellesi
Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”
La riedizione del volume è stata realizzata con il contributo della
1a edizione: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia
di Vercelli e Associazione nazionale partigiani d’Italia. Comitato zona “Cossato - Valle Strona”,
1994
2a edizione, in formato elettronico: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, 2010
Varallo, via D’Adda, 6
Sito web: http://www.storia900bivc.it
E-mail: [email protected]
In copertina: Il distaccamento “Bandiera” in regione Pratetto (Tavigliano) nel gennaio 1944
Prefazione alla seconda edizione
Siamo nati per leggere. Non è soltanto lo slogan, felice e fortunato, di un programma promosso dall’alleanza tra bibliotecari e pediatri e proposto alle scuole italiane a partire
dagli asili nido, è l’affermazione di una funzione che è propria di quanto di più prezioso
e complesso possediamo come specie, cioè la mente. Non si vive per leggere, ma si
legge per vivere consapevolmente: la lettura è ciò che serve per conoscere, per arricchirci interiormente, per alimentare con il pane della sapienza il nostro bisogno di elevarci oltre la semplice vita animale.
L’avvento delle nuove tecnologie ha cambiato profondamente i modi di scrivere: la
matita o la penna, dopo aver subito la concorrenza delle macchine per scrivere, hanno
quasi definitivamente capitolato; e le stesse macchine per scrivere sono ormai oggetti
d’antiquariato, soppiantate dai personal computer con programmi che diventano obsoleti dopo pochi mesi dalla loro uscita. Nemmeno più la parola “antiquariato” regge il
ritmo, tanto che si è coniato il termine “modernariato” per indicare tutti gli strumenti
escogitati dal progresso tecnologico negli ultimi decenni che sembravano l’ultimo prodotto possibile della ricerca e che invece appartengono ad un passato cui si guarda con
indulgenza e nostalgia. Sono cambiati i tempi e i modi di scrivere e pubblicare i libri,
sono scomparse le vecchie figure professionali delle tipografie di un tempo e quasi tutti
oggi, purché dotati di un minimo di tecnologia, possono diventare editori di testi. Ma il
modo di leggere, è cambiato anche quello? Romanticamente potremmo rispondere in
negativo, idealizzando il caro e vecchio libro che ti puoi portare ovunque, la gioia per i
sensi che ti dà un volume fresco di stampa, dal profumo della carta al fruscio delle
pagine, dalla suggestione delle immagini alla piacevole sensazione tattile. Il lettore più
idealista dovrebbe tuttavia considerare che per ogni libro fortunato che trova un lettore, montagne di altri libri finiscono per giacere, invenduti, in magazzini desolati e polverosi; altri libri, che conobbero momenti di grande richiesta, hanno esaurito il loro appeal
e sono finiti fuori catalogo per ragioni legate all’economia editoriale e difficilmente saranno reperibili, se non su qualche bancarella ambulante e solo grazie ad un colpo di
fortuna; altri ancora hanno felicemente esaurito il loro ciclo economico e gli editori non
ne prevedono più la ristampa, lasciando i potenziali acquirenti nell’impossibilità di soddisfare le proprie esigenze.
Oggi è possibile considerare tutti questi problemi in una prospettiva nuova: basta
conservare su un server un file di testo, adeguatamente impaginato, e il libro può essere
replicato quante volte si vuole, risparmiando sugli spazi ed eliminando il problema della
difficile reperibilità e dei costi di ristampa. I benefici pratici sono evidenti, altrettanto
evidenti i benefici culturali: è un modo per rendere immortale un testo, almeno fino a
quando il sole risplenderà sulle sciagure umane, per eludere i tentativi di distruggerne
l’esistenza con il fuoco, che periodicamente ricorrono nelle vicende storiche dell’umanità, per garantirne la possibilità di diffusione oltre la dimensione spaziale e temporale
contingente.
Da quando è nato, il 7 ottobre del 1974, l’Istituto ha pubblicato, oltre alla rivista
III
“l’impegno”, giunta al ventinovesimo anno e all’ottantatreesimo numero, settantaquattro volumi. Abbiamo in programma la pubblicazione di numerosi altri volumi in formato tradizionale, alcuni titoli sono ancora sul mercato editoriale, di altri è prevedibile una
ristampa, molti sono ormai esauriti e senza prospettive di ripubblicazione per ragioni
economiche, anche se ancora validi e interessanti. Per questi ultimi abbiamo scelto di
avviare un programma di editoria digitale, che consentirà di mantenere, gratuitamente,
la disponibilità del testo per i potenziali lettori e di divulgarlo presso il pubblico che frequenta il nostro sito internet, che si è attestato negli ultimi tempi su una media superiore
ai duecentomila visitatori all’anno. Un modo per valorizzare la nostra produzione editoriale del passato, per venire incontro ad alcune richieste diversamente non evadibili, per
conservare in via definitiva opere significative di storia locale.
Inauguriamo questo nuovo settore editoriale con la riedizione de “Il primo inverno
dei partigiani biellesi”, che l’Istituto pubblicò nel 1994 in collaborazione con l’Anpi
“Cossato - Valle Strona”, autore Luigi Moranino “Pic”, partigiano del distaccamento e
poi vicecommissario della 2ª brigata Garibaldi “Ermanno Angiono Pensiero”.
Il volume ricostruisce i primi sei mesi della Resistenza partigiana nel Biellese orientale, caratterizzati innanzitutto dalla difficoltà di definire in senso militarmente attivo il
carattere della scelta della montagna come luogo di rifiuto della continuazione della guerra
sotto le insegne della Repubblica sociale neofascista e con gli ex alleati nazisti. La costituzione dei primi distaccamenti biellesi, che si chiamavano “Bandiera”, “Bixio”, “Mameli”, “Pisacane”, incamerando la tradizione risorgimentale e garibaldina, “Matteotti”, ispirandosi alla più emblematica vittima della violenza politica fascista, “Piave”, rifacendosi alla cultura della difesa del suolo patrio risalente alla prima guerra mondiale, i rapporti
tra l’organizzazione resistenziale e gli scioperi nelle fabbriche tessili, i tentativi di repressione del movimento partigiano da parte di tedeschi e fascisti del 63o battaglione
“Tagliamento” e del 115o battaglione “Montebello” occupano la prima parte dell’opera,
la meno originale, in cui Moranino propone un quadro d’insieme ricostruito principalmente su fonti già edite. Nella struttura complessiva del volume questa sezione si legge
come preludio indispensabile per conoscere la parte più interessante e tragica, in cui si
descrive l’occupazione partigiana di Rassa e il tormento della successiva ritirata: qui la
scrupolosa ricostruzione storica del Moranino autore, attenta al dettaglio, si sovrappone, senza offuscarlo, al racconto del Moranino testimone e protagonista. Si produce
così una lucida testimonianza storiografica sulle conseguenze del rastrellamento avviato dai nazifascisti nel febbraio ’44 sul versante alpino biellese, che negli ultimi giorni del
mese obbliga i partigiani a riparare in Valsesia, nella valletta di Rassa, dove, agli inizi del
Trecento trovarono rifugio Dolcino e i suoi seguaci.
La suggestione del parallelo storico, proposta efficacemente da Alessandro Orsi nel
suo “Un paese in guerra”, non tocca la pragmatica narrazione di Moranino, tesa a spiegare senza indugi retorici l’accoglienza della popolazione di Rassa verso i partigiani,
solidale o diffidente ma non ostile, i limiti organizzativi sul piano militare, le difficoltà
psicologiche e pratiche, gli errori strategici che portarono all’eccidio del 12 e 13 marzo, in cui persero la vita diciassette partigiani, undici dei quali catturati durante il tentativo di fuga e fucilati nei pressi del cimitero (tra loro anche una ragazza che, secondo
alcune testimonianze, era incinta), gli altri caduti in combattimento; alla triste contabilità dell’episodio sono da aggiungere un altro partigiano, deceduto nei giorni successivi
per le conseguenze del congelamento di un arto, e un civile; inoltre, dopo la ritirata da
IV
Rassa verso l’alta valle del Cervo, un altro partigiano fu arrestato e fucilato ad Andorno
e un civile fu colpito a morte a Montesinaro.
Gli eventi che produssero una simile carneficina sono indagati con scrupolo, senza
tacere l’errore fatale commesso al momento della ritirata da parte del gruppo dei disarmati che, disattendendo le istruzioni impartite, si incamminarono lungo la mulattiera
che porta in val Gronda anziché avviarsi in val Sorba, provocando il ritardo fatale nella
marcia verso il bocchetto del Croso da cui sarebbe avvenuto il rientro nel meglio conosciuto versante biellese. L’inesperienza e l’approssimazione organizzativa si intrecciarono con un’altra circostanza negativa, che fu determinante per il tragico finale dell’esperienza di Rassa, cioè la neve, rara per tutto l’inverno e caduta invece abbondantemente negli ultimi giorni di febbraio, che rallentò la marcia dei partigiani in ritirata e
rese evidenti le loro tracce, favorendo gli inseguitori. Il finale del libro si concentra sulla
testimonianza del parroco del paese, don Alfio Cristina, che si sforzò inutilmente di evitare
le fucilazioni, ottenendo soltanto che non avvenissero al centro del paese, ma nel più
defilato cimitero, sito all’inizio di Rassa.
L’eccidio di Rassa cadde in un momento di crisi dell’intero movimento partigiano
biellese: agli inizi della primavera, dei sei distaccamenti sorti negli ultimi mesi del ’44 ne
rimanevano in vita tre, con grossi problemi organizzativi. Al disorientamento provocato
dall’elevato numero di vittime dell’intera operazione, di cui quello di Rassa fu l’episodio
più eclatante ma non l’unico, si aggiungeva la resa al nemico del distaccamento “Matteotti” e la dispersione del “Mameli” e del “Piave”. La primavera favorì tuttavia la ricostruzione del movimento, che subì peraltro nuovi colpi mortali nel mese di maggio a
Curino e Mottalciata. Considerando la lunga striscia di sangue che simboleggia la decimazione di formazioni ancora precarie nella loro dimensione numerica, non può non
sorgere la riflessione sul perdurare della capacità attrattiva che la Resistenza, nonostante
i tracolli militari e le difficoltà di sopravvivenza, continuò ad esercitare sui giovani che,
posti di fronte alle alternative dell’arruolamento nella Rsi, l’imboscamento attendista o
l’adesione alle formazioni partigiane, optarono per quest’ultima scelta, mescolandosi a
chi aveva già sperimentato la crudezza del conflitto nel ricordo dei compagni caduti.
Enrico Pagano
direttore dell’Istituto
V
Prefazione alla prima edizione
I sei mesi ripercorsi da Luigi Moranino, che sboccano nella battaglia di Rassa, ci
consentono di conoscere il complesso e articolato processo attraverso il quale, dall’8
settembre 1943, nasce, si forma, si sperimenta la Resistenza biellese.
Date per conosciute le grandi coordinate storiche, politiche, ideologiche che strutturano la Resistenza, è utile applicarvi una lente d’ingrandimento che, pur limitando
l’ampiezza del campo di analisi, consenta di osservare molto più da vicino alcuni momenti e avvenimenti. Riusciamo più facilmente a percepire il senso e le difficoltà delle
scelte compiute dai resistenti, il coraggio e le sofferenze che sovente sono costate, ma
anche le debolezze e gli errori, alcuni dei quali puniti dagli stessi resistenti.
Ci viene descritto il momento in cui la Resistenza - mentre risponde alla necessità,
variamente motivata, di lottare contro i nazisti e i fascisti - misura anche le difficoltà
logistiche, militari, umane che l’impresa comporta. Alla fine del 1943 non è così sicura
la sconfitta della Germania. Questa aveva in Italia una forza bellica che, unita a quella
raccolta dalla Rsi, poteva scoraggiare un intento non seriamente voluto e, soprattutto,
poteva bloccare e annientare un movimento di opposizione armata che non avesse incontrato il consenso di larga parte della popolazione e la capacità organizzativa che la
Resistenza ha avuto.
È significativo che uno dei primi motivi di discussione che poi susseguiranno e
accompagneranno tutta la durata della Resistenza riguardi proprio il metodo d’azione
da seguire. Effettuare o no azioni contro i tedeschi e i fascisti? L’autore illustra come
l’“attendismo”, atteggiamento così definito da parte di quelli che sollecitavano azioni
immediate dopo l’8 settembre, comportò la defezione di parecchi partigiani. La presenza del commissario politico: altro motivo di contrasto tra le diverse posizioni politiche
nella Resistenza; il rischio delle delazioni che, oltre a causare oggettivi e gravi danni alle
formazioni partigiane, provocavano un pesante clima di sospetti; i rapporti con le altre
formazioni partigiane, che, a seconda della necessità, potevano servire come scambio
di informazioni, di sostegno logistico, di aiuto militare; sono alcuni degli squarci che
Moranino apre sul periodo iniziale della Resistenza nel Biellese.
Moranino stesso è un protagonista dei fatti che racconta. È il “Pic” che viene, in
alcuni casi, nominato. Ma è apprezzabile la discrezione, quasi pudore, che Moranino
autore mette nel raccontare i fatti di cui Moranino giovane partigiano è protagonista. È
prevalso lo scrupolo del ricostruttore storico che utilizza con corretto metodo le informazioni di cui è in possesso quale protagonista e le integra con quelle rinvenute con
l’opera di storico. È quindi un’opera che consente di inserire l’importante evento della
battaglia di Rassa in un quadro articolato e complesso, aiutandoci anche a individuare
con chiarezza le sequenze che, dall’inizio della vita partigiana, porteranno al drammatico scontro sulle montagne valsesiane, il quale, come lo stesso Moranino afferma, sarà
un’occasione, nella Resistenza, di riflessione sul suo modo di azione.
Luciano Castaldi
presidente dell’Istituto
VI
Il tempo dell’“attendismo”
Nel Biellese le centinaia e centinaia di militari che la sera dell’8 settembre 1943, dopo
aver appreso la notizia dell’armistizio, avevano abbandonato l’esercito ed erano riusciti
a raggiungere le loro famiglie, trascorsi un po’ di giorni a casa, salirono “in montagna”.
La decisione presa dagli ex militari fu spontanea e, salvo in alcune località dove la loro
partenza venne organizzata da comunisti e da qualche ufficiale, essi raggiunsero i luoghi scelti in gruppi più o meno numerosi.
Occupate le baite di molti pascoli che si trovano nelle alte vallate del Viona, dell’Elvo, del Cervo, dello Strona e del Sessera, furono le famiglie che nei primi giorni resero
possibile l’esistenza in montagna degli ex militari, il cui timore più grande era quello
della cattura e della deportazione in Germania.
Non meno drammatica di quella degli ex soldati sbandati era, in quel momento, la
vicenda dei prigionieri inglesi, australiani, neozelandesi, fuggiti dopo l’8 settembre dal
campo di prigionia Pg 106 situato nel Vercellese. Milleseicento uomini che, una volta
liberi, scelsero in parte di raggiungere la Svizzera, come i mille che vi riuscirono grazie
all’impegno di tanti antifascisti e molti collaboratori occasionali; oppure di partecipare
alla lotta contro i nazifascisti come i non molti che rimasero con i partigiani; o anche di
nascondersi fino alla liberazione con l’aiuto e la protezione della popolazione in località
del Biellese, della Valsesia e del Vercellese come decisero gli altri1.
Verso la fine di settembre alcuni ufficiali biellesi, d’accordo con un comando militare che si era sistemato all’Albergo Savoia vicino al lago Mucrone, si attivarono nelle
zone di Donato, del santuario di Graglia, della conca d’Oropa, del monte Cucco, del
Bocchetto Sessera dove più alto era il numero degli ex militari, per organizzare gli sbandati
e costituire dei reparti di cui prendere il comando.
A sostenere l’iniziativa di questi ufficiali vi era il Comitato di liberazione nazionale di
Biella il quale, potendo contare su un regolare e consistente contributo finanziario da
parte di numerosi industriali, era in grado di garantire il sostentamento degli sbandati in
montagna. Facile fu quindi per gli ufficiali aggregare gli sbandati e assumere il comando di questi gruppi: impossibile invece il ripristino di quella disciplina formale, sommamente detestata dai soldati, già esistente nell’ex esercito e alla quale tenevano.
Risolto il problema esistenziale con una rete logistica e di rifornimenti che assicurava il minimo vitale agli uomini, ai primi di ottobre i comunisti avanzarono la richiesta di
poter affiancare al comandante un commissario politico, reclamarono la distribuzione
delle armi, proposero di intraprendere delle azioni contro i nazifascisti.
1
Notizie sugli ex prigionieri in ANELLO POMA - GIANNI PERONA, La Resistenza nel Biellese,
Parma, Guanda, 1972, pp. 57-58; CLAUDIO DELLAVALLE, Operai, industriali e Partito comunista nel Biellese 1940-1945, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 65-66; LUIGI MORANINO, ll campo di
prigionia Pg 106, in “l’impegno”, a. V, n. 1, aprile 1989, pp. 44-48.
1
Su queste richieste si accese allora un vivace confronto in seno al Cln e tra i componenti del Comando militare allargato, uno dei quali era comunista. Dopo non poche
e animate discussioni e con molta diffidenza verso i comunisti, un accordo venne raggiunto sulla presenza di un commissario politico a fianco del comandante limitatamente
al solo Comando generale. Contrari invece all’inizio della lotta armata, la Democrazia
cristiana, il Partito socialista, il Partito liberale e il Partito d’azione - gli altri partiti del
Cln di Biella - e il Comando generale che, adducendo per il loro rifiuto motivi di opportunità causati dalla scarsità degli armamenti, si opponevano anche alla distribuzione delle
armi.
Questi contrasti, che si acuirono col passare dei giorni e la rinuncia a qualsiasi azione contro i fascisti e i tedeschi che erano arrivati a Biella il 21 settembre e vi insediarono un comando stabile solo il 15 ottobre, furono fatali per tutta l’organizzazione. Molti
degli sbandati, non partecipi alla discussione politica e che non comprendevano i motivi dello scontro tra i comunisti, i militari e gli altri antifascisti, ritenendosi indifesi e
considerando quella vita inutilmente pericolosa, cominciarono ad andarsene dai gruppi.
Delle numerose defezioni tra le file degli sbandati e delle cause che le provocarono
vennero ben presto a conoscenza le autorità fasciste e il Comando tedesco di Biella
che, intenzionati da tempo a riportare l’ordine nel Biellese, decisero di attuare due operazioni finalizzate a questo scopo.
La prima, un’azione terroristica con intenti dimostrativi, venne effettuata il 31 ottobre nella zona del santuario di Graglia e della valle dell’Elvo, dove reparti tedeschi bruciarono ventotto baite con i lanciafiamme e uccisero due marinai2. Al termine di essa
dei trecento sbandati che si trovavano nella zona restavano solo piccoli gruppi.
La seconda, di carattere politico, fu l’appello del nuovo capo della Provincia di Vercelli, Michele Morsero, pubblicato il 1 novembre, che invitava gli ex militari a ritornare
alla vita civile entro il 10 novembre se non volevano essere «considerati ribelli a tutti gli
effetti», e offriva a quelli che già avevano lavorato in passato la possibilità di presentarsi nelle fabbriche e farsi riassumere.
L’azione concertata dai nazisti e da Morsero indebolì ulteriormente le aggregazioni
degli ex militari e creò le premesse per il loro dissolvimento, che avvenne dopo una
puntata effettuata da un reparto tedesco il 13 novembre a Sant’Eurosia (Pralungo).
Un’operazione nel corso della quale i militari germanici, senza incontrare nessuna resistenza - ritenuta impossibile dagli ufficiali che comandavano gli sbandati presenti in zona
- bruciarono tre baite, catturarono cinque ex prigionieri inglesi, provocarono sconcerto tra il centinaio di sbandati, non tutti disarmati, i quali abbandonarono le baite e vagarono per ore sul monte Cucco prima di tornare a casa. Solo un piccolo gruppo formato
da comunisti ed ex militari non li segui e continuò a stare nella baita dell’alpe Affittà di
Sopra, sul monte Cucco, a mezz’ora di cammino dalla frazione Carameletto del comune di Tollegno.
Le notizie sugli avvenimenti di Sant’Eurosia arrivarono in poco tempo agli sbandati
2
Le due vittime si chiamavano Vito Baldini, nato a Foglianise (Bn) nel 1920, e Antonio
Cosentino, anch’egli del 1920. Appartenenti alla Marina militare, dopo l’8 settembre erano
giunti nella valle dell’Elvo e si erano uniti agli sbandati di quella zona.
2
che si trovavano ancora nella zona di Oropa, in quella del Bocchetto Sessera e di Noveis. Quegli uomini ormai avviliti, ai quali era mancata una guida politica e l’esempio
dei comandanti per diventare partigiani, fecero quello che avevano già fatto altri prima
di loro: tornarono alle loro case e ripresero il lavoro nelle fabbriche.
Così, sul finire di novembre, si presentava la situazione dopo due mesi di “attendismo”3: periodo in cui non si erano compiute azioni contro i nazifascisti e dal quale, dai
soli due fatti salienti della valle dell’Elvo e di Sant’Eurosia, la gente non aveva tratto che
dolore e smarrimento.
3
Sulla nascita della Resistenza nel Biellese e il fenomeno dell’“attendismo” cfr. A. POMA
- G. PERONA, op. cit., pp. 62-70; C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 65-70 e ALESSANDRO ORSI - GIANFRANCO FASANINO (a cura di), Una banda autonoma nel Biellese. Settembre 1943 - febbraio
1944, in “l’impegno”, a. XIII, n. 2, agosto 1993, pp. 20-26.
3
I distaccamenti garibaldini e le prime azioni
I fatti di ottobre e novembre, seppur molto gravi, non lo furono al punto da pregiudicare la creazione, in poco tempo, di alcune unità partigiane di cui furono progenitori
gli uomini rimasti in montagna. Infatti, giovani del 1924 e del 1925, accogliendo l’appello degli antifascisti che li chiamavano alla lotta, disubbidirono al bando di chiamata
alle armi della Repubblica sociale italiana, che scadeva il 30 novembre e, consapevoli di
impugnare le armi, andarono in montagna. Alla fine di novembre un centinaio di giovani
di diciotto e diciannove anni avevano fatto quella scelta: non molti, ma bastanti per dar
vita nelle vallate biellesi a sei distaccamenti d’assalto “Garibaldi”4 che, insieme al distaccamento “Antonio Gramsci” che operava in Valsesia, costituirono la 2a brigata d’assalto Garibaldi “Biella”, fondata a Pratetto (Tavigliano) il 15 gennaio 1944.
La costituzione della 2a brigata fu un avvenimento di grande importanza per lo sviluppo
del movimento partigiano biellese perché «poneva fine, in effetti, alla confusione e all’interferenza continua dell’azione politica della federazione comunista e di quella politico-militare del comitato militare, e collocava - con le dichiarazioni programmatiche rivolte
agli uomini dei distaccamenti e con il saluto al Comitato di liberazione nazionale contenuti nei primi due ordini del giorno - la nuova brigata nell’ambito delle forze dell’esercito
di liberazione, mantenendo così aperta la via ad una ripresa della collaborazione con
4
I distaccamenti d’assalto “Garibaldi” erano unità di combattimento comprendenti normalmente dai trenta ai cinquanta uomini, suddivisi in squadre di dieci uomini. Il loro comando era affidato, con pari responsabilità, al comandante che ne curava la preparazione e l’efficienza sul piano militare e al commissario politico che aveva il compito di migliorare la coesione politica del distaccamento in una prospettiva fortemente politicizzata della lotta. Questi
i sei distaccamenti biellesi che formavano la 2a brigata: “Nino Bixio”, comandante Bruno Salza “Mastrilli”, commissario Annibale Caneparo “Renati”, 45 effettivi, zona valle Elvo; “Fratelli Bandiera”, comandante Quinto Antonietti “Quinto”, commissario Mario Mancini “Grillo”, 45 effettivi, zona valle Cervo; “Goffredo Mameli”, comandante Romano Casalino “Tonino”, commissario Remo Pella “Remo”, 30 effettivi, zona valle Cervo; “Piave”, comandante
Piemonte Boni “Piero Maffei”, commissario Ermanno Angiono “Pensiero”, 75 effettivi, zona
valle Strona; “Giacomo Matteotti”, comandante Leo Vigna “Leo”, commissario Enrico Casolaro “Rico”, 54 effettivi, zona Valsessera; “Carlo Pisacane”, comandante Francesco Moranino “Gemisto”, commissario Dolcino Colombo “Arrigo”, 60 effettivi, zona Valsessera. Il distaccamento “Gramsci” aveva per comandante Eraldo Gastone “Ciro” e per commissario Vincenzo Moscatelli “Cino” e contava 108 uomini. Nel febbraio, dato lo sviluppo raggiunto, il
“Gramsci” si staccò dalla brigata “Biella” e costituì la 6a brigata d’assalto Garibaldi “Gramsci” Valsesia. Il Comando della 2a brigata era così formato: comandante Piero Pajetta “Nedo”,
commissario Adriano Rossetti “Sergio”, vicecomandante Anello Poma “ltalo”, intendenza
Luigi Viana “Olmo”, informazioni Lorenzo Bianchetto “Faro”. Cfr. A. POMA - G. PERONA, op.
cit., pp. 111-114; C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 114-116; PIETRO SECCHIA - CINO MOSCATELLI, Il
Monte Rosa è sceso a Milano, Torino, Einaudi, 1958, pp. 119-120.
4
tutte le forze politiche del Cln non appena si fosse riusciti a ricostituirne uno nel Biellese»5.
All’inizio di dicembre l’avvio alle azioni partigiane nel Biellese venne dato dal distaccamento “Piave”6 che aveva sede al Basto, sulle pendici dell’Argimonia, dal quale si
domina la sottostante valle Strona.
Agendo secondo un piano preordinato e rivelando una discreta capacità organizzativa e di esecuzione, i garibaldini del “Piave”, in pochi giorni, effettuarono atti di sabotaggio
in alcuni stabilimenti tessili della valle Strona che producevano per i tedeschi; requisirono e bruciarono stoffe e coperte destinate a questi ultimi e distribuirono stoffa agli operai;
sequestrarono prodotti tesserati e introvabili che assegnarono alla popolazione; si fecero consegnare da un industriale una somma di denaro necessaria per l’esistenza del
distaccamento; non esitarono a ferire e uccidere militi, finanzieri, carabinieri inviati dalle
autorità fasciste per impedire le loro azioni; giustiziarono, nel corso di un’azione in
appoggio alle rivendicazioni degli operai del lanificio Giletti di Ponzone, il direttore dello
stabilimento ed organizzatore del fascio repubblicano di Trivero, Bruno Ponzecchi.
E, per presentarsi alla popolazione con una linea di comportamento che non doveva
lasciare spazio a dubbi - in una situazione di incertezza e quasi scomparsa dei tutori
dell’ordine - eliminarono alcuni delinquenti comuni che, spacciandosi per partigiani,
compivano furti, grassazioni ed estorsioni a danno di privati: spiegando in un manifestino diffuso in tutta la valle Strona i motivi di quella dura repressione7.
I1 7 dicembre una pattuglia del “Bixio” attuò un atto dimostrativo di sabotaggio alla
Sateb di Biella, la tipografia del periodico repubblichino “Il lavoro biellese” da poco
fondato. L’11 dicembre il tempestivo intervento armato di una squadra del “Bandiera”
in difesa degli operai in sciopero “bianco” della Filatura di Tollegno costrinse un manipolo di carabinieri e questurini a lasciare liberi i capireparto arrestati ed in procinto di
essere trasportati a Biella. Il 15 dicembre i garibaldini del “Pisacane”, per sostenere con
la loro presenza gli operai in agitazione di uno stabilimento laniero, si portarono a Crevacuore e nell’incontro che avvenne tra operai e partigiani cominciava a realizzarsi
quell’unità di intenti che avrebbe caratterizzato la Resistenza biellese.
In Valsesia la guerriglia iniziò il 2 dicembre quando i partigiani del distaccamento
“Gramsci” attaccarono i fascisti della 28a legione nel centro di Varallo8.
5
A. POMA - G. PERONA, op. cit., p. 112.
Il distaccamento “Piave”, alla fine di novembre, contava più di trenta uomini. Esso si era
formato attorno ad un nucleo di giovani antifascisti di Cossato e Lessona che dopo l’8 settembre avevano raggiunto il Basto. Qui si erano sistemati in una baracca di legno, provvista
di corrente elettrica, utilizzata da una squadra di operai come dimora e come magazzino per
gli attrezzi durante la costruzione di una mulattiera. Nei due mesi di attendismo la vita del
costituendo “Piave” venne assicurata dall’organizzazione comunista della valle Strona. I
comunisti, che volevano farne un distaccamento modello, ne impedirono la crisi che causò
la fine del movimento degli ex militari. La tempestività con cui gli uomini del Basto si impossessarono delle armi in dotazione ad alcuni reparti di sbandati, nel momento della disgregazione, consentì al “Piave” di disporre di una mitragliatrice, due fucili mitragliatori Breda, una
trentina di fucili, pistole e bombe a mano.
7
Cfr. C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 79-80.
8
Su questo avvenimento si veda ENZO BARBANO, Lo scontro a fuoco a Varallo del 2 dicembre 1943, Borgosesia, Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli, 1982.
6
5
L’inaspettata vitalità e la determinazione di cui diedero prova i distaccamenti garibaldini nel compiere quelle prime azioni se dimostrò l’infondatezza, la pavidità, l’opportunismo delle posizioni attendiste, sollevò anche diffidenza e perplessità. Specie in
chi, nel prendere atto dell’esistenza di un movimento armato che proclamava di lottare
per la liberazione del Paese dai nazifascisti, constatò che i partigiani effettuavano azioni
che la stampa e la propaganda fascista definivano atti di terrorismo.
Ma il problema più urgente per i distaccamenti era quello delle armi e delle munizioni: per risolverlo, almeno in parte, i partigiani iniziarono nel mese di dicembre a disarmare i carabinieri di diverse stazioni senza che fosse loro opposta alcuna resistenza9.
Il crescendo delle azioni partigiane, alcune delle quali contrastate senza successo da
agenti e carabinieri, indusse le stesse autorità militari a sopravvalutare la forza e la capacità operativa dei distaccamenti partigiani e il loro ascendente sugli operai. Significativo è il rapporto del comandante del Gruppo carabinieri di Vercelli, maggiore Cornelio
Cilavegna, inviato il 18 dicembre al capo della Provincia e ai comandi tedeschi di Torino e Vercelli: «La situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nella zona alpestre di
questa provincia, già grave, sta peggiorando sempre più. I carabinieri non sono in condizioni di garantire la sicurezza delle popolazioni per mancata deficienza (sic) di uomini,
di mezzi di trasporto, di armamento. Infatti i quattro o cinque uomini delle stazioni rurali e i dieci o quindici delle stazioni capoluogo di Vercelli e Biella, sufficienti in tempi
normali, non lo sono più attualmente; non si può logicamente pensare che i pochi uomini delle stazioni possano affrontare gruppi di duecento, trecento ribelli che si aggirano nelle zone montane e pedemontane e provvedere nello stesso tempo alla difesa delle
caserme [...] Per risolvere tale situazione che - ripeto - va aggravandosi ogni giorno,
anche perché ormai - volenti o nolenti - partecipano, sia pure passivamente, le masse
operaie dei vari stabilimenti della zona, occorre non procrastinare ulteriormente l’invio
di un battaglione di manovra, in perfetto assetto di guerra, per compiere una vera e
propria azione bellica al fine di sterminare i ribelli, il cui numero aumenta ogni giorno,
allarma e terrorizza la popolazione, e specialmente i datori di lavoro che sono preoccupatissimi perché si vedono indifesi. A Crevacuore gli operai di tre stabilimenti ivi esistenti (circa 1.800) per imposizione dei ribelli non lavoreranno fino a che le paghe non
saranno aumentate del 75 per cento [...] A Pray Biellese le maestranze non lavorano
sino a che le paghe non saranno aumentate del 75 per cento. A Borgosesia gli operai
hanno sospeso ogni attività sino a che le paghe non saranno aumentate del 75 per cento
9
Queste le stazioni dei carabinieri che vennero disarmate: Crevacuore, 10 dicembre 1943;
Serravalle Sesia, 12 dicembre; Scopa e Borgosesia, 14 dicembre; Coggiola, Buronzo e Varallo,
16 dicembre; Alagna Valsesia, 17 dicembre; Trivero, 18 dicembre; Gattinara, 19 dicembre;
Masserano e Andorno Micca, 20 dicembre; Cossato, Sordevolo, Gaglianico (posto fisso aeroporto) e Mongrando, 21 dicembre; Cavaglià, 23 dicembre; Mottalciata, 25 dicembre; Mosso
Santa Maria, 28 dicembre; Netro, 30 dicembre. Delle sopracitate stazioni il maggiore comandante del Gruppo carabinieri di Vercelli, il 7 marzo 1944, informava le autorità fasciste e i comandi tedeschi che erano state riarmate quelle di: Buronzo, 17 dicembre 1943; Varallo, 1 gennaio
1944; posto fisso di Gaglianico, 8 gennaio; Gattinara, 17 gennaio; Sordevolo, 11 febbraio;
Borgosesia, 12 febbraio; Mosso Santa Maria, 21 febbraio; Cavaglià e Serravalle Sesia, 23
febbraio; Andorno Micca, 25 febbraio (Archivio di Stato di Vercelli, d’ora in poi ASV, Prefettura
repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
6
[...] Il 17 corrente, alle ore 17, in Coggiola e Portula di Coggiola un numero imprecisato individui armati di moschetto, bombe a mano et armi automatiche, imponevano abbandono lavoro 1.800 operai stabilimenti locali. Agli operai riuniti in piazza venivano
rivolte parole inneggianti Badoglio et invitanti operai ad astensione lavoro fino a che
paghe non siano aumentate del 75 per cento»10.
Ancora più preoccupato per la situazione venutasi a creare nel Biellese e in Valsesia
era il capo della Provincia Morsero il quale, dopo aver decretato dall’8 dicembre il coprifuoco dalle 20.30 alle 6 del mattino, chiuso i locali di divertimento, vietato le riunioni
pubbliche e private e gli assembramenti con più di tre persone su tutto il territorio della
provincia, il 18 dicembre inviò un fonogramma al Ministero degli Interni in cui, fra l’altro, affermava: «Ribelli in questa provincia et particolarmente zona Biellese e Valsesia
da oltre una settimana continuano con crescendo attività terroristica [...] Carabinieri
cui rendimento est molto discutibile appena sufficiente coprire fabbisogno minimo normali servizi et stazioni. Guardia Repubblicana forze limitatissime impegnate numerosi
servizi fissi [...] Comandi tedeschi avvertiti et richiesti rinforzi sostengono dovere noi
provvedere simili casi, riservandosi azione gran stile secondo loro piano prestabilito.
Pure volendo attendere tale intervento per decisiva azione gran polizia militare et alla
quale converrebbe partecipare più che urgente et opportuno necessita quanto meno avere
disponibile reparto manovra di almeno duecento uomini con armi adeguate per prevenire reprimere ovvero anche taluni casi solo dimostrazione forza sia per risultati diretti
anche parziali sia per popolazione et generali. Richiesti da tempo ripetuti rinforzi Comando Generale et Legione Torino et Comando Generale Guardia Repubblicana ma nulla
ottenuto [...] Oggi aggiungasi che giorni tra quindici et diciassette corrente ribelli hanno
imposto sciopero stabilimenti comuni Crevacuore, Pray et Borgosesia. Detti dominano
situazione comuni Varallo Borgosesia Crevacuore et Coggiola. Carabinieri costituiscono elemento negativo anzi pericoloso molti fattisi disarmare maggioranza passiva»11.
Le pressanti richieste di Morsero e delle autorità militari della provincia di Vercelli
vennero accolte: domenica 19 dicembre proveniente da Chiari (Brescia) arrivò a Vercelli il 63o battaglione “M” Tagliamento della Guardia nazionale repubblicana12.
10
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1. La situazione «della forza
presente ai vari comandi» del Gruppo carabinieri di Vercelli alla data del 15 dicembre era:
«Ufficiali Superiori n. 1 Comandante di Gruppo; Ufficiali inferiori n. 2 Capitani comand. Comp.
Vercelli e Biella; Maresciallo Maggiore cariche speciali n. 1 comand. la Sezione di Biella; Sottufficiali n. 79; Truppa n. 394; Totale Sottuff. e truppa n. 473; Sottufficiali comandanti di stazione n. 42; Forza impiegata alle stazioni per il normale servizio d’istituto n. 283; Forza comandata per servizi fissi e cariche speciali n. 168; Forza disponibile per operazioni di polizia
n. 22» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65). Una serie di rapporti dei
carabinieri sull’attività dei “ribelli” tra la fine di novembre ’43 e il febbraio ’44 si trova in
PIERO AMBROSIO, “Oltre duecento ribelli armati...”, in “l’impegno”, a. IV, n. 1, marzo 1984,
pp. 2-10.
11
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65. Sulla fase organizzativa della
Rsi in questo periodo si veda l’ampia documentazione del Gabinetto della Prefettura repubblicana pubblicata in P. AMBROSIO , Dicembre 1943: iniziano le azioni contro i “ribelli”, in
“l’impegno”, a. III, n. 4, dicembre 1983, pp. 10-24.
12
Il 63o battaglione “M” Tagliamento, che aveva fatto parte della Milizia volontaria sicu-
7
rezza nazionale, dopo l’8 settembre, prima ancora della fondazione della Repubblica sociale
italiana, era già in condizioni di servire agli scopi militari dei comandi tedeschi. Il 1 marzo
1944, a Vercelli, al 63o battaglione “M” Tagliamento si unì il 1o battaglione “Camilluccia” e da
questa unione nacque la I legione d’assalto “Tagliamento” della Gnr.
In data 21 dicembre 1943 la «Situazione forza, armamento, munizionamento e automezzi
63o battaglione “M”» era la seguente: «Forza effettiva, 17 ufficiali, 34 sottufficiali, 306 truppa, totale 357 effettivi. Armamento: moschetto modello 91 n. 425, fucili mitragl. Breda n. 26,
mitragliatrici tedesche T. 42 n. 13, mortai Brixia da 45 mm. n. 4, mortai da 81 n. 6, cannoni
anticarro da mm. 37 n. 3. Munizionamento: cartucce per moschetto n. 36.500, cartucce per
fucile mitragl. 62.000, cartucce per mitragliatrice T. 42 n. 110.000, proiettili per pezzi da 37 mm.
n. 1.344, bombe a mano n. 4.000. Automezzi efficienti: Autocarri Fross Bussing n. 6, Autocarri
Ford n. 13, Autovetture n. 2, Motociclette n. 2» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
8
Lo sciopero generale e la repressione nazifascista
Le agitazioni operaie inizialmente indette o provocate, in alcune importanti fabbriche delle vallate biellesi, dagli stessi partigiani, trovavano la loro motivazione nella mancata applicazione dell’accordo firmato il 16 novembre dal rappresentante dell’Unione
industriale della provincia e dal segretario dell’Unione dei lavoratori dell’industria alla
presenza del capo della Provincia Michele Morsero.
Questo accordo, che aveva stabilito un aumento del 50 per cento del salario a partire dal 23 novembre e una gratifica una tantum di 500 lire da corrispondere agli operai
al di sopra di sedici anni, era stato disatteso dagli industriali: molti dei quali consideravano
il premio di 500 lire come anticipo sugli aumenti e sostenevano che questi dovevano
riferirsi solo ai minimi salariali precedenti e non al salario reale. In questo contesto,
aggravato dall’aumento dei prezzi degli scarsi generi alimentari, il malcontento e l’inquietudine aumentarono e si estesero. In particolare tra gli operai della Valsessera i quali,
potendo contare sulla presenza dei partigiani del “Pisacane” e del “Matteotti” che, per
favorire - e in alcuni casi promuovere - l’astensione dal lavoro, controllavano con blocchi
stradali i centri più importanti del fondovalle, ripresero a scioperare nei giorni 16, 17 e
18 dicembre.
Lunedì 20 lo sciopero, che proseguiva negli stabilimenti di Coggiola, Pray e Crevacuore, si estese a quelli della valle Strona ed il 21 a scioperare con l’appoggio di tutti i
distaccamenti garibaldini biellesi furono gli operai di tutto il Biellese. Per stroncare l’attività dei partigiani in Valsesia, in Valsessera, in valle Strona e far cessare lo sciopero
degli operai, il 21 dicembre, giunsero a Borgosesia duecentocinquanta fra militi, sottufficiali ed ufficiali del 63o battaglione “M”. Li comandava il 1o seniore Merico Zuccari13,
al quale il capo della Provincia Morsero aveva fatto pervenire, alle ore 4 del 21 dicem-
13
Merico Zuccari venne processato - in contumacia - dal Tribunale militare di Milano nel
1952. Riconosciuto colpevole del reato ascrittogli, il 28 agosto 1952, fu condannato all’ergastolo con questa sentenza: «Aiuto al nemico (art. 5 dll 27-7-1944 n. 159 in rel. all’art. 51 e 110
c.p.) per avere: tra il settembre 1943 ed il maggio 1945, in territorio dello Stato italiano, quale
comandante di un reparto della Gnr forze armate della pseudo repubblica sociale italiana (prima
63o battaglione “M” e poi legione “Tagliamento”) con azione diretta, o con ordini ed istruzioni a propri dipendenti, e col consentire l’azione di questi in tale senso, commesso fatti intesi
a favorire le operazioni militari ed i disegni politici del tedesco nemico invasore, a nuocere
alle operazioni delle forze armate del legittimo Stato italiano, ed a menomare la fedeltà dei
cittadini dello Stato stesso: partecipando alla lotta contro i partigiani per la guerra di liberazione; attuando e facendo attuare, anche contro popolazioni civili, rastrellamenti, sevizie,
uccisioni, saccheggi, incendi e distruzioni, sequestri di persone ed arbitrarie perquisizioni»
(P. AMBROSIO, “In nome del popolo italiano”, in “l’impegno”, a. V, n. 2, giugno 1985, p. 3. Sul
processo a Zuccari si veda anche Quando bastava un bicchiere d’acqua. Processo alla
legione “Tagliamento”. Requisitoria del dr. Egidio Liberti, Borgosesia, Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli, 1980, pp. 30-70).
9
bre, un promemoria con notizie sulla situazione in Valsesia e nel Biellese e delle «direttive per azioni contro i ribelli»14.
L’occupazione di Borgosesia avvenne inaspettatamente il mattino del 21 e Zuccari,
per rendere più intimidatoria l’operazione, fece insediare il comando del battaglione in
municipio, predispose posti di blocco nelle più importanti vie di accesso alla città, ordinò un rastrellamento, nel centro urbano e nelle frazioni, di tutti gli uomini trovati sul
posto. Uomini i quali, dopo il loro fermo, dovevano essere portati al Comando per accertare se fra loro ci fossero collaboratori dei partigiani.
Questa ostentazione di forza non intimorì però i partigiani di Moscatelli, che non
persero tempo nell’attaccare i fascisti. Negli scontri tra partigiani e due pattuglie fasciste, che avvennero nelle frazioni Agnona e Aranco di Borgosesia nello stesso pomeriggio del 21, morirono due militi e Angelo Bertone, il primo partigiano valsesiano caduto
in combattimento.
La morte dei due militi accrebbe in Zuccari e nei suoi uomini la volontà di dimostrare
14
In questo documento Morsero segnalava che i centri ove i ribelli avevano svolto la loro azione delittuosa erano: «Varallo, Scopa, Alagna, Borgosesia, Crevacuore, Coggiola, Pray,
Trivero, Portula, Serravalle, Mosso Santa Maria, Valle Mosso, Andorno Micca, Tollegno,
Pralungo, Biella, Pollone, Graglia, Sordevolo, Occhieppo, Netro, Piedicavallo, Gattinara, Cossato [...] - secondo le informazioni più o meno attendibili - i gruppi operanti avevano quasi
sempre una forza oscillante tra i 10 ed i 70 uomini. Solo a Crevacuore si è detto esserne circa
250. Alcuni gruppi di ribelli si dice avrebbero il Comando e si raccoglierebbero nelle seguenti
località: Zona Cima Cucco (circa 300) - Zona di Oropa (Monte Mucrone) - Moncerchio (vi
dovrebbe essere la banda di Moscatelli di Borgosesia - Zona Cellio-Breja dorsale Sesia-Lago
d’Orta) - nella cascina Campanile nei pressi di Mosso Santa Maria si riunirebbero dei ribelli,
così in una villa di un industriale biellese - nei pressi di San Paolo Cervo - vi era e vi è ancora
un comando di ribelli [...] Sono discretamente riforniti di viveri, molto bene in denaro. Sono
perlopiù bene armati. Qualche reparto pare abbia anche cannoni. Le bande sono composte
da elementi eterogenei (ex militari-comunisti-prigionieri anglo-americani tra i quali qualche
ufficiale inglese giovani del 24-25) [...] Le popolazioni in genere danno aiuto e si manifestano
favorevoli a detti elementi. Azione dei Carabinieri: negativa».
Nelle “direttive” sui “Concetti di massima per le operazioni a svolgersi” che, secondo
Morsero, si sarebbero dovute tradurre in «dimostrazioni di forza-ripristino dell’autorità in
determinate zone et paesi-neutralizzazione dei ribelli et loro struttura-rastrellamento e fermo
favoreggiatori», affermava: «Poiché le bande operano improvvisamente ed in paesi molto
distanti tra essi e Vercelli e sono sempre autocarrate, non è sufficiente fare “le puntate” e
rientrare in sede a Vercelli [...] Occorre portarsi con forte contingente di truppa (bene armata)
in determinate zone, affrontare i ribelli che vi fossero, dare comunque dimostrazione di forza
alla popolazione, raccogliere informazioni e rastrellare arrestando anche eventuali favoreggiatori e persone sospette ovvero antinazionali-antifascisti (ove possibile vi saranno forniti anche nominativi); poi lasciare un presidio nel paese più importante e meglio ubicato nella zona
di azione per ragione di viabilità, comunicazioni, ecc. [...] Nelle zone ove gli operai hanno
scioperato per intimidazione dei ribelli, si deve far riprendere il lavoro. In questa particolare
azione dovete servirvi del Funzionario degli Agenti di P.S. della località più vicina [...] Mantenere, sfruttando tutti i mezzi possibili, il maggior collegamento con lo scrivente, con la vostra
base e il Comando della 28a Legione [...] rimetterci giornalmente entro le ore 18, relazione
generale e succinta dei vari fatti della giornata» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
10
ai valsesiani con quanta crudeltà e ferocia i fascisti del 63o battaglione “M” uccidessero
chiunque avesse dato aiuto di qualsiasi genere ai partigiani, che essi definivano “banditi”.
Alle 11 di mercoledì 22 dicembre, per ordine e sotto la direzione di Zuccari, dieci
dei fermati del giorno precedente, «persone particolarmente indiziate [...] che le delazioni avevano indicato come attivi resistenti o comunque favoreggiatori», vennero fucilati nella piazza di Borgosesia. Un’altra vittima, l’undicesima, fu un operaio che, per
un colpo sparatogli proditoriamente da un milite e le percosse ricevute al Comando del
63o battaglione, morì la sera del 22 dicembre all’ospedale di Borgosesia15.
Compiuta la rappresaglia a Borgosesia, Zuccari al comando del battaglione in autocolonna puntò su Crevacuore che raggiunse verso le 15. Il comandante fascista, intenzionato a seminare il terrore tra la popolazione di Crevacuore, che simpatizzava e aiutava
i partigiani, dopo aver preso possesso del municipio, ingiunse al delegato del podestà di
radunare gli industriali ai quali si rivolse con parole di minaccia. I militi, intanto, ormai
avvezzi all’uso della violenza di cui si serviva Zuccari, procedevano, su indicazione di
una spia locale, all’arresto di numerosi antifascisti, che percossero, e devastarono diverse abitazioni16.
Uno degli arrestati, un pacifico commerciante sfollato da Torino ingiustamente accusato di essere comunista ed ebreo, trascinato al Comando del battaglione dai militi,
che gli avevano saccheggiato la casa e infierito su di lui per le vie del paese, venne, per
ordine di Zuccari, immediatamente passato per le armi da un plotone di esecuzione17.
Dopo Crevacuore la colonna di Zuccari raggiunse verso sera Cossato. Altra località
con una popolazione che sosteneva la lotta partigiana, luogo di residenza di partigiani
autori di clamorose azioni18.
15
Si veda P. AMBROSIO, Dicembre 1943: iniziano le azioni contro i “ribelli”, cit., p. 20.
I dieci fucilati furono: Enrico Borandi, Adelio Bricco, Mario Canova, Giuseppe Fontana, Emilio
Galliziotti, Angelo Longhi, Silvio Loss, Giuseppe Osella, Renato Rinolfi, Renato Topini. Virginio Tognol fu l’undicesima vittima. Nella stessa mattinata del 22 a Pray due partigiani del
“Matteotti” uccisero un ufficiale fascista e ferirono gravemente il graduato che era con lui
ed a Coggiola altri loro compagni arrestarono e portarono al “campo” alcuni iscritti al fascio
repubblicano del paese. Operazione sulla quale un “Pro memoria”, non datato, della Prefettura
repubblicana di Vercelli annotava: «Fonte fiduciaria informa che i banditi comunisti hanno
prelevato in Coggiola le seguenti persone iscritte al Partito Nazionale Repubblicano (nella
giornata di ieri) Segretario Politico Gambetti Carlo Cc. Nn. scelta, Micotti Dante, Rag. Fizzotti
Arturo, Daziere Pozzi Mario, Impiegata Scalabrino, Operaio Duviglio Ezio e forse altri. Gli iscritti al Pfr in Coggiola sono circa 30. I registri degli iscritti al Partito sono in mano ai banditi.
I banditi si troverebbero nelle zone di Viera-Rivò-Alpe Novejs (altezza 1.200 m.). Sino a Viera
si va in auto. Nome dei ribelli che ieri hanno operato a Coggiola: Marabelli Nello di Pray, residente a Coggiola, Debiasi Mimmo, residente a Coggiola, Angelino Angelo, Capitano ex
Regio Esercito, Galdini residente a Coggiola, Milanesi (fratello di un milite) residente a Coggiola, Zecca Luciano residente a Coggiola» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto,
mazzo 65).
16
Su questo episodio e altri relativi alla Resistenza in Valsessera si veda A. ORSI, Un paese
in guerra, Borgosesia, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
in provincia di Vercelli, 1994.
17
Il fucilato si chiamava Remo Fava Frera.
18
In un rapporto del 24 dicembre inviato a tre comandi tedeschi di Torino, al Comando
tedesco ed al capo della provincia di Vercelli, il comandante del Gruppo carabinieri di Vercelli
11
Anche a Cossato il comandante del “Tagliamento” predispose i suoi uomini e si
comportò come a Borgosesia e Crevacuore. Schierò i militi per le vie del paese, sguinzagliò delle pattuglie nelle case e, insediato il comando in municipio, convocò il podestà
che venne pesantemente minacciato e svillaneggiato. Prima di lasciare Cossato e rientrare in serata col battaglione a Vercelli, Zuccari ricorse ancora una volta al terrorismo
per intimidire la popolazione: due persone che - a dire dei militi che le avevano arrestate
nelle proprie abitazioni - erano state trovate in possesso di armi, vennero, su suo ordine, fucilate nella piazza principale19.
Sul suo comportamento a Cossato Zuccari alle ore 19.20 del 22 dicembre comunicava al segretario particolare di Morsero, Enzo Lipartiti: «Stamane dalle 11 alle 12 un
gruppo di ribelli a Cossato hanno devastato il Municipio la Caserma dei Carabinieri, la
Gil ed altri uffici pubblici. La popolazione ha preso parte attiva alla dimostrazione sventolando bandiere rosse e salutando col pugno chiuso. Arrivato a Cossato attraverso
Crevacuore col battaglione ove ho fatto fucilare un ebreo favoreggiatore di ribelli, ho
arrestato un buon numero di ribelli, in possesso di armi e munizioni. Ho intenzione di
fucilarne parecchi. Chi non si presenterà al lavoro sarà passibile alla pena di morte. Ho
emanato in proposito un bando»20.
Ma le atrocità commesse a Borgosesia, Crevacuore e Cossato dai militi del 63o battaglione “Tagliamento” non furono le sole, perché a scatenare una rappresaglia non meno
spietata di quella fascista, nella stessa giornata del 22 dicembre, ci pensarono i militari
tedeschi, animati da spirito di vendetta per la morte di tre loro commilitoni (un ufficiale,
un graduato, un soldato), uccisi dai partigiani del distaccamento “Fratelli Bandiera” il
mattino del giorno precedente21.
A Biella le vittime della repressione tedesca furono sette. A Tollegno quattro civili due dei quali ragazzi - vennero trucidati dagli uomini di una autocolonna proveniente da
Biella. A Valle Mosche (Campiglia) un civile venne ucciso dalla stessa autocolonna che,
scriveva: «Fra i componenti il gruppo di malviventi che alle 13 del 20 corrente, hanno aggredito la caserma dei carabinieri di Cossato, sono stati riconosciuti e sottonotati: Zona Imer da
Cossato, già confinato politico, pericoloso; Bonello Diego, della frazione Ronco di Cossato,
pericoloso; Angiono - detto il Baraggione - non meglio identificato, pericoloso; Rivardo Silvio,
già falegname della tintoria Biellese in Cossato, pericolosissimo; Amisano Quinto, non armato
istigava i ribelli ad uccidere il comandante la stazione; Bonardi, non meglio indicato, abitante
alla frazione Cervo di Cossato, il quale veniva chiamato il capitano dai malviventi. I suddetti
sono attivamente ricercati. Sono in corso indagini per la loro completa identificazione» (ASV,
Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1). Sui fatti di Pray, Coggiola, Crevacuore
e Cossato si veda anche C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 98-99 e A. POMA - G. PERONA, op. cit., p.
99, i quali erroneamente affermano essere il 23 dicembre il giorno in cui questi accaddero.
19
I fucilati furono Ivo Boschetti e Giovan Battista Pizzorno.
20
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65.
21
Dei tre tedeschi uccisi il mattino del 21 dicembre due (l’ufficiale e il graduato) trovarono la morte al bivio tra Tollegno e Pralungo, luogo in cui si erano appostati i partigiani del
“Bandiera” per appoggiare e proteggere gli operai in sciopero della valle Cervo. Il terzo, ferito con una raffica di mitra da una pattuglia dello stesso distaccamento nella salita di Riva,
venne trovato morto nel corridoio di una casa di via Umberto, fronteggiante la piazza S.
Cassiano (oggi piazza S. Giovanni Bosco) di Biella.
12
ripartita da Tollegno, risalì la valle del Cervo sparando a caso per terrorizzare la popolazione22.
Il mattino del 23 i tedeschi ripresero l’azione terroristica e scelsero come meta della
loro spedizione punitiva Valle Mosso, l’importante centro industriale della valle Strona
i cui lavoratori avevano sempre appoggiato i partigiani e dato un notevole apporto allo
sciopero in corso23.
Il compito dell’operazione venne affidato dal Comando germanico ad un reparto
militare che, muovendo su camion da Biella e passando per Pettinengo, giunse a Valle
Mosso verso metà mattina.
Con scrupolo e meticolosità i militari tedeschi eseguirono un rastrellamento nelle
case del centro e le persone prelevate dalle proprie abitazioni vennero condotte nella
piazza del paese, ove altre, già arrestate durante il tragitto, erano in attesa. Tutti i fermati vennero sottoposti ad un accurato controllo dei documenti, quindi dalla cinquantina di fermati i rastrellatori ne scelsero tre: tre operai in sciopero. «Dodici tedeschi formarono il plotone di esecuzione e fucilarono i tre messi contro il muro»24. Erano le 11.30
del 23 dicembre 1943.
Secondo i piani dei nazisti e dei fascisti il loro terrorismo, deliberatamente atroce
contro inermi cittadini, avrebbe dovuto suscitare tra i biellesi rancore e ostilità nei confronti dei partigiani. Ma quella reazione antipartigiana, dopo la feroce repressione che
aveva atterrito la gente e sulla quale i nazifascisti contavano per tagliare il legame tra
popolazione e garibaldini, non ci fu. Le aspettative dei nazifascisti non si avverarono:
proprio gli operai e il ceto popolare più colpito tramutarono il dolore per le rappresaglie
in un duraturo odio per gli oppressori.
22
Le vittime della rappresaglia nazista furono: Angelo Cena ucciso a Biella il 21 dicembre;
Basilio Bianchi, partigiano del “Mameli”, Carlo Gardino, Norberto Minarolo, Aurelio Mosca,
Pierino Mosca, Francesco Sassone fucilati a Biella il 22 dicembre; Giacomo Janno, Angelo
Martinazzo, Pietro Pastore, Alfonso Strippoli uccisi a Tollegno il 22 dicembre; Giuseppe Mosca
Zunca ucciso a Valle Mosche (Campiglia Cervo) il 22 dicembre; Gino Camozza, Ugo Lanzone, Francesco Panichi fucilati il 23 dicembre a Valle Mosso.
23
Durante le giornate di agitazione e di sciopero degli operai biellesi Ermanno Angiono
“Pensiero”, il giovane comandante del “Piave”, il 22 dicembre parlò agli scioperanti di Cossato e Valle Mosso e Francesco Moranino “Gemisto”, comandante del “Pisacane”, nei giorni 16, 17 e 18 dicembre si rivolse agli operai in sciopero di Crevacuore, Coggiola e Ponzone.
L’intervento dei due comandanti garibaldini fu il momento più alto dell’incontro tra operai e
partigiani e di entrambi accrebbe il prestigio e la popolarità.
24
Da una testimonianza di Edda Panichi in “La pulce di Valle Mosso”, n. 4, marzo 1983.
13
Il “Pisacane” a Postua. Nuovi scioperi operai
L’azione di rappresaglia dei nazifascisti cessò dopo l’eccidio di Valle Mosso, però in
Valsessera e nella valle Strona la presenza intimidatoria di reparti del 63o battaglione “M”
e tedeschi25 si intensificò.
Per i partigiani dei distaccamenti “Piave”, “Matteotti” e “Pisacane” l’arrivo improvviso di reparti nemici autotrasportati in località delle sopraddette vallate creò ulteriori
problemi negli spostamenti. Per le squadre e le pattuglie dei garibaldini fu quindi giocoforza muoversi con più circospezione. Tanto più che alla rete stradale che univa i centri
più importanti delle due vallate, un’altra rete secondaria, ma pur sempre carrozzabile,
collegava le numerose frazioni esistenti nella zona.
La nuova situazione creatasi dopo il 23 dicembre non impedì tuttavia che nella giornata del 25 dicembre i partigiani del “Piave”, del “Matteotti” e del “Pisacane” effettuassero azioni a Mottalciata, Coggiola e Crevacuore, mentre nello stesso giorno a Crocemosso ci fu uno scontro a fuoco tra un reparto tedesco ed uno fascista26. Oltre ai nuovi
rischi che i partigiani potevano correre quando scendevano “in basso”, l’arrivo dell’inverno rese ancora più dura la loro vita “in montagna”. Il freddo e le nevicate di novembre e di dicembre che, al di sopra dei 1.000 metri, avevano superato i cinquanta centimetri, peggiorarono le condizioni di vita nelle baite disagevoli e malsane.
Le numerose corvée cui i partigiani dovevano sottoporsi per portare alle loro basi i
25
Sulla entità delle truppe tedesche impiegate nel Biellese nei giorni di cui si parla, la sola
notizia al riguardo è contenuta nel resoconto di una conversazione telefonica avvenuta tra
il capo della provincia Morsero e il ministro dell’Interno Guido Buffarini alle ore 12.40 del 21
dicembre, da cui risulta che Morsero «ha confermato la situazione critica che si va diffondendo sempre più. Ha messo in particolare evidenza lo sciopero totalitario [...] che il Battaglione “M”, avuto dei rinforzi, operava a Borgosesia e che Compagnia tedesca aveva raggiunto Biella” (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65). A Biella in quel
momento aveva sede un comando piazza ed a Vercelli vi era il Comando del 15o reggimento
di polizia germanica.
26
Su questo fatto Morsero inviò al generale Nicchiarelli un fonogramma in cui fra l’altro
affermava: «Giornata 25 corrente verso ore 10 per errore dovuto at equivoco ritenendosi
reciprocamente partigiani verificavasi at distanza scontro at fuoco tra reparti battaglione “M”
operanti zona propria competenza della Vallemosso et Valsesia in località Crocemosso-Vallemosso con reparto tedesco di presidio a Biella destinato operare quel settore et insaputamente portatosi zona Valle Mosso punto Nostro reparto aveva tre feriti et un morto dovuto
pare specialmente colpo mortaio punto Non ancora avuto notizie perdite tedesche punto
Chiarito immediatamente doloroso equivoco entrambi reparti riunivansi at Crocemosso per
esaminare eventuale ulteriore sviluppo azione poi rientravano rispettive sedi punto Fatto
ancora presente comandi tedeschi assoluta necessità maggiore contatto et collegamento tra
truppe comunque operanti punto Rinnovata eguale raccomandazione anche comando nostri
reparti punto Non si esclude che incidente sia stato causato at opera partigiani richiedenti
improvviso intervento tedeschi ovvero indicando at questi come banda ribelli nostro reparto
punto» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
14
viveri e la guardia di due o tre ore, che di notte, ed a turno, dovevano fare al “campo”,
affaticavano non poco quei giovani in armi. Ma molti partigiani, anche se male equipaggiati e ancor peggio calzati, cantavano: «Accorriamo al grido che sorge che ci chiama l’Italia salvar...».
Il 5 gennaio 1944 il distaccamento “Pisacane”, ubbidendo alle direttive diramate dal
Partito comunista e dal Comando generale dei garibaldini sull’opportunità di costituire
delle zone controllate dai partigiani, in cui prefigurare la futura democrazia, lasciò la
base delle Piane di Roncole e si spostò a Postua. Un piccolo centro di una valle situata
tra la Valsessera e la Valsesia in cui scorre il torrente Strona, collegato a Crevacuore da
una carrozzabile di pochi chilometri27. L’iniziativa del “Pisacane”, che, per il momento
in cui avveniva, era una dimostrazione di vitalità contro i nazifascisti, infuse fiducia agli
abitanti della Valsessera, in particolare agli operai i quali contavano molto sull’appoggio
dei partigiani alle loro richieste o agitazioni.
Venerdì 7 gennaio a Biella alcune centinaia di operai dei lanifici G. Rivetti & Figli,
trasgredendo ancora una volta le leggi che vietavano le agitazioni e gli scioperi, interruppero il lavoro per protestare contro una detrazione salariale che ritenevano ingiusta28.
Il giorno dopo il commissario Nardocci della Questura di Vercelli, recatosi a Biella
di primo mattino per rendersi conto della “vera situazione”, constatò che «allo stabilimento Rivetti parte degli operai scioperavano pur rimanendo nei rispettivi reparti» e
una analoga situazione esisteva nel lanificio Rista e in altri stabilimenti di Biella.
Le autorità, di fronte al perdurare e all’estendersi dello sciopero, ricorsero alla forza
e inviarono nel «maggior opificio di proprietà del conte Rivetti» un reparto di militari.
Insieme ai cinquanta soldati tedeschi comandati da un tenente c’erano Nardocci, il
capitano dei carabinieri, il commissario prefettizio e agenti di Ps. Vennero radunati gli
operai e Nardocci ingiunse loro di «cessare lo sciopero e riprendere immediatamente il
lavoro». Pressione venne fatta anche dal comandante tedesco e dal commissario pre-
27
Sulla occupazione di Postua il podestà, in una lettera al capo della provincia di Vercelli
del 10 gennaio 1944, scriveva: «La sera del 5 gennaio u.s. una squadra armata di 40/50 ribelli
stanziata sui monti della vallata dello Strona è scesa nell’abitato, prendendo alloggio presso
le scuole. Dopo una permanenza di quattro giorni ed in seguito all’interessamento delle Autorità locali, i predetti furono fatti sloggiare e si portarono in una casa privata dove alloggiano tutt’ora. Dalle aule scolastiche nulla fu asportato; mentre dall’Ufficio comunale risultano
asportati i ruoli per l’esazione delle imposte e tasse erariali, sindacali e comunali 1944, oggetti
di cancelleria, stampati vari ecc. Del fatto è stato informato il Comando dei carabinieri di Serravalle per le necessarie segnalazioni» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo
65).
28
Per questa astensione dal lavoro Morsero inviò il giorno stesso un «fonogramma urgentissimo» al Ministero degli Interni a Maderno - in cui fra l’altro affermava: «Zona Biella
oggi parziale sciopero maestranze Ditta Rivetti perché non vorrebbero detrazione premio
500 Lire da gratifica natalizia 192 ore. Minacciasi sciopero totale detta Ditta e forse altre.
Disposto domani presenza rappresentante Sindacale et servizio funzionario et Agenti per
ultimo invito et diffida. Precisato che farò agire Forze Armate italo-tedesche se non riprenderanno subito lavoro. Giudico pregiudizievole tutti fini continuare ancora tergiversare. Est
invece assolutamente necessario dare avviso segno evidente forza Autorità. Diffidati Industriali at offrire gratifiche o comunque fare rinunce at favore operai in contrasto tassative
disposizioni Commissariato Nazionale Lavoro» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
15
fettizio, ma gli operai non ripresero il lavoro. Alle 11.30 Nardocci, vista la «situazione
grave», ordinò di arrestare «undici uomini e diciassette donne» fra gli scioperanti più
indiziati di essere i «sobillatori» dello sciopero. Gli arrestati vennero fatti salire su un
autocarro e, scortati da «sei soldati tedeschi con mitragliatori e agenti», tradotti immediatamente nelle carceri di Vercelli.
La risposta operaia alla pesante intimidazione delle autorità nazifasciste non si fece
attendere: «Alle ore 15.30 lo stabilimento Rivetti di Biella scioperava in pieno con circa
tremila operai. Alla Filatura Biellese scioperavano cento operai. Allo stabilimento fratelli
Bertotto quattrocento operai. Allo stabilimento Badà venti operai. Allo stabilimento Simone Federico e figli 150 operai. Allo stabilimento Reda 150 operai»29.
Alle ore 17 dello stesso 8 gennaio il capo della provincia Morsero, «per fronteggiare
sciopero operai minacciato anche per lunedì mattina nella zona di Biella», invitò Zuccari
a voler disporre affinché almeno «una compagnia rinforzata» del 63o battaglione “M”
fosse trasferita «al più presto e non oltre le primissime ore del mattino» di domenica 9
a Biella.
Lunedì 10 gennaio, nonostante la presenza intimidatrice delle pattuglie di militi del
63o battaglione, inviate a sorvegliare varie fabbriche di Biella e le fermate delle linee tranviarie, lo sciopero continuò negli stabilimenti in cui era iniziato venerdì e venne pure
attuato dagli operai di altri stabilimenti.
Diversa fu invece l’azione tendente ad ottenere il pagamento delle centonovantadue
ore che si sviluppò in Valsessera, nel Ponzone e nel Triverese il giorno 11. A prendere
l’iniziativa in queste zone furono i garibaldini dei distaccamenti “Pisacane” e “Matteotti” che, per forzare le ditte a pagare, fecero uscire i lavoratori dalle fabbriche e portarono nelle loro basi, perché si opponevano alle richieste operaie, due industriali fra i più
noti e rappresentativi della Valsessera30.
29
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65. Sulla causa dello sciopero il
questore di Vercelli, nel comunicare a Morsero quanto il Nardocci gli aveva riferito, scriveva: «Detto Commissario si è convinto che lo sciopero ha sfondo sovversivo e non economico
e ritiene che i datori di lavoro non siano estranei al movimento. Ha chiesto ai dirigenti dello
stabilimento Rivetti se nella eventualità che venisse accordato l’aumento gli operai fossero
soddisfatti, ma questi hanno risposto che si ritornerebbe sempre da capo, perché invece di
denari gli operai vorrebbero doppia razione di generi razionati» (ibidem).
30
Sull’intervento partigiano il questore in data 11 gennaio comunicava al capo della provincia: «Questa mattina ribelli presentatisi stabilimento Bozzalla e Lesna di Coggiola pretendevano che venissero pagate agli operai le 192 ore. Al rifiuto del direttore hanno fatto uscire
le maestranze dallo stabilimento. Dopo circa un quarto d’ora si ripresentavano dal direttore
che prelevavano come ostaggio, dichiarando che l’avrebbero rilasciato solamente quando
sarebbero state pagate le 192 ore suddette. Il direttore risponde al nome di Hary Luigi. Stessi
ribelli si portavano quindi dalla ditta Barberis Canonico Giovanni di Pratrivero, obbligando
gli operai ad uscire dallo stabilimento. In seguito si portavano dalla ditta Ermenegildo Zegna
di Trivero ed alla filatura Piemonte sempre obbligando gli operai ad astenersi dal lavoro»
(ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65). Il giorno 12 il capo della provincia Morsero inviò al Comando polizia tedesco di Vercelli questo fonogramma a mano: «Informasi che 1000 operai stabilimento Bozzalla di Coggiola - 880 operai stabilimento Zegna di
Trivero - 1000 operai stabilimento Fila di Coggiola già assenti dal lavoro da ieri non si sono
presentati per paura rappresaglie. Direttore Amministrativo stabilimento Bozzalla ancora trattenuto ribelli» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
16
Il risoluto intervento dei partigiani in favore degli operai convinse le ditte della Valsessera e delle zone limitrofe a soddisfare le richieste dei lavoratori. Fu poi la volta degli
imprenditori delle altre vallate biellesi e di Biella, i quali non poterono più tergiversare e
furono costretti a dare ai propri dipendenti quanto era già stato corrisposto ai lavoratori
delle altre ditte.
Nell’indurre gli industriali valsesserini ad accettare le richieste operaie, decisivo fu
il ruolo del “Pisacane”, nella cui sede di Postua, oltre a parenti, amici e collaboratori dei
partigiani, si recarono industriali per discutere con “Gemisto” (Francesco Moranino) i
problemi relativi agli spacci aziendali ed alle forniture militari ai tedeschi.
Il dinamismo del “Pisacane”, in alcune circostanze marcatamente antipadronale, sancì
la definitiva rottura tra i partiti del Cln ed i comunisti, ai quali le forze antifasciste moderate e conservatrici attribuivano la responsabilità della situazione che si era venuta a
creare nel Biellese a causa degli scioperi, ma che di fatto erano stati lasciati soli nell’organizzare e dirigere la lotta armata contro i nazifascisti. Per le autorità provinciali nazifasciste invece, la presenza a Postua dei partigiani, le cui iniziative rafforzavano i loro
rapporti con la popolazione, diventava, col passare dei giorni, un problema politico serio
da risolvere presto. Il fatto poi che i titolari dei lanifici Trabaldo Pietro Togna di Pray e
Bozzalla & Lesna di Coggiola avessero avuto approcci per dirimere questioni inerenti
alla produzione dei loro stabilimenti con il Comando del “Pisacane”, mandava in furia i
fascisti che accusavano molti industriali di fare il doppio gioco e creava un precedente
che i tedeschi non potevano accettare.
Intanto i partigiani dei distaccamenti “Bixio”, “Mameli”, “Bandiera”31 e “Piave”, dopo le azioni in appoggio agli operai in sciopero, erano ritornati alle loro basi. Praticamente isolati, alle prese con crescenti problemi per il rifornimento di viveri, essi erano
preoccupati per come la popolazione, ed in particolare gli operai, si sarebbero comportati nei loro confronti in seguito alla rappresaglia attuata dai nazifascisti nelle giornate
tra il 21 e il 23 dicembre. Una barbara ritorsione, pagata con decine di vittime inermi, la
cui responsabilità i nazifascisti cercavano di far ricadere sui partigiani, che avevano
osato colpire a morte appartenenti alle loro forze armate. Ma il tentativo dei tedeschi e
dei repubblichini di criminalizzare i partigiani per dividere il popolo da essi non riuscì.
In breve tempo vennero ristabiliti i collegamenti tra i distaccamenti e la rete dei collaboratori, il che consentì ai partigiani di compiere nuovamente azioni in tutto il Biellese32.
Purtroppo, l’impossibilità di dare ai giovani partigiani - molti dei quali non avevano
mai sparato un colpo - un’adeguata istruzione all’uso delle armi e l’eccessiva disinvoltura con cui queste venivano maneggiate, fu causa della morte di alcuni di essi. Pierino
Milanesio (classe 1925), del distaccamento “Bixio”, perse la vita il 13 gennaio 1944 per
un colpo partito accidentalmente dall’arma di un compagno. Per lo stesso motivo Al-
31
Il 24 dicembre il distaccamento “Bandiera” lasciava la base del monte Cucco. Dei suoi
effettivi una trentina raggiunsero il Bocchetto Sessera, ove si sistemarono in un edificio colà
esistente, mentre alcuni altri si trasferirono al “Bixio” nell’alta valle dell’Elvo.
32
Il 6 gennaio 1944 Morsero telegrafava al Ministero dell’Interno: «In questi giorni gennaio rinnovatesi azioni sporadiche ribelli quasi in tutte le località ove reparti hanno operato
rientrando senza possibilità lasciare presidi» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
17
fonso Manoli (classe 1925), del distaccamento “Mameli”, morì il 14 gennaio 1944 e
Ferdinando Barazia (classe 1925), responsabile del mortale incidente, non reggendo al
senso di colpa, il 19 gennaio 1944 si suicidò con il mitra del comandante. Il 24 febbraio
1944 un colpo partito dalla propria arma causò la morte di Roberto Becchia (classe
1925), del distaccamento “Piave”.
La ripresa degli scioperi nelle fabbriche all’inizio di gennaio confermava che il contributo dei lavoratori alla lotta di liberazione anziché esaurirsi, si riproponeva con rinnovato vigore. Ai nazifascisti, verso i quali cresceva l’odio e l’ostilità della gente, per cercare di sconfiggere il movimento di Resistenza non restavano che la violenza, il sopruso e l’intimidazione. Venne perciò intensificata l’attività della compagnia del 63o battaglione di stanza a Biella, i cui militi, «oltre a procedere a numerosi fermi di persone
sospette ed attingere informazioni sui ribelli e favoreggiatori», nei giorni 12, 13 e 14
gennaio effettuarono puntate con i loro “veloci” autocarri a Masserano, Andorno Micca, Strona, Mosso Santa Maria. In quest’ultima località, il mattino del 14 gennaio, un
plotone di fucilieri, inviato su «ordine della polizia germanica», riuscì ad intercettare tre
partigiani del “Piave” che erano andati a «prendere il pane». Nello scontro a fuoco che
ebbe luogo perse la vita Imer Zona “Beretta” - primo caduto del distaccamento -, furono catturati gli altri due partigiani e morì un milite33.
Il ferale avvenimento di Mosso Santa Maria, che per la sua dinamica presupponeva
da parte dei nazifascisti la conoscenza degli itinerari abituali dei partigiani, indusse i
garibaldini non solo ad una maggiore cautela nei loro spostamenti, ma anche ad una più
attenta ricerca e individuazione degli informatori e delle spie nemiche per la loro eliminazione.
Nell’ultima decade di gennaio, per boicottare la produzione di commesse militari ed
evitare agli operai la reazione nazifascista, squadre di garibaldini ricorsero, in valle Strona e nella valle Cervo, al sabotaggio di alcuni impianti elettrici, provocando la sospensione dell’erogazione di energia elettrica a diversi stabilimenti industriali34.
33
Sull’episodio di Mosso Santa Maria il maresciallo maggiore comandante la sezione
carabinieri di Biella comunicava alla Prefettura di Vercelli: «Ore 12 oggi 14 corrente località
“Bellaria” di Mosso Santa Maria (Vercelli) gruppo ribelli veniva conflitto con milizia repubblicana e tedeschi giunti sul posto con due camion. Nel conflitto rimaneva ucciso un ribelle
non potuto identificare e un milite. Ritiensi siano feriti da parte dei ribelli. Due ribelli sono
stati catturati dai militi. Cadavere ribelle è stato trasportato in montagna dai compagni e cadavere repubblicano trasportato a Biella» (Asv, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto,
mazzo 1).
34
Il 23 gennaio alle ore 20.30 alla frazione Baraggia di Lessona una squadra del “Piave”
provocò la distruzione dei trasformatori della cabina elettrica della S.I.E. Dinamo. Alle ore
20.30 del 24 gennaio partigiani del “Piave” fecero saltare, presso la fabbrica Picco di Valle
Mosso, “i macchinari” della centrale “Alta Italia”. Il 26 gennaio, alle ore 10, una squadra del
“Bandiera” danneggiò gravemente le tre turbine della centrale di Bogna (Quittengo) di proprietà della S.A. Idroelettrica Maurizio Sella. Il 27 gennaio, alle ore 20.30, una pattuglia del
“Piave” arrecò notevoli danni “ai macchinari” della centrale elettrica della Società “Dinamo”
di Valle Mosso. Il mattino del 28 gennaio partigiani del “Piave” si presentarono al direttore
dello stabilimento Zegna di Trivero «al quale dichiaravano che se la ditta avesse ancora
consegnato una sola pezza di stoffa alle autorità germaniche, avrebbero fatto saltare con la
dinamite tutto lo stabilimento» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
18
I tedeschi a Postua. Il 115o battaglione “M” Montebello a Biella
Per far desistere i partigiani dal compiere altri atti di sabotaggio in valle Strona e
porre fine alla presenza dei garibaldini a Postua, i tedeschi il 25 gennaio effettuarono
una prima operazione di “polizia militare” finalizzata alla distruzione dei tre distaccamenti che agivano in Valsessera e nella valle Strona. Due vallate dove l’attività delle
fabbriche e il comportamento degli industriali erano sempre più condizionati dalle azioni dei partigiani.
Alle ore 8 del 25 gennaio «un reparto di polizia germanica al comando del tenente
Kraus [...] forte di una sessantina di uomini, largamente dotati di armi automatiche, di
bombe a mano e di armi portatili, appoggiato da due carri armati pesanti e da una autoblindo leggera», proveniente dalla zona di Varallo dove dal 15 al 24 gennaio avevano
svolto «operazioni di rastrellamento di ribelli»35, attaccava il distaccamento “Pisacane”
a Postua.
Era la prima volta che i garibaldini biellesi venivano attaccati e per una fortuita coincidenza in visita al “Pisacane” si trovava “Nedo” (Piero Pajetta), l’infaticabile comandante di brigata la cui esperienza fu di grande aiuto nell’apprestare il piano di difesa. I partigiani, che disponevano di un fucile mitragliatore Breda e di una quarantina di fucili con
scarse munizioni, nel reagire al soverchiante fuoco dei mezzi corazzati e delle avanzanti
Ss, colpirono alcuni nemici ma lasciarono sul terreno Pietro Tellaroli “Barba” - il primo
caduto del distaccamento - ed un altro partigiano venne ferito seriamente36. Costretti
ad abbandonare le postazioni per non essere accerchiati, essi si ritirarono da Postua
nelle baite dell’alpe Piane. Qui rimasero alcuni giorni, poi si spostarono a Noveis e presero
dimora nell’Albergo Monte Barone. Occupato l’abitato di Postua, i tedeschi uccisero
un vecchio, arrestarono due civili che, deportati in Germania, non fecero più ritorno,
diedero alle fiamme alcune abitazioni e, a colpi di cannone, incendiarono alcune baite.
Lasciata Postua, i mezzi corazzati e l’autocolonna prima di raggiungere Biella risalirono la Valsessera, dove per terrorizzare la popolazione le Ss uccisero cinque persone
in località diverse e distrussero coi cannoni dei carri armati diverse baite poste sui pendii della vallata37.
35
Da un rapporto del comandante del Gruppo carabinieri di Vercelli inviato alla Prefettura
di Vercelli il 26 gennaio 1944 (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
36
Il ferito, Arrigo Gallian “Russo”, venne salvato dalla cattura dalle suore che lo nascosero nell’asilo.
37
Il vecchio ucciso a Postua era Ettore Viano. I due deportati in Germania si chiamavano
Giacomo Galfione e Benedetto Gallina, per i quali si veda ALBERTO LOVATTO, Memoria della
deportazione a Postua, in “l’impegno”, a. X, n. 3, dicembre 1990, pp. 12-24. In Valsessera, a
Crevacuore, venne ucciso Vitale Vercella Baglione; a Pray Nice Filera e Aldo Perrone; a Portula
Mario Gila e Carlo Angelino Giorset. Sul combattimento di Postua si veda anche FRANCESCO
MORANINO “GEMISTO”, “Fra le vigne con una fascia di colpi da 20 mm. in mezzo al petto. Il
primo combattimento in un paese della Valsessera”, in “Baita”, n. 4, 28 gennaio 1946.
19
I1 26 gennaio, proveniente da Novara, giungeva a Biella il 115o battaglione “M”
Montebello della Guardia nazionale repubblicana «con 20 ufficiali e 350 uomini di truppa al comando del Tenente Colonnello Languasco Aurelio»38. L’arrivo a Biella del battaglione “Montebello”, formato da volontari fascisti determinati nella repressione dei
partigiani, rafforzò il dispositivo militare antipartigiano il cui Comando, potendo disporre
di un altro reparto mobile, non tardò ad utilizzarlo per il controllo delle valli del Cervo,
dell’EIvo e nella zona della Serra, dove operavano i partigiani del “Bandiera”, del “Mameli” e del “Bixio”.
Il mattino del 27 gennaio Salvatore Solinas “Cuffia” - primo caduto del “Bandiera”
- venne ucciso a Tavigliano da un reparto tedesco, giunto improvvisamente sul posto,
mentre con altri tre compagni stava ritirando in una panetteria il pane per il distaccamento.
La morte di “Cuffia” dovuta - come in casi analoghi - ad una delazione, ripropose ai
partigiani il problema delle spie fasciste: individui della cui attività si avvalevano i nazifascisti per uccidere, catturare, deportare in Germania chi lottava o collaborava con la
Resistenza. Per fronteggiare questo pericolo tutti i distaccamenti garibaldini intensificarono la caccia alle spie per la loro soppressione: un provvedimento drastico che si
rese necessario per tutelare l’incolumità dei singoli partigiani, la sicurezza dei distaccamenti, dare protezione ai collaboratori.
In risposta alle sempre più frequenti atrocità nazifasciste, essere implacabili contro
dirigenti e responsabili del fascismo repubblicano, membri della milizia e della Guardia
nazionale repubblicana, collaboratori attivi dei tedeschi e spie, diventò per i partigiani
una necessità che non escludeva azioni mirate ad personam che avessero effetti deprimenti sul morale del nemico.
In una di queste azioni, compiuta da quattro partigiani del “Bixio” la sera del 29
gennaio a Muzzano, che molto scalpore suscitò all’epoca, vennero uccisi il centurione
della milizia Pietro Peraldo, componente del Tribunale speciale di Novara, il commissario prefettizio di Muzzano e rimasero feriti seriamente un capomanipolo della milizia
che abitava nella stessa casa del Peraldo e il vicecomandante del distaccamento Enzo
Pezzati “Ferrero”39.
38
In una nota informativa del 6 marzo 1944 inviata al capo della provincia di Vercelli, il
maggiore Alessandro Manfredi, comandante del 115o battaglione “M” Montebello, segnalò
che alle ore 10.30 di quella data la «forza effettiva» del battaglione era: «Ufficiali 17-Sottufficiali 39-Truppa 344. La forza presente: Ufficiali 16-Sottufficiali 29-Truppa 253. Armamento
e munizionamento in consegna: Elmetti metallici 355 - mortai d’assalto 9 - cassette per bombe
mortai 36 - Fucili mitragliatori 9 - cassette portamunizioni 22 - mitragliatrici calibro 8 n. 8 cassette portamunizioni per mitragliatrici 32 - cartucce per fucili mitragliatori 8.000 - bombe
per mortai d’assalto 1.215 - cartucce per mitragliatrici 20.000 - fucili modello 91 n. 63 - moschetti 91 T.S. 8 - moschetti modello 91 n. 149» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
39
Sulla uccisione del Peraldo da parte dei partigiani del “Bixio” il comandante del Gruppo
carabinieri di Vercelli in data 7 febbraio 1944 inviò al capo della provincia Morsero un “promemoria personale” in cui fra l’altro affermava: «In relazione alla Vostra richiesta di accertamenti fatta al comandante la compagnia di Biella, sul conto del maresciallo maggiore Forte
Pietro, comandante la stazione di Sordevolo, perché simpatizzerebbe per il movimento dei
ribelli nella sua giurisdizione e che, date le sue conoscenze nell’ambito dei ribelli stessi e
20
Lunedì 31 gennaio un’autocolonna di militari germanici dotata di cannoncini, mortai ed appoggiata da autoblindo puntò su Bagneri: località della valle dell’Elvo ove da
due giorni si trovava il distaccamento “Bixio”. I garibaldini, che disponevano solo di
fucili con poche munizioni, più che a resistere si limitarono a controllare e a ostacolare
i movimenti del nemico con qualche colpo di fucile, ritirandosi poi più in alto per evitare l’accerchiamento.
Il mattino del 2 febbraio un’autocolonna tedesca in azione di rastrellamento, dopo
aver raggiunto Oriomosso (Quittengo) nell’alta valle Cervo, attaccò il “Mameli”. Nel
corso dell’operazione, che si protrasse per diverse ore, vennero «sparati diversi colpi
di cannone» che provocarono «incendi nei boschi, mentre molte cascine venivano incendiate dalle truppe stesse»40. Alla fine della giornata i partigiani, che erano riusciti a
superare la prova del rastrellamento senza dar segni di sbandamento, lamentavano la
morte di Pierino Lanati, fatto prigioniero e fucilato dai tedeschi tra le macerie fumanti
delle baite dell’alpe Orio Secco, e la distruzione delle modeste riserve di viveri. Costretti ad abbandonare Orio Secco, sede del distaccamento, gli uomini del “Mameli” ritornarono nuovamente in una baita della Costa Pessine.
comunque delle persone antirepubblicane della zona, dovrebbe certamente conoscere i retroscena ed i responsabili morali e materiali dell’uccisione del Centurione Peraldo e del Commissario prefettizio di Muzzano signor Dondana, il sottufficiale opportunamente interrogato
ha dichiarato che è sua convinzione che l’aggressione predetta è esclusivamente dovuta ad
iniziativa dei ribelli e che fosse diretta soprattutto, e forse unicamente contro il Peraldo il
quale, sia come podestà del comune di Sordevolo prima, sia come giudice componente il
tribunale speciale di Novara, era malvisto da molti. Agli atti di ufficio della compagnia di
Biella sono stati rinvenuti gli allegati esposti contro il Peraldo, allorquando ricopriva la carica di podestà. Da essi si rileva che il Peraldo aveva nell’ambiente vari oppositori e perciò
non è importante che - specie ora che egli era stato chiamato a far parte del tribunale speciale
- abbia attirato verso di sé le attenzioni di quanti lo osteggiavano, che forse gli hanno creato
nell’ambiente dei ribelli quell’atmosfera di odio, senza la quale evidentemente essi non avrebbero osato recarsi a casa sua col determinato proposito di ucciderlo, come infatti è avvenuto. Dalle indagini sui responsabili morali e tanto meno sugli esecutori materiali, data la situazione - è ovvio dirlo - sono difficili. Il predetto sottufficiale ha dichiarato di non essere assolutamente in grado di fornire elementi in merito e non ritiene prudente per il momento fare
delle indagini finché non migliori la situazione locale. Ho proposto il maresciallo Forte per
trasferimento ad altra sede» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
40
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66.
21
Il 63o battaglione a Pray. La resa del “Matteotti”
Il 2 febbraio Morsero, in una lettera che confermava la sudditanza della autorità della
Rsi agli occupanti tedeschi, scriveva a Zuccari: «Ho avuto un colloquio col Comandante Tedesco della Polizia il quale mi ha riferito che, per ordine del Generale Comandante
in Capo delle Ss e della Polizia dell’Italia Settentrionale avente sede a Monza, si è ravvisata la opportunità di dividere le zone di competenza per eventuali azioni, tra reparti
tedeschi e reparti italiani, e più precisamente che ai reparti tedeschi venga affidata la
zona del Biellese vero e proprio e cioè ad occidente della strada che congiunge Cossato
a Crocemosso ed al 63o Btg. la zona ad oriente della stessa strada comprendente quindi
la Valsessera e la Valsesia. Mi ha anche comunicato che vi sono stati accordi tra Voi e
il detto Comando Tedesco»41.
Poco dopo accadde un fatto che avrebbe influito sulla realizzazione di questa intesa.
Il mattino del 3 febbraio Nedo, Moscatelli e altri tre partigiani provenienti da Rimella e
diretti in Valsessera a bordo di due automezzi, con una fulminea, quanto imprevista azione,
bloccarono un’autovettura tedesca nel cortile della cartiera di Serravalle Sesia e fecero
prigionieri i quattro occupanti: tre alti funzionari civili dell’organizzazione tedesca che
si occupava della produzione bellica nei territori occupati, che venivano da Milano, e
l’autista italiano. Portati in montagna, i quattro furono lasciati in custodia al distaccamento “Pisacane” e, con il consenso e la collaborazione degli stessi, venne proposto al
Comando tedesco da cui dipendevano, uno scambio di prigionieri: la loro liberazione
contro quella di alcuni collaboratori dei partigiani valsesiani da tempo nelle carceri fasciste. Nel pomeriggio reparti di Ss inviati dal Comando tedesco di Vercelli occuparono
Serravalle e il giorno 4, dopo aver posto l’abitato in stato d’assedio, minacciarono la
distruzione del paese e della fabbrica se entro le ore 16 di domenica 6 non venivano
liberati i prigionieri42.
Quello stesso 4 febbraio Zuccari, in base agli accordi presi con il Comando tedesco
e per dare pratica attuazione al piano a suo tempo elaborato «contro le note bande di
41
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66.
Una intensa attività venne allora intrapresa dalle autorità locali per scongiurare la rappresaglia tedesca mentre per la popolazione di Serravalle furono ore di paura e di crescente
sgomento che provocarono anche l’esodo di buona parte di essa. Nel tardo pomeriggio di
sabato il Comando tedesco di Verona comunicò al Comando garibaldino valsesiano la sua
disponibilità allo scambio dei tre funzionari con quattro patrioti come proposto dai partigiani, ma solo domenica, poche ore prima della scadenza dell’ultimatum, il commissario prefettizio di Serravalle poté annunciare alla popolazione che non vi sarebbe stata più nessuna
rappresaglia e che tutti potevano tornare alle loro case e riprendere le normali attività. Per lo
scambio dei prigionieri, che avvenne il 9 febbraio nei pressi di Quarona, svolse un ruolo importante padre Giuseppe Russo, del santuario di Rado a Gattinara. Una dettagliata ricostruzione di questo avvenimento in P. AMBROSIO, Rappresaglia kaputt. Serravalle Sesia, febbraio 1944, Borgosesia, Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli, 1979.
42
22
ribelli i cui campi sono all’alpe di Novejs e alle falde del Monte Barone», si trasferì a
Pray con il 63o battaglione.
Dopo avere insediato il comando del battaglione nel palazzo comunale di Pray, Zuccari convocò i podestà, gli industriali ed una rappresentanza di operai di ogni fabbrica
locale. Nella riunione, che si tenne alle 15, presenti anche i parroci della zona, il comandante del “Tagliamento”, dopo avere esposto «gli intendimenti del governo repubblicano e del Comando Militare Germanico», dettò le seguenti «condizioni di resa» per i ribelli: «1 - Rilascio immediato dei quattro sudditi germanici catturati a Serravalle Sesia;
2 - Rilascio di tutti gli ostaggi italiani; 3 - Consegna di tutte le armi; 4 - Presentazione di
tutti i giovani delle classi di leva a questo Comando per il successivo invio al Distretto
di Vercelli; 5 - Rientro alle città di provenienza di tutti gli altri partigiani non soggetti ad
obblighi di leva; 6 - Consegna di tutti gli stranieri che si trovano nelle bande»43.
Dai partigiani Zuccari esigeva una risposta entro le 10 del giorno seguente e per
averla ordinò ai presenti di costituire un comitato, il quale entro la notte avrebbe dovuto
recarsi ai comandi delle bande ribelli per imporre le condizioni di resa, minacciando che
se non fossero state accettate, sarebbero state «immediatamente intraprese, d’accordo
con le forze di terra e aeree Germaniche, le operazioni che si [sarebbero ritenute] necessarie per ristabilire la situazione»44.
Al comitato, formato dal commissario prefettizio di Coggiola Carlo Gambetti, da un
industriale di Coggiola, dal parroco e da alcuni operai, recatosi al campo del “Matteotti”
per esporre l’ultimatum di Zuccari e fare presente i gravi pericoli che si potevano correre nel caso di un suo rifiuto, rispose Silvio Bertona “Carlo”, respingendo le proposte
e diffidando i membri del comitato dall’effettuare altre visite al distaccamento45.
Nel piano di Zuccari l’occupazione stabile di Pray da parte del 63o battaglione non
era che la premessa di quell’ampia manovra che doveva concludersi con l’annientamento dei distaccamenti “Matteotti”, “Pisacane” e “Piave”. Egli di questo disegno ambizioso si occupava da tempo e, per la sua riuscita, sapeva di poter contare anche sulla
collaborazione di attendibili «fonti fiduciarie» residenti in Valsessera: spie che da tempo
lo tenevano al corrente di quanto avveniva nelle bande della zona, in particolare nel distaccamento “Matteotti”. Una formazione composta quasi interamente da partigiani di
Coggiola, comandata da Leo Vigna, ex sergente degli alpini, che essendo del paese e
per l’esperienza acquisita durante la guerra, esercitava, all’inizio della lotta partigiana,
un buon ascendente sugli uomini. Ascendente che, al momento dell’arrivo di Zuccari a
Pray, Leo Vigna, con il suo comportamento non certo esemplare e a causa della sua
incapacità di ottenere dai suoi uomini quell’autodisciplina, importante nella lotta partigiana quanto le armi, non aveva più46.
43
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66.
Ibidem.
45
Carlo, che poco tempo dopo assunse l’incarico di commissario politico della 2a brigata
in sostituzione di Adriano Rossetti “Sergio”, arrestato dai fascisti, all’arrivo del comitato si
trovava in visita al “Matteotti”.
46
Per rimediare alle gravi lacune che condizionavano negativamente la vita del distaccamento si impegnò con molta volontà e scarsi risultati Enrico Casolaro “Rico”, il commissario
politico che lasciò la formazione ai primi di febbraio per ragioni di salute. A screditare com44
23
Questo stato di cose pregiudicò gravemente l’unità del “Matteotti”, verso il quale si
intensificò l’attività disgregatrice di alcuni informatori di Zuccari, che avevano interlocutori anche tra i partigiani della formazione.
Ma i tedeschi avevano dato ordine di non compiere nessuna azione armata contro il
“Matteotti” fintanto che in quel distaccamento fossero trattenuti i tre loro compatrioti
- che invece erano stati presi in consegna dal “Pisacane” - per i quali essi stavano trattando con Moscatelli per lo scambio.
Questo tuttavia non impedì a reparti del 63o battaglione di effettuare, domenica 6
febbraio, delle puntate, chiaramente intimidatorie, in direzione di Coggiola, Viera, Biolla, Noveis. Di ripetere, il giorno 7, con lo stesso intento, puntate in direzione di Trivero
e della frazione Ferrero. Di compiere, il giorno 8, «una azione di sorpresa» nella frazione Viera di Coggiola, durante la quale i militi del “Tagliamento” distrussero «con qualche colpo di cannone la casa del capobanda Vigna ed una osteria dove si riunivano i
ribelli», provocando per tema di rappresaglia la fuga della «popolazione la cui maggior
parte è composta da operai che lavorano a Coggiola»47, molti dei quali il mattino dopo
non si recarono al lavoro.
Per accrescere la paura tra la popolazione, in particolare tra i genitori dei renitenti e
dei partigiani con obblighi di leva, nella notte un “pattuglione” di militi incendiò tutti i
rustici della frazione Viera48.
I soli a contrastare lo strapotere dei reparti del “Tagliamento”, che di giorno la facevano da padroni nelle strade e nelle località della Valsessera, erano i garibaldini del “Pi-
pletamente Leo Vigna e fargli perdere la fiducia della maggior parte dei partigiani del “Matteotti” fu un avvenimento al centro del quale c’era una slava di nome Sonia. Di questa donna, portata al campo del “Matteotti” in odore di spionaggio, e della quale Vigna e alcuni altri
partigiani, fra i più considerati del distaccamento, godettero i favori, egli impedì la fucilazione, benché fosse accertato «che era una infiltrata che aveva il compito di disgregare le formazioni partigiane biellesi», e ne favorì la fuga prima che il distaccamento si arrendesse. Sulla
resa del “Matteotti” si veda A. POMA - G. PERONA, op. cit., p. 132; C. DELLAVALLE, op. cit., pp.
120-123; NENELLO MARABELLI, Come e perché si arrese il Matteotti, in “La Provincia”, 14-15
novembre 1992.
47
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1. Nel corso di questa azione
venne ferito Oreste Vigna, un invalido di guerra. Trasportato all’ospedale di Novara vi morì
il 17 febbraio. Zuccari, quando mandò i suoi uomini a Viera, era certamente al corrente che al
mattino presto di quel giorno i tre prigionieri tedeschi, scortati da due partigiani, erano stati
alle Piane di Viera, dove si erano riforniti di viveri prima di proseguire a piedi e attraverso le
montagne per la Valsesia, dove li attendeva il cambio.
48
Sui risultati ottenuti con il terrore e l’intimidazione Zuccari, in data 7 febbraio, scriveva
a Morsero: «La maggioranza della popolazione dimostra d’essere stanca della situazione
creata dai banditi e vorrebbe a tutti i costi riavere i propri figli per farli presentare al Distretto
Militare di Vercelli. Anche a Coggiola i giovani hanno incominciato a presentarsi al Commissario Prefettizio il quale ha avuto da me l’incarico di raccoglierli e avviarli con un documento
al Distretto di Vercelli. Preciso che questi giovani si sono tutti presentati spontaneamente.
Nessuna azione coercitiva è stata fatta finora da parte di questo Battaglione. Il Battaglione,
come da ordini confermati anche stamane da codesto Comando non ha intrapreso alcuna
azione. Si è limitato, come detto più sopra, a puntate esplorative con lo scopo di controllare
il movimento delle bande ribelli e delle popolazioni» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45,
Gabinetto, mazzo 66).
24
sacane”, che in pattuglie, di notte, attaccavano le postazioni e i posti di blocco dei fascisti da quando questi erano in Valsessera. Queste azioni di disturbo, che di fatto non
modificavano la situazione esistente, se non altro servivano a tenere in continuo allarme i legionari del 63o battaglione i quali, stando a quanto affermava Zuccari, vivevano
nell’assillo di un attacco notturno in forze da parte dei garibaldini49. Mentre in Valsessera Zuccari si giovava di spie e collaboratori per far arrendere il “Matteotti”, altre vittime dello spionaggio fascista - che per i partigiani era il pericolo più grande, sempre
incombente - si ebbero a Sordevolo, nella valle dell’Elvo. Infatti, la sera del 10 febbraio,
alle ore 20.15, una pattuglia del “Bixio” che, su due automobili, stava rientrando dalla
Serra, venne intercettata su segnalazione di una spia da «truppe tedesche giunte a Sordevolo per operazioni di polizia militare»50 nelle vicinanze della caserma dei carabinieri.
Nella breve ma intensa sparatoria dei militari germanici che investì una delle autovetture vennero uccisi i garibaldini Adriano Caralli “Omero”, Edoardo Chiorino, Francesco
Manni “Renato Vanni” e il colonnello Eugenio Cattaneo “Tenno”, mentre il comandante
del distaccamento, Bruno Salza “Mastrilli”, seppur ferito seriamente all’inguine, riuscì
ad allontanarsi evitando la cattura.
Rispettando gli accordi presi tra le parti, mercoledì 9 febbraio, alle ore 12, in prossimità di Varallo avvenne lo scambio dei “tre germanici” con partigiani e collaboratori di
Moscatelli. Sull’esito positivo della non facile operazione il Comando tedesco informò
Zuccari il quale non aspettava che questa notizia per attaccare il “Matteotti” e il “Pisacane”.
L’attacco ai due distaccamenti prese l’avvio il mattino dell’11 febbraio e vide il 63o
battaglione muoversi da Pray su tre colonne. La prima, con direttrice «Pray-Coggiola
quota 886 a est di Viera», aveva il compito di «piombare sul campo dei banditi del Matteotti situato a La Piana, a Nord Ovest di Viera». La seconda, con direttrice «Pray-Pioglio-Cascina Solivo-Alpi Novejs», doveva «attaccare decisamente i banditi annidati negli
alberghi e caseggiati delle Alpi di Novejs». La terza colonna, «più leggera», aveva l’incarico di «precludere un’eventuale ritirata dei banditi in direzione di Postua».
Nel corso del rastrellamento operato dalla prima colonna i militi, senza incontrare
nessuna resistenza perché da qualche giorno i partigiani del “Matteotti” si erano spostati più in alto, nelle baite dell’alpe Ranzola, incendiarono tutti «gli accantonamenti e i
depositi» del distaccamento. Proseguendo in direzione dell’alpe La Bura la colonna giunse
alla portata delle armi degli uomini del “Matteotti”, ma inspiegabilmente il comandante
“Leo” non diede ordine di sparare.
La seconda colonna, invece, giunta alla sommità delle alpi di Noveis, venne «fatta
49
Al riguardo Zuccari, in data 8 febbraio, comunicava a Morsero: «In conseguenza delle
notizie avute si sono prese adeguate misure di sicurezza. Ai normali posti di blocco sono
stati aggiunti dei posti di sbarramento col compito di impedire qualsiasi infiltrazione [...] Gli
informatori tutti attendibili, insistono nel confermare la notizia secondo la quale le bande di
Postua e Coggiola, unite a quella del Basto [...] sono pronte ad attaccare questo Battaglione
ed a questo scopo hanno da tutte le parti circondato il paese di Pray [...] Gli informatori anzi,
nelle prime ore di questa mattina, mentre hanno confermato la notizia dell’attacco hanno
dichiarato che esso sarà effettuato con quasi assoluta certezza nella notte dall’8 al 9» (ASV,
Prefettura repubblicana 1943-45 Gabinetto, mazzo 66).
50
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1.
25
segno a un nutrito fuoco di armi automatiche appostate alla sinistra della Cappella degli
Alpini». Ad opporre la tenace resistenza furono i partigiani del “Pisacane” che, dalle
postazioni a suo tempo preparate, contesero il terreno ai militi della compagnia fascista, «che reagirono con le mitragliatrici e i mortai facendo avanzare i fucilieri sotto la
protezione delle armi di cui sopra». Ritiratisi i partigiani «verso le alpi di Val Maggiore»,
i fascisti, che lamentavano «un solo ufficiale ferito da una pallottola di striscio all’ascella
destra», distrussero tutti i dormitori e i depositi del “Pisacane”.
La terza colonna, che si era spinta in perlustrazione fino a Postua, non trovò nulla di
anormale, «ad eccezione di preziose informazioni sul movimento di un gruppo di banditi» che la sera del 10 «aveva ucciso l’appuntato dei carabinieri di Crevacuore»51.
Nel pomeriggio del 12 Zuccari, per avere notizie sulla dislocazione del “Matteotti” e
del “Pisacane”, inviò «in esplorazione» un reparto a «Le Piane ed a Monte Tovo a N.O.
di Viera» ed un altro a Roncole, nella valle Strona, a nord di Postua. Dalle informazioni
riportate dai due reparti e da altre pervenute al Comando, Zuccari venne a sapere che il
“Matteotti” si trovava alle alpi Ranzola e Ponasca e «sta[va] disgregandosi» e che il
“Pisacane” era insediato all’alpe Albarei ed era «ancora abbastanza compatto».
Dopo queste notizie Zuccari fu ormai certo che l’operazione «resa della banda di
Coggiola» andava verso l’epilogo ed era al corrente che, «se non fosse [stato] per l’azione
intimidatrice» di Gemisto e di “Dante” (Alberto Gallo), il commissario politico della
“banda”, questa «si [sarebbe] arre[sa]». Egli sapeva che i fautori della resa, a cominciare dal comandante Leo Vigna e da altri partigiani di Coggiola non aventi obblighi di
leva e per i quali gli industriali della Valsessera avevano assicurato l’assunzione al lavoro, premevano perché questa avvenisse al più presto. Zuccari lo seppe da Carlo Gambetti, il segretario del fascio di Coggiola, con il quale i partigiani che volevano la resa
avevano intensificato i contatti: l’uomo che, avvalendosi del terrorismo del 63o battaglione “M” come arma di ricatto, era riuscito a convincere partigiani, industriali, parroci, familiari di partigiani che alla resa del “Matteotti” la popolazione di Coggiola poteva
tornare ad una esistenza normale non più turbata da operazioni militari, da rappresaglie
e da gravi fatti di sangue.
Al mattino di lunedì 14 febbraio al Comando del 63o battaglione di Pray giunse un
colonnello germanico latore di questi ordini del generale delle Ss di Monza: pacificare
completamente la Valsessera distruggendo le tre note bande partigiane; pacificare successivamente la Valsesia distruggendo la banda Moscatelli. In base a questi ordini Zuccari, d’accordo con l’alto ufficiale tedesco, predispose questo piano d’azione: mercoledì 16 attacco al “Pisacane” all’alpe Albarei; attacco al “Matteotti”, se questo distaccamento non si fosse arreso entro il 15. Venerdì 17 il battaglione, «rinforzato da una com-
51
Nella «relazione sulle operazioni svolte il giorno 11 febbraio 1944 dal 63o Battaglione»,
inviata al Comando del 15o reggimento di polizia germanica di Vercelli e a Morsero, Zuccari
precisava altresì che: «Il collegamento del Comando di Battaglione e le colonne operanti è
stato assicurato a mezzo radio e razzi illuminanti. Alle 19.15 il Comando e tutte le colonne
sono rientrate alla base di Pray, assumendo il dispositivo di sicurezza atto a controllare tutte
le strade dei dintorni ed evitare qualsiasi sorpresa. Non appena questo comando avrà assunto le necessarie informazioni sulle nuove posizioni occupate dai banditi, proseguirà le
operazioni di polizia» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
26
pagnia germanica proveniente da Biella», avrebbe attaccato il “Piave”, dislocato a «Bocchetta di Margosio, Cima della Ragna e Moncerchio di Mosso Santa Maria».
Nella lettera con cui Zuccari dava conto al capo della provincia Morsero delle operazioni che intendeva compiere, affermava che il giorno dopo, 15 febbraio, alle 11 «il
Commissario Prefettizio Gambetti e Massara»52 si sarebbero incontrati con «i comandanti della banda di Coggiola alcuni dei quali [avevano] espresso il desiderio di arrendersi». Zuccari precisava che per la resa aveva posto le condizioni della settimana precedente e cioè: «Consegna di tutte le armi, i giovani delle classi ’24 e ’25 da avviarsi
subito al Distretto militare, gli altri non soggetti ad obblighi di leva il rientro immediato
alle rispettive sedi con la conseguente ripresa delle normali occupazioni». Egli comunicava altresì che i due partigiani «che hanno ferito il Massara e da noi individuati verrebbero perdonati se consegnassero a me il feroce commissario politico della banda, recentemente inviato dal Comitato allo scopo di propagandare le idee comuniste e di rialzare il morale della banda. Questo commissario è di Asti»53.
Il mattino del 15, in previsione dell’attacco al “Piave”, Zuccari inviò un reparto nella
zona di Trivero, Pratrivero, Mosso, «con il compito di catturare qualche ribelle allo
scopo di avere informazioni»: ma l’esito della spedizione fu negativo. Più tardi, alle 11,
nell’incontro che ci fu al santuario del Cavallero, in territorio di Coggiola, tra Gambetti,
Massara e la delegazione dei partigiani del “Matteotti”, Leo Vigna dichiarò che il distaccamento si sarebbe arreso in serata, alle condizioni volute da Zuccari.
Tornato al campo, Leo riunì tutti i partigiani e disse loro: «Tutti voi sapete come
stanno le cose. Hanno bruciato case e cascinali terrorizzando la nostra gente, se non ci
arrendiamo faranno di peggio. Io mi arrendo e voi fate come volete, però sappiate che
sanno il nome di tutti e dove abitate, in special modo tutti quelli residenti in Valsessera
e se non vi arrenderete le vostre famiglie saranno prese»54.
Alla sera, nel locale della Società vinaria di Masseranga (Portula), quasi tutti i partigiani del “Matteotti” si arresero. Mancavano il commissario politico Dante e altri quattro garibaldini che, il giorno dopo, con le loro armi e dei viveri raggiunsero il distaccamento “Piave” al Basto55.
Sulla resa del “Matteotti”, in un rapporto inviato il 16 al Comando tedesco di Vercelli
ed a Morsero, Zuccari, scriveva tra l’altro: «Venuto a conoscenza della cosa mi sono
52
Si tratta di Ferdinando Massara, il graduato fascista ferito a Pray il 22 dicembre 1943 da
due partigiani del “Matteotti”.
53
Il commissario politico in parola è Alberto Gallo “Dante”, inviato nel Biellese dal Pci di
Asti, il quale aveva assunto quell’incarico pochi giorni prima in sostituzione di Carlo, che
era stato chiamato a far parte del Comando della 2a brigata.
54
N. MARABELLI, art. cit.
55
Per impedire che i fascisti si impossessassero dei viveri, delle coperte e anche delle armi che erano state abbandonate dai partigiani del “Matteotti” nel loro “campo”, dal Basto
partì immediatamente una squadra di dieci partigiani al comando di Giuseppe Maroino “Artiglio”. La tempestività con cui nella notte del 16 febbraio venne portata a termine l’azione di
ricupero di quel prezioso materiale precedette quella che i fascisti effettuarono con lo stesso
scopo il mattino del 17, dopo che i partigiani, al mattino presto, erano ripartiti alla volta del
Basto. Su questi avvenimenti si veda anche ALBERTO GALLO “DANTE”, Due mesi con i partigiani, in “l’impegno”, a. IV, n. 1, marzo 1984, pp. 40-43.
27
portato subito nella predetta località prendendo contatto prima con i capi e poi con tutti
i gregari i quali hanno espresso tutta la loro gratitudine per la possibilità che abbiamo
dato loro di redimersi. Si sono arresi in numero di 49 compreso il comandante della
banda. Tre erano stati precedentemente catturati a Trivero, il vicecomandante si era
presentato a Vercelli già da giorni. Perciò nessuno è sfuggito. Le armi consegnate sono:
1 fucile mitragliatore Breda 30; 40 moschetti 1891; 9 pistole. Tutta la popolazione di
Coggiola e Pray ha manifestato il giubilo per l’evento. Ritengo che ciò contribuisca in
maniera notevole se non allo sgretolamento, almeno alla demoralizzazione dei gregari
delle altre bande della zona»56.
La resa del “Matteotti” accrebbe in Zuccari la volontà di annientare anche il “Pisacane”, ma la tattica, adottata da Gemisto e dai suoi uomini, di eludere le ricerche dei
fascisti non attaccandoli e spostandosi sovente, vanificò le puntate effettuate dai reparti del 63o battaglione all’alpe Albarei e all’alpe Canale, nei giorni successivi al 15 febbraio.
Raggiunta l’alpe Panin, a nord del monte Barone, i partigiani del “Pisacane” si divisero:
una ventina, al comando di Gemisto e Annibale Giachetti “Danda” con due fucili mitragliatori, si spostarono all’alpe Camparient, gli altri, con Secondo Saracco “Secondo”
e Argante Bocchio “Massimo”, restarono all’alpe Panin.
56
Giovedì 17 Zuccari inviò al Comando provinciale militare di Vercelli ventidue giovani
delle classi 1924-25 già appartenenti al “Matteotti” con questa avvertenza: «I predetti hanno
esposto il desiderio di essere assegnati al corpo degli Alpini; però io non lo ritengo opportuno perché sono elementi che non danno eccessivo affidamento e pertanto sarebbe opportuno
smistarli nei vari corpi» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66). Sull’affidamento Zuccari aveva intuito quello che sarebbe successo: la fuga dai reparti dell’esercito
della Rsi di quei giovani e il loro ritorno nelle file delle formazioni partigiane. Per la resa del
“Matteotti” vennero in seguito giustiziati dai partigiani il comandante Leo Vigna, il vicecomandante Giovanni Scaglia e Carlo Gambetti, ritenuti dai partigiani i maggiori responsabili di quel
drammatico avvenimento.
28
Domenica 20 febbraio: attacco al “Piave” e al “Mameli”
Negli stessi giorni in cui si consumava la resa del “Matteotti” lo spionaggio fascista
provocò altre due gravi perdite al distaccamento “Piave”.
La sera del 14 febbraio a Lessona venne arrestato Mario Graziola “Arcos”, antifascista militante, tra i primi a collaborare attivamente “dal basso” con il gruppo di partigiani del Basto57.
Vincenzo Variara “Turin”, uno dei fondatori del “Piave”, arrestato a Biella dove si
era recato per definire una fornitura di scarponi, venne fucilato verso le 7 del 15 febbraio «dai militi del 115o Battaglione “Montebello” della Gnr nei pressi del cimitero di
Biella [...] perché trovato in possesso di armi»58.
Il Comando del “Piave”, nell’intento di stroncare l’attività spionistica antipartigiana
nella zona della valle Strona, decise di passare all’azione. La sera del 17 febbraio un’autovettura con a bordo il comandante Piemonte Boni “Piero Maffei”, il commissario
Ermanno Angiono “Pensiero”, il caposquadra Edis Valle Dell’Acqua “Edis” e un camion con una quindicina di partigiani si portarono a Lessona e a Cossato per prelevare
dodici persone indiziate di spionaggio. La presenza dei garibaldini venne però segnalata
con una telefonata al Comando tedesco di Biella che inviò immediatamente un reparto
di militari a Cossato. Verso le 23 il ritardo di una pattuglia indusse i tre responsabili del
“Piave” a ritornare nell’abitato di Cossato. Giunti alla frazione Broglio, essi incapparono nei militari germanici, i quali con il fuoco dei loro mitra ebbero ragione della pronta
ed eroica reazione di Piero, Pensiero ed Edis che caddero con le armi in pugno59.
Il giorno dopo il comando del “Piave” venne affidato a Quinto Antonietti “Quinto”,
che lasciò il comando del “Bandiera” per condividere con Giuseppe Maroino “Artiglio”,
nominato commissario politico, la responsabilità di risollevare il morale e ridare fiducia
ai partigiani di questo distaccamento molto provati dagli ultimi avvenimenti.
Mentre i garibaldini del “Piave” erano alle prese con i gravi problemi sorti dalla perdita
del comando, Zuccari stava predisponendo il piano di attacco al loro distaccamento, da
57
Mario Graziola venne fucilato per rappresaglia dai nazifascisti, insieme ad altri partigiani, il 7 aprile 1944 a Caluso (To).
58
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1.
59
Sulla telefonata ai tedeschi Renato Sandretti scriveva nella “Squilla Alpina” n. 14, del
16 dicembre 1945: «La sera del 17 febbraio 1944 alcuni valorosi Garibaldini lasciavano i monti
per scendere a Cossato onde prelevare degli indiziati per poterli interrogare [...] Avevano
appena prelevato il primo quando una fatale telefonata effettuata da elementi subdoli e malvagi partì da Cossato e tanta era l’agitazione di quegli assassini che persino sbagliarono il
numero dell’ex comando tedesco mettendosi in comunicazione con una casa privata dove
una Pia Suora adempiva il suo dovere di carità presso un ammalato. Ecco cosa diceva il
famigerato incognito: “Presto tedeschi e repubblica a Cossato”. Chi era non si sa, ma un
giorno verrà che luce e giustizia saranno fatte [...]». Il giorno dopo, 18 febbraio, i dodici prelevati furono fucilati presso il cimitero di Mosso Santa Maria dai partigiani del “Piave” (cfr.
A. POMA - G. PERONA, op. cit., p. 134).
29
lui chiamato “banda del Basto”. Un attacco che aveva posticipato dal 17 al 20 febbraio
per avere, dai responsabili del “Matteotti”, notizie più aggiornate sulla dislocazione, la
consistenza, l’armamento di quel distaccamento. L’“ordine di operazioni” elaborato da
Zuccari stabiliva che l’attacco del «63o Battaglione “M”, rinforzato da una compagnia
della Polizia Germanica», alla «banda del Basto, forte di un centinaio di uomini e fornita
di armi automatiche pesanti e leggere», era fissato per il mattino di domenica 20 ed
aveva lo scopo di «distruggere e catturare tutti i ribelli; distruggere le basi e i depositi
della banda; catturare possibilmente il Comandante della Brigata Garibaldi e tutti i Commissari politici»60.
60
Nello stesso “ordine di operazioni” Zuccari precisava che la banda era «sistemata: un
distaccamento a Bocchetta di Margosio; un distaccamento a Cima della Ragna, a sud di Margosio; un distaccamento a Moncerchio di Mosso Santa Maria; il comando sembra che stia
a Bocchetta di Margosio». Affermava che intendeva «attaccare tutti e tre i distaccamenti» e,
alla compagnia del «15o Reggimento di Polizia Germanico» ordinava: «Alle ore 8 muova da
Oriomosso in direzione di Moncerchio con il compito di eliminare quel distaccamento e proseguire poscia in direzione del Bocchetto Margosio e Cima della Ragna a cavallo della mulattiera Moncerchio-Rocca d’Argimonia-Bocchetta di Luvera. Prima di giungere in vista di
Bocchetto di Margosio e Cima della Ragna la Compagnia germanica si scinda in tre plotoni
a ciascuno dei quali si assegni il seguente compito: 1o Plotone sosti e sistemi la difesa dell’Alpe Margosio. Impedisca la fuga dei ribelli in direzione dell’Alpe Solivo. 2o Plotone sosti
e si sistemi a difesa nella zona a cavallo del Bocchetto di Luvera. Impedisca la fuga dei ribelli
in direzione di Rocca d’Argimonia. 3o Plotone sosti e si sistemi a q. 125 a sud di Cima della
Ragna. Impedisca la fuga dei ribelli in direzione di Capo Mosso e Cascina Crolle. Interverranno con il fuoco e con il movimento soltanto quando l’attacco delle due compagnie del 63o
Battaglione “M” avrà avuto inizio e sempre che non ci sia alcun pericolo per gli uomini di
queste due compagnie. L’attacco da parte del 63o Battaglione “M” avrà inizio soltanto quando la compagnia germanica a mezzo radio avrà comunicato di aver raggiunto le posizioni di
cui sopra. Nel caso che la radio non funzionasse la compagnia germanica lancerà un razzo
verde al cui segnale sarà risposto da parte delle due compagnie del 63o Battaglione con un
altro razzo verde. L’inizio dell’attacco sarà comunicato a mezzo radio e nel caso ciò non fosse
possibile con un razzo rosso lanciato dal Comando di Battaglione». Il compito che Zuccari
assegnò a due compagnie del 63o battaglione era il seguente: «La 1a Compagnia di formazione al comando del Cent. Ravaglia muova da Trivero alle ore 7 e percorrendo la mulattiera
Trivero-Castagnea-Bocchetta di Caulera-Bocchetta di Stavello-San Bernardo-q. 1.332 a sud
di San Bernardo-Monte Rubello, si porti a M. Prapian dove inizierà l’attacco a Bocchetta di
Margosio all’ora che sarà da me comunicata. Comunque non prima che la Cp. germanica
abbia raggiunto le posizioni prestabilite che si prevede non prima delle ore 10.30. La 2a Compagnia di formazione, al comando del Cent. Ragonese, muova da Trivero alla stessa ora della
precedente e percorrendo la strada Trivero-Lora-Marone-Bulliana e la mulattiera Bulliana-Madonna della Brughiera-Prapian dove inizierà l’attacco a Cima della Ragna all’ora che sarà da
me comunicata. Comunque non prima che la Compagnia germanica e la 1a Compagnia del 63o
abbiano raggiunto le posizioni che si prevede non prima delle ore 10.30. Il reparto centrale al
comando del Scm. Mazzoni, a mia disposizione, ha il compito di bloccare la valle al centro
delle direttrici di marcia delle due colonne di cui sopra e di proteggere il Comando del Battaglione e la stazione radio. Posto di Comando del Battaglione, Piana d’Or a Nord-Ovest di
Roveglio - Servizio Sanitario: con la colonna del Cent. Ravaglia andrà l’aiutante di sanità,
con quella del Cent. Ragonese l’Ufficiale medico. L’ambulanza con un medico civile sarà a
Roveglio dove dovranno essere avviati gli eventuali feriti gravi. Collegamenti: a mezzo radio
e razzi. La stazione radio ricevente e trasmittente sarà collocata a Roveglio. Allego il codice
delle segnalazioni con razzi e la tabella delle comunicazioni radio (ora e cifre convenzionali)»
(ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
30
A dire il vero, i garibaldini del “Piave” - una sessantina circa - avevano il comando
al Basto ed occupavano la “cascina bianca” all’alpe Campello sovrastante Veglio Mosso, la cascina Nole situata in prossimità del bocchetto di Luvera e la cascina Branda
non lontana dalla bocchetta di Margosio. Il distaccamento disponeva di una mitragliatrice Fiat 35, tre fucili mitragliatori Breda 30 e di una cinquantina tra fucili e moschetti,
tutte armi con scarse riserve di munizioni.
Il sistema di difesa predisposto dal Comando del “Piave” era affidato ai partigiani
che occupavano le cascine ed avevano allestito delle postazioni. Una postazione si trovava sul monte Prapian o Massaro: da essa si controllavano le mulattiere provenienti
dal San Bernardo e da Trivero, ed era tenuta da una quindicina di uomini armati di fucili
e con un fucile mitragliatore Breda, comandati da Luigi Tortella “Lupo”. Un’altra postazione in cui si sarebbero disposti una quindicina di partigiani con fucili e la mitragliatrice Fiat, comandati da Artiglio, era collocata sulla Cima della Ragna e controllava le
mulattiere provenienti da Capo Mosso, da Prapian, dalla bocchetta di Margosio e il vallone
del rio Poala. La terza postazione, con una ventina di uomini forniti di fucili e di due
mitragliatori Breda, era posta al Basto a difesa del Comando. La decina di partigiani
della “cascina bianca”, armati solo di fucili, avevano il compito di controllare le mulattiere e i sentieri provenienti da Veglio e Camandona, di dare l’allarme e ritirarsi al Basto.
Ma Zuccari, nel suo piano, non aveva tenuto conto che per compiere il tratto di
mulattiera da Oriomosso al Basto ci volevano, in condizioni normali, più di due ore e
che in quella dorsale montana compresa tra la valle del Cervo e la Valsessera vi erano
altri due distaccamenti: il “Mameli”, forte di una trentina di partigiani armati di fucili,
moschetti e di un fucile mitragliatore Breda, con poche munizioni, che aveva la base in
una baita della Costa Pessine non lontana dalla Sella del Cucco; il “Bandiera”, formato
da una quarantina di garibaldini - tutti armati con fucili, moschetti, pistole - in possesso
di una mitragliatrice Breda calibro 8 con 600 colpi, di due fucili mitragliatori Breda con
400 colpi ognuno, con sede al Bocchetto Sessera. Due distaccamenti che con il “Piave” costituivano un insieme in cui ogni formazione, pur conservando la più ampia libertà di manovra, sapeva di poter contare sull’aiuto di quella più vicina, in caso di attacco o di forzato ripiegamento.
Il mattino di sabato 19 per rafforzare lo schieramento delle truppe nazifasciste «reparti del 115o battaglione si trasferivano, con automezzi forniti dal Commissario Prefettizio di Biella, a Vallemosso»61.
61
A dare l’ordine di questo trasferimento era stato il capo della provincia Morsero al
quale il comandante del 115o battaglione, Alessandro Manfredi, domenica 20 comunicava
fra l’altro: «La colonna composta da n. 8 autocarri e due autovetture, con le misure di sicurezza di colonna autocarrata, raggiunse senza incidenti la località prefissata. Subito dopo il
nostro arrivo, furono prese posizioni di sicurezza con armi automatiche nei punti dominanti
il paese e dislocate pattuglie ai crocevia delle strade di accesso all’abitato. Il Battaglione fu
accantonato nelle Scuole elementari e nella Palestra dell’Ond messa a disposizione dal Commissario Prefettizio di Vallemosso. Nel pomeriggio alle ore 15 furono da me convocati gli
industriali del paese per una presa di contatto e per chiarire la posizione degli stessi e dei
loro dipendenti [...] Tutti i presenti alla riunione si sono impegnati a collaborare per l’azione
che il Battaglione svolge nella Zona. Il coprifuoco è stato mantenuto dalle ore 21 alle ore
5.30, per dar modo agli operai di effettuare i regolari turni di lavoro e di rientrare alle abitazio-
31
Alle 7 del mattino di domenica l’autocolonna del 63o battaglione partì da Pray, giunse a Trivero da dove i militi, muovendo su due colonne, ripartirono per raggiungere le
«basi di partenza per l’attacco» al “Piave”. L’arrivo dei fascisti non passò inosservato
ad una «staffetta che era in permanenza a Trivero»62, la quale partì immediatamente
alla volta del Basto per dare la notizia. La tempestiva segnalazione consentì ai responsabili del “Piave” di approntare con calma la difesa. Lupo e i garibaldini del suo gruppo
presero posizione con il mitragliatore nella postazione di monte Prapian; Artiglio e la
squadra della mitragliatrice Fiat si disposero sulla Cima della Ragna; i partigiani del Basto, ai quali si unirono poi anche quelli della “cascina bianca”, si appostarono con le
armi in loro possesso tra i dirupi circostanti. Al momento dell’attacco Quinto, che si
trovava al Bocchetto Sessera per parlare con Mario Mancini “Grillo” e Silvio Ortona
“Lungo”, sentendo sparare ripartì immediatamente per il Basto. Altrettanto fece Nedo
dal rifugio del Cerchio63, dove era giunto da poco.
L’attacco delle due colonne del 63o battaglione alle postazioni partigiane della Cima
della Ragna e di monte Prapian iniziò dopo le 10 e, date le pessime condizioni di visibi-
ni in tempo utile. Furono richiesti i libri di contabilità (pagai per controllare le presenze ed i
nominativi degli operai. Altresì furono richiesti gli elenchi degli automezzi e motomezzi per le
eventuali necessità del Battaglione. Nel contempo l’Ufficio Politico del Battaglione procedeva al fermo di numerosi giovani soggetti alla chiamata alle armi, i quali, entro oggi, saranno
avviati al Distretto Militare di Vercelli. Al nostro arrivo, una parte di giovani residenti nelle
frazioni del Comune si allontanavano dalle loro abitazioni, ma si pensa che nei prossimi giorni,
costoro rientreranno al loro domicilio. Questa mattina alla S. Messa di maggior concorso di
popolazione, il nostro Cappellano ha reso edotta la popolazione sugli scopi dell’invio del
Battaglione nella zona, avvertendola inoltre sulle sanzioni che verranno prese nei confronti
di coloro che trasgrediranno gli ordini da me emanati. Dopo un primo momento di sgomento,
dovuto in buona parte alle errate supposizioni nei nostri riguardi, la popolazione si dimostra
molto soddisfatta dall’opera svolta e dal contegno disciplinato dei legionari. [...] Per il pomeriggio di domani, ho invitato al comando di Btg. in Vallemosso, tutti gli industriali ed il Corpo
Insegnante di Mosso S. Maria. Quest’oggi ho preso contatti col 63° Btg. Gnr dislocato a
Prai. Vi informo che truppe alpine tedesche, hanno oggi compiuto una azione di rastrellamento
nei dintorni della vallata. Non sono però a conoscenza dei risultati di questa azione di polizia.
Domani in giornata, i Reparti del Btg. dislocati a Vallemosso eseguiranno ai miei ordini un rastrellamento per un raggio di sei km. dal Capoluogo. La forza del Btg. è la seguente: A Vallemosso: Ufficiali 13, sottufficiali e truppa 222; a Biella: Ufficiali 5, sottufficiali e truppa 74»
(ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65). Sui fatti di cui si parla in questo
rapporto si veda GUIDO QUAZZA, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Torino, Giappichelli, 1966, p. 168.
62
Testimonianza di Giuseppe Maroino “Artiglio” rilasciata all’autore.
63
Il rifugio del Cerchio era una costruzione ad un piano fatta erigere dall’industriale Zegna di Trivero sul versante nord dell’alpe Moncerchio di Mosso Santa Maria. All’epoca dei
fatti vi era un custode con la famiglia (moglie e figlia), e nei giorni 25-29 gennaio e 31gennaio-3
febbraio alcuni dirigenti del Partito comunista avevano tenuto due corsi “rapidi” tendenti ad
«elevare il livello politico medio dei giovani compagni e simpatizzanti, in vista di un possibile
avanzamento a funzioni di Commissario Politico o Comandante di Reparto». Solevano recarsi
al rifugio anche dirigenti politici e militari dei garibaldini biellesi. Il rifugio, che non subì danni
nel rastrellamento del 20 febbraio 1944, fu distrutto dai nazifascisti nel gennaio 1945. Su ciò
si veda L. MORANINO, La “scuola” per quadri partigiani al rifugio del monte Cerchio. Gennaio-febbraio 1944, in “l’impegno”, a. IV, n. 1, marzo 1984, pp. 35-40.
32
lità dovute alla nebbia che andava e veniva, per i garibaldini, che non potevano controllare tutti i movimenti degli attaccanti, aumentarono i pericoli.
Alle prime raffiche di mitraglia dei fascisti i partigiani risposero con il fuoco delle
loro armi. Superata la sorpresa provocata dalla pronta reazione dei garibaldini, dal reparto fascista operante nella zona «S. Bernardo-Monte Rubello-Bocchetta di Margosio» si staccarono diverse pattuglie «con il compito di aggirare [...] soprattutto da
Nord»64 i partigiani comandati da Lupo, appostati sul versante meridionale del monte
Prapian: appoggiando questa manovra con i mortai da 45 che battevano la postazione
partigiana sempre più da vicino.
Le pattuglie fasciste, guidate da qualcuno pratico dei luoghi, percorrendo un tratto
del sentiero esistente sul versante settentrionale della dorsale Bocchetto Sessera-monte
Civetta, ancora coperto di «abbondante neve», piombarono sulla postazione di monte
Prapian. Dei partigiani presenti alcuni sfuggirono alla cattura, otto vennero fatti prigionieri e Lupo, piuttosto che arrendersi, si tolse la vita.
Identica manovra i fascisti tentarono nel primo pomeriggio contro la postazione della
Cima della Ragna dalla quale i garibaldini ne controllavano però i due versanti: ma questa volta fallì. Infatti il reparto di militi, che durante una schiarita si presentò allo scoperto sul versante nord della Cima della Ragna, colto di sorpresa dalle raffiche della
mitraglia, usata con perizia da Riccardo Grosso “Dinamite”, desistette dal tentativo.
All’imbrunire Nedo e Quinto, non poco preoccupati per i partigiani del Prapian e
della Ragna di cui non sapevano niente, giunsero al Bocchetto Sessera con la trentina di
uomini con i quali erano stati in postazione al Basto. Verso sera Artiglio e i suoi uomini,
abbandonata la mitragliatrice priva di munizioni, seguendo il sentiero che dal bocchetto
di Luvera risale il versante nord dell’Argimonia, raggiunsero le baite di Moncerchio.
Ben altro svolgimento ebbe l’attacco della compagnia germanica proveniente da Biella
al distaccamento “Mameli”, nell’alta valle del Cervo. Il mattino presto i tedeschi, lasciati gli autocarri ad Oriomosso, s’avvicinarono indisturbati alla sede del distaccamento.
Quando i partigiani si resero conto della presenza dei militari germanici, questi non erano molto lontano dalla loro baita.
In questa situazione d’emergenza il comandante “Tonino”65 e altri due capisquadra
se ne andarono per conto loro, provocando sconcerto e smarrimento tra i partigiani.
Non si persero d’animo però quelli della squadra comandata da Guido Pella “Freccia”
che avevano in dotazione il fucile mitragliatore: la loro resistenza al soverchiante fuoco
degli attaccanti, seppur di breve durata, diede la possibilità a molti compagni di porsi in
salvo. Questo, tuttavia, non impedì ai tedeschi di colpire a morte, a monte della cascina
Monticchia, il commissario politico Remo Pella “Remo”, di uccidere Roberto Simeoni
“Roberto” all’alpe Vajetto e Irmo Barbi “Buronzo” alla Sella del Cucco.
Molto provati e divisi in piccoli gruppi, una ventina di garibaldini del “Mameli” raggiunsero nella mattinata il Bocchetto Sessera, ove vennero fraternamente accolti da quelli
del “Bandiera”, non attaccati dai nazifascisti.
64
Dalla «relazione sulle operazioni del giorno 20 c.m.», inviata da Zuccari a Morsero il 21
febbraio 1944 (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
65
Per questo atto e per essere successivamente passato con i fascisti Tonino venne condannato a morte da un Tribunale militare partigiano e fucilato nell’autunno del 1944.
33
I partigiani, messi in allarme dagli scoppi delle bombe e dagli spari provenienti da
destra e da sinistra, stettero sul “chi vive” per tutto il giorno. Al calar della sera, presa
la decisione di spostarsi dal Bocchetto, i partigiani dei tre distaccamenti, incoraggiati
uno ad uno da Nedo, s’incamminarono nella mulattiera che scende alla Piana del Ponte:
di quella colonna lui era l’ultimo.
Era ormai buio quando i tedeschi, provenienti da Oriomosso, con un incendio e a
colpi di bombe a mano, resero inabitabile l’Albergo del Bocchetto Sessera66.
Raggiunte le baite e la Casermetta della Forestale alla Piana del Ponte, i garibaldini si
sistemarono alla meglio per passare la notte, mentre Nedo, Quinto, Grillo, Lungo e
“Renato” (Renato Sasso) dopo una vivace discussione decisero di inviare una pattuglia
in Valsesia per prendere contatti con Moscatelli onde concordare una sistemazione temporanea dei partigiani biellesi in quella zona. L’incarico venne affidato ad una pattuglia
di sette partigiani del “Bandiera” comandata da “Pic” (Luigi Moranino), che il mattino
dopo di buon’ora partirono per Scopello.
Nella stessa mattinata Artiglio, che con i suoi uomini aveva trascorso la notte in una
baita di Moncerchio, decise di tornare, con due di essi, alla bocchetta di Margosio per
ricuperare delle forme di formaggio occultate nella baita dell’alpe Margosio. Nel compiere questa ricognizione Artiglio fece inavvertitamente esplodere una bomba a mano
lasciata dai fascisti senza sicurezza, riportando ferite in varie parti del corpo, che gli
impedirono di riprendere il suo posto di commissario politico al “Piave”67.
Alle ore 13 di lunedì 21 febbraio 1944 i militi del 63o battaglione “M” Tagliamento
66
Sull’andamento e l’esito dell’attacco al “Piave” e al “Mameli”, nella citata «relazione
sulle operazioni del giorno 20 c.m.» di Zuccari si legge ancora: «Ho potuto seguire, a mezzo
di posti di vedetta situati sul Monte San Bernardo alle pendici del quale avevo collocato il
comando di Battaglione ed a mezzo delle scarse comunicazioni radio, il movimento delle due
colonne. Non ho, durante l’azione, impartito alcun ordine, poiché fin dal primo momento
avevo intuito che la località era stata scelta bene e che l’azione sarebbe riuscita in pieno.
Tutte le vie erano state bloccate ed i ribelli dovevano essere assolutamente annientati dal
fuoco delle armi nostre e tedesche. Ho solamente chiesto più volte alla Compagnia germanica se aveva raggiunto le posizioni assegnate e l’assicurazione che ne ho ricevuto mi ha convinto dell’assoluta inutilità di modificare l’ordine di operazioni che avevo fatto il giorno prima. La banda del Basto era forte di più di cento uomini, tutti rinchiusi nella zona fissata e
senza alcuna possibilità di uscita. La maggior parte si sono potuti allontanare sfuggendo
alla nostra azione, solamente perché è venuto a mancare o è stato insufficientemente efficace il blocco dal lato ovest. La 1a Compagnia a monte Prapian ed all’Alpe Margosio ha distrutto la base dei ribelli dove era conservata una ingente quantità di viveri e stoffe, ha fatto
otto prigionieri, ha catturato una mitragliatrice, un fucile mitragliatore e diverse armi individuali e preso documenti importanti. L’azione ha avuto termine alle 18. Ritengo che i ribelli
superstiti si siano diretti in direzione ovest verso Camandona. Sono in corso accertamenti»
(ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
67
Portato dai due partigiani all’alpe Moncerchio dove ricevette le prime cure, Artiglio
venne in seguito ospitato dalla famiglia di un boscaiolo alle Piane di Buronzo (valle Dolca).
Alcuni giorni dopo un gruppo di boscaioli lo portò a Scopello su una barella di fortuna,
quindi in slitta venne trasferito a Campertogno. Dopo essere stato condotto all’infermeria
partigiana di Fobello ed aver vissuto le drammatiche vicende di un prolungato rastrellamento,
con documenti falsi, venne ricoverato all’Ospedale di Novara dal quale, privo dell’alluce
sinistro e con l’occhio destro accecato, venne dimesso l’11 maggio 1944.
34
fucilarono presso il cimitero di Mosso Santa Maria: Roberto Arrigoni (classe 1925),
Palmiro Camerlo (classe 1925), Francesco Crestani (classe 1924), Antonio Gavasso
(classe 1925), Corrado Lanza (classe 1925), Frank Bowes, ex prigioniero neozelandese, Ernest Osborne, ex prigioniero australiano, sette degli otto garibaldini del “Piave”
fatti prigionieri il giorno prima al monte Prapian68. Il 24 febbraio i militi del battaglione
“Montebello” fucilarono a Valle Mosso il partigiano del “Piave” Vincenzo Lazzarotto.
68
L’ottavo partigiano fatto prigioniero non venne fucilato ma denunciato al Tribunale
militare «perché è stato provato che fa parte della banda soltanto da tre giorni e non ha preso
parte ad alcuna azione con elementi della banda stessa» (dal rapporto su: “Ribelli italiani e
stranieri fucilati perché catturati con le armi in pugno”, inviato da Zuccari a Morsero e ai
tedeschi il 21 febbraio 1944, in ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 66).
35
Il trasferimento a Rassa
La pattuglia del “Bandiera” diretta in Valsesia, dopo alcune ore di marcia, quando
era ormai vicina al bocchetto della Boscarola, ebbe un incontro gradito quanto inatteso.
All’alpe Camparient trovò Gemisto, Danda e una ventina di partigiani del “Pisacane”, i
quali, lasciata l’alpe Panin, erano intenzionati a raggiungere la zona di Moncerchio, per
prendere contatti con il “Piave” e il “Bandiera”.
Messi al corrente di quanto avvenuto, anch’essi convennero sull’opportunità di
spostarsi in Valsesia e Gemisto si assunse l’impegno di contattare Moscatelli per esporgli le intenzioni e le necessità dei partigiani biellesi.
Giunti a Scopello nel primo pomeriggio, Gemisto si incontrò con Bartolomeo Chiodo e Jean Taglioretti, due comandanti delle formazioni valsesiane, i quali da subito offrirono la loro collaborazione. Per loro interessamento i garibaldini biellesi vennero trasportati con un autocarro al ponte della Gula e provvisoriamente aggregati al reparto di
Moscatelli, posto a guardia dell’importante passaggio della valle Mastallone. Danda,
febbricitante per una persistente bronchite, Gemisto e Pic proseguirono per Mollia, ove
furono ospitati nella casa di un tollegnese parente di Danda. Martedì mattina Gemisto e
Pic tornarono a Scopello ed il primo, oltre ad accordarsi con Moscatelli sulla presenza
dei partigiani biellesi a Rassa, ebbe dallo stesso l’assicurazione che si poteva contare su
di lui per reperire i generi alimentari di prima necessità quali farina, riso, pasta, patate.
Alcuni giorni dopo, con una marcia lunga, ma non faticosa per la mancanza di neve
che non era più caduta - se non in quantità trascurabili - dai primi di dicembre del 1943,
Quinto, Grillo e Renato, insieme ad una settantina di garibaldini appartenenti al “Piave”
al “Bandiera” ed al “Mameli”, giunsero a Scopello. Erano tutti armati e disponevano di
una mitragliatrice Breda, tre fucili mitragliatori Breda con le munizioni sempre più scarse, ed avevano con sé coperte e vettovaglie per diversi giorni.
Quel trasferimento era stato preparato con cura ed il ricupero delle scorte alimentari non andate perdute durante il rastrellamento del 20 febbraio consentiva ad essi di
giungere in Valsesia non a mani vuote. La presenza di Nedo tra di loro fino al mattino di
giovedì 24, quando aveva lasciato la Casermetta della Piana del Ponte per scendere a
San Giuseppe di Casto69, aveva, inoltre, ridato a quei partigiani fiducia e volontà per
continuare quella lotta impari e mortale contro un nemico spietato e bene armato.
Non tutti i partigiani del “Bandiera” lasciarono però la Casermetta. Una quindicina di
essi, comandati da Lungo, nella previsione che la legge emanata il 18 febbraio dal governo della Repubblica sociale italiana che decretava la pena di morte ai disertori e ai
69
Nedo a San Giuseppe di Casto si doveva incontrare con Battista Santhià “Antonio”,
ma non vi giunse. Il suo corpo, scioltasi la copiosa nevicata di fine febbraio, venne trovato
verso la fine di marzo sul monte Casto, sulla sommità di un dirupo, chiamato Roc dla marenda, da due donne di Tavigliano che si erano recate a raccogliere brugo. Egli trovò la morte il
24 febbraio, nel corso di un rastrellamento compiuto da un reparto nazifascista nella zona di
36
renitenti e fissava alle ore 24 dell’8 marzo 1944 il termine ultimo di presentazione per
gli appartenenti alle classi dal 1922 al 1925 dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, sarebbe stata trasgredita da molti giovani, rimasero in quel luogo per fungere da
punto di riferimento per quelli intenzionati ad arruolarsi nelle formazioni partigiane70.
Raggiunta Rassa, la piccola località alla confluenza dei torrenti Sorba e Gronda71, i
superstiti del “Mameli” vennero aggregati al “Bandiera” che si sistemò, con il consenso
del parroco don Alfio Cristina, nella casa parrocchiale72. Il distaccamento “Piave” occupò
una capiente casa disabitata ed il Comando del “Pisacane”, in attesa degli effettivi che
erano al ponte della Gula, si insediò in un’altra casetta disabitata all’entrata del paese.
Se in un primo momento l’arrivo dei garibaldini biellesi destò qualche preoccupazione negli abitanti di Rassa, questa svanì col passare dei giorni e la gente, superata
l’iniziale apprensione, manifestò comprensione e solidarietà nei loro confronti.
A vincere la diffidenza di quei valligiani certamente giovarono alcune iniziative di
carattere disciplinare prese dal Comando unificato dei tre distaccamenti di cui Gemisto
si poteva considerare il portavoce, ma determinante fu il comportamento dei garibaldini
improntato al massimo rispetto per quella popolazione già duramente provata dalle condizioni di vita dovute alla guerra.
«Sono arrivati e sono stati onesti e organizzati bene. Non hanno dato noia a nessuno. Nel paese erano dislocati in tante case molte delle quali disabitate, e hanno preso
monte Casto-Pratetto-Case Falletti. Sulla sua morte il Gruppo presidi Gnr di Biella, in data 3
aprile 1944, scriveva alla Prefettura di Vercelli: «1o corrente in regione Rocaia della Marenda
del Monte Casto, comune di Andorno Micca (Vercelli) rinvenuto cadavere di uno sconosciuto
privo di documenti età apparente 40 anni, mutilato braccio destro al terzo medio e munito
apparecchio ortopedico, che secondo voci identificherebbesi nel noto capo comunista soprannominato Nedo non meglio identificato. Morte risale ad oltre un mese per colpo di arma
da fuoco alla testa» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 1). A Nedo venne poi concessa la medaglia d’oro al valor militare, la cui motivazione si può leggere in P.
SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 204.
70
Con Lungo c’erano: Danilo Bibolotti “Marco”, Eugenio Bonino “Picchiato”, Guerrino
Bozzalla “Miseria”, Carlo Cantone “Studente”, Aldo Mattei “Riccio”, Giuseppe Modica
“Caino”, Giuseppe Motta “Rampia”, Ferdinando Schellino “Santhià”, Bruno Sentinelli “Camus”, Gino Ugliengo “Marinaio”, Isidoro Zanchi “Gaio” e gli australiani “Alan”, “Brin” e
“Den”.
71
Rassa era stata scelta in considerazione del fatto che in caso di attacco nemico ai partigiani biellesi non era preclusa la possibilità di raggiungere l’alta valle del Cervo. Infatti,
risalendo la mulattiera che costeggia il torrente Sorba fino all’alpe il Toso e presa quella che
porta alla bocchetta del Croso (m 1.940) e scende nel vallone del rio Chiobbia, si raggiunge
Montesinaro (Piedicavallo). Un itinerario percorso da sempre dai valligiani di Rassa che
solevano recarsi nei comuni dell’alta valle Cervo e al santuario d’Oropa.
72
“[...] e mi han detto che sarebbero andati dentro perché avevano bisogno anche della
casa parrocchiale di Rassa, siccome era disabitata come altre case che prendevano [...] Mi
ricordo di avere risposto: dite che aspettino, oggi pomeriggio vengo su io, la chiave gliela do
io, che non vadano dentro prima, non rovinino porte né niente [...] Allora mi ricordo che
sono andato su a Rassa ed ho portato fuori i registri e li ho messi nella sagrestia [...] Però non
han fatto nessuna scorrettezza, si sono comportati bene [...] Hanno poi rotto gli armadi i
tedeschi perché pensavano che forse c’era dentro qualche cosa» (testimonianza di don Alfio Cristina, rilasciata all’autore il 30 maggio 1980).
37
alloggio in quelle disabitate. Non hanno dato noia a nessuno. Sono stati onesti e perfetti. Per il mangiare si sono aggiustati da soli, senza danno a nessuno»73.
«Di notte c’era la ronda e c’era il posto di blocco alla cascina Barmosa [...] e Gemisto mi disse che se qualcuno dei suoi soldati non avesse fatto il proprio dovere o
veniva con la prepotenza per avere qualche cosa di andare denunciarlo immediatamente al Comando, che era lì a ca’ di Sabrei [...] Ma erano molto disciplinati, quello che
prendevano lo pagavano sempre, non potei mai dargli da mangiare perché non ce n’era
e nessuno si comportò mai da prepotente»74. «I partigiani il mangiare se lo procuravano. Non penso che abbiano portato via delle cose, oppure se han preso quello che avevano bisogno, han pagato; magari, non so, qualche vitello, qui poi tutti avevano le mucche
però non era un problema se qualcuno chiedeva un vitello che ammazzavano. Per il
pane non so, se lo facevano venire su da Scopello o da Campertogno e come se lo
procuravano non lo so. Io a Rassa andavo un giorno sì e un giorno no, e io andavo e
venivo con la massima libertà e nessuno mi ha mai dato fastidio, mi hanno sempre rispettato. Tante volte andavo lì appunto dalla Gina a far colazione e venivano dentro
anche i partigiani. Loro si mettevano in un tavolo, io ero da un’altra parte, parlavano
così come si parla, come van le cose, bene, male. Ed al posto di blocco mi han sempre
lasciato passare di giorno e di notte [...] E nel periodo in cui voi siete stati qui da noi la
popolazione si è lamentata di niente, non ci davate fastidio, sapevamo che c’era questo
posto di blocco»75.
Il clima che si creò tra la popolazione e i partigiani consentì la sistemazione nelle
case dei distaccamenti e la loro riorganizzazione in tempi brevi: vennero formate le
squadre, affidati gli incarichi, ripresa la consuetudine dell’ora politica76. Renato e Grillo
assunsero ufficialmente l’incarico di comandante e commissario politico del “Bandiera”; Quinto poté accertare se la sua nomina a comandante del “Piave” era ben accetta
agli uomini del distaccamento; Gemisto predispose un piano di difesa - corredato da
una cartina in cui era chiaramente indicata la via della ritirata da Rassa -, che venne
consegnato al Comando di ogni formazione. Al corrente di quanto avveniva a Rassa era
73
Testimonianza di Teresa Patrosso rilasciata all’autore il 27 giugno 1981. All’epoca dei
fatti a Teresa Patrosso fu distrutta una casa alla frazione Albergo e il marito, che insieme ad
altri cercava di salvare il bestiame, fu minacciato di fucilazione da parte dei tedeschi.
74
Testimonianza di Gina Patrosso in Tocchio, sorella di Teresa, rilasciata all’autore il 27
giugno 1981. All’epoca dei fatti Gina Tocchio gestiva a Rassa l’Osteria delle Alpi.
75
Testimonianze di don Alfio Cristina, cit.
76
L’ora politica era generalmente tenuta dal commissario il quale era «particolarmente
responsabile del morale, della disciplina e dell’orientamento politico degli uomini». Essa era
dedicata «allo studio ed alla chiarificazione delle questioni politiche da farsi a seconda dei
casi, sulla base del nucleo, della squadra e del distaccamento». L’ora politica poteva consistere «ora nello studio di qualche questione di politica generale, ora nello studio di qualche
fatto od avvenimento importante, ora nel momento sulla situazione militare sui vari fronti,
ora nella esposizione degli aspetti salienti della politica tedesca e fascista in Italia, ora nella
chiarificazione dei vari momenti della politica del Cln, ora nella discussione sulla vita del
distaccamento, delle debolezze e delle deficienze da superare, ora sui rapporti da avere colla
popolazione. In questa ora politica [doveva] sempre trovar posto la lettura ed il commento
collettivo dei giornali di cui il distaccamento [poteva] disporre». Da Compito di Commissario Politico di un distaccamento di partigiani, in “Il Combattente”, sd.
38
anche “Italo” (Anello Poma), il vicecomandante della brigata sul quale, dopo l’arresto
di Sergio, sostituito da Carlo da poco tempo, e la scomparsa di Nedo, ricadeva la responsabilità di mantenere i contatti con il Comando delle brigate “Garibaldi” del Piemonte, l’organizzazione politica (Pci) e i distaccamenti.
Informato della presenza dei garibaldini biellesi a Rassa era altresì Zuccari, il quale,
in data 26 febbraio, comunicava a Morsero e al Comando del 15o reggimento di polizia
germanica a Vercelli: «Secondo le ultime notizie giunteci, i superstiti della banda di Postua, non essendo riusciti a mettersi d’accordo con Moscatelli per la fusione, si sono
trasferiti a Rassa, ad ovest di Piode, sulla strada Varallo-Alagna. Mi risulta che il Comando della predetta banda ha intenzione di fare saltare il ponte sulla strada nei pressi
di Piode»77.
Negli ultimi giorni di febbraio decine di giovani di diversi paesi del Biellese, che avevano deciso di disubbidire al bando di chiamata alle armi del governo fascista e di andare con i partigiani, giunsero a Rassa. Domenica 27, con un viaggio in autocarro dal
ponte della Gula a Rassa, i garibaldini del “Bandiera” e del “Pisacane” si ricongiunsero
ai loro compagni di distaccamento. Nella stessa giornata un’altra cinquantina di giovani
biellesi che volevano unirsi ai partigiani, dopo aver sostato all’alpe Casary, non lontano
dalla Casermetta della Piana del Ponte, arrivarono a Rassa dove il tempo, che fino ad
allora non aveva creato grossi problemi ai partigiani, improvvisamente peggiorò. Una
abbondante nevicata caduta il 28 febbraio a Rassa raggiunse i settanta centimetri, al
bocchetto della Boscarola, alla Casermetta della Piana del Ponte, al Bocchetto Sessera
superò il metro. Le nuove condizioni ambientali e meteorologiche, pur aumentando
notevolmente i disagi e la fatica dei partigiani nei loro spostamenti, non impedirono a
pattuglie del “Bandiera” di raggiungere i compagni alla Casermetta - praticamente isolati - per rifornirsi di generi alimentari da portare a Rassa. Così come continuò l’afflusso di renitenti biellesi che, per raggiungere i partigiani nella località valsesiana, fecero
ore di faticosissima marcia.
All’inizio di marzo il numero dei renitenti giunti a Rassa, che si aggirava sui duecento, confermava il fallimento della chiamata alle armi del governo di Salò. Una bruciante
sconfitta politica per Mussolini che sperava di far rinascere un esercito nazionale, ma
che poneva al Comando garibaldino di Rassa problemi di non facile soluzione quali i
rifornimenti alimentari, l’equipaggiamento dei nuovi arrivati, molti dei quali con calzature
inadatte per la montagna, il reperimento delle armi. Frattanto le autorità fasciste, per
controllare meglio il territorio biellese, insediarono presidi militari a Valle Mosso, Andorno Micca, Cossato e predisposero posti di blocco nelle più importanti vie di accesso a
Biella78.
77
ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65.
La “forza dislocata” in detti presidi, appartenente al 115o battaglione “M” Montebello
di stanza a Biella in data 6 marzo 1944 era la seguente: «Presidio di Valle Mosso, 3 Ufficiali 5 Sottufficiali - 69 Truppa; Presidio di Andorno Micca: 2 Ufficiali - 8 Sottufficiali - 63 Truppa;
Presidio di Cossato: 2 Ufficiali - 5 Sottufficiali - 55 Truppa» (ASV, Prefettura repubblicana
1943-45, Gabinetto, mazzo 65). Sull’attività svolta dai militi dei presidi, il maggiore Alessandro Manfredi, comandante del 115o battaglione, in data 6 marzo scriveva a Morsero: «Il Comando di questo Battaglione ha disposto il dislocamento di parte dei suoi effettivi in Valle
78
39
Negli stessi giorni le medesime difficoltà che doveva affrontare il Comando partigiano di Rassa si presentarono al “Bixio”. Il distaccamento dislocato all’alpe Varney,
nell’alta valle Elvo, il cui Comando, dopo l’arrivo di numerosi renitenti al cosiddetto
“bando Graziani” del 18 febbraio, aveva ritenuto opportuno costituire un secondo distaccamento che prese il nome del caduto Adriano Caralli. Una formazione di una trentina di uomini con Renzo Pedrazzo “Libero” comandante, Annibale Caneparo “Renati”
commissario politico, che si trasferì nella valle del Viona, a nord della carrozzabile
Donato-Andrate.
Dopo la neve un inaspettato contrattempo creò ulteriori problemi ai garibaldini a
Rassa. Quinto, per il riacutizzarsi di una malattia alle vie respiratorie79, fu costretto a
lasciare il comando del “Piave” per farsi ricoverare nell’infermeria dei garibaldini valsesiani a Rimella. Un’assenza forzata quella di Quinto che pregiudicò la ripresa del “Piave” e privò il Comando dell’apporto di un comandante capace, stimato e benvoluto dai
partigiani.
La situazione militare, invece, alla fine della prima decade di marzo non presentava
alcunché di nuovo. Dall’arrivo dei partigiani biellesi a Rassa nessuna puntata nazifascista era stata effettuata nell’alta Valsesia ed i soli militari preposti all’ordine pubblico da
Varallo ad Alagna erano i carabinieri del presidio di Varallo e quelli delle stazioni di Scopa
ed Alagna, a suo tempo disarmati dai partigiani valsesiani e non riarmati.
Nulla lasciava presagire un imminente attacco nemico in forze. La nevicata di fine
febbraio aveva inoltre fatto nascere nei partigiani, ed anche nel Comando, la convinzione che i nazifascisti, a causa di quelle condizioni ambientali che rendevano difficili la
circolazione degli autoveicoli e le eventuali azioni di rastrellamento, non avrebbero attaccato.
Con questo convincimento il mattino di sabato 11 marzo Gemisto, per rendersi conto
di come stavano i partigiani del “Pisacane” rimasti all’alpe Panin, partì con uno dei suoi
per quell’alpeggio. Nel pomeriggio a lasciare Rassa fu Grillo, il quale si incamminò alla
Mosso, Andorno Micca, Cossato, costituendovi dei relativi Presidi che controllano totalmente tutta la zona destra del Biellese. Ha pure posti fissi in Candelo e degli sbarramenti [posti di blocco] e servizi in Biella in collaborazione con il Commissariato di P.S. Avvenuto l’arresto dei facinorosi sovversivi e la fucilazione dei maggiori responsabili, con il ferreo controllo
del nostro Presidio ad ogni persona, ad ogni attività di Valle Mosso, Mosso Santa Maria,
Croce Mosso, la tranquillità, la calma e l’ordine sono tornati a regnare nella zona, dove la
popolazione accentua sempre più la sua simpatia verso la Milizia che opera con serenità e
giustizia. In Andorno è iniziata l’opera di epurazione che tutt’ora è in corso: sono stati operati arresti di comunisti e partigiani. Il giorno 4 u.s. è stato ferito e tratto in arresto mentre per
la seconda volta tentava la fuga, il comunista Loiodice Felice di Cataldo sovversivo pericolosissimo e schedato, segnalato dal comando della Compagnia dei Carabinieri di Biella, con
lettera del 3 marzo 1944 XXII. [...] Anche a Cossato il Presidio è alacremente all’opera per
ricondurre la zona al primitivo stato di normalità e tranquillità: sono stati arrestati alcuni
partigiani che attualmente sono alle carceri di Vercelli» (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45,
Gabinetto, mazzo 65).
79
Quinto aveva contratta la malattia nel carcere di Castelfranco Emilia, dove insieme ad
altri diciassette comunisti biellesi - fra i quali Grillo e Gemisto - scontava una condanna, inflittagli nel 1941 dal Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato per attività sovversiva.
40
volta di Alagna con quattro uomini del “Pisacane” per prelevare da una miniera colà
esistente il necessario per minare il ponte di Quare (Campertogno) sul Sesia.
Inatteso, verso sera, giunse Carlo, il commissario di brigata, portando la notizia poco
tranquillizzante dell’arrivo a Varallo di una settantina di autocarri con truppe tedesche e
fasciste80. Questa notizia, che modificava improvvisamente la situazione pur senza creare
allarmismo tra i partigiani, indusse i responsabili dei distaccamenti ad aumentare la vigilanza ed a prendere in considerazione l’eventualità di un attacco nemico nei giorni
seguenti.
80
Al riguardo il diario del 63o battaglione della legione “Tagliamento” riporta: «11 [marzo]
sabato. Battaglione del 63o Battaglione della Legione Tagliamento parte da Pray Biellese autotrasportato per raggiungere Borgosesia, dove sarà alle dipendenze del 15o Reggimento Polizia Germanica per le operazioni che vi dovranno essere svolte. Alle 4 viene effettuato lo stabilito appuntamento con il Comando Tedesco. Alle 5 il Battaglione sempre autotrasportato
parte e punta su Varallo. Alle 6 giunge a Roccapietra dove rimane a presidio [...] Tempo buono-cielo scoperto».
41
Il combattimento di Rassa
Domenica 12, fin dalle prime ore del mattino, il Comando, per evitare brutte sorprese, inviò una pattuglia alla frazione Dughera per controllare da posizione favorevole il
tratto di rotabile tra Piode e Campertogno e il ponte di Quare. Successivamente i reparti
armati vennero posti in stato di allarme ed ai disarmati si raccomandò di seguire l’itinerario prestabilito in caso di ritirata.
La gente di Rassa, consapevole del potenziale pericolo, si comportò, senza dar segni di nervosismo, come ogni domenica mattina. Di quel mattino don Cristina racconta: «Mi ricordo che era di domenica, che ero salito a dire la messa alle 9 a Rassa, e dopo
Messa alcuni partigiani mi hanno avvisato che c’era l’allarme perché stavan salendo
dei camion di tedeschi e fascisti. Io nonostante questo scendevo per dire l’altra messa
a Piode alle 11, pensando che se li avessi trovati, non mi avrebbero ammazzato su una
strada senza chiedermi chi ero, cosa facevo: tutt’al più mi avrebbero portato indietro.
Ma sono arrivato fino alla scorciatoia che scende a Piode senza trovare nessuno. Arrivato a Piode, nella piazzetta di Piode la gente era tutta allarmata perché erano passati
una cinquantina di camion di tedeschi e fascisti e dicevano che andavano a Rassa»81.
La notizia che numerosi camion nemici si dirigevano a Rassa pervenne al Comando
verso le 10, ma solo intorno a mezzogiorno un colpo di fucile sparato dagli uomini del
posto di blocco della Barmosa avvisò che la colonna si stava avvicinando. A quel segnale
convenuto gli uomini del “Bandiera” e del “Piave” andarono a prendere posizione nelle
postazioni allestite alla frazione Albergo e quelli del “Pisacane” si inoltrarono nell’impervio e boscoso versante alla destra orografica del Sorba per occupare la posizione
loro assegnata.
Questa operazione si svolse nel massimo ordine ed anche se dei responsabili di distaccamento il solo presente era Renato del “Bandiera”82, “Attila” (Remo Colombo),
81
Testimonianza di don Alfio Cristina, cit. I reparti trasportati dalla cinquantina di camion
verso Rassa di cui fa cenno don Cristina, verosimilmente sono quelli citati nel diario del 63o
battaglione che, a proposito degli avvenimenti di domenica 12 marzo, riporta fra l’altro: «12
Domenica. Alle sette il Battaglione autotrasportato raggiunge Varallo come disposto dal
Comando 15o Reggimento S.S. Polizia germanico, viene fatto tornare a Roccapietra [...] Nel
pomeriggio il Comando del 15o Reggimento Polizia Tedesca, che è rimasto in Varallo senza
presidio, richiede una compagnia a protezione [...] L’azione lungo la Valsesia vien compiuta
dal reparto Germanico [il comandante della 28a legione della Gnr in un rapporto a Morsero in
data 15 marzo parlava di «un battaglione di truppe tedesche»], dal reparto della Milizia fascista di Milano a cui si è aggiunta la squadra cannoni del nostro Battaglione col cannone da
37 [...] Tempo buono-cielo scoperto».
82
Degli altri responsabili Quinto e Gemisto erano assenti per i motivi già esposti. Grillo e
i quattro partigiani che con lui, in auto, il mattino di domenica 12, tornavano a Rassa con
l’esplosivo preso ad Alagna, giunsero vicinissimi al ponte di Quare nel momento in cui stava
transitando la colonna nemica. Riuscirono ad evitare la cattura, abbandonando velocemente l’automezzo ed addentrandosi nel boscoso pendio la cui visibilità dal ponte è impedita da
una accentuata curva della strada.
42
che fungeva da comandante del “Piave”, e Danda, il vice di Gemisto, si dimostrarono
all’altezza della situazione. Intanto i disarmati con il commissario di brigata Carlo, si
allontanavano dal piccolo centro abitato.
La colonna nazifascista alla cascina Barmosa fu costretta a fermarsi per rimuovere
dalla sede stradale tronchi d’albero lasciati dai partigiani. Rimosso l’ostacolo, dalla
colonna si staccò un plotone di uomini - presumibilmente fascisti - che in fila indiana si
misero in marcia verso il paese.
Dalla posizione dominante della frazione Albergo i partigiani, che controllavano l’ultimo tratto della tortuosa e stretta strada che, costeggiando il torrente Sorba, giunge a
Rassa, videro avvicinarsi i rastrellatori ed attesero l’ordine di sparare. Renato ordinò di
far fuoco quando la fila degli attaccanti si presentò allo scoperto ad una distanza molto
ravvicinata. Molti dei militi che forse credevano di poter raggiungere Rassa senza colpo ferire, colti di sorpresa dalle nutrite e ripetute scariche di fucileria e dalle raffiche
della mitraglia e dei mitragliatori, rimasero sul terreno, mentre gli incolumi, ripiegando
non senza difficoltà, riuscirono a porsi in salvo. Lo sconcerto tra i nazifascisti, se ci fu,
non durò molto: il tempo di piazzare i mortai, puntare il cannoncino e le mitraglie. Quindi dalla colonna partì il contrattacco. Con il fuoco intenso delle loro armi pesanti sulle
postazioni della frazione Albergo i nazifascisti costrinsero i partigiani ad abbandonarle e
porsi al riparo dalle bombe dietro i muri delle case della piccola frazione.
I responsabili e i garibaldini del “Piave” e del “Bandiera”, rendendosi conto che troppo
grande era la sproporzione dell’armamento per continuare a resistere e che le poche
munizioni stavano esaurendosi, cominciarono a ritirarsi dopo avere occultato la mitragliatrice Breda ormai senza colpi.
Fino a quel momento nessun partigiano era stato colpito e questo, unitamente al
comportamento esemplare di Renato e degli elementi più preparati politicamente - alcuni dei quali capisquadra non ancora ventenni - consentì ai partigiani di ripiegare con
calma: il che non impedì ad un gruppo di uomini del “Piave” e ad una squadra del “Bandiera” di trovarsi divisi dal grosso dei due distaccamenti83.
Impossibile quantificare le perdite nemiche. Danda che, prima di ritirarsi con gli
uomini del “Pisacane” in direzione di Mera, visse da vicino le fasi del combattimento,
ricorda: «La sparatoria che dalla frazione Albergo investì il reparto nemico fu impressionante sia per il volume di fuoco che per l’effetto che ebbe sui suoi componenti. Il
nostro successivo intervento sui militi che indietreggiavano in un tratto di strada allo
scoperto, aumentò il numero dei colpiti. Contro di noi i nazifascisti concentrarono al-
83
Loris Bertone “Gavetta” del “Piave”, che faceva parte di quel gruppo, ricorda: «Noi
eravamo a sinistra vicino ad una baita vuota un po’ allo scoperto e penso che i tedeschi con
i cannocchiali ci avessero bene inquadrati. Si misero a sparare e il primo colpo di mortaio
cadde proprio vicino a noi e sollevando la neve per fortuna non scoppiò. Il secondo centrò
la baita e ne distrusse il tetto. Noi allora ci ritirammo: alle spalle dopo qualche centinaio di
metri avevamo una fitta pineta, nella quale dopo non poca fatica riparammo. Qui sempre in
silenzio ci unimmo ad altri partigiani ritiratisi da Rassa: ricordo i fratelli Bianchetto, Merlin,
Aglietti (tutti caduti a Mottalciata) e da allora da quel mezzogiorno di quella triste domenica,
incominciò di nuovo il lungo calvario di ritirata più penoso che il precedente quello del 20
febbraio che durò tre giorni, in mezzo alla neve alta, senza pista, con scarponi e vestiti bagnati e senza mangiare [...] eravamo in 14 o 15 [...] Non avevamo più comandanti, andavamo
43
lora il fuoco dei loro mortai che ci indusse ad abbandonare la postazione. Dopo la cessazione del fuoco, per trasportare i feriti e i morti, vi fu un andare e venire di autoambulanze e autocarri nemici col simbolo della croce rossa»84.
Il morale dei garibaldini, anche se furono costretti a ritirarsi, era buono, e il sapere
di dover camminare molte ore nella neve per raggiungere l’alta valle del Cervo non li
preoccupava più di tanto.
Giunti al bivio dove, tra le ultime case di Rassa, si congiungono le mulattiere della
val Sorba e delle val Gronda, essi appresero che i disarmati avevano proseguito, contrariamente a quanto era stato disposto dal Comando in caso di attacco, per la val Gronda.
Questa notizia, che significava lo stravolgimento del piano di ritirata, destò non poca
apprensione, ma nessuno si sottrasse al dovere di proteggere i disarmati: tutti si incamminarono per la mulattiera della val Gronda e, alla squadra del “Bandiera” in possesso
del mitragliatore, comandata da Pic, Renato affidò l’incarico di coprire il ripiegamento.
Raggiunta Rassa, i nazifascisti inviarono un plotone ad incendiare le case della frazione Albergo ed un altro reparto, per incalzare i garibaldini, proseguì per la val Gronda. La colonna nemica, mai persa di vista dalla retroguardia partigiana, risalì un buon
tratto della mulattiera sparando raffiche di armi automatiche e solo nel tardo pomeriggio tornò indietro. Giunti in prossimità di Rassa sull’imbrunire, i rastrellatori avvistarono due partigiani nelle vicinanze di una piccola baita. La breve e intensa sparatoria contro di essi non gli lasciò scampo: Ezio Gallotto “Ciclone” e Ferruccio Mongilardi vennero uccisi. Erano i primi due caduti partigiani.
Nel frattempo i partigiani, superate le frazioni Oro, Ortigoso, Piana, Rassetta e Fontana,
tutte abitate ma che non davano segno di vita, giunsero a Mezzanaccio (m 1.294), l’ultima frazione di Rassa in val Gronda. Erano le 18 e la fatica per arrivare fin lassù, anche
se essi avevano trovato la pista nella neve alta già battuta dai valligiani, non era stata
poca. Di mangiare non se ne parlava. Nessuno oltre alle coperte e agli effetti personali
aveva ritenuto opportuno prendere pasta, farina da polenta, riso o patate dalle cucine
dei reparti. Ad un certo punto saltò fuori un mastello da cinque chili di marmellata autarchica che fece il giro fra i presenti: ad ognuno ne toccò un cucchiaio. Era ormai
buio, il cielo terso e l’aria pungente presagivano, anche per l’indomani, il bel tempo che
durava da qualche giorno.
Carlo e Renato chiamarono allora a raccolta i partigiani sullo spiazzo antistante la
alla buona ventura [...] nostro intento era di raggiungere nuovamente la mulattiera che dal
bocchetto della Boscarola portava al Bocchetto Sessera. Il giorno di lunedì camminammo
tutto il giorno e alla sera arrivammo in vista della tanta agognata mulattiera [...] Il giorno
dopo martedì, terzo giorno, camminando lungo la mulattiera, arrivammo nel pomeriggio, passando dalle Casermette, al Bocchetto Sessera; l’albergo era metà distrutto dall’incendio di
quella domenica 20 febbraio e decidemmo di tornare a casa per un po’ di tempo. Ci dividemmo [...]» (da un memoriale inviato all’autore in data 3 giugno 1984). La squadra del “Bandiera” era quella comandata da “Bibi” (William Valsesia) che aveva in dotazione la mitragliatrice
Breda. Sulle vicissitudini dei partigiani di questa squadra che raggiunsero la zona della Serra, nel Biellese occidentale, il 18 marzo, si veda WILLIAM VALSESIA “BIBI”, Sui combattimenti
di Rassa, in “l’impegno”, a. IV, n. 1, marzo 1984, pp. 43-45. Sullo stesso avvenimento si veda
ANNIBALE GIACHETTI “DANDA”, Il Pisacane a Rassa, in “l’impegno”, a. IV, n. 2, giugno 1984,
pp. 53-54.
84
Testimonianza rilasciata all’autore il 13 ottobre 1993.
44
chiesetta di Mezzanaccio per stabilire insieme il da farsi. Dopo un attento esame della
situazione, sentite diverse opinioni, si decise di formare due gruppi con questi obiettivi:
il gruppo formato dai residenti nella Valsessera e zone limitrofe avrebbe tentato di raggiungere il Biellese orientale portandosi a Campertogno, Scopello, il bocchetto della Boscarola e l’alta Valsessera; l’altro gruppo, che puntava su Piedicavallo, avrebbe dovuto
superare la dorsale montana che separa la val Gronda dalla val Sorba tra la Testa del
Cerone (m 2.232) e il Turrio (m 1.940) per arrivare in val Sorba e di là iniziare l’ascesa
alla bocchetta del Croso (m 1.940) per scendere ad alpe Finestre e Montesinaro nell’alta valle Cervo. A Mezzanaccio la neve superava il metro: nessuno pensava che i nazifascisti sarebbero tornati ad attaccare.
Si formarono i due gruppi: una sessantina di disarmati con alcuni partigiani del “Piave” optarono per la Valsessera, gli altri, più di un centinaio, decisero per l’alta valle del
Cervo. Incolonnati i partigiani dei due gruppi, prendendo direzioni opposte, si misero in
cammino verso un alpeggio, nelle cui baite trascorrere la notte stellata sempre più fredda. E più essi risalivano il bosco di pini, larici ed abeti per giungere nella zona pascoliva,
più aumentava la neve e, dovendo battere la pista, la fatica. Verso le 21 la colonna diretta nella valle Cervo raggiunse le baite dell’alpe Sulla Piana, e i partigiani dell’altra trovarono rifugio in quelle di un’alpe sul versante di fronte.
I nazifascisti intanto, contrariamente alla condotta tenuta nel corso dei precedenti
rastrellamenti effettuati nel Biellese, si erano acquartierati a Rassa, avevano allestito
postazioni, piazzato alcuni potenti riflettori che accendevano ogni tanto per illuminare
gli scoscesi pendii che circondano la piccola località.
45
“Arrendetevi, banditi!”
Alle 4 del mattino di lunedì 13 i garibaldini, che avevano trascorso la notte nelle
provvidenziali baite della Piana, erano già in piedi. Il tragitto per raggiungere Montesinaro era ancora lungo e le difficoltà da superare non poche. Essi non avevano riposato
molto ma la stanchezza era stata in parte smaltita; non avevano da mangiare ma si erano riscaldati ed asciugati davanti al grande fuoco acceso nel casun; non avevano un’idea
di cosa li attendesse ma non disperavano di raggiungere il Biellese prima di sera.
Si riformò la colonna e con una luna piena che illuminava a giorno un mondo di
neve si riprese a salire. I partigiani, che a turno si alternavano alla testa della colonna,
affondavano nella neve fino alla cintola, ma passo dopo passo ed aiutandosi come potevano, si avvicinarono sempre più, seguiti dai loro compagni, al crinale dal quale si
spazia nella val Sorba e s’intravede la bocchetta del Croso. Alle 8 raggiunsero la dorsale. I partigiani presero fiato e guardarono seicento metri più in basso dove scorre il
torrente Sorba e vi è la mulattiera che porta alla bocchetta del Croso.
Lentamente, con circospezione per evitare le insidie della montagna, essi iniziarono
la discesa che si concluse verso le 9.30 vicino all’alpe Massucco. Qui la colonna si
divise: una trentina di garibaldini - quelli bagnatissimi che si erano alternati nel battere la
pista - si fermarono nella baita dell’alpe per accendere il fuoco ed asciugarsi un po’, gli
altri proseguirono. Tutto sembrava andare secondo il piano prestabilito, ed anche il tiepido
sole che preannunciava la primavera e temperava l’aria fredda e pungente diede forza
ai partigiani, che si sentirono più vicini al Biellese, ai loro paesi, alle persone che vi abitavano e che conoscevano, molte delle quali erano dalla loro parte e li appoggiavano.
Improvvisamente raffiche di armi automatiche, di Maschinengewehr (la terribile “sega
d’Hitler”), colpi di fucile e di tac-pun dei Mauser di precisione, rintronarono nella vallata. Erano i nazifascisti i quali, risalendo la val Sorba e seguendo le piste dei partigiani
nella val Gronda, giunti a ridosso della colonna, cercavano con quell’attacco di annientare i garibaldini biellesi.
Colti di sorpresa, gli armati, che si stavano asciugando, ebbero il loro da fare per
uscire dall’unica porta della baita e non furono in grado di opporre resistenza ed ai disarmati non restò che cercare scampo nel percorrere il più velocemente possibile la
mulattiera innevata che avevano dinanzi. Ma i nazifascisti adeguatamente equipaggiati
ed invisibili continuavano a guadagnare terreno e raggiunta una posizione favorevole,
con delle mitragliatrici, cominciarono a battere un passaggio obbligato sul ripido e gelato canalone che porta alla bocchetta del Croso, mentre sparavano sempre più da vicino sui partigiani. Il primo di essi ad essere colpito fu Sergio Mulatero “Tarzan”, di
Torino, quindi vennero feriti Flavio Recanzone “Tan-Tan” e Giuseppe Recanzone “Soia”,
due fratelli di Miagliano, e Bartolomeo Cantono “Sbornia”, di Andorno.
La situazione per i garibaldini che dovevano compiere tratti allo scoperto sotto una
incessante gragnuola di colpi si fece più drammatica: alcuni spossati e feriti vennero
catturati, il sangue dei colpiti continuava ad arrossare la spessa coltre di neve. Tutto
sembrava perduto, ma un piccolo dosso offrì la possibilità di opporre una estrema re46
sistenza. Ad organizzarla fu Renato di Biella e con lui c’erano Pietro Nastasi “Cucuzza”, il piccolo fantaccino siciliano del “Bandiera”, con il mitragliatore Breda, Gino Mattei “Caramba”, un ebreo triestino, “Bagai”, un partigiano del “Piave” proveniente da
Rovigo, ed i biellesi Sergio Ravetti “Terribile”, di Cossila, Mario Antonietti “Molotof’,
Nunzio Strippoli “Talpa” e Pic, di Tollegno.
Dall’improvvisata postazione gli otto partigiani spararono tutti i colpi dei loro fucili
e il solo caricatore del mitragliatore. L’inattesa reazione durata pochi minuti fu sufficiente per contenere temporaneamente l’azione dei nazifascisti i quali ripresero ad avanzare con cautela.
L’attenuata pressione consentì a numerosi partigiani di distanziarsi dagli assalitori,
evitare la cattura e raggiungere il ponticello sul torrente Sorba, al di là del quale con la
speranza c’era la possibilità di salvarsi. Per Renato e gli uomini che rimasero con lui la
sola alternativa rimasta fu quella di trovare una piccola nicchia tra la neve, il ghiaccio e
le pietre del torrente e attendere gli eventi. Durante questo tentativo venne ucciso Talpa. Altri due partigiani: Michele Lombardi “Buk”, di Minervino Murge, e Vincenzo Abbafati “Leone”, di Velletri, morirono alla bocchetta del Croso per le ferite riportate.
Cessato il fuoco, i rastrellatori, invece di seguire le orme nella neve che avrebbero
permesso di rintracciare molti partigiani, forse per tema di dover pagare un caro prezzo
per quell’operazione, si limitarono ad intimare: «Arrendetevi, banditi!» per alcune volte.
Poi il loro ritorno a Rassa con undici partigiani prigionieri, sulla cui morte - avvenuta il pomeriggio di quello stesso giorno - e i fatti che la precedettero don Alfio Cristina
ricorda: «Il mattino di lunedì 13 con il mio sacrista sono andato su presto a Rassa perché dovevo dire la messa [...] Sono entrato in paese, nessuno mi ha chiesto niente, ma
siccome pensavo che il suono delle campane poteva essere considerato dai tedeschi un
segnale per i partigiani, sono andato dal tabaccaio che era il Ferrari Pierino, dove c’era
il Comando tedesco e per mezzo di un interprete mi hanno presentato questo maggiore
tedesco. Mi sono presentato: “Io sono il parroco e dovrei dire la messa, posso suonare
le campane?”. Lui mi ha risposto: “Faccia pure quel che deve fare”. Allora io vado in
chiesa, suono le campane e la gente è venuta. Tra l’altro in chiesa avevano portato anche
materassi, delle lenzuola perché c’era questo pericolo: che i tedeschi volessero bruciare tutto il paese come avevano bruciato la frazione Albergo [...] Finita la funzione, io
sono andato a far colazione dalla Gina Tocchio alla Locanda delle Alpi e intanto la gente
mi pregava di rimanere. “Guardate io sto qui tutto il giorno e vediamo cosa possiamo
fare per salvare il paese, le case”, perché se bruciavano una casa, bruciavano tutte
essendo una attaccata all’altra. Verso le 10.30 andai ancora dal comandante tedesco e
lui mi disse che erano andati in perlustrazione per vedere se trovavano dei partigiani.
Sono tornato ancora dalla Tocchio dove si erano radunati gli uomini del paese: i giovanotti no, perché, quelli che c’erano, erano nascosti e giustamente non si lasciavano
prendere. Abbiamo pranzato lì e appena dopo il pranzo mi hanno detto che avevano
preso dei partigiani che li avevano portati giù e che li fucilavano. Allora io sono andato
da questo comandante tedesco e per mezzo dell’interprete gli ho chiesto di salvarli. Dico:
“Guardate, perché volete ammazzarli?”. E questi giovanotti erano già contro il muro lì
fuori dalla bottega del Ferrari, quella che c’era in metà del paese a sinistra andando in
su, dove c’è quel piccolo spiazzo vicino alla chiesa. Io sono andato per vedere se riuscivo a salvarli questi ragazzi: “Portateli via, non ammazzateli”. Ma questo maggiore mi
ha risposto: “È la legge di guerra, se loro prendono noi ci ammazzano, noi li abbiamo
47
presi e dobbiamo fucilarli”. Allora io ho chiesto se potevo almeno parlare con questi
ragazzi, per sentire se qualcuno voleva confessarsi: tra l’altro avevo visto che c’era il
Nicola [Nicola Cardetta “Tigre”] il quale se avesse potuto si sarebbe confessato. Aveva
fatto la Comunione domenica mattina, perché lui faceva la Comunione quando io andavo
su a Rassa. Mi hanno detto che non potevo avvicinarli, ma che se volevo potevo dirgli
due parole. E loro erano già lì al muro: gli ho detto qualche giaculatoria, gli ho fatto dire
qualche cosa e gli ho dato l’assoluzione. Poi il maggiore tedesco mi ha detto di andare
a suonare le campane, e io gli ho chiesto: “Ma per che cosa?”. “Perché la gente assista
alla fucilazione”, fu la risposta. “Guardi, questo non lo faccio perché nessuno vuole
assistere a queste cose”. E voleva fucilarli. “Guardi - gli dissi -, non li fucili proprio in
mezzo al paese, ci saranno bambini, una cosa, un’altra: è una cosa che fa pietà. Se volete fucilarli, fucilateli in un altro posto, ma non qui”. Allora li hanno presi, li hanno
incolonnati e con i loro soldati li hanno portati vicini al cimitero. E ha fatto andare anche me: mi ha obbligato ad andare assistere alla fucilazione. Mi han preso in mezzo a
loro, mi han portato giù, era già verso sera... E poi mi ricordo che ha messo lì il plotone
e questi ragazzi là, ragazzi, con questa ragazza [Nella Pastorello “Nella”] tutti già al muro.
Tra l’altro mi ricordo che quando io ho parlato lì fuori a questi ragazzi, qualcuno che
cercava di guardare indietro lo picchiavano, qualcuno aveva delle fasciature alle mani,
ai piedi. Si vede che quando li hanno presi non so se li han bastonati, se li han picchiati,
questo non lo so perché non ho potuto parlare con nessuno di loro, perché mi han dato
nessuna possibilità di parlare con loro. Poi li hanno messi lì e con il plotone di esecuzione li hanno ammazzati. Penso che il plotone di esecuzione sia stato misto, però chi
comandava, chi ha dato l’ordine era questo interprete che si chiamava Guido, mi ricordo
che si chiamava Guido, mi pare che fosse un ragioniere che faceva da interprete e
comandava i fascisti che c’erano con i tedeschi. Poi ho visto uno che è andato lì con
la rivoltella e ha dato il colpo di grazia a tutti. Quindi questo maggiore mi ha detto: “Adesso
noi ce ne andiamo, se sappiamo che qui ci mette piede ancora un partigiano, noi bruciamo
tutto il paese. Questa volta l’abbiamo salvato perché...”, insomma, così... Io gli ho detto:
“Arrivate voi siete armati, arrivano gli altri sono armati, e noi dobbiamo subire gli uni e
gli altri...”. Noi naturalmente eravamo per i partigiani, tra l’altro essendo io di Varallo
molti partigiani tra i quali il Chiodo, il “Ranghin”, il Leo Colombo e tanti altri erano quasi
miei compagni di scuola [...]. Non è che avessero paura i fucilati di Rassa. Io - pensandoci dopo - non so se avrei avuto il coraggio di stare lì ad aspettare, non so se non sarei
caduto prima mezzo morto dalla paura. Niente: si sono comportati veramente bene. Sono
caduti quando c’è stata la scarica e poi ricordo questo tale che è andato lì con la rivoltella, doveva essere un sottotenente o qualcuno così a dargli il colpo di grazia»85.
I corpi di Luigi Bolzon “Alì”, Giovanni Borsato, Nicola Cardetta “Tigre”, Delfo Castaldi “Aquila”, Sandro Colongo, Walter Gallotto, Gino Lori “Job”, Luciano Malinverni
“Bris”, Adelio Moro “Bestia”, Nella Pastorello “Nella”, Benvenuto Pivotto “Lacit”, gli
undici partigiani fucilati il 13 marzo, vennero sepolti il giorno dopo in una fossa comune nel piccolo cimitero di Rassa. A comporre le salme c’era Teresa Patrosso che così
rammenta quell’atto di umana pietà: «Siamo andate io e la Irene. Ho tirato via i documenti. Soldi non ne avevano, qualche cinghia e ho messo tutto in una scatola. Gli ab-
85
Testimonianza di don Alfio Cristina, cit.
48
biamo pulito la faccia e li abbiamo coperti tutti con uno straccio bianco e mi ricordo di
uno che si chiamava Canuto, nome di battaglia, che era stato catturato, ed aveva l’orologio incastrato dentro al braccio tutto ferito, senza scarpe, con gli stracci fatti su nei
piedi»86. Nel pomeriggio del 13 la maggior parte dei garibaldini, seppur provati dalla
terribile esperienza del mattino, riuscì a superare la bocchetta del Croso e raggiungere
nel Biellese le località prescelte. Per gli altri, che per motivi diversi furono costretti a
rimandare lo spostamento al giorno successivo, le traversie non erano ancora finite.
Ad aspettarli dalle prime ore del pomeriggio del 14 a Montesinaro vi era un plotone
di militi del 115o battaglione “Montebello” del presidio di Andorno Micca. L’azione che
ne seguì diede la possibilità ad una squadra di fascisti di catturare il garibaldino Walter
Ramella di Vaglio Chiavazza che la sera stessa venne ucciso ad Andorno, mentre una
seconda squadra, che effettuava un rastrellamento nei «cascinali vicini», colpì a morte
un civile di Montesinaro, «il quale o per paura o per non farsi fermare si dava alla fuga»87.
Persistendo nella caccia ai partigiani, il 16 marzo i militi del «Presidio di Andorno ai
quali si aggiunse un plotone del Comando di Battaglione» partivano per «un’azione di
rastrellamento sulle Alpi Briolo Q. 1.248». Nel corso dell’operazione, dopo avere «oltrepassato il Bocchetto Sessera e seguendo piste fresche sulla neve che raggiungeva
oltre il metro di altezza»88, i fascisti avvistarono una pattuglia partigiana contro la quale
spararono vanamente numerose raffiche di armi automatiche. I quattro della pattuglia
che andavano alla ricerca di partigiani provenienti da Rassa, erano Italo, Lungo, Andrea
Taverna “Svizzero” e “Biondo” i quali, superata la Bassa del Campo, nel discendere la
valle del rio Concabbia incontrarono Terribile, Caramba, Bagai, Franco Bianco “Nebrasca”, Giovanni De Toffol “Balilla”, due ex prigionieri inglesi e Pic che venivano dalla
località valsesiana ed erano diretti alla Casermetta della Piana del Ponte, ove pensavano
ci fosse ancora la base del “Bandiera”.
Stante la situazione, anche Italo e i suoi compagni decisero allora - come avevano
già fatto altri garibaldini - di avviarsi verso l’alta valle dell’Elvo per raggiungere l’alpe
Varney, dove furono accolti fraternamente dai partigiani del distaccamento “Bixio”89
intorno a mezzogiorno del giorno dopo.
86
Testimonianza di Teresa Patrosso, cit.
Il civile si chiamava Flavio Borghese Rat fu Emilio: si veda il rapporto inviato dal comandante del presidio di Andorno al Comando del 115o battaglione a Biella il 15 marzo 1944
(ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65). Nello stesso rapporto, sull’uccisione del partigiano si affermava: «Rientrato in presidio a tarda sera con il ribelle catturato,
questi veniva interrogato dall’Ufficiale addetto all’Ufficio Politico Tenente Carlettini [...]
Mentre veniva ricondotto nella camera di punizione, approfittando della oscurità, tentava di
fuggire. La scorta gli intimava il fermo inutilmente; furono sparati alcuni colpi di moschetto
ed il Ramella cadeva a terra colpito a morte». La solita versione che i fascisti adoperavano
per giustificare l’uccisione dei loro prigionieri.
88
Dal rapporto inviato dal comandante del 115o battaglione “Montebello” al capo della
provincia Morsero il 18 marzo 1944 (ASV, Prefettura repubblicana 1943-45, Gabinetto, mazzo 65).
89
Dei sei distaccamenti garibaldini fondati nel Biellese l’unico ancora efficiente ed organizzato in quel momento era il “Bixio”. Una formazione che, pur avendo subito attacchi nemici, non era stata costretta ad abbandonare l’alta valle Elvo. Questa presenza fu di grande
aiuto per i partigiani che giungevano dalle zone sottoposte a massicci rastrellamenti i quali,
dopo avere beneficiato di un aiuto fraterno, potevano rientrare nelle stesse per riorganizzare
i distaccamenti.
87
49
Ma il Comando tedesco non demordeva e la pervicacia con cui inviava i reparti da
esso dipendenti alle calcagna dei partigiani che dopo Rassa transitarono nella zona di
Piedicavallo la si deduce da questa annotazione contenuta nel diario del 63o battaglione:
«Venerdì 17 marzo. Battaglione in movimento. La 1a Compagnia al comando del C.M.
Fabbri per un’azione da compiersi unitamente alle truppe tedesche su Piedicavallo: si
prevede che resterà in azione per 3 giorni».
L’epilogo della drammatica esperienza dei garibaldini biellesi a Rassa si ebbe con la
morte di Ermanno Agosti “Lupo”, un partigiano del “Mameli” passato al “Bandiera”, il
quale, dopo il combattimento di domenica 12, invece di proseguire coi compagni, si
fermò alla frazione Fontana per dei forti dolori ai piedi provocati da un principio di
congelamento. In queste condizioni Lupo, in preda a lancinanti e incessanti sensazioni
dolorose per l’aggravarsi del congelamento, trascorse diversi giorni nascosto in una
baita prima di farsi vivo, sabato 18 marzo, agli abitanti della piccola frazione della val
Gronda. Di quello che avvenne nei giorni successivi don Cristina, che si impegnò in
tutti i modi per aiutare Lupo, ricorda: «Era domenica 19, vado su a Rassa per dire messa
e viene una donna della frazione Fontana che mi dice: “Guardi che ieri è arrivato un
giovanotto con la cancrena ai piedi che non può più camminare”. Un giovanotto che è
stato fuori diversi giorni, da quando due squadre il 14 erano andate in perlustrazione
per cercare i partigiani morti, una nella val Sorba e l’altra nella val Gronda. Lui li ha
visti, ha visto questi che si parlavano - adesso io non so di preciso la località dove l’hanno
trovato, in quale casera lui era nascosto - però ha avuto paura che fosse ancora qualcuno che andasse a cercare i partigiani e non si è fatto sentire, e non si è fatto vedere,
ed è rimasto lì diversi giorni in mezzo alla neve. Mangiava, non so, la neve, quel che
l’era... Poi è riuscito in qualche maniera ad arrivare giù fino a questa frazione, mi pare
la Fontana, che è quella per arrivare su al Mezzanaccio. Lì la gente aveva paura perché
aveva sentito dire che se si ricoverava ancora un partigiano i tedeschi bruciavano tutto
il paese. “Cosa dobbiamo fare?”. “Cosa dobbiamo fare non è facile. Per intanto incominciate a tenerlo lì”. Io in giornata vado su dal medico di Campertogno, che era il
dottor Fornara, gli parlo e andiamo su a vedere questo ragazzo com’è. Perché non
sapevamo in che condizioni fosse. Siamo andati alla frazione Fontana io e il dottor Fornara è venuto con me e abbiamo visto che non poteva camminare perché aveva la cancrena ai piedi. “Qui non si può tenere questo ragazzo, bisogna farlo ricoverare”. Io gli
ho chiesto: “Dove vuoi andare? Che cosa vuoi fare? Vuoi che ti portiamo all’Ospedale
di Varallo? In qualche posto... dicci tu cosa dobbiamo fare...”. Lui fa: “Se vado giù mi
prendono e mi ammazzano. Cercate di portarmi all’Ospedale - mi pare che lui m’abbia
detto di Fobello o di Rimella, adesso non ricordo più - che lì abbiamo un nostro ospedale partigiano”. “Va bene - dissi -, però devi darmi la possibilità... tu abbi pazienza”.
Ho pregato ’sta gente di tenerlo ancora, di nasconderlo perché nessuno lo sapeva che
c’era, eccetto quei pochi lì. Sono andato giù a Scopello e sono riuscito a trovare Gemisto e gli ho detto che c’era questo partigiano in queste condizioni. “Ci penso io, mando
su io un infermiere”. Poi sono passati due o tre giorni e non l’aveva mandato questo
infermiere... Poi vado su un mattino a dire la messa e mi dicono che quel ragazzo l’avevano portato via dalla frazione Fontana e l’avevano messo nella prima casa a destra
entrando a Rassa dove c’era una ragazza che si chiamava Bianca»90.
90
Testimonianza di don Alfio Cristina, cit.
50
Sulla permanenza di Lupo nella sua casa Bianca Ventura, la giovane che coraggiosamente lo accolse, ha lasciato questa testimonianza: «Il 24 marzo 1944 nelle ore pomeridiane dietro mia richiesta si presentavano in casa mia due partigiani dal nome di battaglia uno “Giorgio” e l’altro “Siluro”, il primo di Torino abitante in via Caserta numero
8 e il secondo di Failungo comune di Piode, i quali portarono il partigiano Agosti Ermanno fu Antonio e di Pavesi Enrichetta, nato a Vercelli il 23 luglio 1925 abitante a Vercelli via Trieste, che era gravemente ammalato per congelamento ai piedi di terzo grado
e che fino a tale data era stato nascosto in una stalla sita in località Frazione Fontana
causa il rastrellamento dei nazifascisti. Il partigiano Agosti è stato ricoverato in casa
mia ed assistito da me personalmente dal giorno 24 marzo fino al 29 di detto mese, data
sotto la quale per l’aggravarsi del congelamento ed in seguito colpito da cancrena e
meningite tetanica l’Agosti decedeva. Tutti i giorni i due partigiani venivano a casa mia
per far visita all’ammalato e visto che questa andava peggiorando decisero di farlo ricoverare all’ospedale di Varallo, ma al sopraggiungere dell’autoambulanza l’Agosti era
già spirato. Subito dopo il decesso i due partigiani si interessarono presso le autorità
locali e nel giorno stesso del decesso veniva seppellito nel cimitero di Rassa con gli
onori dovuti»91.
Rassa - come ha scritto Claudio Dellavalle - «segnò la fine di un periodo ben definito del partigianato biellese, che potremmo complessivamente definire “della montagna”. La dura esperienza che i partigiani ne ricavarono servì a mettere a punto, prima
di tutto, una nuova tattica di guerriglia, la cui applicazione nei mesi successivi non solo
mutò il concetto di lotta partigiana fino allora seguito, ma, sommandosi ad eventi esterni, comportò mutamenti profondi nella vita delle formazioni in tutte le sue espressioni
e servì a stabilire i rapporti con la popolazione su basi nuove»92.
91
Da un verbale d’interrogatorio rilasciato ai carabinieri della stazione di Scopa l’11 agosto 1945.
92
C. DELLAVALLE, op. cit., p. 127.
Questi i caduti di Rassa: Vincenzo Abbafati “Leone”, anni 20, nato a Velletri (Roma), residente a Lariano (Roma); Ermanno Agosti “Lupo”, anni 18, nato e residente a Vercelli; Giovanni Borsato, anni 20, nato a Vallonara (Vi), residente a Valle San Nicolao; Luigi Bolzon
“Alì”, anni 17, nato e residente a Castelletto Cervo; Nicola Cardetta “Tigre”, anni 18, nato a
Gioia del Colle (Ba), residente a Trivero; Delfo Castaldi “Aquila”, anni 18, nato e residente a
Vigliano Biellese; Sandro Colongo, anni 21, nato e residente a Valle San Nicolao; Walter Gallotto, anni 21, nato e residente a Valle San Nicolao; Ezio Gallotto “Ciclone”, anni 20, nato e
residente a Valle San Nicolao; Michele Lombardi “Buk”, anni 20, nato e residente a Minervino Murge (Ba); Gino Lori “Job”, anni 27, nato a Quinto Vercellese, residente a Trivero; Luciano Malinverni “Bris”, anni 20, nato a Vercelli, residente a Trivero; Ferruccio Mongilardi,
anni 21, nato e residente a Valle San Nicolao; Adelio Moro “Bestia”, anni 19, nato a Valrovina
(Vi), residente a Valle Mosso; Sergio Mulatero “Tarzan”, anni 19, nato e residente a Torino;
Nella Pastorello “Nella”, anni 19, nata a Villa Estense (Pd), residente a Biella; Benvenuto
Pivotto “Lacit”, anni 17, nato e residente a Trivero; Nunzio Strippoli “Talpa”, anni 18, nato
a Corato (Ba), residente a Tollegno.
51
Indice dei nomi di persona
Abbafati, Vincenzo “Leone” 47, 51
Aglietti, Aldo “Terribile” 43
Agosti, Ermanno “Lupo” 50, 51, 51
“Alan”, ex prigioniero australiano 37
“Alì” v. Bolzon, Luigi
Ambrosio, Piero 7, 9, 11, 22
Amisano, Quinto 12
Angelino, Angelo 11
Angelino Giorset, Carlo 19
Angiono, Ermanno “Pensiero” 4, 12, 13, 29
Antonietti, Mario “Molotof” 47
Antonietti, Quinto “Quinto” 4, 29, 32-34, 36,
38, 40, 40, 42
“Aquila” v. Castaldi, Delfo
“Aramis” v. Marabelli, Nenello
“Arcos” v. Graziola, Mario
Arrigoni, Roberto 35
“Artiglio” v. Maroino, Giuseppe
Badoglio, Pietro 7
“Bagai”, partigiano del “Piave” 47, 49
Baldini, Vito 2
Barazia, Ferdinando 18
Barbano, Enzo 5
Barbi, Irmo “Buronzo” 33
Becchia, Roberto 18
“Beretta” v. Zona, Imer
Bertona, Silvio “Carlo” 23, 23, 27, 39, 41, 43,
44
Bertone, Angelo 10
Bertone, Loris “Gavetta” 43
“Bestia” v. Moro, Adelio
Bianchetto, Eraldo “Drago” 43
Bianchetto, Lorenzo “Faro” 4
Bianchetto, Renato “Falco” 43
Bianchi, Basilio 13
Bianco, Franco “Nebrasca” 49
“Bibi” v. Valsesia, William
Bibolotti, Danilo “Marco” 37
“Biondo”, partigiano del “Bandiera” 49
Bocchio, Argante “Massimo” 28
Bolzon, Luigi “Alì” 48, 51
Bonardi, di Cossato 12
Bonello, Diego 12
Boni, Piemonte “Piero Maffei” 4, 29
Bonino, Eugenio “Picchiato” 37
Borandi, Enrico 11
Borghese Rat, Flavio 49
Borsato, Giovanni 48, 51
Boschetti, Ivo 12
Bowes, Frank 35
Bozzalla, Guerrino “Miseria” 37
Bricco, Adelio 11
“Brin”, ex prigioniero australiano 37
“Bris” v. Malinverni, Luciano
Buffarini Guidi, Guido 14
“Buk” v. Lombardi, Michele
Camerlo, Palmiro 35
Camozza, Gino 13
Caneparo, Annibale “Renati” 4, 40
Canova, Mario 11
Cantone, Carlo “Studente” 37
Cantono, Bartolomeo “Sbornia” 46
“Canuto”, partigiano 49
Caralli, Adriano “Omero” 25, 40
“Caramba” v. Mattei, Gino
Cardetta, Nicola “Tigre” 48, 51
Carlettini, tenente 49
“Carlo” v. Bertona, Silvio
Casalino, Romano “Tonino” 4, 33, 33
Casolaro, Enrico “Rico” 4, 23
Castaldi, Delfo “Aquila” 48, 51
Cattaneo, Eugenio “Tenno” 25
Cena, Angelo 13
Chiodo, Bartolomeo 36, 48
Chiorino, Edoardo 25
“Ciclone” v. Gallotto, Ezio
Cilavegna, Cornelio 6
“Cino” v. Moscatelli, Vincenzo
Colombo, Dolcino “Arrigo” 4
Colombo, Leo 48
Colombo, Remo “Attila” 42
Colongo, Sandro 48, 51
Cosentino, Antonio 2
Crestani, Francesco 35
Cristina, don Alfio 37, 37, 38, 42, 42, 47, 48,
50, 50
“Danda” v. Giachetti, Annibale
“Dante” v. Gallo, Alberto
De Biasio, Matteo “Athos” 11
Dellavalle, Claudio 1, 3-5, 12, 24, 51, 51
“Den”, ex prigioniero australiano 37
De Toffol, Giovanni “Balilla” 49
Dondana, Luigi 21
Duviglio, Ezio 11
Fabbri, Antonio 50
Fasanino, Gianfranco 3
52
Fava Frera, Remo 11
Ferrari, Pierino 47
Filera, Nice 19
Fizzotti, Arturo 11
Fontana, Giuseppe 11
Fornara, medico 50
Forte, Pietro 20, 21
Galdini, Ottavio 11
Galfione, Giacomo 19
Gallian, Arrigo “Russo” 19
Gallina, Benedetto 19
Galliziotti, Emilio 11
Gallo, Alberto “Dante” 26, 27, 27
Gallotto, Ezio “Ciclone” 44, 51
Gallotto, Walter 48, 51
Gambetti, Carlo 11, 23, 26, 27, 28
Gardino, Carlo 13
Gastone, Eraldo “Ciro” 4
Gavasso, Antonio 35
“Gemisto” v. Moranino, Francesco
Giachetti, Annibale “Danda” 28, 36, 43, 44
Gila, Mario 19
“Giorgio”, partigiano 51
Graziola, Mario “Arcos” 29, 29
“Grillo” v. Mancini, Mario
Grosso, Riccardo “Dinamite” 33
Guido, interprete 48
Hary, Luigi 16
Irene, donna di Rassa 48
“Italo” v. Poma, Anello
Janno, Giacomo 13
“Job” v. Lori, Gino
Kraus, tenente 19
“Lacit” v. Pivotto, Benvenuto
Lanati, Pierino 21
Languasco, Aurelio 20
Lanza, Corrado 35
Lanzone, Ugo 13
Lazzarotto, Vincenzo 35
“Leo” v. Vigna, Leo
“Leone” V. Abbafati, Vincenzo
Lipartiti, Enzo 12
Loiodice, Felice 40
Lombardi, Michele “Buk” 47, 51
Longhi, Angelo 11
Lori, Gino “Job” 48, 51
Loss, Silvio 11
Lovatto, Alberto 19
“Lungo” v. Ortona, Silvio
“Lupo” v. Agosti, Ermanno
“Lupo” v. Tortella, Luigi
Malinverni, Luciano “Bris” 48, 51
Mancini, Mario “Grillo” 4, 32, 34, 36, 38, 40,
40, 42
Manfredi, Alessandro 20, 31, 39
Manni, Francesco “Renato Vanni” 25
Manoli, Alfonso 18
Marabelli, Nenello “Aramis” 11, 24, 27
Maroino, Giuseppe “Artiglio” 27, 29, 31, 32,
32, 33, 34, 34
Martinazzo, Angelo 13
Massara, Ferdinando 27, 27
“Mastrillli” v. Salza, Bruno
Mattei, Aldo “Riccio” 37
Mattei, Gino “Caramba” 47, 49
Mazzoni, Giuseppe 30
Merlin, Ernesto “Merlo” 43
Micotti, Dante 11
Milanesi, fratello di un milite 11
Milanesio, Pierino 17
Minarolo, Norberto 13
Modica, Giuseppe “Caino” 37
Mongilardi, Ferruccio 44, 51
Moranino, Francesco “Gemisto” 4, 13, 17,
19, 26, 28, 36-38, 40, 40, 42, 43, 50
Moranino, Luigi “Pic” 1, 32, 34, 36, 44, 47,
49
Moro, Adelio “Bestia” 48, 51
Morsero, Michele 2, 7, 9, 10, 12, 14, 15, 16,
16, 17, 20, 22, 24-26, 27, 31, 33, 35, 39,
39, 42, 49
Mosca, Aurelio 13
Mosca, Pierino 13
Mosca Zunca, Giuseppe 13
Moscatelli, Vincenzo “Cino” 4, 10, 10, 22, 2426, 34, 36, 37, 39
Motta, Giuseppe “Rampia” 37
Mulatero, Sergio “Tarzan” 46, 51
Mussolini, Benito 39
Nardocci, commissario 15, 16, 16
Nastasi, Pietro “Cucuzza” 47
“Nedo” v. Pajetta, Piero
“Nella” v. Pastorello, Nella
Nicchiarelli, Nicolò 14
“Omero” v. Caralli, Adriano
Orsi, Alessandro 3, 11
Ortona, Silvio “Lungo” 32, 34, 36, 37, 49
Osborne, Ernest 35
Osella, Giuseppe 11
53
Pajetta, Piero “Nedo” 4, 19, 22, 32-34, 36, 36,
37, 39
Panichi, Edda 13
Panichi, Francesco 13
Pastore, Pietro 13
Pastorello, Nella “Nella” 48, 51
Patrosso, Teresa 38, 48, 49
Patrosso, Gina in Tocchio 38, 38, 47
Pavesi, Enrichetta 51
Pedrazzo, Renzo “Libero” 40
Pella, Guido “Freccia” 33
Pella, Remo “Remo” 4, 33
“Pensiero” v. Angiono, Ermanno
Peraldo, Pietro 20, 20, 21
Perona, Gianni 1, 3-5, 12, 24, 29
Perrone, Aldo 19
Pezzati, Enzo “Ferrero” 20
“Pic” v. Moranino, Luigi
“Piero Maffei” v. Boni, Piemonte
Pivotto, Benvenuto “Lacit” 48, 51
Pizzorno, Giovan Battista 12
Poma, Anello “Italo” 1, 3-5, 12, 24, 29, 39,
49
Ponzecchi, Bruno 5
Pozzi, Mario 11
Quazza, Guido 32
“Quinto”, v. Antonietti, Quinto
Ragonese, Giuseppe 30
Ramella, Walter 49, 49
“Ranghin” v. Ranghini, Celso
Ranghini, Celso “Ranghin” 48
Ravaglia, Silvio 30
Ravetti, Sergio “Terribile” 47, 49
Recanzone, Flavio “Tan-Tan” 46
Recanzone, Giuseppe “Soia” 46
“Remo” v. Pella, Remo
“Renati” v. Caneparo, Annibale
“Renato” v. Sasso, Renato
“Rico” v. Casolaro, Enrico
Rinolfi, Renato 11
Rivardo, Silvio 12
Rivetti, Oreste 15
Rossetti, Adriano “Sergio” 4, 23, 39
Russo, padre Giuseppe 22
Salza, Bruno “Mastrilli” 4, 25
Sandretti, Renato 29
“Santhià” v. Schellino, Ferdinando
Santhià, Battista “Antonio” 36
Saracco, Secondo “Secondo” 28
Sasso, Renato “Renato” 34, 36, 38, 42-44, 47
Sassone, Francesco 13
Scaglia, Giovanni 28
Scalabrino, impiegata 11
Schellino, Ferdinando “Santhià” 37
Secchia, Pietro 4, 37
Sentinelli, Bruno “Camus” 37
“Sergio” v. Rossetti, Adriano
“Siluro”, partigiano 51
Simeoni, Roberto “Roberto” 33
Solinas, Salvatore “Cuffia” 20
Sonia, spia fascista 24
Strippoli, Alfonso 13
Strippoli, Nunzio “Talpa” 47, 51
Taglioretti, Jean “Jean” 36
“Talpa” v. Strippoli, Nunzio
“Tarzan” v. Mulatero, Sergio
Taverna, Andrea “Svizzero” 49
Tellaroli, Pietro “Barba” 19
“Terribile” v. Ravetti, Sergio
“Tigre” v. Cardetta, Nicola
Tognol, Virginio 11
“Tonino” v. Casalino, Romano
Topini, Renato 11
Tortella, Luigi “Lupo” 31-33
Ugliengo, Gino “Marinaio” 37
Valle Dell’Acqua, Edis “Edis” 29
Valsesia, William “Bibi” 44
Variara, Vincenzo “Turin” 29
Ventura, Bianca 50, 51
Vercella Baglione, Vitale 19
Viana, Luigi “Olmo” 4
Viano, Ettore 19
Vigna, Leo “Leo” 4, 23, 24, 24, 26, 27, 28
Vigna, Oreste 24
Zanchi, Isidoro “Gaio” 37
Zecca, Luciano 11
Zegna, Ermenegildo 32
Zona, Imer “Beretta” 12, 18
Zuccari, Merico 9, 9, 10-12, 16, 22-24, 24, 25,
25, 26, 26, 27, 28, 28, 29, 30, 30, 31, 3335, 39
54
Indice dei nomi di luogo
Affittà di Sopra, alpe (monte Cucco) 2
Agnona (Borgosesia) 10
Alagna Valsesia 6, 10, 39-41, 42
Albarei, alpe (valle Strona di Postua) 26, 28
Albergo (Rassa) 38, 42-44, 47
Andorno Micca 6, 10, 18, 37, 39, 39, 40, 46,
49, 49
Andrate (To) 40
Aranco (Borgosesia) 10
Asti 27, 27
Bagneri (Muzzano) 21
Baraggia (Lessona) 18
Barmosa, cascina (Rassa) 38, 42, 43
Barone, monte 23, 28
Bassa del Campo (valle Cervo) 49
Basto (Rocca d’Argimonia) 5, 5, 25, 27, 27,
29, 30-33, 34
Bellaria (Mosso Santa Maria) 18
Biella 1, 2, 5, 6, 7, 10, 12, 12, 13, 13, 14, 15,
15, 16-18, 18, 19, 20, 20, 21, 27, 29, 31, 32,
33, 37, 39, 39, 40, 47, 49, 51
Biellese 1, 2, 3, 5, 7, 9, 10, 14, 17, 22, 27, 39,
40, 44, 45, 46, 49, 49
Biolla (Coggiola) 24
Bocchetto Sessera 1, 3, 17, 31-34, 39, 44, 49
Bogna (Quittengo) 18
Borgosesia 6, 6, 7, 9, 10, 10, 11, 12, 14, 41
Boscarola, bocchetto (Valsessera-Valsesia)
36, 39, 44, 45
Branda, cascina (Mosso Santa Maria) 31
Breia 10
Briolo, alpe (Valsessera) 49
Broglio (Cossato) 29
Brughiera, santuario 30
Bulliana (Trivero) 30
Buronzo 6
Caluso (To) 29
Camandona 31, 34
Campanile, cascina (Mossa Santa Maria) 10
Camparient, alpe (Valsesia) 28, 36
Campello, alpe (Veglio) 31
Campertogno 34, 38, 42, 45, 50
Canale, alpe (valle Strona di Postua) 28
Candelo (Bi) 40
Capo Mosso (Mosso Santa Maria) 30, 31
Carameletto (Tollegno) 2
Casary, alpe (Valsessera) 39
Castagnea (Portula) 30
Castelfranco Emilia (Mo) 40
Castelletto Cervo 51
Casto, monte 36, 37
Caulera, bocchetta (Valsessera) 30
Cavaglià 6
Cavallero, santuario 27
Cellio 10
Cerchio, monte 32, 32
Cervo (Cossato) 12
Cervo, valle 1, 4, 12, 13, 18, 20, 21, 31, 33, 37,
44, 45
Chiari (Bs) 7
Cima della Ragna, monte 27, 30, 31-33
Civetta, monte 33
Coggiola 6, 7, 9, 10-13, 14, 16, 17, 23, 24, 24,
25, 25, 26-28
Corato (Ba) 51
Cossato 5, 6, 10, 11, 12, 12, 13, 22, 29, 29,
39, 39, 40
Cossila San Grato (Biella) 47
Costa Pessine (Sagliano Micca) 21, 31
Crevacuore 5, 6, 6, 7, 9, 10, 11, 12, 12, 13, 14,
15, 19, 26
Crocemosso (Valle Mosso) 14, 14, 22, 40
Crolle, cascina (Mosso Santa Maria) 30
Croso, bocchetta (valle Cervo) 37, 45-47, 49
Cucco, monte 1, 2, 10, 17
Dolca, valle 34
Donato 1, 40
Dughera (Piode) 42
Elvo, valle 1, 2, 2, 3, 4, 17, 20, 21, 25, 40, 49,
49
Failungo (Piode) 51
Falletti (Sagliano Micca) 37
Ferrero (Trivero) 24
Finestre, alpe (valle Cervo) 45
Fobello 34, 50
Foglianise (Bn) 2
Fontana (Rassa) 44, 50, 51
Gaglianico 6
Gattinara 6, 10, 22
Germania 1, 19, 19, 20
Gioia del Colle (Ba) 51
Graglia 10
Graglia, santuario (Bi) 1, 2
Gronda, valle 44-46, 50
55
Gula, ponte 36, 37, 39
La Bura, alpe (Valsessera) 25
Lariano (Roma) 51
Lessona 5, 29
Lora (Trivero) 30
Luvera, bocchetto (Valsessera) 30, 31, 33
Maderno (Bs) 15
Margosio, alpe (Valsessera) 30, 34, 34
Margosio, bocchetta (Valsessera) 27, 30, 31,
33, 34
Marone (Trivero) 30
Masseranga (Portula) 27
Masserano 6, 18
Massucco, alpe (val Sorba) 46
Mastallone, valle 36
Mera, alpe (Valsesia) 43
Mezzanaccio (Rassa) 44, 45, 50
Miagliano 46
Milano 9, 22, 42
Minervino Murge (Ba) 47, 51
Mollia 36
Moncerchio, alpe 10, 27, 30, 32, 33, 34, 34,
36
Moncerchio, monte
Mongrando 6
Montesinaro (Piedicavallo) 37, 45, 46, 49
Monticchia, cascina (Sagliano Micca) 33
Monza (Mb) 22, 26
Mosso Santa Maria 6, 10, 18, 18, 27, 29, 30,
32, 35, 40
Mottalciata 6, 14, 43
Mucrone, monte 10
Muzzano 20, 21
Netro 6, 10
Nole, cascina (Mosso Santa Maria) 31
Novara 20, 21, 24, 34
Noveis, alpi (Valsessera) 3, 11, 19, 23-25
Occhieppo 10
Oriomosso (Quittengo) 21, 30, 31, 33, 34
Orio Secco, alpe (Quittengo) 21
Oro (Rassa) 44
Oropa, santuario 37
Oropa, valle 1, 3, 10
Ortigoso (Rassa) 44
Panin, alpe (valle Strona di Postua) 28, 36,
40
Pettinengo 13
Piana (Rassa) 44, 46
Piana del Ponte (Valsessera) 34, 36, 39, 49
Piana d’Or (Trivero) 30
Piane, alpe (valle Strona di Postua) 15, 19
Piane, alpe (Valsessera) 24, 25, 26
Piane di Buronzo, alpe (Valsessera) 34
Piedicavallo 10, 45, 50
Piemonte 39
Piode 39, 42, 51
Pioglio, regione (Caprile) 25
Pollone 10
Ponasca, alpe (Valsessera) 26
Ponzone (Trivero) 5, 13
Ponzone, zona 16
Portula 7, 10, 19
Postua 14, 15, 15, 17, 19, 19, 25, 25, 26, 39
Pralungo 10, 12
Prapian o Massaro, monte 30, 31-33, 34, 35
Pratetto, regione (Tavigliano) 4, 37
Pratrivero (Trivero) 16, 27
Pray Biellese 6, 7, 9, 10-12, 17, 19, 22, 23, 25,
25, 26, 26, 27, 28, 32, 32, 41
Quare (Campertogno) 41, 42, 42
Quarona 22
Quinto Vercellese 51
Rado, santuario 22
Ranzola, alpe (Valsessera) 25, 26
Rassa 36, 37, 37, 38, 38, 39, 40, 42, 42, 43, 43,
44, 45, 47-51, 51
Rassetta (Rassa) 44
Rimella 22, 40, 50
Riva, quartiere di Biella 12
Rivò (Coggiola) 11
Roc dla marenda (monte Casto) 36, 37
Rocca d’Argimonia, monte 5, 30, 33
Roccapietra (Varallo) 41, 42
Ronco (Cossato) 12
Roncole (Postua) 26
Roveglio (Trivero) 30
Rovigo 47
Rubello, monte 30, 33
Salò (Bs) 39
San Bernardo, monte 30, 31, 33, 34
San Giuseppe di Casto (Andorno Micca) 36,
36
San Paolo Cervo 10
Sant’Eurosia (Pralungo) 2, 3
Scopa 6, 10, 40, 51
Scopello 34, 36, 38, 45, 50
Sella del Cucco (Sagliano Micca) 31, 33
Serra 20, 25, 44
Serravalle Sesia 6, 10, 15, 22, 22, 23
Solivo, alpe (Valsessera) 30
56
Solivo, cascina (Caprile) 25
Sorba, valle 44-46, 50
Sordevolo 6, 10, 20, 21, 25
Stavello, bocchetta (Valsessera) 30
Strona 18
Strona, valle 1, 4, 5, 5, 9, 13, 14, 15, 18, 19, 26,
29
Sulla Piana, alpe (valle Gronda) 45
Svizzera 1
Tavigliano 20, 36
Testa del Cerone, monte 45
Tollegno 2, 5, 10, 12, 12, 13, 13, 47, 51
Torino 6, 11, 11, 46, 51
Toso, alpe (valle Sorba) 37
Tovo, monte (Valsessera) 26
Triverese 16
Trivero 5, 6, 10, 16, 18, 24, 27, 28, 30, 31, 32,
32, 51
Turrio, monte 45
Vaglio Chiavazza (Biella) 49
Vajetto, alpe (Quittengo) 33
Val Maggiore, alpi (valle Strona di Postua) 26
Valle Mosche (Campiglia Cervo) 12, 13
Valle Mosso 10, 13, 13, 14, 14, 18, 31, 31,
32, 35, 39, 39, 40, 51
Valle San Nicolao 51
Vallonara (Vi) 51
Valrovina (Vi) 51
Valsesia 1, 4, 5, 7, 9, 10, 14, 15, 22, 24, 26, 34,
36, 40, 42
Valsessera 1, 4, 9, 11, 14-17, 19, 19, 22-27, 31,
45
Varallo 5, 6, 7, 10, 19, 25, 39-41, 41, 42, 48,
50, 51
Varney, alpe (valle Elvo) 40, 49
Veglio Mosso 31
Velletri (Roma) 47, 51
Vercellese 1
Vercelli 2, 6, 6, 7, 7, 8, 10, 11, 12, 14, 15, 16,
16, 18-20, 22, 23, 24, 26, 27, 28, 28, 32,
37, 39, 40, 51, 51
Vercelli, provincia 7, 11, 15, 20
Verona 22
Viera (Coggiola) 11, 24, 24, 25-26
Vigliano Biellese 51
Villa Estense (Pd) 51
Viona, valle 1, 40
57
Biografia dell’autore
Nato a Tollegno il 1 novembre del 1925, Luigi Moranino “Pic”, tecnico tessile, partecipa alla guerra di liberazione nelle fila della 2a brigata Garibaldi “Ermanno Angiono Pensiero”, nella quale assume il ruolo di vicecommissario politico. È decorato di croce di
guerra al valor militare. Militante del Pci, membro del direttivo dell’Anpi provinciale
Biellese-Valsesia, ha scritto, oltre a questo volume: “Le donne socialiste nel Biellese 19001918”, Borgosesia, Isr Vc, 1984; “4 giugno 1944. L’eccidio di piazza Q. Sella”, Biella,
Comune, 1984; “La Camera del lavoro di Biella dall’armistizio al patto di Palazzo Vidoni
(1918-1922)”, in “L’altra storia. Sindacato e lotte nel Biellese 1901-1986”, Roma, Ediesse,
1987; “Piero Pajetta Nedo un combattente per la libertà”, Taino, Associazione culturale
Elvira Berrini Pajetta, stampa 1995. Collaboratore della rivista “l’impegno”.
58
Indice
Prefazione alla seconda edizione
p. III
Prefazione alla prima edizione
” VI
Il tempo dell’“attendismo”
”
1
I distaccamenti garibaldini e le prime azioni
”
4
Lo sciopero generale e la repressione nazifascista
”
9
Il “Pisacane” a Postua. Nuovi scioperi operai
” 14
I tedeschi a Postua. Il 115o battaglione “M” Montebello a Biella
” 19
Il 63o battaglione a Pray. La resa del “Matteotti”
” 22
Domenica 20 febbraio: attacco al “Piave” e al “Mameli”
” 29
Il trasferimento a Rassa
” 36
Il combattimento di Rassa
” 42
“Arrendetevi, banditi!”
” 46
Indice dei nomi di persona
” 52
Indice dei nomi di luogo
” 55
Biografia dell’autore
” 58
59