Politica - Reporter nuovo

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Politica - Reporter nuovo
Anno IV - Numero 23
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
1 Aprile 2011
nuovo
Guglielmo Negri
Un suggeritore
super partes
Economia
Reichlin: così
via dalla crisi
Informazione
Presunzione
d’incoscienza
Il libro
Si fa presto
a dire corna
UN FASCINO
NAPOLITANO
PER DIRITTURA MORALE E SCELTE È IL PRESIDENTE PIÙ AMATO DOPO PERTINI
Politica
Ritratto di Napolitano, un presidente che incarna l’unità di un Paese pieno di contrasti
Un coro: meno male che Giorgio c’è
Prestigio e fascino frutto di una dirittura morale e di scelte giuste
«Lei è una leggenda del suo tempo, un grande
uomo della Repubblica italiana, non solo in termini anagrafici ma anche una figura storica del post
guerra». Non smette di incassare elogi Giorgio Napolitano quando esce dai confini italiani. A tesserne
le lodi questa volta è stato addirittura il segretario generale dell’Onu Ban Kii Moon, durante la visita ufficiale del capo dello Stato a New York. Sti-
mato in patria e fuori, il presidente della Repubblica è riuscito a ritagliarsi un ruolo fondamentale
nello scenario mondiale, nonostante una carriera
politica fortemente caratterizzata dalla militanza
nel vecchio Pci. «Napolitano è una voce che ha guidato al meglio il suo paese – ha continuato Ban Kii
Moon – sostenendo il suo sviluppo attraverso la
trasparenza. La sua politica ha aiutato la crescita
dell’Italia fino ad oggi». Una vera e propria investitura che dà lustro al personaggio ma anche, di
riflesso, al nostro paese, da tempo in ribasso nella considerazione della comunità internazionale.
Ripercorrere le componenti che hanno contrassegnato la sua formazione, il suo stile e la sua vita
politica, aiuta a scovare i perchè di un tale successo
in Italia e all’estero.
A
prile 2006. Il centrosinistra ha appena
vinto le elezioni e il
mandato del presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi è agli sgoccioli. La
battaglia politica per designarne il successore infuria e
i veti incrociati eliminano
uno dopo l’altro tutti i nomi
in lizza. La maggioranza parlamentare appena ottenuta
mette la coalizione del neo
premier Romano Prodi nella
condizione di avere una posizione di forza nella scelta del
candidato. Il centrodestra reclama il Colle in nome di un
bilanciamento dei poteri. La
rosa presentata dall’Unione
che comprende due big come
Massimo D’Alema, già bruciato da Fausto Bertinotti
nella corsa alla presidenza
di Montecitorio, e Giuliano
Amato viene rispedita da Berlusconi al mittente. Poi finalmente arriva il nome giusto per mettere tutti d’accordo. Il 10 maggio 2006 Giorgio Napolitano diventa l’undicesimo presidente della Repubblica italiana. Un comunista al Quirinale, a rompere
la leggenda del fattore K che
aveva impedito al Pci di aspirare al governo. Ma il Colle è
forse il premio migliore per
quello che Napolitano ha seminato in quasi sessant’anni
di carriera politica. Stima bipartisan, apprezzato da compagni e avversari. La barra degli ideali sempre dritta ma anche la capacità di rivedere le
proprie idee riconoscendo
gli errori del passato. A lui è
dedicato anche uno dei cablo
diffusi da Wikileaks, nel quale Napolitano è definito dai
diplomatici statunitensi “serio, un intellettuale, un’eminenza grigia, un punto di riferimento morale nell’arena
politica italiana spesso frastagliata”. E’ lui l’interlocutore
preferito dalla Casa Bianca,
perplessa per gli scandali che
coinvolgono il presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi.
Gli aggettivi moderato ed
europeista associati alla sua figura vista dall’occhio a stelle e strisce relegano il suo pas-
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1 Aprile 2011
GRADITO
La folla acclama Giorgio Napolitano a Torino durante le
celebrazioni
per i 150 anni
dell’Unità d’Italia. A fianco:
Sandro Pertini
sato rosso a una nota biografica. E non è cosa da poco per
uno che ha militato tutta la
vita nel Partito Comunista
Italiano prima e nelle forme
politiche nate dalle sue ceneri
poi.
Napoletano classe ’25, il
giovane Giorgio matura la
passione politica nel periodo
universitario, che coincide
con la seconda guerra mondiale. In quegli anni milita ufficialmente nel Guf, il gruppo universitario fascista, ma
la sua prospettiva è differente: «Il Guf era un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste mascherato e fino a un certo punto
tollerato», dirà in seguito.
Nel 1945, dopo aver contribuito alla resistenza in Campania, aderisce al Pci, entrando in Parlamento nel
1953 come deputato. All’interno del partito si caratterizza fin da subito per una posizione riformista diventando
leader di quella corrente, de-
finita con accento dispregiativo dai suoi stessi compagni
“migliorista”, ispirata dai valori della socialdemocrazia e
animata da una visione “europeista”. Nel 1978 è il primo
dirigente comunista invitato
negli Stati Uniti, ospite di alcune prestigiose università
americane. Sono i giorni
oscuri del caso Moro ma è in
questo periodo che Napolitano getta le basi per la stima
e il rispetto che anche oltreoceano caratterizzeranno
sempre la sua figura.
Dopo la caduta del muro
di Berlino e la svolta della
“Bolognina”, diventa simbolo di un’autorevolezza istituzionale prima come presidente della Camera nel 1992,
poi come ministro dell’Interno nel 1996 e senatore a
vita nel 2005, naturale viatico per la sua investitura al
Colle nell’anno successivo. I
primi cinque anni di Quirinale lo esaltano come punto
di riferimento in una politica
italiana dilaniata da scontri
istituzionali a tutti i livelli.
Osannato dal centrosinistra
ma apprezzato anche a destra,
per il suo equilibrio e il suo
senso dello Stato. Garante
della costituzione, non ha
fatto mancare la sua voce
per correggere provvedimenti
non compatibili con la carta
fondamentale, con scelte
che hanno procurato momenti di tensione con il presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi. Sempre alla larga
dalla bagarre politica ma arbitro inflessibile e imparziale della contesa.
Chiamato a sostituire un
presidente amato come Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio
Napolitano ha conquistato
giorno dopo giorno tutti gli
italiani, come dimostrano le
dimostrazioni di affetto che
hanno accompagnato il capo
dello Stato in tutte le città durante il suo tour per celebrare i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Più composto
e freddo del predecessore ma
capace di scaldare il cuore dei
connazionali che gli hanno
tributato affetto e stima ovunque. Insomma, parafrasando un abusato jingle, stavolta si può davvero dire: meno
male che Giorgio c’è.
A colloquio con Paolo Cacace, quirinalista del Messaggero
N
ella hit parade dei presidenti della Repubblica più apprezzati
dagli italiani Giorgio Napolitano sta scalando posizioni
giorno dopo giorno. E così il
paragone con il capo dello
Stato più amato dagli italiani,
Sandro Pertini, non sembra un
azzardo. Che i due avessero
qualcosa in comune, si era capito subito dopo l’insediamento di Napolitano nel 2006
quando, come Pertini nell’82
in Spagna, festeggiò a Berlino
la vittoria degli azzurri nella
coppa del mondo di calcio.
Presidenti portafortuna, dunque, se si pensa che nelle altre
due finali raggiunte dalla nazionale nel dopoguerra (nel
1970 e nel 1994), Giuseppe Sa-
Ormai sulle orme di Pertini
Piace il suo interventismo
ragat e Francesco Cossiga
marcarono visita e arrivarono
due sconfitte. «Pertini e Napolitano hanno qualcosa in comune – dice Paolo Cacace,
quirinalista del Messaggero-,
entrambi vengono da una lunga milizia politica e sono stati eletti in età avanzata». Anche se forse a risaltare è più
una differenza caratteriale:
«Pertini era un personaggio
molto sanguigno e anticonformista mentre Napolitano è
più freddo, direi anglosassone,
un napoletano atipico». Ma
proprio il carattere misurato e
pacato è una delle ragioni della popolarità dell’attuale capo
dello Stato.
«Napolitano non è partito da
una posizione di grande consenso, non essendo stato eletto con una votazione bipartisan - racconta Cacace -, ma
progressivamente è diventato
il presidente di tutti grazie
alla sua azione super partes».
Pagina a cura di Marco Cicala
A questo bisogna aggiungere
anche un altro elemento, che
in una prospettiva storica rende interessante la presidenza di
Napolitano: l’interventismo.
Spiega Cacace: «Nella Prima
Repubblica, dove non c’era
tutta questa copertura mediatica, le esternazioni che esulano dalle prerogative costituzionali erano praticamente
inesistenti. Il fattore delle esternazioni è cominciato con Pertini e ha visto un incremento
esponenziale nelle presidenze
successive. E’ un modo per in-
fluire molto di più nel dibattito politico, intervenendo preventivamente per segnalare e
suggerire. Le esternazioni possono essere ostative, se tendono a censurare dei comportamenti, e proattive, quando suggeriscono delle decisioni».
Pur non travalicando i suoi doveri istituzionali, Napolitano fa
dunque sentire sempre la sua
voce, costituendo un punto di
riferimento per tutti gli italiani. Nonostante la sua età il presidente non rinuncia a nessuno dei suoi appuntamenti nazionali e internazionali, mantenendo una lucidità invidiabile
e dando così sensazione di
grande sicurezza. Amato e stimato da tutti. Come Pertini.
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nuovo
Politica
Un convegno a Palazzo San Macuto per ricordare un civil servant che ha fatto la Repubblica
Negri, il suggeritore super partes
Sia alla Camera che al governo apprezzato dagli opposti schieramenti
“L
a politica è res severa”. Parola di
Guglielmo Negri,
che ha fatto di questo monito
la linea guida di tutta la sua carriera. Dagli esordi come funzionario parlamentare, fino al
ruolo di sottosegretario alla
presidenza del Consiglio nel
biennio ’95 -‘96. A undici anni
dalla morte di quest’esponente di spicco dell’amministrazione italiana, Gianfranco Fini
lo ha ricordato in un convegno
a Palazzo San Macuto, a Roma,
alla presenza di alcuni dei
suoi ex colleghi - Antonio
Maccanico, Lamberto Dini,
Luigi Tivelli e Giorgio La Malfa – e di tutta la famiglia Negri. Al termine della cerimonia
il presidente della Camera lo
ha simbolicamente fregiato
con una medaglia d’oro, consegnata alla vedova, per “la fusione di passione politica, fervore intellettuale e operosità
amministrativa” che lo ha
sempre contraddistinto.
Classe 1926, Negri si laurea
prima in Legge e poi in Scienze politiche. Quando poco
più che venticinquenne approda a Montecitorio, era già
specializzato ad Harvard e
aveva collaborato con Adriano
Olivetti. Il modello a cui fece
sempre riferimento fu Gaetano Mosca, padre dell’elitarismo
e studioso del funzionamento
delle istituzioni. Fondamentali
sono state anche le frequentazioni americane con l’intellettuale antifascista Gaetano Salvemini. Gli studi oltreoceano
contaminarono totalmente il
suo impegno nella res pubblica, melting pot delle espe-
RICORDO
Un momento
del convegno in
memoria di
Guglielmo
Negri, a
Palazzo San
Macuto.
Da sinistra Luigi
Tivelli, Lamberto
Dini, il presidente della Camera
Gianfranco Fini,
Antonio
Maccanico e
Giorgio
La Malfa
rienze giovani nel partito
d’Azione e del liberalismo
made in Usa. Fu uno dei fautori del “partitismo”, oggi ancora incompiuto.
Dagli scranni del parlamento Negri si occupa di re-
gistica, la tecnica per la stesura delle leggi che considerava
trascurata nel nostro paese.
“Guglielmo delineò il profilo
ideale del funzionario parlamentare – racconta Maccanico -. L’ho conosciuto a metà de-
gli anni ’50 quando l’ho accolto
alla Camera come vincitore del
concorso per funzionari parlamentari. Fu chiaro da subito che era diverso dagli altri per
la sua vivace curiosità intellettuale”. Il grand commis,
che passò circa trent’anni in
parlamento, associò sempre all’attività pubblica altre esperienze culturali e professionali. Fu docente universitario e
presidente della scuola superiore per la Pubblica Ammi-
DIETRO LE QUINTE: I GRAND COMMIS
Lavorano dietro le quinte, tessendo le
fila della politica italiana. Ma sono poco
conosciuti all’opinione pubblica, perché
il loro ruolo è quello di suggeritori al servizio delle “star istituzionali”. Da Berlusconi a Napolitano. Si tratta dei grand
commis, gli alti funzionari-controllori della corretta gestione della “res pubblica”,
che hanno il compito di “fabbricare” le
proposte dei leader. Gli “uomini” del Quirinale sono saliti alla ribalta delle cronache pochi giorni fa, quando il premier li
ha definiti “pignoli”, dal momento che
avrebbero rispedito troppo spesso i disegni
di legge al mittente. Il responsabile morale della squadra del presidente è Gaetano Gifuni, l’indimenticabile braccio destro di due Capi dello Stato come Scal-
Dipende da loro
la fabbrica
delle decisioni
faro e Ciampi. Uscito dalla prima linea,
è diventato, oggi, con Napolitano segretario generale onorario. Un ruolo più appartato, anche se solo apparentemente,
dal momento che il suo compito è quello di fornire consigli nei momenti più delicati, dalla riforma della Giustizia all’emergenza Lampedusa. Il “Prudenziano”, questo il suo nome di battaglia, rappresenta l’archivio pulsante di una materia
specifica come i precedenti giuridici e di
principio, che nessun computer è in grado di consultare meglio di lui. Tra i “signor No” troviamo anche Donato Marra, segretario generale e braccio destro di
Napolitano, Arrigo Levi, consulente presidenziale, Loris D’Ambrosio, magistrato al vertice del ministero della Giustizia
e Giuseppe Fotia, consigliere per gli affari finanziari. A fare da contraltare nei palazzi del governo ci pensano Gianni
Letta, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri e Paolo Peluffo, consulente del premier ed ex
uomo di fiducia di Ciampi. Quella tra il
Quirinale e Palazzo Chigi è, dunque, una
battaglia all’ultimo “suggerimento”. Sotto la regia attenta degli immancabili
grand commis.
nistrazione. Ma è negli anni ’90
che emergono le sue qualità
politiche, quando si trasferisce
da Montecitorio a Palazzo
Chigi, a sostegno del neonato
governo Dini. “È stato l’allenatore parlamentare della
squadra tecnica – afferma Luigi Tivelli, all’epoca suo braccio
destro -. Davanti al suo ufficio
c’era, tutti i giorni, una fila lunghissima per chiedere consiglio. E alle persone che riceveva dava l’illusione di essere
alla pari, nonostante la sua indubbia statura intellettuale”. In
quegli anni venne alla luce tutta la sua capacità diplomatica
nell’intessere rapporti con l’opposizione. Ogni due settimane appuntamento immancabile era l’andare a messa con
Gianni Letta, per evitare che il
centrodestra si allontanasse
troppo dal governo che Negri
considerava di “coesione nazionale”. Nel 1995 il grand
commis viene nominato presidente del Partito Repubblicano, “ma questa carica non
influì mai sul suo equilibrio e
rigore professionale”, afferma
La Malfa.
Negri vive con grande fervore anche l’avventura del governo Maccanico che avrebbe
dovuto segnare la transizione
guidata alla seconda Repubblica. E definisce “basso impero” il passaggio incompiuto. “Per essere un bravo politico devi essere uno storico di
seconda categoria”, diceva.
Proprio lui che riuscì a coniugare così bene la figura di
studioso, civil servant e uomo
di parte. Sempre, però, al servizio delle istituzioni.
Bertoloni Meli parla dell’evoluzione storica degli alti funzionari parlamentari
«D
ove esiste uno
Stato che funziona c’è sempre un gran commis che ne conosce a fondo gli ingranaggi.
Ciò che non è tenuto a fare il
politico. Si può dire che i politici passano mentre i gran commis restano». A sostenerlo,
Nino Bertoloni Meli, giornalista parlamentare del Messaggero, che ha parlato a Reporter
Nuovo delle mansioni dei “suggeritori”. Figure indispensabili in un paese democratico.
Bertoloni Meli, qual è il
ruolo dei grand commis?
«Gli alti funzionari hanno il
compito di servire lo Stato e
proporre soluzioni ai problemi
posti dal politico o dal dirigente
di turno. Il grand commis,
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Ora sono nello staff del Quirinale
però, non è sempre uguale a sé
stesso. Da qualche decennio a
questa parte ci sono stati due
tipi di evoluzione. Il primo è
quello del grand commis che
diventa politico. E’ il caso dell’ex presidente del Consiglio
Giuliano Amato, che esordì
come sottosegretario dei governi Craxi. C’è stata, poi, Linda Lanzillotta, un’alta funzionaria della Camera, diventata
ministro degli Affari regionali
con Prodi. Il secondo tipo di
evoluzione è legato al nome di
Mauro Masi, l’attuale direttore
generale della Rai, un tempo
alto funzionario a Palazzo Chi-
gi. Questa evoluzione è più
consona con l’attuale fase del
paese, caratterizzata dalla politica-spettacolo».
Quali sono i metodi di selezione?
«Gugliemo Negri, che fu
anche un mio collega al Messaggero, mi raccontava di concorsi molto rigidi per la selezione dei funzionari della Camera. Non solo dal punto di vista degli esami, ma anche delle informazioni richieste. La
commissione si informava dai
carabinieri sulla famiglia di
provenienza dei candidati.
C’era un orgoglio della selezione, perché si doveva formare
una sorta di casta al di sopra di
ogni sospetto. Oggi i metodi
non sono più così rigidi. In parlamento si entra ancora per
concorso, ma non c’è più il vaglio delle autorità».
La scuola superiore della
Pubblica Amministrazione ha
ancora un ruolo nella selezione?
«Il ruolo ce l’ha, ma il problema è il dopo. Quegli studi
così severi sembrano quasi
Pagina a cura di Emiliana Costa
sprecati per il lavoro che poi i
neo funzionari andranno a
compiere. Le mansioni, infatti, non sono più quelle di prima, dal momento che le due
Camere sono state esautorate
dal loro ruolo e il potere si è trasferito al governo. Sono tanti i
suggeritori che hanno traslocato a Palzzo Chigi per andare a lavorare nella squadra di un
ministro».
Chi sono oggi i “Gugliemo
Negri”?
«Fino a qualche anno fa
c’era Gaetano Gifuni, esponente di punta del Quirinale,
oggi segretario generale ono-
rario. Ma sono ancora gli uomini di Napolitano a rappresentare i funzionari più in vista del nostro paese, a partire da
Donato Marra. Si tratta di tutti ex segretari della Camera. Lo
staff del presidente è noto per
le frequenti battaglie con Palazzo Chigi a suon di leggi rispedite in parlamento».
Che valore ha il loro lavoro di regia?
«Oggi i gran commis svolgono un ruolo di supplenza superiore. Con il trasloco a Palazzo Chigi e al Quirinale hanno assunto maggior potere rispetto al passato e segnalano un
cambiamento della costituzione di fatto del paese. Dal momento che il parlamento non è
più al centro delle istituzioni».
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Economia
Il Paese non ce la fa. Cause del blocco e strumenti per superarlo. Intervista al docente Luiss
È possibile far crescere quest’Italia
Pietro Reichlin: la soluzione sta nel coniugare flessibilità e sicurezza
L’
Italia non cresce. La disoccupazione ha raggiunto livelli
altissimi e la precarizzazione
spinge nel limbo migliaia di giovani
che non vedono via d’uscita ai contratti atipici. Il mercato del lavoro è
poco flessibile e caratterizzato da un
dualismo strutturale che impedisce
lo sviluppo del Paese. Una situazione che, forse, potrebbe essere superata grazie a un nuovo modello sociale basato sulla flexicurity, ossia sul
coniugare flessibilità e sicurezza. Ne
parliamo con Pietro Reichlin, docente
di economia alla Luiss, autore di un
approfondito intervento su Il Sole 24
Ore del 27 marzo scorso.
Professor Reichlin, qual è lo stato del mercato del lavoro italiano?
«In Italia c’è un forte dualismo. I
contratti tipici offrono delle garanzie
sui rischi d’impiego piuttosto elevati, a fronte di un costo del lavoro molto alto. In sostanza, è molto difficile
licenziare. Per le nuove assunzioni, invece, le imprese tendono a privilegiare
i contratti atipici (a termine, co.co.pro,
interinali), scaricando così i costi
impliciti dei contratti normali su
quelli atipici. In questo modo l’accesso
al mercato del lavoro per i giovani avviene in maniera sproporzionata e i
neoassunti, in momenti di crisi, sono
i primi a perdere il posto».
PRECARIETÀ
Il difficile problema
di trovare spazio
per la crescita e
lavoro per i
giovani in una
vignetta di Uber
La flexicurity può essere una soluzione?
«La filosofia della flexicurity implica uno scambio: dare alle imprese maggiore flessibilità nel mercato del
lavoro, quindi più facilità di licenziamento, però in cambio il lavoratore viene protetto sul lato dell’assicurazione contro la perdita dell’impiego. Invece di proteggere il posto
di lavoro, come avviene oggi, si protegge la persona dal rischio inevitabile dovuto all’attività economica».
Quali sono gli strumenti che
possono essere applicati nel mercato
del lavoro italiano?
«In Senato è stato depositato un
disegno di legge che introduce un
contratto “di inserimento” a tempo
indeterminato per i neoassunti che
non implica la verifica giudiziale dei
licenziamenti per motivi economici
che oggi esiste per le imprese mediograndi (sopra i 15 dipendenti). Per i
primi tre anni l’impresa può licenziare
il lavoratore semplicemente con una
compensazione monetaria, quindi
c’è una forma di assicurazione sull’impiego che però è meno costosa.
Passati i tre anni il contratto si uniforma alla legislazione vigente. A questo poi si dovrebbe aggiungere un aumento dei contributi da pagare sui
contratti atipici».
Il 7 marzo scorso il ministero del
Lavoro e le parti sociali hanno firmato un accordo sulle misure a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro per so-
Bocciata l’austerity del premier Socrates, il salvataggio Ue è sempre più vicino
Lisbona, la crisi è come un fado
I
l Portogallo è attanagliato
da una doppia crisi, economica e politica allo stesso tempo, che può mettere a
dura prova la tenuta del Paese. E dell’Unione europea.
Senza governo, con un deficit
pubblico in crescita e l’economia ancora in recessione, il
Portogallo è stato a un passo da
dover chieder un aiuto finanziario all’Europa per salvarsi.
Ma il ciclone non è ancora passato. E a Lisbona risuona un
triste fado.
Proprio come Grecia e Irlanda,
in questi giorni il Paese si è visto più che mai esposto al rischio di dover ricorrere a un
salvataggio Ue-Fmi per rimborsare i titoli del debito in scadenza. “Il Portogallo non ha bisogno di aiuto”, ha dichiarato
l’ex premier portoghese Socrates, negando il ricorso al
fondo salva-stati. Le deludenti performance economiche e
la crisi politica, tuttavia, pongono il problema di come il Tesoro affronterà le prossime
scadenze del debito pubblico.
Dai primi calcoli, per finan-
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ziarsi per i prossimi tre anni il
Portogallo potrebbe aver bisogno di una cifra valutata fra
i 60 e gli 80 miliardi di euro.
Il primo segnale della crisi si è
avuto il 16 marzo, quando
l’agenzia di rating Moody’s ha
declassato il Paese di due gradini (da “A1” ad “A3) a causa delle deboli prospettive di
passato il piano di austerity
concordato con l’Europa.
Timori che si sono avverati. Il
Parlamento portoghese ha
bocciato il piano voluto dal governo socialista, che mirava a
tagliare di 7,3 punti percentuali
il deficit/Pil, portandolo al 4,6
per cento alla fine dell’anno per
poi rientrare nei parametri di
Per i prossimi tre anni il Portogallo
potrebbe aver bisogno di una cifra
valutata fra i 60 e gli 80 miliardi di euro
crescita. Sui mercati, per reazione, si è allargato lo spread
tra i titoli di stato decennali di
Lisbona e quelli tedeschi e le
aste dei titoli portoghesi si
sono caratterizzate da tassi di
interesse in rialzo e domanda
sempre più in calo. Una situazione che lo stesso ministro
delle Finanze Fernando Texeira Dos Santos ha giudicato
“insostenibile”, se non fosse
Maastricht a fine 2012. E il premier lusitano Josè Socrates si
è dimesso, lasciando il Paese in
un vuoto politico. Secondo la
stampa di Lisbona, il capo
dello Stato Anibal Cavaco Silva, dopo le consultazioni con
i partiti, dovrebbe annunciare
a breve lo scioglimento del Parlamento e la convocazione
per fine maggio, o inizi di
giugno, le elezioni politiche an-
Pagina a cura di Giulia Cerasi
ticipate.
Le agenzie di rating non hanno risposto bene alla mancata approvazione del piano di risanamento. Standard & Poor’s ha tagliato il rating di Lisbona da “BBB” a “BBB-”, il
grado più basso della categoria dei rischi affidabili (caratterizzati da “bassa probabilità
di default”): al di sotto c’è il livello junk (spazzatura), che appartiene ai titoli non consigliabili agli investitori.
Le notizie provenienti dalla
Banca centrale, intanto, non
migliorano la situazione, prevedendo per il 2011 una dura
recessione. Il Banco do Portugal, infatti, ha stimato in 1,4
per cento la contrazione del Pil
per quest’anno, unita a un’inflazione che dovrebbe raggiungere un picco del 32,6 per
cento.
E se il Brasile, con il presidente
Dilma Rousseff, ha teso la
mano al Portogallo promettendo aiuto, il timore è che la
crisi economica e politica portoghese dilaghi nel resto di Eurolandia. Spagna in testa.
stenere la crescita dell’occupazione,
che prevede misure come il parttime, i permessi e i congedi parentali. Che ne pensa?
«L’idea di offrire maggiori garanzie per i contratti atipici non risolve
il problema: si dovrebbe uniformare
la tipologia di contratti offerti ma allo
stesso tempo rendere più flessibile il
mercato. Questo si può fare solo se gli
ammortizzatori sociali sono universalizzati».
In che modo l’economia italiana
può tornare a crescere?
«Intanto bisogna rafforzare il sistema formativo perché la forza lavoro
in Italia è molto meno istruita rispetto
agli altri paesi. Questo significa migliorare la qualità dell’istruzione, ma
è anche legato al dualismo del mercato del lavoro: in Italia il premio che
i lavoratori ricevono da una maggiore
qualificazione, cioè il di più di salario che si ottiene con una laurea in tasca, è inferiore che negli altri paesi.
L’altra questione è il nanismo delle nostre imprese, cioè il fatto che, nonostante siano molto produttive, le
aziende italiane rimangono piccole e
a conduzione familiare. E per farle
crescere bisogna diminuire i costi di
assunzione e di licenziamento. In una
parola, serve un mercato del lavoro
più flessibile».
LE AGENZIE DI RATING
L’affidabilità degli Stati
è legata al loro verdetto
Dai loro giudizi dipendono i destini di banche, aziende e
perfino Stati. Sono le cosiddette “tre sorelle”, le agenzie di rating americane Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s. Il loro compito è valutare quanto un soggetto può definirsi “rischioso” e
quanto sarà produttivo in futuro, se gli venisse concesso un
credito o qualora dovesse ripagare un debito contratto. Il loro
giudizio vale come una sentenza, ma in molti ne mettono in
dubbio efficacia e imparzialità.
Da ultima l’Unione europea che, dopo la crisi portoghese,
ha proposto rendere le agenzie di rating legalmente responsabili in caso di giudizio sbagliato.
Nate per offrire ai detentori di titoli di credito giudizi sul comportamento dei debitori, oggi le società di rating non sono pagate dai committenti che vogliano emettere un’obbligazione
o attingere a un credito.
■ Moody’s - Fondata nel 1909 da John Moody, l’agenzia ha
base a New York. La Moody’s Corporation è la società madre di Moody’s Investors Service, che fornisce rating del credito e di ricerca riguardo agli strumenti di debito e titoli, e
Moody’s Analytics, che si occupa di consulenza e ricerca
per l’analisi del credito e gestione del rischio finanziario.
■ Standard & Poor’s - La Standard and Poor’s Corporation
(S&P) è nota per i suoi indici di borsa: S&P 500 per gli Stati Uniti e S&P 200 per l’Australia. Nel 2006 la sua quota di
mercato era del 40 per cento, contro il 39 per cento di Moody’s e il 16 per cento di Fitch Ratings.
■ Fitch Ratings - Con due quartier generali, a New York City
e a Londra, l’agenzia Fitch Ratings è stata fondata da John
Knowles Fitch nel 1913. Fitch è la più piccola delle tre sorelle e, frequentemente, è l’ago della bilancia quando le altre due agenzie hanno valutazioni simili, ma non uguali.
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Cronaca
Libera informazione in mano alle aziende e processi compromessi da tempi sempre più lunghi
Italia, presunzione d’incoscienza
Le disfunzioni del sistema italiano al vaglio di giuristi e giornalisti
Raffaele d’Ettorre
Giuristi e giornalisti allo stesso tavolo per un faccia a faccia dall’impronta internazionale: Italia e Svizzera pesate in misura di libertà d’informazione ed efficienza del sistema
giudiziario.
“Diritto di cronaca vs presunzione
d’innocenza”: questo il tema della coraggiosa tavola rotonda tenutasi
presso l’Istituto Svizzero di Roma. Il
convegno, a cura di Michele Luminati, ha visto l’intervento di ospiti di
notevole caratura: fra gli altri, Raffaele Fiengo del Corriere della Sera,
André Marty dell’emittente elvetica
Schweizer Fernsehen e Vincenzo
Zeno-Zencovich, docente ordinario
a Roma Tre. A turno sono intervenuti per sciogliere un nodo che imbriglia società civile, diritto e giornalismo nella stessa complicata e attualissima trama: come conciliare diritto di cronaca e libertà d’espressione con il diritto alla privacy e alla
protezione dell’onore?
«Di certo l’informazione giudiziaria contribuisce al controllo sociale di un processo in corso, ma lo
stesso rischia di essere compromesso da un’informazione distorta».
Così Begüm Bulak, giovane assistente in Diritto penale all’Università
LO SCOOP
La redazione del
Washington Post,
con Dustin Hoffman
e Robert Redford
nei panni dei due
cronisti che
svelarono il
Watergate
di Ginevra, inquadra il delicato problema del bilanciamento fra diritto
del lettore ad essere informato e la
riservatezza necessaria a proteggere
l’onore degli imputati.
La tavola rotonda, nelle battute
iniziali, ha un’impronta fortemente
accademica, e non poteva essere altrimenti. Bastano però un paio d’interventi infuocati a smuovere le acque e a far comprendere ai presenti il vero motivo del dibattito, le ragioni ultime per le quali il convegno
ha avuto la sua ragion d’essere: le disfunzioni giuridico-informative del
sistema italiano.
«Io affermo questo sapendo di
dire una cosa grave ma guardate che
il Corriere della Sera, che può sembrare nella carta stampata un giornale indipendente, in realtà non lo
è. Ha una proprietà azionistica che
va da Mediobanca alla Fiat, da Della Valle a Banca Intesa. E queste quote contano, eccome se contano». È
la stoccata del pugnace Raffaele
Fiengo, che al Corsera ha lavorato
per oltre vent’anni, curando la Terza pagina e diversi supplementi. «Se
andiamo a vedere la struttura informativa italiana», aggiunge Fiengo, «è tutto in mano a industrie, banche, interessi finanziari e partitici».
Difficile situazione, insomma,
dal punto di vista della libertà d’informazione. E se il sistema informativo italiano è sbilanciato (o
quantomeno pesantemente controllato), di quanta e quale salute
gode quello giudiziario?
«In Italia la magistratura è sicuramente molto più indipendente
che in Svizzera, dove i magistrati
vengono eletti dal Governo». A
parlare è Nicos Tzermias, da anni
corrispondente per il Neue Zürcher
Zeitung, la principale testata svizzera.
«Il problema però è che i processi
contro persone pubbliche si svolgono in Italia, molto più spesso che
in Svizzera e in altri paesi democratici, sui mass media piuttosto che
davanti al giudice. E questo circo mediatico-giudiziario può certamente
compromettere il principio della
presunzione d’innocenza». «Questa
modalità di “giustizia”», prosegue,
«fa in realtà molto comodo ai politici in generale e a Berlusconi in particolare: così lui può accusare i magistrati di faziosità e giustificare
con maggiore agilità molte leggi ad
personam». Questo procedimento,
spiega Tzermias, influenza e dilata
in modo innaturale i tempi della giustizia, creando processi infiniti. E più
il processo si rilassa cronologicamente, più il principio della presunzione d’innocenza tende a sbiadire nella coscienza collettiva. «In
Italia», conclude laconicamente, «la
maggioranza dei processi è destinata alla prescrizione».
LA BATTAGLIA
Il libro dell'ematologo Franco
Mandelli il cui ricavato sarà
destinato all'associazione
contro i tumori del sangue.
A fianco: le tradizionali uova
pasquali per raccogliere
fondi per l'Ail
Andrea Andrei
«Il volontariato aiuta molto di più chi lo fa che chi lo riceve. Difficilmente si riesce a
comprendere, per chi non lo
prova, quanto si ottenga in
cambio». Ecco il “segreto”
che ha spinto ventimila persone a unirsi alla causa dell’Ail,
l’Associazione Italiana contro le Leucemie Linfomi e
mieloma. A svelarlo è Fabrizio
Paladini, direttore responsabile
di “Destinazione Domani”,
quadrimestrale nazionale dell’associazione benefica. Questo “esercito” di volontari
scenderà in piazza dall’8 al 10
Aprile, per far sentire la voce
di centinaia di malati di cancro che anche grazie all’operato dell’Ail continuano a sperare. 3800 stand sparsi in tutta Italia, dove sarà possibile acquistare le tradizionali uova di
Pasqua che da anni rappresentano un simbolo della lotta contro i tumori del sangue.
«Non riceviamo alcun finanziamento da parte dello
Stato», racconta Paladini, «per
Reporter
nuovo
Fabrizio Paladini ci parla delle finalità dell’Ail e della campagna di Pasqua
Quelle uova che regalano la vita
cui ci sostentiamo con le donazioni. Ogni anno teniamo
due grandi manifestazioni: la
vendita delle uova di Pasqua
e delle stelle di Natale. Inoltre,
col contributo di Rai e Mediaset, organizziamo delle maratone televisive».
Che progetti vengono finanziati con il ricavato di queste manifestazioni?
«Principalmente la ricerca
scientifica e l’assistenza ai malati. Una quota viene dedicata alla formazione professionale di medici e paramedici,
con borse di studio, strumenti
di ricerca di laboratorio e
macchinari. Il resto lo utilizziamo per finanziare la costruzione, la realizzazione e la
gestione di case di accoglienza che possono essere utilizzate dai parenti dei malati
per restare accanto ai propri
cari. Finanziamo anche l’assistenza domiciliare, per permettere ai malati di restare nel
proprio ambiente familiare
pur avendo le stesse cure che
riceverebbero in ospedale».
Parliamo di numeri. Quanto riuscite a ricavare grazie
agli eventi benefici?
«Sono dati che variano di
anno in anno. Quest’anno la
crisi si è fatta sentire, e nelle
grandi manifestazioni abbiamo registrato un lieve calo delle donazioni. Ma siamo intorno al milione di euro ogni
volta».
Come vengono reclutati i
volontari?
«Ultimamente c’è stata
un’enorme richiesta di collaborazioni. Spesso si tratta di
parenti, amici e familiari di
persone colpite dalla malattia,
altre volte sono gli stessi malati, che si prodigano per aiu-
tare chi si trova nella loro
stessa situazione. Tantissimi,
invece, non appartengono alle
due categorie precedenti. Si
tratta specialmente di giovani.
Insomma, al contrario dell’immaginario collettivo, il volontario più diffuso non è più
l’anzianotta e religiosa signora, ma persone di tutte le età.
Come si diventa volontari dell’Ail?
«Bisogna assicurarsi che
la propria voglia di fare volontariato non sia solo la spinta di un momento. È un’attività che dà gratificazione ma
che al contempo è molto onerosa. Ogni sforzo, poi, è ben
accetto. Basta segnalarsi sul
sito
dell’associazione
(www.ail.it), o recarsi in una
delle nostre ottanta sezioni,
sparse in tutto il territorio
nazionale.
Se oggi l’Ail è una delle realtà benefiche italiane più
importanti, lo si deve anche
all’opera, instancabile, del
professor Franco Mandelli,
che oggi è il presidente dell’associazione. Mandelli ha
recentemente pubblicato un
libro, dal titolo “Ho sognato
un mondo senza cancro”,
edito da Sperling & Kupfer, il
cui ricavato delle vendite è devoluto interamente all’Ail, e in
cui il professore ripercorre la
sua vita e le proprie esperienze, maturate in tanti anni
spesi nella lotta alle malattie
del sangue.
1 Aprile 2011
5
Cronaca
Per far fronte al boom di clienti in arrivo dall’Europa dell’est, commesse madrelingua
In Via Veneto si compra in russo
La testimonianza di Milana che fa la vendeuse d’alta moda in una boutique
Roberta Casa
In via Veneto, a due passi
dall’Harry’s bar, due donne
spingono la porta di un negozio di scarpe, intente a gettare l’ultimo sguardo alla vetrina. Sotto la maniglia, accanto a “push”, la stessa
espressione in cirillico fa quasi dubitare che ci si trovi in
Italia. All’interno, vengono
accolte da commesse cordiali e affabili, che rispondono
alle clienti nella loro lingua:
sono le giovani russe reclutate dai negozi più “in” della capitale. Scene all’ordine del
giorno nelle vie italiane della
dolce vita, che negli ultimi
anni hanno visto quadruplicata l’affluenza di turisti russi verso la capitale, attratti dal
lusso e dai grandi stilisti.
Milana viene da Mosca e
lavora già da due anni in una
boutique del centro. Maneggia i drappeggi d’alta moda italiana con la cura di un chirurgo, in modo deciso. Ne racconta la storia, mostra la stoffa pregiatissima e le rifiniture cucite ad arte alle connazionali ben vestite che affollano il negozio. «Quando una
mia parente mi ha proposto di
venire qui in Italia, ho rifiutato», ammette la giovane
commessa, laureata in Filosofia all’Università statale di
Mosca, frequentata anche da
Michail Gorbaciov, ultimo segretario del Partito Comunista sovietico. Poi le pressioni
dei genitori e la voglia di conoscere il Belpaese sono state determinanti. «In fondo, è
un po’ come essere a casa: par-
SHOPPING
Una ragazza
russa
sorridente
dopo aver
“svaligiato”
un negozio.
A fianco,
menù in
cirillico in
Via Veneto
lo russo tutti i giorni, la gente che viene al negozio è talmente felice di poter parlare
la nostra lingua anche qui in
Italia che mi racconta cosa
succede nel nostro paese, mi
chiede come si vive a Roma,
e alla fine compra più facil-
mente ciò che vendiamo, con
il sorriso sulle labbra anche se
in realtà costa tutto tantissimo».
Tra i negozi di Roma nelle vie dell’alta moda, scorgere volti dell’Est non è diffici-
le: affascinanti signore bionde si lasciano conquistare
dalle vetrine accompagnate da
mariti interessati a guanti e sigari. E con l’arrivo di questi
nuovi “spendaccioni” anche
bar e ristoranti hanno sosti-
tuito gli ormai vecchi ideogrammi cinesi con nuovissimi caratteri cirillici. «Abbiamo dovuto cercare collaboratori russi per rispondere
alle esigenze di questa nuova
clientela», racconta Gianni,
MOSCA COME VIA CONDOTTI
C’
è chi afferma che il gusto dei
russi per il lusso venga da lontano, sia parte integrante della genetica di questo popolo discendente
diretto dell’impero zarista. Come dimenticare, ad esempio, l’uovo creato dal
gioielliere Carl Fabergé per la zarina Alessandra, moglie di Nicola II, oggi uno degli oggetti più famosi nel mondo? La fine
dell’era comunista e la nascita di una nuova classe benestante ha dato il via a una
nuova era di sfarzo. E se fino a qualche
anno fa i ricchi moscoviti affamati di lusso dovevano raggiungere Milano, Roma,
New York o Parigi, ora possono soddisfare il loro appetito al Gum, l’enorme
centro commerciale d’alta moda che dà
sulla Piazza Rossa. Ironia della sorte, sono
Le vetrine del lusso
illuminano
il mausoleo di Lenin
proprio le luci delle vetrine capitaliste di
Ferragamo, Moschino, Pollini, Max
Mara, Marina Rinaldi, I Pinco Pallino e
La Perla a illuminare il mausoleo di Lenin, padre di quella rivoluzione che trasformò la Russia. E i vecchi nostalgici che
ancora credono nell’altra economia,
quella comunista, denunciano l’ostentazione quasi maniacale della ricchezza
che la loro capitale sta vivendo, con prezzi inaccessibili e bar troppo costosi an-
che per un caffè. Le vecchiette che vendevano calze di lana, cetriolini in salamoia e matrioske all’angolo della Piazza Rossa, hanno dovuto lasciare il posto
a bodyguard e autisti che aspettano pazientemente, davanti a lucide Bentley e
Mercedes, le loro facoltose padrone impegnate a fare shopping. I ricchi russi si
dedicano ai beni di lusso con trasporto
selvaggio, quasi fosse un rimedio per dimenticare gli anni dei prodotti scadenti e tutti uguali: la griffe è ora simbolo di
benessere in una società ossessionata dai
soldi. La vecchia Mosca sembra essere ormai sparita sotto il peso inarrestabile del
dio denaro, che tutto compra e tutto trasforma.
R. C.
gestore di un elegante caffè in
via Veneto. I russi sembrano
non poter fare a meno dell’Italia e dei suoi manufatti,
non rinunciano al buon cibo
e ai prodotti gastronomici
nostrani. «Prima la miglior
clientela era costituita dai tedeschi, educati e generosi
con la mance – continua
Gianni – la felicità di ogni cameriere. Oggi invece dalla
Germania vengono in pochi,
ma c’è un continuo via vai di
russi. Ed è per questo che ho
deciso di assumere due ragazzi dell’Est: conoscono i
loro connazionali, sanno
come farli sorridere e metterli
a loro agio».
Una clientela raffinata, dai
gusti delicati, che ama spendere per il proprio piacere e
che adora l’Italia. Ecco perché
sempre più spesso nei negozi glamour della capitale si vedono commesse bionde dagli
occhi vitrei, abituate a solleticare l’interesse e il portafoglio dei connazionali russi.
«Prima non sapevo neanche
chi fossero Gucci o Prada»,
racconta Elena, sulla cinquantina, da oltre vent’anni in
Italia. «Vivere sotto il comunismo non è stato facile, ma
quando ho scoperto il resto
del mondo sono rinata. Ho ricominciato la mia vita qui in
Italia. Ho scoperto la moda, le
scarpe, il buon cibo, le opere
d’arte, e sono rimasta estasiata. Voi italiani riuscite a trasformare tutto in arte, anche
un pezzo di stoffa, e noi russi non possiamo che esserne
affascinati».
Proposta di legge in un convegno a Roma: legalità e integrazione gli strumenti
Come far uscire i cinesi dall’ombra
Lorenzo d’Albergo
L’INCUBO Campi di concentramento cinesi, dove si lavora
fino a 18 ore al giorno. Il rischio
è un bis in Italia
6
1 Aprile 2011
Divieto di produzione, importazione e commercio di
merci prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata
e in schiavitù. Sono questi i
contenuti della proposta di
legge presentata all’Acquario
romano di piazza Fanti, nel
cuore dell’Esquilino, in occasione del convegno “Ombre
cinesi sull’economia italiana”. «Metteremo le mani nei
portafogli dei cinesi con perquisizioni e sequestri per colpirne l’interesse principale»,
ha spiegato l’onorevole Paga-
no del Popolo della libertà, il
promotore della proposta. «È
una vicenda che esce dagli
schemi politici e che va affrontata per ristabilire la legalità tramite l’integrazione»,
ha ribadito il deputato Gabriele Cimadoro dell’Italia dei
valori. Tra i firmatari, infatti,
ci sono parlamentari di Pdl,
Pd, Lega, Idv, Fli e Api. Uniti contro la minaccia del dragone e del commercio abusivo, che, secondo Ugo Cassone, presidente della Commissione commercio di Roma
capitale, «contravviene alle
norme comunitarie, sfrut-
tando i lavoratori e impiegando materiali dannosi per la
salute degli operai e dei consumatori».
«I cinesi - ha raccontato
l’assessore all’immigrazione
del Comune di Prato, Giorgio
Silli - si organizzano in distretti paralleli dove la parola d’ordine è illegalità». Vere
città nelle città, con scuole
non riconosciute, cliniche
abusive e farmacie dove si
vendono medicinali di provenienza e composizione non
controllata. Agglomerati urbani che Silli ha avuto l’occasione di visitare anche in al-
tre grandi città: «Parigi, Barcellona, Amsterdam, Rotterdam. Le chinatown europee
sono strutturate tutte allo
stesso modo, come se ci fosse una regia unica dietro alle
modalità di immigrazione cinese, che raramente porta
benefici ai paesi ospitanti.
Ogni giorno da Prato partono
bonifici verso la Cina per
quasi due milioni di euro,
guadagnati in Italia, che non
vengono rispesi qui».
A Roma, come si legge in
un rapporto sugli stranieri
nella capitale a cura dell’Ufficio di statistica e censimento
del Comune, i residenti cinesi sono oltre diecimila. Molti
di più i clandestini che lavorano fino a 18 ore al giorno in
condizioni disumane. La maggior parte vive nel I, VI e VIII
Municipio, dove sono concentrate le attività commerciali e produttive del dragone
romano. Che, nel frattempo,
mira a espandere la sua influenza sulla città. La centralissima Via dei Coronari, Viale Marconi e Via Appia hanno già subito la prima ondata di colonizzazione cinese. Il
rischio è quello che le amministrazioni locali si trovino a
combattere contro la versione italiana dei laogai, i campi di concentramento e sfruttamento del lavoro cinesi.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Accattivante dibattito sui molti significati di un gesto, tra filosofia, semiotica, etnologia e storia
Si fa presto a dire (e fare) corna
Sul libro di Gian Piero Jacobelli, discussione tra intellettuali di prestigio
Andrea Andrei
C’era il sociologo Alberto Abruzzese, c’era l’antropologo Antonino Colajanni, c’era l’economista Massimo Lo
Cicero e il giornalista Bruno Manfellotto e, naturalmente, il filosofo Gian
Piero Jacobelli. Tutti riuniti per fare il
punto su una questione da prendere
letteralmente per le corna. Come
trent’anni fa. Sì, perché l’incontro di
mercoledì 23 marzo, nella sala convegni del Monte dei Paschi di Siena
in via Minghetti a Roma, moderato da
Sasà Toriello della Fondazione Luigi
Einaudi, è stato in realtà un ritorno,
il secondo atto di una discussione nata
molto prima, in riva al mare. Una discussione fra ragazzi, appena usciti
dall’università ma con davanti delle
prospettive radiose.
Insieme a Jacobelli e a Colajanni,
quel giorno, c’era anche un “certo”
Giorgio Raimondo Cardona, oggi
scomparso, che più tardi sarebbe
diventato un linguista di fama internazionale. Il fulcro del dibattito era
uno dei gesti più comuni e utilizzati dall’uomo in tutte le epoche: le corna. O, come le chiama Jacobelli nel
suo nuovo libro, “La corna”, sottolineando, in questo modo, il gesto più
che la molteplicità di significati che
da esso derivano.
ALLUSIONE
Ne “I coniugi
Arnolfini” di Jan van
Eyck, sono molti
i significati simbolici
che rimandano al
concetto di “corna”
come tradimento.
A fianco, il libro di
Gian Piero Jacobelli
Leggendo il libro e ascoltando i relatori, ci si rende presto conto di
quanto la mano cornuta sia utilizzata in maniera spesso inconscia, o addirittura inconsapevole.
Che sia un qualcosa che si riferisca al mondo animale, è facilmente
intuibile. Rimane quindi da capire
quali comportamenti, tipici delle bestie, si vogliono intendere ogni volta che si esibiscono l’indice e il mignolo.
Di sicuro è preponderante il concetto di attacco, di aggressività, perciò anche lo scontro per stabilire chi
debba essere il maschio dominante all’interno del branco. Di qui, forse, la
proprietà della donna, e il conseguente significato comune di “cornuto”. Ma, ha ricordato Colajanni, «il
cornuto non è colui che non è riuscito
a mantenere la proprietà della propria
donna, ma colui che non ha avuto
scrupoli nel venire allo scontro con
un concorrente». Ecco dunque che
il gesto delle corna (e quindi “la” corna) non prende un significato passivo, ma, al contrario, attivo. Un concetto sottolineato anche da Lo Cicero: «Con le corna io non ti tolgo qual-
cosa, te la do». Anche perché, ha ricordato giustamente Colajanni, «non
si dà mai del cornuto a chi è cornuto veramente…».
Un gesto, quello della mano cornuta, la cui memoria si perde nei secoli, e che nasconde un rapporto di
tipo dualistico fra il dare e il togliere, fra la vittoria e la sconfitta. Ma soprattutto, le corna si possono fare verso l’alto o verso il basso. «Nel primo
caso si tratta di un insulto, nel secondo caso di uno scongiuro. Quelle verso l’alto sono un segnale fisso,
mentre quelle verso il basso sono un
gesto secco, aggressivo». Alla sollecitazione di Colajanni, Jacobelli ha risposto spiegando come il gesto, se rivolto verso l’alto, indichi un trofeo,
una coppa, mentre, se fatto verso il
basso, rappresenti uno scudo.
Trent’anni fa, quando si tenne la
discussione che ha ispirato il libro, le
corna non erano però certo sdoganate
come adesso, quando anche i protagonisti della politica non si fanno
troppi problemi a esibirle. A notarlo
è stato Manfellotto, facendo l’ormai
celebre esempio di Silvio Berlusconi
(che ha rivolto l’eloquente gesto al ministro spagnolo Josep Piquet), sostenuto anche da Abruzzese, che ha
commentato così l’iniziativa del premier: «Berlusconi ha rivolto quel gesto allo Stato, alla famiglia, alla democrazia, esibendo il suo libero arbitrio, mettendo in mostra il suo spirito libero e inadatto a quella situazione. A suo modo, si potrebbe dire
che Berlusconi sia un maestro di decostruzionismo…».
Manfellotto ha anche ricordato che
il presidente del Consiglio, il giorno
dell’aggressione da parte di Massimo
Tartaglia, portava, nascosto sotto la
cravatta, un corno. La notizia, per
molti, potrebbe essere tutta qui: fare
le corna, forse, non porta così fortuna come si dice.
Dopo l’intervento di Franzen a Che tempo che fa, i pareri dei professionisti
Quanta “Libertà” ha il traduttore?
Lorenzo d’Albergo
Jonathan Franzen, l’autore di Libertà e de Le Correzioni, con cui nel 2001 ha
vinto il National book award,
si siede sulla poltrona degli
ospiti di Che tempo che fa.
Fabio Fazio lascia allo scrittore e giornalista statunitense il tempo di scaldarsi, prima di porre una domanda
inusuale. Che tipo di controllo ha l’autore sulla trasposizione della sua opera
all’estero? Franzen ci pensa su
e ringrazia la sua traduttrice.
Poi, risponde: «Non mi fido
dei traduttori che non mi
chiedono mai un parere.
Quando sono troppo bravi,
c’è sempre da sospettare».
Una domanda particolare,
quella di Fabio Fazio, per un
caso altrettanto particolare, secondo Chiara Marmugi, traduttrice della fortunata saga
vampiresca di Twilight: «Sono
rimasta molto colpita dall’intervista di Franzen. Non capita spesso che gli autori si interessino così tanto della qua-
Reporter
nuovo
lità della traduzione delle loro
opere. Nel caso dei best seller
è ancora più raro. Avere un
contatto diretto con le “figure mitologiche” dell’editoria
per ragazzi di norma è difficile. Ma, forse, è meglio: se
uno scrittore conosce bene la
tua lingua, avrà sempre qualcosa da ridire sul tuo lavoro».
na è addirittura più ricca rispetto al testo originale».
Una soddisfazione pari a
quella avuta con le avventure dei vampiri figli della penna di Stephenie Meyer, anche
se, con i volumi per ragazzi,
gli addetti al controllo della
qualità della traduzione diventano proprio i giovani let-
«Spesso gli autori non sono interessati alla
qualità della trasposizione.
Nel caso dei best seller è ancora più raro»
Ci sono, poi, delle eccezioni, come quella di Jonathan
Franzen. A Chiara Marmugi,
infatti, è capitato di lavorare
con la giornalista austriaca Susanne Scholl. «Nel caso di Ragazze della guerra - racconta
Chiara - abbiamo tradotto a
quattro mani. Susanne mi ha
invitato a casa sua, a Vienna,
e a farmi sentire al minimo
dubbio. L’aiuto della scrittrice è stato molto prezioso.
Alla fine, la traduzione italia-
tori. «In un certo senso sostituiscono lo scrittore – racconta divertita Chiara -. Sul
web i fan analizzano nei minimi particolari la nostra traduzione. Si interessano al lavoro che c’è dietro al volume
che finisce in libreria».
Un’arte che richiede un’attenzione particolare per il
pubblico e, allo stesso tempo,
il massimo rispetto per la lingua. «L’italiano è musicale,
deve essere gradevole al-
l’orecchio. In italiano non si
può ripetere la stessa parola
per venti volte nella stessa pagina e il nostro compito è
quello di riuscire a provocare nel lettore le stesse sensazioni, le stesse reazioni che il
lettore anglofono prova quando legge Twilight, senza stravolgere le regole della nostra
lingua».
Al traduttore, oltre ad una
grande passione per la letteratura, si richiede, infatti, talento nello scrivere, tanta pazienza, meticolosità e curiosità. Qualità che vanno sommate a un’ottima conoscenza
di almeno due lingue. Senza
l’incubo della pagina bianca,
il traduttore ha il tempo di
svelare la storia che si nasconde dietro ad una teoria
scientifica o la giusta resa di
un acronimo misterioso. «Il
traduttore deve saper rendere fedelmente i modi di dire e
tutti quegli elementi che un
autore inserisce nei suoi romanzi - spiega Sandra Bertolini, presidente dell’Aiti (Associazione italiana traduttori
CHE TRADUTTORE FA Jonathan Franzen a Che tempo che fa
e interpreti) -. Deve aiutare il
lettore a capire l’opera, traducendone testo, ma anche
il contesto in cui è stata prodotta».
Padroneggiare la lingua
straniera, quindi, non basta.
«Bisogna conoscere alla perfezione il mondo e la cultura
che stanno dietro all’autore ricorda la traduttrice - anche
se non sempre il traduttore è
in contatto diretto con lo
scrittore». Già, perché le esigenze economiche e le scadenze fissate dagli editori
possono valere più di una
traduzione di qualità. «Così,
non si ha il tempo di comunicare con l’autore e il lavoro
si fa più complicato».
Eppure, a uno sforzo intellettuale del genere non corrisponde una remunerazione
di tipo europeo. In Europa i
traduttori ricevono una percentuale per ogni copia venduta, mentre in Italia sono pagati a pagina. Così, come
spiega Chiara Marmugi, «con
la traduzione di un best seller
si copre a stento una rata del
mutuo, mentre il collega estero compra due case».
1 Aprile 2011
7
Costume & Società
A colloquio con il super esperto Guglielmo Natalini: “L’imperatore, un personaggio da riabilitare”
Nerone, ingiustamente perseguitato
Non fu lui a incendiare Roma ma la fece ricostruire ancora più bella
Raffaele d’Ettorre
Nell’immaginario collettivo, Nerone è percepito come un folle sanguinario, piromane e assassino spietato. Ultimamente, tuttavia, sta prendendo piede una corrente revisionista che tenta di riscattare quanto di
buono l’imperatore fece in vita, scindendo la verità dalla leggenda. Ce ne
parla Guglielmo Natalini, ex assessore
alla cultura del comune di Anzio, storico per passione e autore del libro
“Nerone oltre la leggenda”.
Secondo lei, qual è la chiave di lettura corretta per decifrare oggi la figura di Nerone?
«Noi abbiamo il dovere di contestualizzare: gli imperatori romani
avevano un’aspettativa di vita molto
breve, sempre al centro di intrighi e
cospirazioni. In soli 14 anni di governo (anni di assoluta pace), Nerone fu autore di riforme (economiche,
politiche ma soprattutto urbanistiche)
che mal si sposano con l’immagine di
un folle incapace di regnare».
Dal punto di vista architettonico,
COLPEVOLE L’interpretazione di Ustinov ha compromesso la figura di Nerone
particolarmente, si diede molto da
fare per migliorare l’impero.
«Ha costruito il porto di Anzio,
uno dei migliori del Mediterraneo. La
Domus Aurea non ha bisogno di presentazioni: un colosso urbanistico,
una vera e propria “città nella città”.
Aveva poi anche progettato una diga
d’acqua interrata che collegasse Ostia
con la Campania: un’opera estremamente all’avanguardia, che purtroppo non completò mai».
Come mai allora Nerone viene ricordato in maniera così negativa?
«Tra saggi, drammi, romanzi e poesie, ci sono circa 150 opere ispirate a
Nerone. I film sono 34. Fra questi,
Quo Vadis? ha pesato moltissimo. Prima il romanzo e poi il film, hanno dipinto un Nerone sanguinario, folle e
dissoluto. Il successo del colossal, poi,
ha influito drasticamente sulla percezione collettiva della figura di Nerone. Ultimamente sono spuntate
molte ricostruzioni più pacate e accurate, specialmente in tv».
I tempi sembrano essere maturi
per riscattare questo “imperatore in-
compreso”.
«È ora di separare la leggenda dalla realtà: Nerone è stato trattato malissimo. Si è trovato al centro di leggende spaventose, è stato identificato addirittura come l’Anticristo».
Quanto ha pesato la storiografia
di stampo cristiano?
«Moltissimo. Certo, Nerone mandò a morire circa 280 cristiani: non pochi, ma rispetto al periodo precedente
sicuramente un numero ridotto. E poi,
attenzione: non furono condannati
perché erano cristiani, ma in virtù degli atti commessi. Molti di loro, all’epoca, erano dei fondamentalisti
intransigenti: andavano dicendo che,
siccome Roma era la città del peccato, andava distrutta con il fuoco».
Chi fu ad appiccare l’incendio?
«Sicuramente non è stato Nerone.
Gli studi più recenti dimostrano che
l’incendio fu casuale, dovuto a fattori ambientali. Lui non era neanche a
Roma, e inoltre aveva istituito un corpo di vigili del fuoco di oltre 6000 persone: non ha alcun senso pensare che
sia stato lui a dar fuoco alla città».
Uno sguardo a produzione e uso di un bene superfluo che per molti è ossessione
Profumo di donna, quanto ci costi
Non essenza, ma confezione e spot fanno il prezzo
Roberta Casa
Quando le chiesero: «Cosa
indossa a letto?», lei non esitò a rispondere: «Beh, Chanel
n°5, ovviamente». Era il 1952
quando la “diva delle dive”,
Marilyn Monroe, svelò che
per dormire indossava solo
due gocce del profumo più famoso ideato da Cocò. Fu poi
la volta degli anni Ottanta, che
lanciarono sul mercato italiano il famosissimo quanto costosissimo “Giorgio Beverly
Hills”, più che un profumo un
vero e proprio stile di vita,
come recitava lo spot televisivo che ritraeva macchine di
lusso, palme, insegne luminose
e belle ragazze hollywoodiane.
Da sempre, dunque, uomini e
donne utilizzano questo mix di
alcol, oli essenziali ed eccesso
per sottolineare la propria personalità, il proprio stile o i propri gusti.
Se ai tempi di Luigi XIV il
profumo era utilizzato per coprire odori poco gradevoli (in
tutta la sua vita il re parigino
fece solo due volte un bagno
completo), con il tempo la
creazione di un’essenza è diventata vera e propria arte: i
8
1 Aprile 2011
primi profumieri francesi, chiamati “nez”, cercavano di ricreare un’emozione, una sensazione precisa, o un luogo.
Scegliere un profumo piuttosto che un altro, poi, è una
scelta privata, soggettiva, addirittura intima. I motivi per
cui una persona predilige
dollari. Un vero e proprio
bene di lusso, non accessibile
a tutti, sinonimo di benessere
e status sociale al pari di vestitini griffati e gioielli preziosi. Ma cos’è che fa crescere così
tanto il prezzo di un bene di
per sé non costosissimo? Per
il mondo del lusso, il packa-
Anche tremila dollari per un solo prodotto.
Intanto a vendere sono
giovani commesse con salari miserevoli
un’essenza anziché un’altra
sono sconosciuti, spesso sono
legati ai ricordi più diversi. Il
prezzo dell’uno anziché dell’altro prodotto non influisce
quasi mai sulla scelta finale,
poiché «le sensazioni non si
possono acquistare», come
scrive Diana, che su internet ha
dedicato un intero blog all’esaltazione della fragranza
prediletta.
Ma le piccole ampolle di
profumo possono costare davvero molto. Nel caso dell’essenza “Floris” prodotta a Londra, una bottiglina di pochi
centilitri costa più di tremila
ging riveste una grandissima
importanza. Oggi è anche la
confezione che fa la differenza tra un prodotto e l’altro: il
pacchetto che contiene un
bene di lusso prelude a quello che sarà il prodotto, e l’acquirente percepisce il valore
dell’oggetto già dal suo packaging. Poi interviene la pubblicità, soprattutto per quei
prodotti legati a grandi case
della moda: i profumi firmati
Armani, Dior, Bulgari, Dolce&Gabbana sono reclamizzati all’interno di riviste patinate e in tv, ed è il consumatore spesso a pagarne il conto:
il costo delle boccette arriva
alle stelle e i prezzi in profumeria fanno concorrenza alle
più importanti gioiellerie. Eppure, in questi saloni della
fragranza, giovani commesse
devono sottostare a salari bassi nonostante i prezzi esorbitanti dei prodotti venduti,
schiave di un’immagine che
devono restituire a tutti i costi.
Per andare incontro alle
esigenze dei consumatori, da
tempo sulla rete sono nati
molti negozi online che cercano di abbattere i costi di un
bene che in questo modo diventa accessibile. Il percorso
che fa una boccetta di profumo dal produttore al consumatore è lungo: dai distributori
nazionali ai rappresentanti,
fino ad arrivare ai punti vendita, ognuno di questi ha giustamente un margine di guadagno. Le boutique virtuali riescono a saltare questi passaggi, diventando l’unico tramite
tra produttore e consumatore.
Certo, costi di packaging e
pubblicità restano, ma rinunciare a queste due voci equivarrebbe a non riconoscere
l’anima stessa di un prodotto
che vive di sensazioni.
FRAGRANZE L’interno di una profumeria, prezzi alle stelle
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Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini”
della LUISS Guido Carli
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