Politica - Reporter nuovo
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Anno IV - Numero 23 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 1 Aprile 2011 nuovo Guglielmo Negri Un suggeritore super partes Economia Reichlin: così via dalla crisi Informazione Presunzione d’incoscienza Il libro Si fa presto a dire corna UN FASCINO NAPOLITANO PER DIRITTURA MORALE E SCELTE È IL PRESIDENTE PIÙ AMATO DOPO PERTINI Politica Ritratto di Napolitano, un presidente che incarna l’unità di un Paese pieno di contrasti Un coro: meno male che Giorgio c’è Prestigio e fascino frutto di una dirittura morale e di scelte giuste «Lei è una leggenda del suo tempo, un grande uomo della Repubblica italiana, non solo in termini anagrafici ma anche una figura storica del post guerra». Non smette di incassare elogi Giorgio Napolitano quando esce dai confini italiani. A tesserne le lodi questa volta è stato addirittura il segretario generale dell’Onu Ban Kii Moon, durante la visita ufficiale del capo dello Stato a New York. Sti- mato in patria e fuori, il presidente della Repubblica è riuscito a ritagliarsi un ruolo fondamentale nello scenario mondiale, nonostante una carriera politica fortemente caratterizzata dalla militanza nel vecchio Pci. «Napolitano è una voce che ha guidato al meglio il suo paese – ha continuato Ban Kii Moon – sostenendo il suo sviluppo attraverso la trasparenza. La sua politica ha aiutato la crescita dell’Italia fino ad oggi». Una vera e propria investitura che dà lustro al personaggio ma anche, di riflesso, al nostro paese, da tempo in ribasso nella considerazione della comunità internazionale. Ripercorrere le componenti che hanno contrassegnato la sua formazione, il suo stile e la sua vita politica, aiuta a scovare i perchè di un tale successo in Italia e all’estero. A prile 2006. Il centrosinistra ha appena vinto le elezioni e il mandato del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è agli sgoccioli. La battaglia politica per designarne il successore infuria e i veti incrociati eliminano uno dopo l’altro tutti i nomi in lizza. La maggioranza parlamentare appena ottenuta mette la coalizione del neo premier Romano Prodi nella condizione di avere una posizione di forza nella scelta del candidato. Il centrodestra reclama il Colle in nome di un bilanciamento dei poteri. La rosa presentata dall’Unione che comprende due big come Massimo D’Alema, già bruciato da Fausto Bertinotti nella corsa alla presidenza di Montecitorio, e Giuliano Amato viene rispedita da Berlusconi al mittente. Poi finalmente arriva il nome giusto per mettere tutti d’accordo. Il 10 maggio 2006 Giorgio Napolitano diventa l’undicesimo presidente della Repubblica italiana. Un comunista al Quirinale, a rompere la leggenda del fattore K che aveva impedito al Pci di aspirare al governo. Ma il Colle è forse il premio migliore per quello che Napolitano ha seminato in quasi sessant’anni di carriera politica. Stima bipartisan, apprezzato da compagni e avversari. La barra degli ideali sempre dritta ma anche la capacità di rivedere le proprie idee riconoscendo gli errori del passato. A lui è dedicato anche uno dei cablo diffusi da Wikileaks, nel quale Napolitano è definito dai diplomatici statunitensi “serio, un intellettuale, un’eminenza grigia, un punto di riferimento morale nell’arena politica italiana spesso frastagliata”. E’ lui l’interlocutore preferito dalla Casa Bianca, perplessa per gli scandali che coinvolgono il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Gli aggettivi moderato ed europeista associati alla sua figura vista dall’occhio a stelle e strisce relegano il suo pas- 2 1 Aprile 2011 GRADITO La folla acclama Giorgio Napolitano a Torino durante le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. A fianco: Sandro Pertini sato rosso a una nota biografica. E non è cosa da poco per uno che ha militato tutta la vita nel Partito Comunista Italiano prima e nelle forme politiche nate dalle sue ceneri poi. Napoletano classe ’25, il giovane Giorgio matura la passione politica nel periodo universitario, che coincide con la seconda guerra mondiale. In quegli anni milita ufficialmente nel Guf, il gruppo universitario fascista, ma la sua prospettiva è differente: «Il Guf era un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste mascherato e fino a un certo punto tollerato», dirà in seguito. Nel 1945, dopo aver contribuito alla resistenza in Campania, aderisce al Pci, entrando in Parlamento nel 1953 come deputato. All’interno del partito si caratterizza fin da subito per una posizione riformista diventando leader di quella corrente, de- finita con accento dispregiativo dai suoi stessi compagni “migliorista”, ispirata dai valori della socialdemocrazia e animata da una visione “europeista”. Nel 1978 è il primo dirigente comunista invitato negli Stati Uniti, ospite di alcune prestigiose università americane. Sono i giorni oscuri del caso Moro ma è in questo periodo che Napolitano getta le basi per la stima e il rispetto che anche oltreoceano caratterizzeranno sempre la sua figura. Dopo la caduta del muro di Berlino e la svolta della “Bolognina”, diventa simbolo di un’autorevolezza istituzionale prima come presidente della Camera nel 1992, poi come ministro dell’Interno nel 1996 e senatore a vita nel 2005, naturale viatico per la sua investitura al Colle nell’anno successivo. I primi cinque anni di Quirinale lo esaltano come punto di riferimento in una politica italiana dilaniata da scontri istituzionali a tutti i livelli. Osannato dal centrosinistra ma apprezzato anche a destra, per il suo equilibrio e il suo senso dello Stato. Garante della costituzione, non ha fatto mancare la sua voce per correggere provvedimenti non compatibili con la carta fondamentale, con scelte che hanno procurato momenti di tensione con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Sempre alla larga dalla bagarre politica ma arbitro inflessibile e imparziale della contesa. Chiamato a sostituire un presidente amato come Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano ha conquistato giorno dopo giorno tutti gli italiani, come dimostrano le dimostrazioni di affetto che hanno accompagnato il capo dello Stato in tutte le città durante il suo tour per celebrare i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Più composto e freddo del predecessore ma capace di scaldare il cuore dei connazionali che gli hanno tributato affetto e stima ovunque. Insomma, parafrasando un abusato jingle, stavolta si può davvero dire: meno male che Giorgio c’è. A colloquio con Paolo Cacace, quirinalista del Messaggero N ella hit parade dei presidenti della Repubblica più apprezzati dagli italiani Giorgio Napolitano sta scalando posizioni giorno dopo giorno. E così il paragone con il capo dello Stato più amato dagli italiani, Sandro Pertini, non sembra un azzardo. Che i due avessero qualcosa in comune, si era capito subito dopo l’insediamento di Napolitano nel 2006 quando, come Pertini nell’82 in Spagna, festeggiò a Berlino la vittoria degli azzurri nella coppa del mondo di calcio. Presidenti portafortuna, dunque, se si pensa che nelle altre due finali raggiunte dalla nazionale nel dopoguerra (nel 1970 e nel 1994), Giuseppe Sa- Ormai sulle orme di Pertini Piace il suo interventismo ragat e Francesco Cossiga marcarono visita e arrivarono due sconfitte. «Pertini e Napolitano hanno qualcosa in comune – dice Paolo Cacace, quirinalista del Messaggero-, entrambi vengono da una lunga milizia politica e sono stati eletti in età avanzata». Anche se forse a risaltare è più una differenza caratteriale: «Pertini era un personaggio molto sanguigno e anticonformista mentre Napolitano è più freddo, direi anglosassone, un napoletano atipico». Ma proprio il carattere misurato e pacato è una delle ragioni della popolarità dell’attuale capo dello Stato. «Napolitano non è partito da una posizione di grande consenso, non essendo stato eletto con una votazione bipartisan - racconta Cacace -, ma progressivamente è diventato il presidente di tutti grazie alla sua azione super partes». Pagina a cura di Marco Cicala A questo bisogna aggiungere anche un altro elemento, che in una prospettiva storica rende interessante la presidenza di Napolitano: l’interventismo. Spiega Cacace: «Nella Prima Repubblica, dove non c’era tutta questa copertura mediatica, le esternazioni che esulano dalle prerogative costituzionali erano praticamente inesistenti. Il fattore delle esternazioni è cominciato con Pertini e ha visto un incremento esponenziale nelle presidenze successive. E’ un modo per in- fluire molto di più nel dibattito politico, intervenendo preventivamente per segnalare e suggerire. Le esternazioni possono essere ostative, se tendono a censurare dei comportamenti, e proattive, quando suggeriscono delle decisioni». Pur non travalicando i suoi doveri istituzionali, Napolitano fa dunque sentire sempre la sua voce, costituendo un punto di riferimento per tutti gli italiani. Nonostante la sua età il presidente non rinuncia a nessuno dei suoi appuntamenti nazionali e internazionali, mantenendo una lucidità invidiabile e dando così sensazione di grande sicurezza. Amato e stimato da tutti. Come Pertini. Reporter nuovo Politica Un convegno a Palazzo San Macuto per ricordare un civil servant che ha fatto la Repubblica Negri, il suggeritore super partes Sia alla Camera che al governo apprezzato dagli opposti schieramenti “L a politica è res severa”. Parola di Guglielmo Negri, che ha fatto di questo monito la linea guida di tutta la sua carriera. Dagli esordi come funzionario parlamentare, fino al ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel biennio ’95 -‘96. A undici anni dalla morte di quest’esponente di spicco dell’amministrazione italiana, Gianfranco Fini lo ha ricordato in un convegno a Palazzo San Macuto, a Roma, alla presenza di alcuni dei suoi ex colleghi - Antonio Maccanico, Lamberto Dini, Luigi Tivelli e Giorgio La Malfa – e di tutta la famiglia Negri. Al termine della cerimonia il presidente della Camera lo ha simbolicamente fregiato con una medaglia d’oro, consegnata alla vedova, per “la fusione di passione politica, fervore intellettuale e operosità amministrativa” che lo ha sempre contraddistinto. Classe 1926, Negri si laurea prima in Legge e poi in Scienze politiche. Quando poco più che venticinquenne approda a Montecitorio, era già specializzato ad Harvard e aveva collaborato con Adriano Olivetti. Il modello a cui fece sempre riferimento fu Gaetano Mosca, padre dell’elitarismo e studioso del funzionamento delle istituzioni. Fondamentali sono state anche le frequentazioni americane con l’intellettuale antifascista Gaetano Salvemini. Gli studi oltreoceano contaminarono totalmente il suo impegno nella res pubblica, melting pot delle espe- RICORDO Un momento del convegno in memoria di Guglielmo Negri, a Palazzo San Macuto. Da sinistra Luigi Tivelli, Lamberto Dini, il presidente della Camera Gianfranco Fini, Antonio Maccanico e Giorgio La Malfa rienze giovani nel partito d’Azione e del liberalismo made in Usa. Fu uno dei fautori del “partitismo”, oggi ancora incompiuto. Dagli scranni del parlamento Negri si occupa di re- gistica, la tecnica per la stesura delle leggi che considerava trascurata nel nostro paese. “Guglielmo delineò il profilo ideale del funzionario parlamentare – racconta Maccanico -. L’ho conosciuto a metà de- gli anni ’50 quando l’ho accolto alla Camera come vincitore del concorso per funzionari parlamentari. Fu chiaro da subito che era diverso dagli altri per la sua vivace curiosità intellettuale”. Il grand commis, che passò circa trent’anni in parlamento, associò sempre all’attività pubblica altre esperienze culturali e professionali. Fu docente universitario e presidente della scuola superiore per la Pubblica Ammi- DIETRO LE QUINTE: I GRAND COMMIS Lavorano dietro le quinte, tessendo le fila della politica italiana. Ma sono poco conosciuti all’opinione pubblica, perché il loro ruolo è quello di suggeritori al servizio delle “star istituzionali”. Da Berlusconi a Napolitano. Si tratta dei grand commis, gli alti funzionari-controllori della corretta gestione della “res pubblica”, che hanno il compito di “fabbricare” le proposte dei leader. Gli “uomini” del Quirinale sono saliti alla ribalta delle cronache pochi giorni fa, quando il premier li ha definiti “pignoli”, dal momento che avrebbero rispedito troppo spesso i disegni di legge al mittente. Il responsabile morale della squadra del presidente è Gaetano Gifuni, l’indimenticabile braccio destro di due Capi dello Stato come Scal- Dipende da loro la fabbrica delle decisioni faro e Ciampi. Uscito dalla prima linea, è diventato, oggi, con Napolitano segretario generale onorario. Un ruolo più appartato, anche se solo apparentemente, dal momento che il suo compito è quello di fornire consigli nei momenti più delicati, dalla riforma della Giustizia all’emergenza Lampedusa. Il “Prudenziano”, questo il suo nome di battaglia, rappresenta l’archivio pulsante di una materia specifica come i precedenti giuridici e di principio, che nessun computer è in grado di consultare meglio di lui. Tra i “signor No” troviamo anche Donato Marra, segretario generale e braccio destro di Napolitano, Arrigo Levi, consulente presidenziale, Loris D’Ambrosio, magistrato al vertice del ministero della Giustizia e Giuseppe Fotia, consigliere per gli affari finanziari. A fare da contraltare nei palazzi del governo ci pensano Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri e Paolo Peluffo, consulente del premier ed ex uomo di fiducia di Ciampi. Quella tra il Quirinale e Palazzo Chigi è, dunque, una battaglia all’ultimo “suggerimento”. Sotto la regia attenta degli immancabili grand commis. nistrazione. Ma è negli anni ’90 che emergono le sue qualità politiche, quando si trasferisce da Montecitorio a Palazzo Chigi, a sostegno del neonato governo Dini. “È stato l’allenatore parlamentare della squadra tecnica – afferma Luigi Tivelli, all’epoca suo braccio destro -. Davanti al suo ufficio c’era, tutti i giorni, una fila lunghissima per chiedere consiglio. E alle persone che riceveva dava l’illusione di essere alla pari, nonostante la sua indubbia statura intellettuale”. In quegli anni venne alla luce tutta la sua capacità diplomatica nell’intessere rapporti con l’opposizione. Ogni due settimane appuntamento immancabile era l’andare a messa con Gianni Letta, per evitare che il centrodestra si allontanasse troppo dal governo che Negri considerava di “coesione nazionale”. Nel 1995 il grand commis viene nominato presidente del Partito Repubblicano, “ma questa carica non influì mai sul suo equilibrio e rigore professionale”, afferma La Malfa. Negri vive con grande fervore anche l’avventura del governo Maccanico che avrebbe dovuto segnare la transizione guidata alla seconda Repubblica. E definisce “basso impero” il passaggio incompiuto. “Per essere un bravo politico devi essere uno storico di seconda categoria”, diceva. Proprio lui che riuscì a coniugare così bene la figura di studioso, civil servant e uomo di parte. Sempre, però, al servizio delle istituzioni. Bertoloni Meli parla dell’evoluzione storica degli alti funzionari parlamentari «D ove esiste uno Stato che funziona c’è sempre un gran commis che ne conosce a fondo gli ingranaggi. Ciò che non è tenuto a fare il politico. Si può dire che i politici passano mentre i gran commis restano». A sostenerlo, Nino Bertoloni Meli, giornalista parlamentare del Messaggero, che ha parlato a Reporter Nuovo delle mansioni dei “suggeritori”. Figure indispensabili in un paese democratico. Bertoloni Meli, qual è il ruolo dei grand commis? «Gli alti funzionari hanno il compito di servire lo Stato e proporre soluzioni ai problemi posti dal politico o dal dirigente di turno. Il grand commis, Reporter nuovo Ora sono nello staff del Quirinale però, non è sempre uguale a sé stesso. Da qualche decennio a questa parte ci sono stati due tipi di evoluzione. Il primo è quello del grand commis che diventa politico. E’ il caso dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, che esordì come sottosegretario dei governi Craxi. C’è stata, poi, Linda Lanzillotta, un’alta funzionaria della Camera, diventata ministro degli Affari regionali con Prodi. Il secondo tipo di evoluzione è legato al nome di Mauro Masi, l’attuale direttore generale della Rai, un tempo alto funzionario a Palazzo Chi- gi. Questa evoluzione è più consona con l’attuale fase del paese, caratterizzata dalla politica-spettacolo». Quali sono i metodi di selezione? «Gugliemo Negri, che fu anche un mio collega al Messaggero, mi raccontava di concorsi molto rigidi per la selezione dei funzionari della Camera. Non solo dal punto di vista degli esami, ma anche delle informazioni richieste. La commissione si informava dai carabinieri sulla famiglia di provenienza dei candidati. C’era un orgoglio della selezione, perché si doveva formare una sorta di casta al di sopra di ogni sospetto. Oggi i metodi non sono più così rigidi. In parlamento si entra ancora per concorso, ma non c’è più il vaglio delle autorità». La scuola superiore della Pubblica Amministrazione ha ancora un ruolo nella selezione? «Il ruolo ce l’ha, ma il problema è il dopo. Quegli studi così severi sembrano quasi Pagina a cura di Emiliana Costa sprecati per il lavoro che poi i neo funzionari andranno a compiere. Le mansioni, infatti, non sono più quelle di prima, dal momento che le due Camere sono state esautorate dal loro ruolo e il potere si è trasferito al governo. Sono tanti i suggeritori che hanno traslocato a Palzzo Chigi per andare a lavorare nella squadra di un ministro». Chi sono oggi i “Gugliemo Negri”? «Fino a qualche anno fa c’era Gaetano Gifuni, esponente di punta del Quirinale, oggi segretario generale ono- rario. Ma sono ancora gli uomini di Napolitano a rappresentare i funzionari più in vista del nostro paese, a partire da Donato Marra. Si tratta di tutti ex segretari della Camera. Lo staff del presidente è noto per le frequenti battaglie con Palazzo Chigi a suon di leggi rispedite in parlamento». Che valore ha il loro lavoro di regia? «Oggi i gran commis svolgono un ruolo di supplenza superiore. Con il trasloco a Palazzo Chigi e al Quirinale hanno assunto maggior potere rispetto al passato e segnalano un cambiamento della costituzione di fatto del paese. Dal momento che il parlamento non è più al centro delle istituzioni». 1 Aprile 2011 3 Economia Il Paese non ce la fa. Cause del blocco e strumenti per superarlo. Intervista al docente Luiss È possibile far crescere quest’Italia Pietro Reichlin: la soluzione sta nel coniugare flessibilità e sicurezza L’ Italia non cresce. La disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi e la precarizzazione spinge nel limbo migliaia di giovani che non vedono via d’uscita ai contratti atipici. Il mercato del lavoro è poco flessibile e caratterizzato da un dualismo strutturale che impedisce lo sviluppo del Paese. Una situazione che, forse, potrebbe essere superata grazie a un nuovo modello sociale basato sulla flexicurity, ossia sul coniugare flessibilità e sicurezza. Ne parliamo con Pietro Reichlin, docente di economia alla Luiss, autore di un approfondito intervento su Il Sole 24 Ore del 27 marzo scorso. Professor Reichlin, qual è lo stato del mercato del lavoro italiano? «In Italia c’è un forte dualismo. I contratti tipici offrono delle garanzie sui rischi d’impiego piuttosto elevati, a fronte di un costo del lavoro molto alto. In sostanza, è molto difficile licenziare. Per le nuove assunzioni, invece, le imprese tendono a privilegiare i contratti atipici (a termine, co.co.pro, interinali), scaricando così i costi impliciti dei contratti normali su quelli atipici. In questo modo l’accesso al mercato del lavoro per i giovani avviene in maniera sproporzionata e i neoassunti, in momenti di crisi, sono i primi a perdere il posto». PRECARIETÀ Il difficile problema di trovare spazio per la crescita e lavoro per i giovani in una vignetta di Uber La flexicurity può essere una soluzione? «La filosofia della flexicurity implica uno scambio: dare alle imprese maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, quindi più facilità di licenziamento, però in cambio il lavoratore viene protetto sul lato dell’assicurazione contro la perdita dell’impiego. Invece di proteggere il posto di lavoro, come avviene oggi, si protegge la persona dal rischio inevitabile dovuto all’attività economica». Quali sono gli strumenti che possono essere applicati nel mercato del lavoro italiano? «In Senato è stato depositato un disegno di legge che introduce un contratto “di inserimento” a tempo indeterminato per i neoassunti che non implica la verifica giudiziale dei licenziamenti per motivi economici che oggi esiste per le imprese mediograndi (sopra i 15 dipendenti). Per i primi tre anni l’impresa può licenziare il lavoratore semplicemente con una compensazione monetaria, quindi c’è una forma di assicurazione sull’impiego che però è meno costosa. Passati i tre anni il contratto si uniforma alla legislazione vigente. A questo poi si dovrebbe aggiungere un aumento dei contributi da pagare sui contratti atipici». Il 7 marzo scorso il ministero del Lavoro e le parti sociali hanno firmato un accordo sulle misure a sostegno delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro per so- Bocciata l’austerity del premier Socrates, il salvataggio Ue è sempre più vicino Lisbona, la crisi è come un fado I l Portogallo è attanagliato da una doppia crisi, economica e politica allo stesso tempo, che può mettere a dura prova la tenuta del Paese. E dell’Unione europea. Senza governo, con un deficit pubblico in crescita e l’economia ancora in recessione, il Portogallo è stato a un passo da dover chieder un aiuto finanziario all’Europa per salvarsi. Ma il ciclone non è ancora passato. E a Lisbona risuona un triste fado. Proprio come Grecia e Irlanda, in questi giorni il Paese si è visto più che mai esposto al rischio di dover ricorrere a un salvataggio Ue-Fmi per rimborsare i titoli del debito in scadenza. “Il Portogallo non ha bisogno di aiuto”, ha dichiarato l’ex premier portoghese Socrates, negando il ricorso al fondo salva-stati. Le deludenti performance economiche e la crisi politica, tuttavia, pongono il problema di come il Tesoro affronterà le prossime scadenze del debito pubblico. Dai primi calcoli, per finan- 4 1 Aprile 2011 ziarsi per i prossimi tre anni il Portogallo potrebbe aver bisogno di una cifra valutata fra i 60 e gli 80 miliardi di euro. Il primo segnale della crisi si è avuto il 16 marzo, quando l’agenzia di rating Moody’s ha declassato il Paese di due gradini (da “A1” ad “A3) a causa delle deboli prospettive di passato il piano di austerity concordato con l’Europa. Timori che si sono avverati. Il Parlamento portoghese ha bocciato il piano voluto dal governo socialista, che mirava a tagliare di 7,3 punti percentuali il deficit/Pil, portandolo al 4,6 per cento alla fine dell’anno per poi rientrare nei parametri di Per i prossimi tre anni il Portogallo potrebbe aver bisogno di una cifra valutata fra i 60 e gli 80 miliardi di euro crescita. Sui mercati, per reazione, si è allargato lo spread tra i titoli di stato decennali di Lisbona e quelli tedeschi e le aste dei titoli portoghesi si sono caratterizzate da tassi di interesse in rialzo e domanda sempre più in calo. Una situazione che lo stesso ministro delle Finanze Fernando Texeira Dos Santos ha giudicato “insostenibile”, se non fosse Maastricht a fine 2012. E il premier lusitano Josè Socrates si è dimesso, lasciando il Paese in un vuoto politico. Secondo la stampa di Lisbona, il capo dello Stato Anibal Cavaco Silva, dopo le consultazioni con i partiti, dovrebbe annunciare a breve lo scioglimento del Parlamento e la convocazione per fine maggio, o inizi di giugno, le elezioni politiche an- Pagina a cura di Giulia Cerasi ticipate. Le agenzie di rating non hanno risposto bene alla mancata approvazione del piano di risanamento. Standard & Poor’s ha tagliato il rating di Lisbona da “BBB” a “BBB-”, il grado più basso della categoria dei rischi affidabili (caratterizzati da “bassa probabilità di default”): al di sotto c’è il livello junk (spazzatura), che appartiene ai titoli non consigliabili agli investitori. Le notizie provenienti dalla Banca centrale, intanto, non migliorano la situazione, prevedendo per il 2011 una dura recessione. Il Banco do Portugal, infatti, ha stimato in 1,4 per cento la contrazione del Pil per quest’anno, unita a un’inflazione che dovrebbe raggiungere un picco del 32,6 per cento. E se il Brasile, con il presidente Dilma Rousseff, ha teso la mano al Portogallo promettendo aiuto, il timore è che la crisi economica e politica portoghese dilaghi nel resto di Eurolandia. Spagna in testa. stenere la crescita dell’occupazione, che prevede misure come il parttime, i permessi e i congedi parentali. Che ne pensa? «L’idea di offrire maggiori garanzie per i contratti atipici non risolve il problema: si dovrebbe uniformare la tipologia di contratti offerti ma allo stesso tempo rendere più flessibile il mercato. Questo si può fare solo se gli ammortizzatori sociali sono universalizzati». In che modo l’economia italiana può tornare a crescere? «Intanto bisogna rafforzare il sistema formativo perché la forza lavoro in Italia è molto meno istruita rispetto agli altri paesi. Questo significa migliorare la qualità dell’istruzione, ma è anche legato al dualismo del mercato del lavoro: in Italia il premio che i lavoratori ricevono da una maggiore qualificazione, cioè il di più di salario che si ottiene con una laurea in tasca, è inferiore che negli altri paesi. L’altra questione è il nanismo delle nostre imprese, cioè il fatto che, nonostante siano molto produttive, le aziende italiane rimangono piccole e a conduzione familiare. E per farle crescere bisogna diminuire i costi di assunzione e di licenziamento. In una parola, serve un mercato del lavoro più flessibile». LE AGENZIE DI RATING L’affidabilità degli Stati è legata al loro verdetto Dai loro giudizi dipendono i destini di banche, aziende e perfino Stati. Sono le cosiddette “tre sorelle”, le agenzie di rating americane Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s. Il loro compito è valutare quanto un soggetto può definirsi “rischioso” e quanto sarà produttivo in futuro, se gli venisse concesso un credito o qualora dovesse ripagare un debito contratto. Il loro giudizio vale come una sentenza, ma in molti ne mettono in dubbio efficacia e imparzialità. Da ultima l’Unione europea che, dopo la crisi portoghese, ha proposto rendere le agenzie di rating legalmente responsabili in caso di giudizio sbagliato. Nate per offrire ai detentori di titoli di credito giudizi sul comportamento dei debitori, oggi le società di rating non sono pagate dai committenti che vogliano emettere un’obbligazione o attingere a un credito. ■ Moody’s - Fondata nel 1909 da John Moody, l’agenzia ha base a New York. La Moody’s Corporation è la società madre di Moody’s Investors Service, che fornisce rating del credito e di ricerca riguardo agli strumenti di debito e titoli, e Moody’s Analytics, che si occupa di consulenza e ricerca per l’analisi del credito e gestione del rischio finanziario. ■ Standard & Poor’s - La Standard and Poor’s Corporation (S&P) è nota per i suoi indici di borsa: S&P 500 per gli Stati Uniti e S&P 200 per l’Australia. Nel 2006 la sua quota di mercato era del 40 per cento, contro il 39 per cento di Moody’s e il 16 per cento di Fitch Ratings. ■ Fitch Ratings - Con due quartier generali, a New York City e a Londra, l’agenzia Fitch Ratings è stata fondata da John Knowles Fitch nel 1913. Fitch è la più piccola delle tre sorelle e, frequentemente, è l’ago della bilancia quando le altre due agenzie hanno valutazioni simili, ma non uguali. Reporter nuovo Cronaca Libera informazione in mano alle aziende e processi compromessi da tempi sempre più lunghi Italia, presunzione d’incoscienza Le disfunzioni del sistema italiano al vaglio di giuristi e giornalisti Raffaele d’Ettorre Giuristi e giornalisti allo stesso tavolo per un faccia a faccia dall’impronta internazionale: Italia e Svizzera pesate in misura di libertà d’informazione ed efficienza del sistema giudiziario. “Diritto di cronaca vs presunzione d’innocenza”: questo il tema della coraggiosa tavola rotonda tenutasi presso l’Istituto Svizzero di Roma. Il convegno, a cura di Michele Luminati, ha visto l’intervento di ospiti di notevole caratura: fra gli altri, Raffaele Fiengo del Corriere della Sera, André Marty dell’emittente elvetica Schweizer Fernsehen e Vincenzo Zeno-Zencovich, docente ordinario a Roma Tre. A turno sono intervenuti per sciogliere un nodo che imbriglia società civile, diritto e giornalismo nella stessa complicata e attualissima trama: come conciliare diritto di cronaca e libertà d’espressione con il diritto alla privacy e alla protezione dell’onore? «Di certo l’informazione giudiziaria contribuisce al controllo sociale di un processo in corso, ma lo stesso rischia di essere compromesso da un’informazione distorta». Così Begüm Bulak, giovane assistente in Diritto penale all’Università LO SCOOP La redazione del Washington Post, con Dustin Hoffman e Robert Redford nei panni dei due cronisti che svelarono il Watergate di Ginevra, inquadra il delicato problema del bilanciamento fra diritto del lettore ad essere informato e la riservatezza necessaria a proteggere l’onore degli imputati. La tavola rotonda, nelle battute iniziali, ha un’impronta fortemente accademica, e non poteva essere altrimenti. Bastano però un paio d’interventi infuocati a smuovere le acque e a far comprendere ai presenti il vero motivo del dibattito, le ragioni ultime per le quali il convegno ha avuto la sua ragion d’essere: le disfunzioni giuridico-informative del sistema italiano. «Io affermo questo sapendo di dire una cosa grave ma guardate che il Corriere della Sera, che può sembrare nella carta stampata un giornale indipendente, in realtà non lo è. Ha una proprietà azionistica che va da Mediobanca alla Fiat, da Della Valle a Banca Intesa. E queste quote contano, eccome se contano». È la stoccata del pugnace Raffaele Fiengo, che al Corsera ha lavorato per oltre vent’anni, curando la Terza pagina e diversi supplementi. «Se andiamo a vedere la struttura informativa italiana», aggiunge Fiengo, «è tutto in mano a industrie, banche, interessi finanziari e partitici». Difficile situazione, insomma, dal punto di vista della libertà d’informazione. E se il sistema informativo italiano è sbilanciato (o quantomeno pesantemente controllato), di quanta e quale salute gode quello giudiziario? «In Italia la magistratura è sicuramente molto più indipendente che in Svizzera, dove i magistrati vengono eletti dal Governo». A parlare è Nicos Tzermias, da anni corrispondente per il Neue Zürcher Zeitung, la principale testata svizzera. «Il problema però è che i processi contro persone pubbliche si svolgono in Italia, molto più spesso che in Svizzera e in altri paesi democratici, sui mass media piuttosto che davanti al giudice. E questo circo mediatico-giudiziario può certamente compromettere il principio della presunzione d’innocenza». «Questa modalità di “giustizia”», prosegue, «fa in realtà molto comodo ai politici in generale e a Berlusconi in particolare: così lui può accusare i magistrati di faziosità e giustificare con maggiore agilità molte leggi ad personam». Questo procedimento, spiega Tzermias, influenza e dilata in modo innaturale i tempi della giustizia, creando processi infiniti. E più il processo si rilassa cronologicamente, più il principio della presunzione d’innocenza tende a sbiadire nella coscienza collettiva. «In Italia», conclude laconicamente, «la maggioranza dei processi è destinata alla prescrizione». LA BATTAGLIA Il libro dell'ematologo Franco Mandelli il cui ricavato sarà destinato all'associazione contro i tumori del sangue. A fianco: le tradizionali uova pasquali per raccogliere fondi per l'Ail Andrea Andrei «Il volontariato aiuta molto di più chi lo fa che chi lo riceve. Difficilmente si riesce a comprendere, per chi non lo prova, quanto si ottenga in cambio». Ecco il “segreto” che ha spinto ventimila persone a unirsi alla causa dell’Ail, l’Associazione Italiana contro le Leucemie Linfomi e mieloma. A svelarlo è Fabrizio Paladini, direttore responsabile di “Destinazione Domani”, quadrimestrale nazionale dell’associazione benefica. Questo “esercito” di volontari scenderà in piazza dall’8 al 10 Aprile, per far sentire la voce di centinaia di malati di cancro che anche grazie all’operato dell’Ail continuano a sperare. 3800 stand sparsi in tutta Italia, dove sarà possibile acquistare le tradizionali uova di Pasqua che da anni rappresentano un simbolo della lotta contro i tumori del sangue. «Non riceviamo alcun finanziamento da parte dello Stato», racconta Paladini, «per Reporter nuovo Fabrizio Paladini ci parla delle finalità dell’Ail e della campagna di Pasqua Quelle uova che regalano la vita cui ci sostentiamo con le donazioni. Ogni anno teniamo due grandi manifestazioni: la vendita delle uova di Pasqua e delle stelle di Natale. Inoltre, col contributo di Rai e Mediaset, organizziamo delle maratone televisive». Che progetti vengono finanziati con il ricavato di queste manifestazioni? «Principalmente la ricerca scientifica e l’assistenza ai malati. Una quota viene dedicata alla formazione professionale di medici e paramedici, con borse di studio, strumenti di ricerca di laboratorio e macchinari. Il resto lo utilizziamo per finanziare la costruzione, la realizzazione e la gestione di case di accoglienza che possono essere utilizzate dai parenti dei malati per restare accanto ai propri cari. Finanziamo anche l’assistenza domiciliare, per permettere ai malati di restare nel proprio ambiente familiare pur avendo le stesse cure che riceverebbero in ospedale». Parliamo di numeri. Quanto riuscite a ricavare grazie agli eventi benefici? «Sono dati che variano di anno in anno. Quest’anno la crisi si è fatta sentire, e nelle grandi manifestazioni abbiamo registrato un lieve calo delle donazioni. Ma siamo intorno al milione di euro ogni volta». Come vengono reclutati i volontari? «Ultimamente c’è stata un’enorme richiesta di collaborazioni. Spesso si tratta di parenti, amici e familiari di persone colpite dalla malattia, altre volte sono gli stessi malati, che si prodigano per aiu- tare chi si trova nella loro stessa situazione. Tantissimi, invece, non appartengono alle due categorie precedenti. Si tratta specialmente di giovani. Insomma, al contrario dell’immaginario collettivo, il volontario più diffuso non è più l’anzianotta e religiosa signora, ma persone di tutte le età. Come si diventa volontari dell’Ail? «Bisogna assicurarsi che la propria voglia di fare volontariato non sia solo la spinta di un momento. È un’attività che dà gratificazione ma che al contempo è molto onerosa. Ogni sforzo, poi, è ben accetto. Basta segnalarsi sul sito dell’associazione (www.ail.it), o recarsi in una delle nostre ottanta sezioni, sparse in tutto il territorio nazionale. Se oggi l’Ail è una delle realtà benefiche italiane più importanti, lo si deve anche all’opera, instancabile, del professor Franco Mandelli, che oggi è il presidente dell’associazione. Mandelli ha recentemente pubblicato un libro, dal titolo “Ho sognato un mondo senza cancro”, edito da Sperling & Kupfer, il cui ricavato delle vendite è devoluto interamente all’Ail, e in cui il professore ripercorre la sua vita e le proprie esperienze, maturate in tanti anni spesi nella lotta alle malattie del sangue. 1 Aprile 2011 5 Cronaca Per far fronte al boom di clienti in arrivo dall’Europa dell’est, commesse madrelingua In Via Veneto si compra in russo La testimonianza di Milana che fa la vendeuse d’alta moda in una boutique Roberta Casa In via Veneto, a due passi dall’Harry’s bar, due donne spingono la porta di un negozio di scarpe, intente a gettare l’ultimo sguardo alla vetrina. Sotto la maniglia, accanto a “push”, la stessa espressione in cirillico fa quasi dubitare che ci si trovi in Italia. All’interno, vengono accolte da commesse cordiali e affabili, che rispondono alle clienti nella loro lingua: sono le giovani russe reclutate dai negozi più “in” della capitale. Scene all’ordine del giorno nelle vie italiane della dolce vita, che negli ultimi anni hanno visto quadruplicata l’affluenza di turisti russi verso la capitale, attratti dal lusso e dai grandi stilisti. Milana viene da Mosca e lavora già da due anni in una boutique del centro. Maneggia i drappeggi d’alta moda italiana con la cura di un chirurgo, in modo deciso. Ne racconta la storia, mostra la stoffa pregiatissima e le rifiniture cucite ad arte alle connazionali ben vestite che affollano il negozio. «Quando una mia parente mi ha proposto di venire qui in Italia, ho rifiutato», ammette la giovane commessa, laureata in Filosofia all’Università statale di Mosca, frequentata anche da Michail Gorbaciov, ultimo segretario del Partito Comunista sovietico. Poi le pressioni dei genitori e la voglia di conoscere il Belpaese sono state determinanti. «In fondo, è un po’ come essere a casa: par- SHOPPING Una ragazza russa sorridente dopo aver “svaligiato” un negozio. A fianco, menù in cirillico in Via Veneto lo russo tutti i giorni, la gente che viene al negozio è talmente felice di poter parlare la nostra lingua anche qui in Italia che mi racconta cosa succede nel nostro paese, mi chiede come si vive a Roma, e alla fine compra più facil- mente ciò che vendiamo, con il sorriso sulle labbra anche se in realtà costa tutto tantissimo». Tra i negozi di Roma nelle vie dell’alta moda, scorgere volti dell’Est non è diffici- le: affascinanti signore bionde si lasciano conquistare dalle vetrine accompagnate da mariti interessati a guanti e sigari. E con l’arrivo di questi nuovi “spendaccioni” anche bar e ristoranti hanno sosti- tuito gli ormai vecchi ideogrammi cinesi con nuovissimi caratteri cirillici. «Abbiamo dovuto cercare collaboratori russi per rispondere alle esigenze di questa nuova clientela», racconta Gianni, MOSCA COME VIA CONDOTTI C’ è chi afferma che il gusto dei russi per il lusso venga da lontano, sia parte integrante della genetica di questo popolo discendente diretto dell’impero zarista. Come dimenticare, ad esempio, l’uovo creato dal gioielliere Carl Fabergé per la zarina Alessandra, moglie di Nicola II, oggi uno degli oggetti più famosi nel mondo? La fine dell’era comunista e la nascita di una nuova classe benestante ha dato il via a una nuova era di sfarzo. E se fino a qualche anno fa i ricchi moscoviti affamati di lusso dovevano raggiungere Milano, Roma, New York o Parigi, ora possono soddisfare il loro appetito al Gum, l’enorme centro commerciale d’alta moda che dà sulla Piazza Rossa. Ironia della sorte, sono Le vetrine del lusso illuminano il mausoleo di Lenin proprio le luci delle vetrine capitaliste di Ferragamo, Moschino, Pollini, Max Mara, Marina Rinaldi, I Pinco Pallino e La Perla a illuminare il mausoleo di Lenin, padre di quella rivoluzione che trasformò la Russia. E i vecchi nostalgici che ancora credono nell’altra economia, quella comunista, denunciano l’ostentazione quasi maniacale della ricchezza che la loro capitale sta vivendo, con prezzi inaccessibili e bar troppo costosi an- che per un caffè. Le vecchiette che vendevano calze di lana, cetriolini in salamoia e matrioske all’angolo della Piazza Rossa, hanno dovuto lasciare il posto a bodyguard e autisti che aspettano pazientemente, davanti a lucide Bentley e Mercedes, le loro facoltose padrone impegnate a fare shopping. I ricchi russi si dedicano ai beni di lusso con trasporto selvaggio, quasi fosse un rimedio per dimenticare gli anni dei prodotti scadenti e tutti uguali: la griffe è ora simbolo di benessere in una società ossessionata dai soldi. La vecchia Mosca sembra essere ormai sparita sotto il peso inarrestabile del dio denaro, che tutto compra e tutto trasforma. R. C. gestore di un elegante caffè in via Veneto. I russi sembrano non poter fare a meno dell’Italia e dei suoi manufatti, non rinunciano al buon cibo e ai prodotti gastronomici nostrani. «Prima la miglior clientela era costituita dai tedeschi, educati e generosi con la mance – continua Gianni – la felicità di ogni cameriere. Oggi invece dalla Germania vengono in pochi, ma c’è un continuo via vai di russi. Ed è per questo che ho deciso di assumere due ragazzi dell’Est: conoscono i loro connazionali, sanno come farli sorridere e metterli a loro agio». Una clientela raffinata, dai gusti delicati, che ama spendere per il proprio piacere e che adora l’Italia. Ecco perché sempre più spesso nei negozi glamour della capitale si vedono commesse bionde dagli occhi vitrei, abituate a solleticare l’interesse e il portafoglio dei connazionali russi. «Prima non sapevo neanche chi fossero Gucci o Prada», racconta Elena, sulla cinquantina, da oltre vent’anni in Italia. «Vivere sotto il comunismo non è stato facile, ma quando ho scoperto il resto del mondo sono rinata. Ho ricominciato la mia vita qui in Italia. Ho scoperto la moda, le scarpe, il buon cibo, le opere d’arte, e sono rimasta estasiata. Voi italiani riuscite a trasformare tutto in arte, anche un pezzo di stoffa, e noi russi non possiamo che esserne affascinati». Proposta di legge in un convegno a Roma: legalità e integrazione gli strumenti Come far uscire i cinesi dall’ombra Lorenzo d’Albergo L’INCUBO Campi di concentramento cinesi, dove si lavora fino a 18 ore al giorno. Il rischio è un bis in Italia 6 1 Aprile 2011 Divieto di produzione, importazione e commercio di merci prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata e in schiavitù. Sono questi i contenuti della proposta di legge presentata all’Acquario romano di piazza Fanti, nel cuore dell’Esquilino, in occasione del convegno “Ombre cinesi sull’economia italiana”. «Metteremo le mani nei portafogli dei cinesi con perquisizioni e sequestri per colpirne l’interesse principale», ha spiegato l’onorevole Paga- no del Popolo della libertà, il promotore della proposta. «È una vicenda che esce dagli schemi politici e che va affrontata per ristabilire la legalità tramite l’integrazione», ha ribadito il deputato Gabriele Cimadoro dell’Italia dei valori. Tra i firmatari, infatti, ci sono parlamentari di Pdl, Pd, Lega, Idv, Fli e Api. Uniti contro la minaccia del dragone e del commercio abusivo, che, secondo Ugo Cassone, presidente della Commissione commercio di Roma capitale, «contravviene alle norme comunitarie, sfrut- tando i lavoratori e impiegando materiali dannosi per la salute degli operai e dei consumatori». «I cinesi - ha raccontato l’assessore all’immigrazione del Comune di Prato, Giorgio Silli - si organizzano in distretti paralleli dove la parola d’ordine è illegalità». Vere città nelle città, con scuole non riconosciute, cliniche abusive e farmacie dove si vendono medicinali di provenienza e composizione non controllata. Agglomerati urbani che Silli ha avuto l’occasione di visitare anche in al- tre grandi città: «Parigi, Barcellona, Amsterdam, Rotterdam. Le chinatown europee sono strutturate tutte allo stesso modo, come se ci fosse una regia unica dietro alle modalità di immigrazione cinese, che raramente porta benefici ai paesi ospitanti. Ogni giorno da Prato partono bonifici verso la Cina per quasi due milioni di euro, guadagnati in Italia, che non vengono rispesi qui». A Roma, come si legge in un rapporto sugli stranieri nella capitale a cura dell’Ufficio di statistica e censimento del Comune, i residenti cinesi sono oltre diecimila. Molti di più i clandestini che lavorano fino a 18 ore al giorno in condizioni disumane. La maggior parte vive nel I, VI e VIII Municipio, dove sono concentrate le attività commerciali e produttive del dragone romano. Che, nel frattempo, mira a espandere la sua influenza sulla città. La centralissima Via dei Coronari, Viale Marconi e Via Appia hanno già subito la prima ondata di colonizzazione cinese. Il rischio è quello che le amministrazioni locali si trovino a combattere contro la versione italiana dei laogai, i campi di concentramento e sfruttamento del lavoro cinesi. Reporter nuovo Costume & Società Accattivante dibattito sui molti significati di un gesto, tra filosofia, semiotica, etnologia e storia Si fa presto a dire (e fare) corna Sul libro di Gian Piero Jacobelli, discussione tra intellettuali di prestigio Andrea Andrei C’era il sociologo Alberto Abruzzese, c’era l’antropologo Antonino Colajanni, c’era l’economista Massimo Lo Cicero e il giornalista Bruno Manfellotto e, naturalmente, il filosofo Gian Piero Jacobelli. Tutti riuniti per fare il punto su una questione da prendere letteralmente per le corna. Come trent’anni fa. Sì, perché l’incontro di mercoledì 23 marzo, nella sala convegni del Monte dei Paschi di Siena in via Minghetti a Roma, moderato da Sasà Toriello della Fondazione Luigi Einaudi, è stato in realtà un ritorno, il secondo atto di una discussione nata molto prima, in riva al mare. Una discussione fra ragazzi, appena usciti dall’università ma con davanti delle prospettive radiose. Insieme a Jacobelli e a Colajanni, quel giorno, c’era anche un “certo” Giorgio Raimondo Cardona, oggi scomparso, che più tardi sarebbe diventato un linguista di fama internazionale. Il fulcro del dibattito era uno dei gesti più comuni e utilizzati dall’uomo in tutte le epoche: le corna. O, come le chiama Jacobelli nel suo nuovo libro, “La corna”, sottolineando, in questo modo, il gesto più che la molteplicità di significati che da esso derivano. ALLUSIONE Ne “I coniugi Arnolfini” di Jan van Eyck, sono molti i significati simbolici che rimandano al concetto di “corna” come tradimento. A fianco, il libro di Gian Piero Jacobelli Leggendo il libro e ascoltando i relatori, ci si rende presto conto di quanto la mano cornuta sia utilizzata in maniera spesso inconscia, o addirittura inconsapevole. Che sia un qualcosa che si riferisca al mondo animale, è facilmente intuibile. Rimane quindi da capire quali comportamenti, tipici delle bestie, si vogliono intendere ogni volta che si esibiscono l’indice e il mignolo. Di sicuro è preponderante il concetto di attacco, di aggressività, perciò anche lo scontro per stabilire chi debba essere il maschio dominante all’interno del branco. Di qui, forse, la proprietà della donna, e il conseguente significato comune di “cornuto”. Ma, ha ricordato Colajanni, «il cornuto non è colui che non è riuscito a mantenere la proprietà della propria donna, ma colui che non ha avuto scrupoli nel venire allo scontro con un concorrente». Ecco dunque che il gesto delle corna (e quindi “la” corna) non prende un significato passivo, ma, al contrario, attivo. Un concetto sottolineato anche da Lo Cicero: «Con le corna io non ti tolgo qual- cosa, te la do». Anche perché, ha ricordato giustamente Colajanni, «non si dà mai del cornuto a chi è cornuto veramente…». Un gesto, quello della mano cornuta, la cui memoria si perde nei secoli, e che nasconde un rapporto di tipo dualistico fra il dare e il togliere, fra la vittoria e la sconfitta. Ma soprattutto, le corna si possono fare verso l’alto o verso il basso. «Nel primo caso si tratta di un insulto, nel secondo caso di uno scongiuro. Quelle verso l’alto sono un segnale fisso, mentre quelle verso il basso sono un gesto secco, aggressivo». Alla sollecitazione di Colajanni, Jacobelli ha risposto spiegando come il gesto, se rivolto verso l’alto, indichi un trofeo, una coppa, mentre, se fatto verso il basso, rappresenti uno scudo. Trent’anni fa, quando si tenne la discussione che ha ispirato il libro, le corna non erano però certo sdoganate come adesso, quando anche i protagonisti della politica non si fanno troppi problemi a esibirle. A notarlo è stato Manfellotto, facendo l’ormai celebre esempio di Silvio Berlusconi (che ha rivolto l’eloquente gesto al ministro spagnolo Josep Piquet), sostenuto anche da Abruzzese, che ha commentato così l’iniziativa del premier: «Berlusconi ha rivolto quel gesto allo Stato, alla famiglia, alla democrazia, esibendo il suo libero arbitrio, mettendo in mostra il suo spirito libero e inadatto a quella situazione. A suo modo, si potrebbe dire che Berlusconi sia un maestro di decostruzionismo…». Manfellotto ha anche ricordato che il presidente del Consiglio, il giorno dell’aggressione da parte di Massimo Tartaglia, portava, nascosto sotto la cravatta, un corno. La notizia, per molti, potrebbe essere tutta qui: fare le corna, forse, non porta così fortuna come si dice. Dopo l’intervento di Franzen a Che tempo che fa, i pareri dei professionisti Quanta “Libertà” ha il traduttore? Lorenzo d’Albergo Jonathan Franzen, l’autore di Libertà e de Le Correzioni, con cui nel 2001 ha vinto il National book award, si siede sulla poltrona degli ospiti di Che tempo che fa. Fabio Fazio lascia allo scrittore e giornalista statunitense il tempo di scaldarsi, prima di porre una domanda inusuale. Che tipo di controllo ha l’autore sulla trasposizione della sua opera all’estero? Franzen ci pensa su e ringrazia la sua traduttrice. Poi, risponde: «Non mi fido dei traduttori che non mi chiedono mai un parere. Quando sono troppo bravi, c’è sempre da sospettare». Una domanda particolare, quella di Fabio Fazio, per un caso altrettanto particolare, secondo Chiara Marmugi, traduttrice della fortunata saga vampiresca di Twilight: «Sono rimasta molto colpita dall’intervista di Franzen. Non capita spesso che gli autori si interessino così tanto della qua- Reporter nuovo lità della traduzione delle loro opere. Nel caso dei best seller è ancora più raro. Avere un contatto diretto con le “figure mitologiche” dell’editoria per ragazzi di norma è difficile. Ma, forse, è meglio: se uno scrittore conosce bene la tua lingua, avrà sempre qualcosa da ridire sul tuo lavoro». na è addirittura più ricca rispetto al testo originale». Una soddisfazione pari a quella avuta con le avventure dei vampiri figli della penna di Stephenie Meyer, anche se, con i volumi per ragazzi, gli addetti al controllo della qualità della traduzione diventano proprio i giovani let- «Spesso gli autori non sono interessati alla qualità della trasposizione. Nel caso dei best seller è ancora più raro» Ci sono, poi, delle eccezioni, come quella di Jonathan Franzen. A Chiara Marmugi, infatti, è capitato di lavorare con la giornalista austriaca Susanne Scholl. «Nel caso di Ragazze della guerra - racconta Chiara - abbiamo tradotto a quattro mani. Susanne mi ha invitato a casa sua, a Vienna, e a farmi sentire al minimo dubbio. L’aiuto della scrittrice è stato molto prezioso. Alla fine, la traduzione italia- tori. «In un certo senso sostituiscono lo scrittore – racconta divertita Chiara -. Sul web i fan analizzano nei minimi particolari la nostra traduzione. Si interessano al lavoro che c’è dietro al volume che finisce in libreria». Un’arte che richiede un’attenzione particolare per il pubblico e, allo stesso tempo, il massimo rispetto per la lingua. «L’italiano è musicale, deve essere gradevole al- l’orecchio. In italiano non si può ripetere la stessa parola per venti volte nella stessa pagina e il nostro compito è quello di riuscire a provocare nel lettore le stesse sensazioni, le stesse reazioni che il lettore anglofono prova quando legge Twilight, senza stravolgere le regole della nostra lingua». Al traduttore, oltre ad una grande passione per la letteratura, si richiede, infatti, talento nello scrivere, tanta pazienza, meticolosità e curiosità. Qualità che vanno sommate a un’ottima conoscenza di almeno due lingue. Senza l’incubo della pagina bianca, il traduttore ha il tempo di svelare la storia che si nasconde dietro ad una teoria scientifica o la giusta resa di un acronimo misterioso. «Il traduttore deve saper rendere fedelmente i modi di dire e tutti quegli elementi che un autore inserisce nei suoi romanzi - spiega Sandra Bertolini, presidente dell’Aiti (Associazione italiana traduttori CHE TRADUTTORE FA Jonathan Franzen a Che tempo che fa e interpreti) -. Deve aiutare il lettore a capire l’opera, traducendone testo, ma anche il contesto in cui è stata prodotta». Padroneggiare la lingua straniera, quindi, non basta. «Bisogna conoscere alla perfezione il mondo e la cultura che stanno dietro all’autore ricorda la traduttrice - anche se non sempre il traduttore è in contatto diretto con lo scrittore». Già, perché le esigenze economiche e le scadenze fissate dagli editori possono valere più di una traduzione di qualità. «Così, non si ha il tempo di comunicare con l’autore e il lavoro si fa più complicato». Eppure, a uno sforzo intellettuale del genere non corrisponde una remunerazione di tipo europeo. In Europa i traduttori ricevono una percentuale per ogni copia venduta, mentre in Italia sono pagati a pagina. Così, come spiega Chiara Marmugi, «con la traduzione di un best seller si copre a stento una rata del mutuo, mentre il collega estero compra due case». 1 Aprile 2011 7 Costume & Società A colloquio con il super esperto Guglielmo Natalini: “L’imperatore, un personaggio da riabilitare” Nerone, ingiustamente perseguitato Non fu lui a incendiare Roma ma la fece ricostruire ancora più bella Raffaele d’Ettorre Nell’immaginario collettivo, Nerone è percepito come un folle sanguinario, piromane e assassino spietato. Ultimamente, tuttavia, sta prendendo piede una corrente revisionista che tenta di riscattare quanto di buono l’imperatore fece in vita, scindendo la verità dalla leggenda. Ce ne parla Guglielmo Natalini, ex assessore alla cultura del comune di Anzio, storico per passione e autore del libro “Nerone oltre la leggenda”. Secondo lei, qual è la chiave di lettura corretta per decifrare oggi la figura di Nerone? «Noi abbiamo il dovere di contestualizzare: gli imperatori romani avevano un’aspettativa di vita molto breve, sempre al centro di intrighi e cospirazioni. In soli 14 anni di governo (anni di assoluta pace), Nerone fu autore di riforme (economiche, politiche ma soprattutto urbanistiche) che mal si sposano con l’immagine di un folle incapace di regnare». Dal punto di vista architettonico, COLPEVOLE L’interpretazione di Ustinov ha compromesso la figura di Nerone particolarmente, si diede molto da fare per migliorare l’impero. «Ha costruito il porto di Anzio, uno dei migliori del Mediterraneo. La Domus Aurea non ha bisogno di presentazioni: un colosso urbanistico, una vera e propria “città nella città”. Aveva poi anche progettato una diga d’acqua interrata che collegasse Ostia con la Campania: un’opera estremamente all’avanguardia, che purtroppo non completò mai». Come mai allora Nerone viene ricordato in maniera così negativa? «Tra saggi, drammi, romanzi e poesie, ci sono circa 150 opere ispirate a Nerone. I film sono 34. Fra questi, Quo Vadis? ha pesato moltissimo. Prima il romanzo e poi il film, hanno dipinto un Nerone sanguinario, folle e dissoluto. Il successo del colossal, poi, ha influito drasticamente sulla percezione collettiva della figura di Nerone. Ultimamente sono spuntate molte ricostruzioni più pacate e accurate, specialmente in tv». I tempi sembrano essere maturi per riscattare questo “imperatore in- compreso”. «È ora di separare la leggenda dalla realtà: Nerone è stato trattato malissimo. Si è trovato al centro di leggende spaventose, è stato identificato addirittura come l’Anticristo». Quanto ha pesato la storiografia di stampo cristiano? «Moltissimo. Certo, Nerone mandò a morire circa 280 cristiani: non pochi, ma rispetto al periodo precedente sicuramente un numero ridotto. E poi, attenzione: non furono condannati perché erano cristiani, ma in virtù degli atti commessi. Molti di loro, all’epoca, erano dei fondamentalisti intransigenti: andavano dicendo che, siccome Roma era la città del peccato, andava distrutta con il fuoco». Chi fu ad appiccare l’incendio? «Sicuramente non è stato Nerone. Gli studi più recenti dimostrano che l’incendio fu casuale, dovuto a fattori ambientali. Lui non era neanche a Roma, e inoltre aveva istituito un corpo di vigili del fuoco di oltre 6000 persone: non ha alcun senso pensare che sia stato lui a dar fuoco alla città». Uno sguardo a produzione e uso di un bene superfluo che per molti è ossessione Profumo di donna, quanto ci costi Non essenza, ma confezione e spot fanno il prezzo Roberta Casa Quando le chiesero: «Cosa indossa a letto?», lei non esitò a rispondere: «Beh, Chanel n°5, ovviamente». Era il 1952 quando la “diva delle dive”, Marilyn Monroe, svelò che per dormire indossava solo due gocce del profumo più famoso ideato da Cocò. Fu poi la volta degli anni Ottanta, che lanciarono sul mercato italiano il famosissimo quanto costosissimo “Giorgio Beverly Hills”, più che un profumo un vero e proprio stile di vita, come recitava lo spot televisivo che ritraeva macchine di lusso, palme, insegne luminose e belle ragazze hollywoodiane. Da sempre, dunque, uomini e donne utilizzano questo mix di alcol, oli essenziali ed eccesso per sottolineare la propria personalità, il proprio stile o i propri gusti. Se ai tempi di Luigi XIV il profumo era utilizzato per coprire odori poco gradevoli (in tutta la sua vita il re parigino fece solo due volte un bagno completo), con il tempo la creazione di un’essenza è diventata vera e propria arte: i 8 1 Aprile 2011 primi profumieri francesi, chiamati “nez”, cercavano di ricreare un’emozione, una sensazione precisa, o un luogo. Scegliere un profumo piuttosto che un altro, poi, è una scelta privata, soggettiva, addirittura intima. I motivi per cui una persona predilige dollari. Un vero e proprio bene di lusso, non accessibile a tutti, sinonimo di benessere e status sociale al pari di vestitini griffati e gioielli preziosi. Ma cos’è che fa crescere così tanto il prezzo di un bene di per sé non costosissimo? Per il mondo del lusso, il packa- Anche tremila dollari per un solo prodotto. Intanto a vendere sono giovani commesse con salari miserevoli un’essenza anziché un’altra sono sconosciuti, spesso sono legati ai ricordi più diversi. Il prezzo dell’uno anziché dell’altro prodotto non influisce quasi mai sulla scelta finale, poiché «le sensazioni non si possono acquistare», come scrive Diana, che su internet ha dedicato un intero blog all’esaltazione della fragranza prediletta. Ma le piccole ampolle di profumo possono costare davvero molto. Nel caso dell’essenza “Floris” prodotta a Londra, una bottiglina di pochi centilitri costa più di tremila ging riveste una grandissima importanza. Oggi è anche la confezione che fa la differenza tra un prodotto e l’altro: il pacchetto che contiene un bene di lusso prelude a quello che sarà il prodotto, e l’acquirente percepisce il valore dell’oggetto già dal suo packaging. Poi interviene la pubblicità, soprattutto per quei prodotti legati a grandi case della moda: i profumi firmati Armani, Dior, Bulgari, Dolce&Gabbana sono reclamizzati all’interno di riviste patinate e in tv, ed è il consumatore spesso a pagarne il conto: il costo delle boccette arriva alle stelle e i prezzi in profumeria fanno concorrenza alle più importanti gioiellerie. Eppure, in questi saloni della fragranza, giovani commesse devono sottostare a salari bassi nonostante i prezzi esorbitanti dei prodotti venduti, schiave di un’immagine che devono restituire a tutti i costi. Per andare incontro alle esigenze dei consumatori, da tempo sulla rete sono nati molti negozi online che cercano di abbattere i costi di un bene che in questo modo diventa accessibile. Il percorso che fa una boccetta di profumo dal produttore al consumatore è lungo: dai distributori nazionali ai rappresentanti, fino ad arrivare ai punti vendita, ognuno di questi ha giustamente un margine di guadagno. Le boutique virtuali riescono a saltare questi passaggi, diventando l’unico tramite tra produttore e consumatore. Certo, costi di packaging e pubblicità restano, ma rinunciare a queste due voci equivarrebbe a non riconoscere l’anima stessa di un prodotto che vive di sensazioni. FRAGRANZE L’interno di una profumeria, prezzi alle stelle Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo