2-Clerici - recensione - OK

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2-Clerici - recensione - OK
Anno V – Numero 15
Julie Hansen, Andrei Rogachevskii (Eds.), Punishment as a Crime? Perspectives on Prison Experience in
Russian Culture, Uppsala University, Uppsala 2014, pp. 193
A quaranta anni dalla pubblicazione
del fondamentale Sorvegliare e punire.
Nascita della prigione (Surveiller et
punir. Naissance de la prison) di M.
Foucault il tema carcerario continua ad
essere oggetto di grande attenzione tra
gli studiosi. L’8 gennaio 2013 la
sentenza della Corte Europea dei
Diritti dell´Uomo, nella causa
Torreggiani e altri c. Italia1, ha
nuovamente spostato la lente di tutta
l´Europa sul sistema penitenziario.
Ancora una volta ci si interroga su
cosa sia la punizione.
Il volume in oggetto, curato da Julie
Hansen e da Andrei Rogachevskii, si
basa (“parzialmente”) sugli atti del
convegno “Punishment as a Crime?
Interdisciplinary
Perspective
on
Prison
Experience in
Russian
Culture”, organizzato nell’agosto del
2012 dall’Uppsala Centre for Russian
and Eurasian Studies (UCRS), e
raccoglie saggi di sette studiosi
(Helena Goscilo, Andrea Gullotta,
Martin
Kragh,
Inessa
Medzhibovskaya,
Andrei
Rogatchevski, Igor Sutyagin, Sarah J.
Young) suddivisi in tre sezioni:
“Prison Realities”, “Reactions and
Representations”,
“Comparative
Dimensions”.
L’introduzione, di Julie Hansen, si
apre con una citazione tratta da Iosif
Brodskij: “A prison or a concentration
camp is society’s extension”2.
Immaginando il carcere come una
estensione della società e, in qualche
modo, come uno specchio del mondo
esterno, ciò che viene proposto al
lettore è un approccio al tema
detenzione multidimensionale, una
pluralità di sguardi sul fenomeno
carcere russo. Nei vari capitoli si
alternano, infatti, chiavi interpretative
provenienti da studi letterari e
culturali, dal cinema, dalla filosofia,
dalla psicologia e dalla storia
economica, con l’obiettivo comune di
aiutare
la
comprensione
dell’esperienza di prigionia in Russia,
passata e presente. Julie Hansen
sottolinea la specificità di questa
esperienza, ricordando come secondo
alcune stime tra un sesto e un quinto
della popolazione russa avrebbe
sperimentato, a partire dal 1991, la
privazione della libertà (Ovchinskiĭ),
nonostante il tasso di criminalità in
Russia sia tra tre e cinque volte
inferiore rispetto ai paesi dell’Europa
occidentale. Vediamo brevemente i
contributi.
La prima sezione del testo,
denominata realtà delle prigioni offre
una panoramica della situazione
penitenziaria russa durante le epoche
definite (un po’ sbrigativamente) “the
Stalin and Putin eras”. L’autore del
primo saggio, Igor Sutyagin, autore
del primo saggio, è un ricercatore
arrestato dall’FSB nel 1999 e, dopo
circa una decade di prigionia,
rilasciato. Attraverso le parole dello
studioso si possono apprezzare
dettagliate descrizioni delle prigioni
russe concernenti topologia, territorio
e terminologia. Da questa esperienza
diretta I. Sutyagin trae nuovi dati per
poter sostenere il parallelismo tra la
vita detentiva e la vita in condizioni di
libertà, due mondi in cui le parole e i
230
significati mutano drasticamente. La
sub-cultura carceraria si caratterizza
per aspetti problematici ad esempio:
distress emotivo che porta a vari livelli
di sofferenza, perdita di skill sociali (a
causa di lunghi periodi di detenzione),
connessioni familiari etc. Questi
esempi, uniti a vari gustosi contenuti
esperienziali, lasciano trapelare l´idea
che la detenzione possa essere
considerata a tutti gli effetti come una
deprivazione sociale. Se in psicologia
il termine deprivazione (nel senso più
ampio del termine) esprime l´assenza
di un rapporto positivo tra il bambino
e la madre, tutta la trattazione di I.
Sutyagin porta a pensare la prigionia,
in Russia, come a un rapporto negativo
tra la persona detenuta e il sistema
correzionale russo, senza che venga, in
nessuna parte del testo, evidenziata la
risocializzazione o il reinserimento
sociale, elementi che fanno parte, o
dovrebbero far parte, dei sistemi
detentivi nazionali.
Martin Kragh, autore del secondo
saggio che conclude la prima parte del
testo, è un giovane ricercatore ed
esperto di storia dell´economia Russa.
Il suo contributo, incentrato sul lavoro
libero
e
il
lavoro
forzato
nell’economia Sovietica, propone uno
spaccato di come fosse gestito il
mercato del lavoro nel periodo
staliniano, spiegando come nella prima
metà del Novecento in Russia vi
fossero due settori lavorativi: il primo
era la forza lavoro libera, i civili,
destinati al lavoro duro negli
stabilimenti; il secondo era l´insieme
delle persone destinate al lavoro
Anno V – Numero 15
forzato attraverso quella rete di campi
e insediamenti noti come Gulag
(Glavnoe upravlenie lagereĭ i koloniĭ:
Amministrazione principale per i
campi e colonie).
La libertà, per la popolazione russa,
era definita dal poter fare ritorno a
casa dopo il lavoro in quanto
l´alternativa era essere costretti alla
detenzione. Il confine, lascia intendere
l’autore, ha varie sfumature. M. Kragh
spiega che l´economia russa, a partire
dal 1940, si basava su una moltitudine
di istituzioni coercitive atte a
regolamentare il lavoro. Lo scopo era
di creare un mosaico di regimi per
poter punire vari segmenti della
popolazione. I sistemi coercitivi in
larga scala (ultimo livello individuato
nel Gulag) ed economia vanno di pari
passo quando un governo, come quello
di
Stalin,
cerca
di
creare
un’esponenziale crescita economica.
Scopo, spiega l’autore, era creare il
massimo dell´eccedenza al minimo
della remunerazione. Il carcere
divenne strumento politico che,
attraverso il lavoro forzato, permise di
tenere alti regimi lavorativi sfruttando
le sacche di dissidenti.
La seconda sezione del testo,
denominata le reazioni e le
rappresentazioni esamina una serie di
risposte culturali provenienti da
esperienze di prigionia in Russia, tra il
diciannovesimo e il ventunesimo
secolo.
Il primo saggio è di Sarah J. Young,
studiosa di letteratura russa, che,
attraverso l’analisi di scrittori come
Fedor Dostoevskij, Vlas Doroshevich,
Varlaam
Shalamov
e
Andrej
Sinjavskij (Abram Tertz), tutti
accomunati dall’aver fatto esperienza
diretta dell’ambiente carcerario russo
(esperienze divenute ricco materiale
per le loro opere), propone una
rappresentazione della vita carceraria.
S. J. Young spiega che adottare
un´identità criminale rappresenta un
modo per creare un alter ego
straordinario, con una sua ricchezza
esperienziale e una sua visione della
vita, una grande possibilità di
sperimentare altre costruzioni sociali.
Il narratore diviene fuorilegge e lo
scritto si fa reato. L’autrice prosegue
spiegando, dal suo punto di vista,
come la detenzione sia alla base della
trasformazione artistica, individuata
nella libertà creativa, atto che permette
al condannato di prendere una nuova
veste e temporaneamente spezzare le
sue catene. Tale principio conduce,
attraverso la privazione della libertà
personale, il letterato a ripensare
continuamente la sua identità. La
condanna può perciò essere letta
attraverso la relazione con la
letteratura. Da queste testimonianze si
può apprendere come uno stato che
tenta di emarginare i pensatori “fuori
controllo”
costringendoli
alla
detenzione non ottiene il risultato
sperato. La prigionia porta a creare
nuovi punti di vista, nuove riflessione,
che in mano a letterati si trasformano
in opere dal grande valore artistico.
Il secondo saggio scritto da Andrea
Gullotta, studioso di letteratura russa,
è incentrato su alcuni aspetti della
cultura dei Gulag, in particolare
sull´umorismo che si genera nei
periodi di detenzione. L’analisi
dell´argomento segue una linea
temporale che inizia nel periodo
precedente i piani quinquennali, passa
attraverso un periodo storico chiamato
l´Era Stalin, continua nella terza fase
dopo la morte di Stalin e si conclude
con l´umorismo nei Gulag oggi.
L´autore, inoltre, riprende un filone di
231
studi sull’argomento già affrontato da
alcuni autori come Steve Lipman,
Chaya Ostrower, Stefano Feinstein,
all´interno di ricerche sui campi di
concentramento e i meccanismi di
difesa dagli orrori osservati. La satira e
la
barzelletta
vengono
così
rappresentate come un modo per
superare e sopportare condizioni di
vita estreme. Questo ambito di studi,
considerati da A. Gullotta un fertile
campo di ricerca, possono essere
percepiti oggi attraverso l´eco che ne
deriva dal periodo dei Gulag,
smantellati dal governo di Michail
Gorbačëv negli
anni
ottanta,
rappresentato dalla russkiĭ shanson
(genere musicale tipico della subcultura carceraria) assorbita oggi da
una piú ampia tradizione culturale
russa espressa ad esempio negli
anekdoty e chastushk (barzellette e
canzoni a sfondo umoristico tipici
della tradizione russa e ucraina).
Helena Goscilo, Professoressa in
slavistica e linguaggi dell’est Europa,
propone nel terzo saggio, che conclude
la seconda sezione del testo, un
tentativo, leggermente forzato, di
legare la Liube Rock Band alla
criminal zona. Il gruppo musicale, il
cui leader proviene da Ljubercy,
mescola nel suo genere influenze dalla
musica folk russa, dal rock, dalla
russian chanson e da canzoni militari
sovietiche. L’immagine della rock
band, racconta H. Goscilo, è permeata
dalla affiliazione al mondo criminale
attraverso testi duri, scelte lessicali
precise e una identità collettiva che
ricorda il maschio macho. Liube si
avvicinerà al mondo criminale
attraverso il film Liube Zona girato in
ambiente penitenziario, in cui la band
si esibisce di fronte ai detenuti
elevandosi a emblema e cercando con
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la sua musica di entrare nella psiche
dei ristretti. Si alternano nel film
canzoni del gruppo e interviste a
detenuti e personale. H. Goscilo
concentra la sua analisi nel rapporto
tra band e detenuti e allo stesso tempo
tra la psicologa Lena (Marina
Levtova) e i momenti in cui intervista i
ristretti (Dreams in the Zone). Spiega
la Professoressa come in questa
pellicola sia la musica a far da
padrona, i membri del gruppo come la
stessa Lena, i cui interventi spesso
ottengono silenzio ostinato, restano
sullo sfondo, le canzoni penetrano
invece nella psiche dei detenuti. Le
interviste vengono raffigurate come un
gelido rapporto tra la scienza e la
persona, mentre la calda e intuitiva
creatività della musica riesce a
riscaldare il cuore. Dopo quasi un
quarto di secolo la rock band vanta,
all´attivo, decine di spettacoli,
trasmissioni radio, regolari apparizioni
in TV, questo, unito al loro stile
conservatore anti-americano, ha dato
la possibilità a Liube di essere
approvati e apprezzati da Putin in
persona, consentendo al gruppo di
divenire una istituzione.
La terza sezione del testo, denominata
dimensione comparativa, tenta di
spingersi nel versante del confronto
attraverso esperienze di prigioni fuori
dalla Russia.
Inessa Medzhibovskaya, docente
associato presso la The New School ed
esperta in letteratura e lingua slava,
propone un saggio dal titolo
Punishment
and
the
Human
Condition: Hannah Arendt, Leo
Tolstoy, and Lessons from Life,
Philosophy,
and
Literature.
Totalitarismo,
controllo
sociale,
punizione e disumanizzazione, sono
questi alcuni dei temi che emergono
dalle parole dell´autrice che fa
riferimento a molti studiosi e letterati
come ad esempio Tolstoj, Arendt,
Foucault e Montaigne, per citarne
alcuni. I. Medzhibovskav attraverso il
confronto di letterati e filosofi si
interroga su come si possa umanizzare
la punizione. Questo saggio illustra le
possibilità
contraddittorie
di
umanizzare la punizione senza cercare
di giustificarla. Se la pena è intesa
come un processo complesso e
sfaccettato
che
comprende
un’evoluzione nelle esperienze delle
persone detenute, la letteratura si è
spesso interessata e interrogata sul
significato del perdono.
Il confinamento delle persone, la
percezione della punizione, la
relazione tra il potere e l’uso di sistemi
coercitivi sono alcuni temi che
accomunano i vari autori citati, il
confronto tra i vari spunti offerti è il
terreno su cui I. Medzhibovskav si
destreggia. Un lavoro comparativo
che, anche se con qualche incertezza,
offre una buona visione su ciò che è
stato dibattuto negli ultimi secoli.
Andrei Rogatchevski, Professore in
letteratura russa, è l´autore dell´ultimo
saggio del testo intitolato NonTotalitarian Imprisonment under
Western and Eastern Eyes: Lord
Archer, Eduard Limonov, and
Theoriesof Human Motivation. La
Russia è un paese in cui i periodi di
libertà contenuta hanno violentemente
alternato periodi di libertà illimitata. In
mezzo a questo pendolo altalenante, il
carcere si è posto come un potente, ma
controverso simbolo sia della tutela
dell'ordine sia dell'oppressione della
libertà. Dato che la cultura della
prigione ha spesso tinto la cultura
russa, A. Ragatchevski si chiede: c'è
qualcosa
di
veramente
unico
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nell`esperienza del carcere in Russia,
in confronto con altrove?
L’esperienza del carcere si abbatte su
un individuo, il cui spazio è limitato, il
cui tempo è abusato e la cui volontà è
soggiogata da un potere esterno sotto
la scusa della prevenzione o
punizione. Case di lavoro, celle di
polizia, colonie penali, campi di
concentramento,
strutture
di
detenzione per immigrati, e le aziende
agricole del carcere – come così come
le prigioni di per sé - appartengono
tutti alla categoria di istituti dove il
confino può essere sperimentato.
Probabilmente, le istituzioni più note
di questo tipo sono state create per
conto di dittature totalitarie, con
conseguenti esperienze che mostrano
un notevole grado di somiglianza in
molti stati e in vari spettri culturali.
L’autore, nella sua trattazione, fa
riferimento
a
due
pensatori
caratterizzati
dall’aver
vissuto
esperienze di prigionia. Lord Jeffrey
Archer, scrittore e conservatore
inglese con una controversa carriera
politica, e Eduard Limonov (Eduard
Veniaminovich Savenko), fondatore
del Partito Nazional Bolscevico e
fondatore del giornale Limonka,
durante il periodo di detenzione si
dedicano alla stesura di opera letterarie
e bibliografiche che da ovest a est
forniscono una visione stereoscopica
della cultura carceraria. Le esperienze
descritte possono risultare interessanti,
anche se la comparazione risulta
difficoltosa a causa delle differenti
norme,
contesti,
istituzioni
e
popolazione detenuta (per dirne solo
alcune) che hanno caratterizzato la vita
detentivo di Lord Archer e Limonov. I
due
vissuti
descritti
da
A.
Ragatchevski offrono ulteriori punti di
vista sul mondo detentivo che per sua
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definizione è un contesto chiuso, un
mondo che per sua natura tende a non
voler essere indagato; allo stesso
tempo due indizi non fanno un prova,
per cui anche se interessanti le due
esperienze rimangono contestuali al
loro tempo e luogo per cui non
possono essere generalizzate.
Julie Hansen e Andrei Rogachevskii
con questo testo mettono a
disposizioni di studiosi del tema
numerosi spunti di riflessione. Molti
contributi sono prettamente ispirati da
esperienze
dirette
di
letterati,
pensatori, politici o artisti, e per questo
risultano gustosi e interessanti. È
quindi, questo volume, una rilevante
raccolta di sguardi sulle problematicità
del mondo penitenziario in Russia,
troppo
spesso
utilizzato
come
strumento repressivo e politico.
MATTEO CLERICI
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Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013 - Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09,
35315/10 e 37818/10 - Torreggiani e altri c. Italia.
2
Brodskij I., “The Writer in Prison.” The New York Times Book Review (13 Oct. 1996. Web. 11 Oct. 2014).
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