"Ed io che sono?" Le domande fondamentali del

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"Ed io che sono?" Le domande fondamentali del
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PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA TRIENNIO
“Ed io che sono?”
Le domande fondamentali del cuore dell’uomo
da Omero a Giacomo Leopardi
di Giulia Silvia Pedonese
Classe II B, Liceo Classico “G.Carducci”, Viareggio (LU)
Coordinatore: Prof.ssa Lucia Bacci
Introduzione
Durante i miei studi di letteratura greca e latina ho riscontrato una corrispondenza fra la
mia esperienza di vita e quella di uomini e donne vissuti secoli fa, al di là del tempo e delle
differenti culture che ci separano.
Mi sono chiesta quale punto di contatto avesse reso possibile sentire vicino, se non
attuale, il loro pensiero al giorno d’oggi e l’ho individuato nelle domande che l’uomo si
pone riguardo a se stesso e al mondo e sulle quali fonda la propria esperienza di vita.
Quando la mia insegnante di latino e greco mi ha proposto di fare un confronto tra gli
autori antichi e Giacomo Leopardi, ho accettato ed ho scoperto nei Canti del poeta di
Recanati una particolare attenzione nei confronti della felicità, del dolore e del destino
umano, ed un velo pessimistico che stride a contatto con questa sensibilità, ma che non
impedisce alle domande di felicità, d’infinito e di bellezza di riaffiorare in un feroce
interrogarsi sul significato della vita.
Così ho tentato di individuare nella poesia di Leopardi questo punto vivo da cui nascono le
domande fondamentali del cuore dell’uomo che già mi avevano colpito in Omero, nella
lirica greca, nelle filosofie ellenistiche e nei carmi di Catullo.
Nel presente lavoro mi limiterò all’analisi di Leopardi come poeta, tentando di dimostrare
che, oltre il materialismo e il pessimismo con cui ha dato forma alle sue esigenze, egli ha
colto le domande esistenziali che l’uomo da sempre si pone osservando se stesso e il
mondo, e che queste sono comuni in ogni tempo in quanto mettono a fuoco l’essenza
della nostra umanità, per quanto rimangano spesso senza risposta.
Qual è infatti lo scopo della letteratura se non rispecchiare ciò che l’uomo prova davanti a
se stesso, alla realtà che lo circonda e al suo destino sconosciuto? Mossa da una
riflessione profonda, che non deve essere additata come puro sentimentalismo, la
presente tesi non pretende di sovrapporre le differenti espressioni poetiche, ma nemmeno
si limita alla pura analisi di analogie e differenze formali che vi intercorrono, tenendo
sempre presenti le parole di Zvetan Todorov che, nel saggio La letteratura in pericolo,
afferma: “Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere:
perché mi aiuta a vivere” (p. 16).
Perciò è lo scopo della letteratura in se stessa ad essere preso in esame attraverso il
confronto con la mia esperienza, suscitato da autori lontani fra loro e dal mio tempo, nella
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piena consapevolezza della peculiarità e del contesto in cui ogni opera è stata scritta e nel
modo più coerente possibile al significato originale di ogni testo.
Leopardi e gli autori del passato: il tema del confronto
Il rapporto fra Giacomo Leopardi e gli autori antichi non è diverso da quello che intercorre
fra me e un qualsiasi autore del passato e che tutti noi sappiamo stabilire tramite la lettura
di un testo.
Ad esempio, Leopardi lesse Omero a partire dai suoi sette anni di “studio matto e
disperatissimo” e si arricchì di esperienze umane ampliando così le sue riflessioni già
grandi, come capita in ognuno di noi dopo il confronto con un’opera che ci colpisce.
In questo modo, come la mia percezione della vita cambia e si approfondisce dopo aver
“incontrato” un autore che mi fa comprendere meglio ciò che la mia esperienza mi ha
portato a dover affrontare, senz’altro Leopardi, genio precoce e più sensibile di me, avrà
trovato negli autori antichi una conferma del suo sentire nelle parole del dio Apollo, che
prova compassione e sdegno per la stirpe degli uomini dicendo: “…I mortali miserabili, i
quali, simili a foglie, una volta si mostrano focosi, quando mangiano il frutto dei campi, una
volta cadono privi di vita…” (Hom. Il.21, 463-466).
Ecco che il confronto fra il poeta Recanatese e i classici si può basare non tanto sui
richiami di forma e stile quanto, servendosi all’occorrenza di quelli, sul piano della
relazione autore/lettore che getta le basi della letteratura, nata dal sentire umano, dunque
espressione privilegiata di ciò che tutti gli uomini provano.
Il “sublime sentire”
Le persone sensibili, nell’insoddisfazione che qualche volta accompagna la vita, scorgono
il problema principale dell’uomo: la contraddizione tra l’infinito cui tende il desiderio e la
limitatezza delle condizioni che possono soddisfarlo.
Così nasce un sentimento che possiamo definire con terminologia leopardiana “sublime
sentire”, cioè la manifestazione della grandezza di cui l'uomo è capace e che sfugge ai
suoi limiti.
Leopardi ha sperimentato tale sentimento e lo descrive ad esempio nella lettera allo
Jacopssen del 1823: “la sovrabbondanza della vita interiore spinge sempre l’individuo
verso quella esteriore, ma contemporaneamente lo rende incapace di destreggiarsi. Egli
abbracciando ogni cosa vorrebbe sempre essere appagato; tuttavia le cose gli sfuggono,
proprio perché sono più piccole della sua capacità”.
Tale sproporzione fra desiderio e realtà diventa un grido nel Canto sopra il ritratto di una
bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima (vv. 39 ss.): “Desiderii
infiniti/ e visioni altere / crea nel vago pensiere, / per natural virtù, dotto concento; / onde
per mar delizioso, arcano /erra lo spirito umano, quasi come a diporto / ardito notator per
l’Oceano: / ma se un discorde accento / fere l’orecchio, in nulla/ torna quel paradiso in un
momento. / Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei,
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tant’alto senti? / se in parte anco gentile, /come i più degni tuoi moti e pensieri / son così di
leggieri / da sì basse cagioni e desti e spenti?”
Davanti a questi versi mi vengono in mente due considerazioni strettamente legate fra
loro, una da un punto di vista linguistico, l’altra per quanto riguarda il contenuto.
Leopardi, quasi a voler mettere in evidenza anche con la scelta lessicale la sproporzione
del desiderio, utilizza nel brano citato parole che tendono verso l’indefinito e parole che
invece rimandano alla limitatezza della condizione terrena.
Ad esempio, i termini “vago”, “infiniti”, “arcano” ed “erra” individuano i momenti più
significativi dell’esaltazione dell’animo, in opposizione alla piccolezza del “discorde
accento” che distrugge in un attimo quanto di grande il pensiero umano ha costruito, e
all’inconsistenza dell’“ombra” e della “polve”.
È come se Leopardi trasponesse il “sublime sentire” dal contenuto allo stile, facendo
proprio quello che dice l'autore anonimo del trattato greco Del sublime, un'opera
sull'esperienza estetica in letteratura degli inizi del I secolo d.C., ben nota e cara al nostro
poeta.
L'anonimo infatti spiega che riunire i tratti salienti di un sentimento in un medesimo quadro,
anche in forte contrasto tra loro, è uno dei metodi retorici necessari per ottenere la
sublimità all’interno del discorso (cap. X).
Questo approfondimento lessicale mi porta ad una più ampia comprensione di ciò che da
questi versi emerge.
Si tratta di un elemento che appartiene alla vita quotidiana di ciascuno: chi non ha mai
pensato intensamente a un attimo, ad una persona, con un’aspettativa ardente che è da
sola portatrice di gioia, per poi assistere con dolore al suo infrangersi nella realtà come se
non esistesse niente di così perfetto come avevamo immaginato? Esiste invece una
felicità più completa di quando la realtà corrisponde per una volta i nostri desideri? Ho
provato quella gioia alcune preziosissime volte e Leopardi mi ha portato a considerare
quanto questo divario fra realtà e desiderio sia costante nella vita, non solo nella mia, ma
nei miei amici che vedo cercare lo “sballo” in qualche caotico locale di sabato sera, nei
poeti come Mimnermo e Catullo e nei filosofi, come per esempio Epicuro.
La filosofia epicurea infatti si prefiggeva uno scopo molto bello, cioè guidare gli uomini
verso la felicità, ma predicava un’ideale di vita che precludeva gli orizzonti di quella stessa
felicità entro confini troppo stretti per l’animo umano. Ad ogni modo, una delle quattro
massime che Epicuro prescrive nel tetrafarmakon è quella di non desiderare ciò che non si
possa raggiungere facilmente, vale a dire contentarsi del minimo indispensabile per vivere,
altrimenti il contrario provocherebbe soltanto dolore.
Perciò, al tempo in cui questa filosofia nacque, e per tutta l’epoca romana che ne vide lo
sviluppo, era ben nota agli uomini la delusione causata dal divario fra desiderio e realtà,
descritto da Leopardi molti secoli dopo.
Le conclusioni cui giunsero Epicuro e Leopardi li differenziano radicalmente, ma a me
importa mettere in luce l’origine di quelle che poi saranno interpretazioni differenti di una
stessa intuizione.
Questo contatto stridente fra l’esigenza di infinito e il limite necessariamente imposto dalla
realtà pone le basi di una riflessione a proposito della fragilità dell’uomo e della sua scarsa
possibilità di decidere il destino, che gli “spiriti sensibili” (lettera allo Jacopssen, 1823)
sono portati necessariamente a fare.
Questo è il punto che in Leopardi, in me e negli altri poeti più antichi coincide.
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Infatti gli antichi erano ben consci della fragilità umana, come testimoniano due passi
dell’Iliade (VIII sec. a.C.), dove la debolezza delle stirpi umane è paragonata alla caducità
delle foglie: “Tale quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini. Le foglie il vento le
sparge a terra ma la selva rigogliosa ne genera altre e torna l’ora delle primavere, così la
stirpe degli uomini, una sboccia, l’altra si dilegua” (Hom. Il. 6,146-149), “…i mortali
miserabili, i quali, simili a foglie, una volta si mostrano focosi, quando mangiano il frutto dei
campi, una volta cadono privi di vita” (Hom. Il. 21, 463-466). E come si legge in un passo
attribuito ad Aristotele e tramandato da Stobeo: “cos’è l’uomo? Esempio di debolezza,
preda dell’età, marionetta della sorte, immagine del cambiamento, misura di invidia e
sfortuna, e il resto è flegma e bile” (Stob. Anth. V, p.843 nr. 60 Hense).
Gli antichi erano consapevoli di non essere affatto padroni della propria vita, da una parte
in balìa della sorte o del volere degli dei, dall’altra preda degli umori del corpo come il
flegma e la bile, scatenanti le differenti passioni che l’uomo non controlla.
Così Simonide di Ceo nella seconda metà del VI secolo a.C. scrisse: “Tu che sei uomo
non dire mai ciò che sarà domani, né se vedi un altro felice, per quanto tempo lo sarà,
neppure così veloce è il volo della mosca ad ali tese. Degli uomini scarso è il potere, vani
sono gli affanni; dolore su dolore è la breve vita. Su tutti uguale pende l’inevitabile morte: i
vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte” (frag. 531 Page).
Si tratta di un frammento di un compianto funebre, in cui si potrebbe facilmente obiettare
che tale riflessione, dato che il canto fu scritto probabilmente su committenza, sia stata
dettata dalle circostanze e da nient’altro. Su questo poeta infatti, già in età arcaica, nacque
una leggenda cui molti critici moderni hanno aderito e che lo raffigurava come un poeta
professionista e avido, pronto ad esercitare la sua arte dietro compenso. Ma questo
secondo me non è sufficiente per spiegare appieno l’opera di Simonide, uomo ancora
prima che poeta, dunque capace di quelle stesse sensazioni che porterebbero ciascuno di
noi, davanti alla morte, a riflettere sulla nostra stessa vita, individuandone con amarezza la
precarietà.
Perciò il sentire degli uomini antichi non era diverso dal nostro di fronte alla fine
dell’esistenza o alla felicità, alla giovinezza fuggevole e alla vecchiaia, e rispecchia
Leopardi quando, raggiunto dal canto dell’“artigian che riede a tarda notte”, dice: “E
fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto il mondo passa, / e quasi orma non
lascia. Ecco è fuggito / il dì festivo, ed al festivo giorno / volgar succede, e se ne porta il
tempo/ ogni umano accidente”.
Questo brano, tratto da La sera del dì di festa, (vv. 28 ss.) contiene la riflessione del poeta
alla vista del paesaggio notturno circostante, che racchiude una serenità cui egli aspira,
ma dalla quale è escluso, in quanto tormentato da un amore non corrisposto e angustiato
dal pensiero che tutto passa e se ne va anche la sua “verde etade” senza lasciargli
l’ombra di felicità.
Partendo dal confronto tra il desiderio di pace e la realtà che ne rende impossibile il
raggiungimento, Leopardi si fa portavoce del dolore dell’uomo che vede i suoi desideri
soggiogati dalla limitatezza delle circostanze e del tempo e sa di essere la loro preda,
incapace di cambiarne il corso.
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Il pessimismo e le sue vie di fuga
Leopardi, prima del 1823, credeva che gli uomini antichi vivessero felicemente grazie alla
vicinanza della Natura, che ispirava loro illusioni confortevoli come la virtù, l’amicizia, la
gloria, l’amore, mentre i moderni, assillati dalla ragione, non hanno rimedio contro l’aridità
dell’esistenza.
Per questo lo stato naturale in cui si trovavano gli antichi, secondo Leopardi, permetteva
loro di accettare con serenità il destino, per quanto tragico, come fa l’uccellino de Il
passero solitario (vv. 45 ss.), in forte contrasto con la disperazione dell’autore all’idea della
vecchiaia:
“Tu, solingo augellin, venuto a sera / del viver che daranno a te le stelle, / certo del tuo
costume / non ti dorrai; che di natura è frutto / ogni vostra vaghezza. / A me, se di
vecchiezza / la detestata soglia / evitar non impetro, / quando muti questi occhi all’altrui
core, / e lor fia voto il mondo, e il dì futuro / del dì presente più noioso e tetro, / che parrà di
tal voglia? / Che di quest’anni miei? Che di me stesso? / ahi pentirommi, e spesso, / ma
sconsolato, volgerommi indietro.”
E come si evince dal Bruto minore (vv. 61 ss.): “di colpa ignare e de’ lor proprii danni / le
fortunate belve / serena adduce al non previsto passo/ la tarda età”.
Perciò gli animali, nel pensiero del poeta di Recanati, sembrano incarnare la condizione
degli uomini antichi proprio per la loro vicinanza alla Natura che, sempre nel Bruto minore
(vv. 52 ss.), è considerata una madre benevola: “non fra sciagure e colpe, / ma libera ne’
boschi e pura etade / natura a noi prescrisse, / reina un tempo e Diva”.
In seguito, quando agli inizi degli anni ’20 Leopardi maturò la sua conversione filosofica,
attuò un passaggio “dal bello al vero” e sviluppò una teoria del piacere che vede preclusa
all’uomo la possibilità di essere felice. Egli giunse a percepire l’idea di un pessimismo
esistenziale, slegato dal corso della storia e quindi insito nella natura umana stessa. A
questo contribuì la lettura, nel 1823, del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce di J.-J.
Barthélemy, che gli fece conoscere il pessimismo di Teognide, Pindaro, Sofocle, Euripide,
autori di cui in quell’opera venivano citati passi a proposito del dolore umano.
Dunque Leopardi scoprì che gli antichi provavano la sua stessa angoscia, ben consapevoli
della precarietà dell’esistenza e del fatto che essa non apparteneva loro.
Infatti nell’uomo che si rende conto della propria fragilità e del suo essere “un punto
nell’universo”, come dice Giordano Bruno agli albori della rivoluzione scientifica, l’istintiva
reazione è quella di considerare vani i propri sforzi e, dato che la vita è fatta di inevitabile
dolore, rimpiangere di non essere mai nato. Questo il caso di Teognide, poeta Lirico Greco
della prima metà del VI sec, a.C. che scrive: “non nascere è per gli uomini la miglior cosa
e non vedere i raggi acuti del sole, ma, una volta che siamo nati, varcare al più presto le
porte dell’Ade e giacere profondamente sepolti sottoterra” (Elegie, I, 425 ss.).
Per gli antichi, e per i Greci in particolare, le consolazioni che la vita poteva offrire erano
poche.
Ad esempio, nelle composizioni destinate al pubblico del simposio, un tema che ricorre è il
rimpianto per la brevità della giovinezza, in cui molti poeti a partire da Mimnermo, lirico del
VII sec a.C., riconoscono la vera essenza della vita, tanto da invocare la morte una volta
sopraggiunta la vecchiaia: “Che vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro? Meglio morire
quando non avrò più cari gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte, che di
giovinezza sono i fiori effimeri per gli uomini e le donne. Quando viene la dolorosa
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vecchiaia che rende l’uomo bello simile al brutto, sempre nella mente lo consumano
malvagi pensieri; né più s’allieta guardando la luce del sole; ma è odioso ai fanciulli e
sprezzato dalle donne: tanto grave Zeus volle la vecchiaia. Noi, come le foglie genera la
fiorita stagione di primavera, quando a un tratto crescono ai raggi del sole, simili a quelle,
per breve tempo del fiore della giovinezza godiamo, da parte degli dei ignorando così il
male come il bene. Ma le nere sorti sovrastano, l’una recando il termine di vecchiaia
molesta, l’altra di morte: e per poco nasce di giovinezza il frutto, quanto sulla terra si
spande il sole. Ma appena poi questo termine di tempo sia trascorso, subito morire, ecco,
è meglio che vivere” (frag. 1,2,6 West).
Nella società greca arcaica, all’interno del simposio, si programmava la politica, si
praticava l’amore pederastico ed omoerotico, si parlava delle donne, si beveva e si
mangiava con l’accompagnamento della musica e della poesia e quest’ultima si faceva
portavoce talvolta di riflessioni profonde sulla brevità della vita e sulla vecchiaia, che
avevano lo scopo di esortare l’uditorio a godere dei piaceri che la giovinezza offre.
Infatti tale poesia era sì un tratto tradizionale e caratteristico di quella società, ma non
deve essere intesa, come oggi la interpreta la critica storico-antropologica, unicamente
quale espressione sociale e dunque formale di temi circoscritti al simposio, ma anche
quale espressione autentica di esigenze fondamentali dell’esistenza come il desiderio,
insito in ogni uomo, che l’amore e la felicità durino per sempre.
L’esortazione di Mimnermo fu poi ripresa da altri lirici greci come Solone, Teognide,
Anacreonte, Alceo, e andò a formare un vero e proprio topos letterario per invitare alla
gioia con il monito della brevità della vita, ma non solo: esprime tutt’oggi ciò che proviamo
di fronte ai più semplici piaceri della vita, che possono essere la contemplazione di un
paesaggio, le gioie della tavola, di una buona compagnia o dell’amore, ma che alla fine
svaniscono lasciandoci a mani vuote, già impazienti come se tutta la felicità del tempo
trascorso non fosse bastata.
A questo proposito lo scrittore e critico letterario inglese del XX secolo C.S.Lewis scrive
nella prefazione a Le due vie del pellegrino: “Un esperimento facile dimostrerà che,
andando verso le colline lontane, non si troverà niente, oppure il ricorrere dello stesso
desiderio che vi ha spinti colà. Uno studio, abbastanza più difficile, ma tuttavia possibile,
delle proprie rimembranze, dimostrerà che, ritornando al passato, non si potrebbe trovare,
come possesso, quell’estasi che qualche improvviso ricordo vi ha spinti a desiderare”.
Le colline lontane, che Lewis descrive essere l’apparente oggetto del desiderio di un
bambino, una volta raggiunte rivelano la loro incapacità di soddisfare quel bisogno, così
come io stessa da piccola immaginavo per ore come sarei stata a diciassette anni, e
adesso che li ho compiuti non mi sento per niente diversa da prima, anzi mi ricordo con un
po’ di tristezza di come mi sentivo felice quand’ero presa da quel desiderio.
Anche Leopardi si sentiva ferito dai piaceri che, sfuggendo, sembravano lasciarlo a mani
vuote, come si vede nel canto Le Ricordanze (vv. 77 ss.): “ O speranze, speranze; ameni
inganni / della mia prima età! Sempre, parlando, / ritorno a voi; che per andar di tempo, /
per variar d’affetti e di pensieri, / obbliarvi no so. Fantasmi, intendo, / son la gloria e l’onor;
diletti e beni / mero desio; non ha la vita un frutto, / inutile miseria”. Dunque la speranza
destata dalle gioie della vita, che in gioventù sembrano la risposta più adatta alla domanda
di infinito dell’uomo, lasciarono il poeta deluso, ben conscio della loro inconsistenza e della
propria miseria.
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Il motto del“carpe diem” oraziano, figlio diretto in età romana della tradizione di Mimnermo,
sembrerebbe calzare a pennello ad un materialista, quale Leopardi affermava di essere.
Tuttavia, un uomo che riconosce l’infinità del proprio desiderio non può negare a se stesso
l’insoddisfazione che rimane pur cogliendo i tanti piaceri presenti nel mondo, dai quali,
oltre tutto, Leopardi fu amaramente deluso.
Davanti alla precarietà della vita, un’altra ipotesi di risposta alla continua sete di felicità
dell’uomo poteva essere ricercata da un appassionato dell'antichità come Leopardi nelle
filosofie ellenistiche del III secolo a.C.
Esse nacquero in un momento critico per la vita dei Greci, in cui erano venute meno le
certezze date dalla partecipazione politica dei cittadini e dall’appartenenza ad una ristretta
società come quella delle piccole poleis, che erano state inglobate dapprima all’interno
dell’impero di Alessandro Magno e poi nei grandi regni ellenistici.
Perciò i cittadini, divenuti sudditi, non erano più padroni di decidere direttamente della loro
vita e ripiegarono nella ricerca della felicità quotidiana, abbandonando gli ideali universali
dell’epoca classica. Fu così che l’uomo, davanti alla prova della sua debolezza, ritagliò il
proprio spazio all’interno di orizzonti così ampi che avrebbero rischiato di inghiottirlo, e si
limitò a cercare la pace entro confini prestabiliti.
Questo nuovo clima fu interpretato da varie filosofie, tra le più importanti l’Epicureismo,
tutto teso alla ricerca di un piacere stabile, duraturo, e lo Stoicismo, impegnato nel
conseguimento della virtù tramite l’uso della ragione. Esse furono alla base della filosofia
Romana, il cui massimo esponente Seneca, seguace, seppur eclettico, dello Stoicismo,
scrive all’amico Lucilio: “Tu tendi alla gioia, ma sbagli se speri di raggiungerla…cercandola
in mezzo agli affanni…Tutti…tendono alla gioia, ma non sanno dove si possa trovarne una
piena e durevole; c’è chi la cerca nei banchetti e nella sfrenatezza, chi nell’ambizione e in
una folla di clienti che gli stanno attorno, chi nell’amante, chi nella vana ostentazione degli
studi liberali e negli studi letterari che non giovano per niente –tutti costoro sono ingannati
da piaceri fallaci e di breve durata– … L’animo del saggio è come il mondo sopra la luna:
lassù c’è sempre il sereno. Hai, dunque, una buona ragione per voler essere saggio, se
la sua gioia è perenne. Questa gioia nasce soltanto dalla coscienza delle proprie virtù: non
può gioire se non l’uomo forte, giusto, temperante…la gioia che tocca agli dei e a chi li
emula non ha interruzione e non viene mai meno; verrebbe meno se provenisse da
altrove. Poiché non è un dono di altri, non è nemmeno soggetta all’arbitrio altrui: la fortuna
non può strappare ciò che non ha dato” (lettera 59).
Leopardi, pur conoscendo l’Epicureismo, si avvicinò in particolare allo stoicismo, dandone
una sua visione molto personale nel preambolo del volgarizzamento del Manuale di
Epitteto del 1825.
In esso l’autore considera questa una filosofia per uomini deboli, che si riducono a
desiderare poco e anzi, a perdere quasi del tutto la facoltà di desiderare, al contrario
dell’opinione comune, che dipinge gli stoici come uomini intenti in uno sforzo “prometeico”
di ricerca della virtù che eleva l’animo ad un distacco completo dagli affanni comuni verso
un ideale di “indifferenza”.
Al contrario Leopardi giudica proprio dell’uomo nobile e forte l’ostinarsi nella ricerca di ciò
che non potrà mai ottenere, ma riconosce d’altro canto che i moderni non sono più capaci,
alla luce della ragione, di lottare contro la necessità che li imprigiona e designa la morale
stoica come la più adatta ad un uomo ragionevole e deluso dalla vita, come lui.
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“O greggia mia che posi, oh te beata, / che la miseria tua, credo, non sai! / quanta invidia ti
porto! / Non sol perché d’affanno / quasi libera vai; / ch’ogni stento, ogni danno, / ogni
estremo timor subito scordi; / ma più perché giammai tedio non provi. / Quando tu siedi
all’ombra, sovra l’erbe, / tu se’ queta e contenta; / e gran parte dell’anno / senza noia
consumi in quello stato. / Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / e un fastidio
m’ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son
lunge / da trovar pace o loco. / E pur nulla non bramo, / e non ho fino a qui cagion di
pianto. / Quel che tu goda o quanto, / non so già dir; ma fortunata sei./ Ed io godo
ancor poco, / o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. / Se tu parlar sapessi, io chiederei: /
dimmi: perché giacendo / a bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / me, s’io giaccio in
riposo, il tedio assale?”
Come mostra il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 105 ss.), la morale
stoica non ha tuttavia potuto alleviare il dolore e l’insoddisfazione. Infatti, pur affermando di
non desiderare niente, pur non avendo alcuna “cagion di pianto”, il poeta non ha raggiunto
la serenità, e nemmeno l’indolenza, che desiderava.
Lo “spron” che quasi lo punge senza dargli pace (vv. 118 ss.) è il desiderio di continuare la
ricerca di una risposta alla domanda di senso che sorge nuovamente proprio dopo
l’affermazione “E pur nulla non bramo” (v. 122), quando il pastore si rivolge disperato alle
sue greggi, a differenza di lui appagate dall’ozio.
Ciò che Leopardi ha fatto, tentando di circoscrivere il proprio bisogno fra il “non curarsi di
essere beato né fuggire di essere infelice” ha come risultato la noia, che costituisce di per
sé un dolore. Infatti l’“indifferenza” non porta Leopardi alla serenità, come teorizzato dagli
stoici, quanto al tentativo di rinuncia al desiderio per paura del dolore di una sua possibile oppure certa- negazione.
E’ come se Leopardi preferisse un dolore ad un altro, non necessariamente meno grande
o più nobile, mentre tenta di conseguire una felicità parziale, che non fa i conti con il suo
cuore desideroso di una risposta completa, che sappia abbracciare ciò che davanti ai
paesaggi estivi o notturni di Recanati non riusciva quasi ad esprimere, come dice nella
canzone A Silvia (vv. 26 s.): “Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno”.
La duplice natura umana
Le soluzioni degli antichi, soprattutto quella dello Stoicismo, sembrano dunque non portare
nessun giovamento a Leopardi riguardo al problema della felicità.
E’ vero che Leopardi visse fra il ‘700 e il primo ‘800, periodo in cui la società aveva dei
punti in comune con l’età ellenistica a causa dell’individualismo in cui gli uomini erano
sprofondati dopo il crollo definitivo, nel Rinascimento, dell’ideale unitario del Medioevo.
Questo ideale, già in crisi dopo la morte di Dante, vedeva l’uomo tutt’uno con la propria
città e con il cosmo, in una unità il cui fulcro era considerato Dio.
Tuttavia, rispetto agli antichi, Leopardi dovette fare i conti con un mondo ben diverso, dove
le teorie materialiste dell’Illuminismo si sovrapponevano alla società cristiana in cui
l’individuo era esaltato per la propria spiritualità e per il proprio slancio verso l’infinito.
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Il poeta nel corso della sua vita si allontanò progressivamente fino a rifiutare la religione,
che gli fu imposta dalla famiglia come un vuoto contenitore di regole morali,
completamente estranee al desiderio di infinito proprio dell’uomo.
Questo lo pose in una situazione simile a quella degli uomini prima della venuta di Cristo,
che gridavano le loro domande verso un cielo che rimaneva muto, offrendo primizie e
libagioni a divinità capricciose e spesso insofferenti, che vivevano negli intermondi senza
curarsi di loro.
Ma già negli antichi pagani è presente una consapevolezza che stride con le spiegazioni
filosofiche e razionali che cercano di negare l’esistenza o la cura degli dei per l’uomo.
Infatti Lucrezio, poeta latino del I secolo a.C, nella sua opera De rerum Natura (V libro, vv.
1204 ss.) scrive: “Quando leviamo lo sguardo alle celesti plaghe del vasto mondo, lassù, e
all’etere trapunto di stelle fulgenti, e il pensiero si volge ai corsi del sole e della luna, allora,
contro i petti oppressi da altri mali comincia ad ergere il capo ridesto anche
quell’angoscioso pensiero, che non ci sia per caso su di noi un immenso potere di dei, che
con vario movimento volga gli astri splendenti. Ignorando le cause, infatti, la mente è
assillata dal dubbio se mai ci sia stata un’origine primigenia del mondo…” .
Lucrezio, sulle orme della filosofia epicurea, si era prefissato di scrivere per condurre gli
uomini verso la felicità, ma proprio lui, che sosteneva che il mondo fosse l’effetto
dell’unione e della disgregazione casuale degli atomi e che gli dei non si occupassero
minimamente degli uomini, sotto un cielo stellato non riesce a tacere lo stupore che gli fa
sorgere una domanda. Il poeta latino, acuto osservatore della realtà, avverte di non essere
il creatore di se stesso e che la teoria del movimento degli atomi non esaurisce il perché
suscitato in lui da ciò che è presente e vivo sotto i suoi occhi. In seguito, non trovando in
questo sentimento di stupore alcuna logica inerente al suo scopo, Lucrezio arriverà a
negarlo, dicendo che è proprio degli spiriti sciocchi e irragionevoli.
Ma la realtà non inganna, nemmeno quando si scopre in essa un richiamo ad un qualcosa
di diverso, di altro, che ci fa venire le vertigini, come quando Giacomo Leopardi, davanti
alla siepe del colle di Recanati, scorge l’orizzonte e nella sua immaginazione vi intravede
l’infinito: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte /
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da
quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco /
il cor non si spaura. E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito
silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e le morte stagioni, e la
presente / e viva, e il suon di lei. Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il
naufragar m’è dolce in questo mare” (L’Infinito, vv. 1 ss.).
I primi tre versi di questo celebre sonetto riguardano la descrizione del paesaggio da cui
Leopardi parte sempre per poi passare alla riflessione personale. All’interno di tale
schema ricorrente, proprio non solo di Leopardi, ma anche di autori greci e latini, si parte
dalla realtà, da ciò che suscita, e si giunge a conclusioni che spesso se ne distaccano,
come nel caso del sopra citato Lucrezio.
Al proposito mi piace ricordare A.M. Vanalesti, p. 78, che individua nell’interrogativo la
forma tipica dei Canti di Leopardi, osservando come esso nasca dalla contemplazione
della natura e che in seguito, distolto lo sguardo dal paesaggio,“il tono si incupisce e si
oscura ogni speranza: effetto innegabile della riflessione che sopravviene alla
contemplazione”.
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L’eccezionalità de L’Infinito è la capacità di cogliere quell’attimo contraddittorio in cui la
realtà rimanda ad altro, in grande contrasto con il pensiero filosofico che però rimane
ammutolito e per una volta non emerge. Come avrebbe potuto un materialista percepire
l’eterno “sedendo e mirando” oltre una siepe, e immaginarsi forse l’unica cosa che al
mondo non è presente: l’infinito?
Tra infinito e nulla
All’interno della natura umana, così debole eppure capace di concepire cose tanto
grandiose, è insito un dualismo che non può essere definito escludendo ora una parte ora
l’altra.
Blaise Pascal, filosofo francese del XVII secolo, nei Pensieri definisce l’uomo un “roseau
pensant”, cioè una canna che può essere spezzata in ogni attimo dall’universo, ma che ha
su di esso un vantaggio: è consapevole della propria fragilità, mentre l’universo non sa
niente (377; 231).
E ancora, sempre secondo Pascal, a causa di questo suo contrasto interno tra debolezza
e forza, l’uomo ha una natura a metà fra divina e mortale, fra il niente e il tutto che lo rende
una “chimera”, una contraddizione davanti a se stesso, un garbuglio: “che cos’è in fondo
un uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di
mezzo fra il niente e il tutto” (223).
Una domanda particolarmente significativa contenuta dei Pensieri è: “chi scioglierà questo
garbuglio?” (267; 122).
I due aspetti della natura umana Leopardi li individua davanti al sepolcro di una giovane e
bellissima donna la cui morte evidenzia la contraddizione della vita, che sembra fatta per
la bellezza e la gioia, ma che viene spesso illusa e spezzata dalla realtà dei fatti,
minacciata dietro ogni angolo dall’ombra della morte (Sopra il ritratto di una bella donna
scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, vv. 20 ss.): “Così riduce il fato / qual
sembianza fra noi parve più viva / immagine del ciel. Misterio eterno / dell’esser nostro.
Oggi d’eccelsi, immensi / pensieri e sensi inenarrabil fonte, / beltà grandeggia, e pare, /
quale splendor vibrato / da natura immortal su queste arene, / di sovrumani fati, / di
fortunati regni e d’aurei mondi / segno e sicura spene / dare al mortale stato: / diman, per
lieve forza, / sozzo a vedere, abominoso, abbietto / divien quel che fu dianzi / quasi
angelico aspetto, / e dalle menti insieme / quel che da lui moveva / ammirabil concetto, si
dilegua”.
E’ proprio di ognuno di noi sentirsi eterno e considerare la bellezza una “immagine del ciel”
senza pensare che possa diventare un giorno qualcosa di “abominoso, abbietto”.
Quando la realtà dei fatti ci porta davanti alla nostra fragilità, solo allora ci rendiamo conto
del “garbuglio” che ci costituisce.
Pindaro, lirico greco del VI-V secolo a.C. avvertì questa contraddizione, individuando
nell’uomo un elemento che lo rende simile agli dei: “Una degli uomini, una è la stirpe dei
numi, e da una madre entrambi respiriamo. Ma un diverso potere ci divide, ché nulla noi
siamo e il cielo di bronzo dura in eterno, dimora incrollabile. Pure natura o intelletto agli
immortali ci eguaglia, sebbene ignoriamo la meta che al nostro percorso diurno e nelle
notti prescrisse il destino”.
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Perciò la sproporzione che l’uomo avverte fra sé e la natura, il“sublime sentire” di cui
parlavo prima, lo rende consapevole della sua debolezza, ma anche che questa non lo
definisce appieno.
Pindaro sembra intuire però un’altra possibilità di gioia per l’uomo, oltre alle due già
descritte sopra, che sembra sciogliere il “garbuglio” di Pascal: l’attimo in cui il dio illumina
l’uomo donandogli la felicità di una speranza: “Creature d’un giorno, che cosa è mai
qualcuno, che cosa è mai nessuno? Sogno di un’ombra l’uomo. Ma quando un bagliore
discende dal dio, fulgida luce risplende sugli uomini e dolce è la vita” (Pitica 8, 89 ss.).
L’amore, forza infinita…
Mi sono accorta che in un rapporto d’amore ci sono cose, attimi, gesti o parole che a volte
risvegliano in noi una sensazione profonda e che, strappandoci alla quotidianità, danno un
senso di vertigine come se volessero portarci fuori dai limiti entro i quali viviamo di solito.
Il mio scopo non è quello di idealizzare l’amore e affermare che sia l’unica strada
attraverso cui la vera felicità si manifesta: esistono innumerevoli aspetti che identificano in
noi quella componente di “infinito” di cui parlavo prima.
Ma la più spontanea e intensa manifestazione di tutto questo nell’uomo è l’amore.
Perché ci si innamora, se non per sfuggire ai nostri limiti? Chi più della persona amata
riesce a proiettare il nostro “io” assediato dalla solitudine verso un tu che promette una
felicità all’apparenza illimitata? L’amore è tensione estrema verso l’infinito e mette a fuoco
quella parte di noi che per natura vi aspira. Leopardi ne Il pensiero dominante individua
questa tensione per cui la persona amata non consiste unicamente in se stessa, ma
ricorre in tutte le immagini, in tutti i volti, fino a costituire appunto il “dominator” della sua
mente: “parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, / quasi una finta imago / il tuo volto
imitar. Tu sola fonte / d’ogni altra leggiadria, / sola vera beltà parmi che sia” (vv. 131 ss.).
Questi versi a me ricordano lo stupore dell’innamorato che sembra intravvedere la
persona amata nel viso di altre persone, o magari nei loro gesti, e non sa se questo sia
dovuto alla sua immaginazione o piuttosto al fatto che quella bellezza sia una costante
nella realtà delle cose che si riconosce in ogni forma. Leopardi riconosce in Fanny
Targioni Tozzetti, la donna cui questo canto è rivolto, la “vera beltà”, cioè vede nella donna
qualcosa che rimanda oltre la bellezza che le appartiene.
Nell’antichità tutto ciò si manifestava sotto un differente aspetto.
Infatti, per i Greci in particolar modo, l’amore rappresentava una forza divina cui l’uomo
non poteva sottrarsi e che poteva elevarlo alla gioia più immensa, oppure abbandonarlo
trafitto e privo di speranza.
Così scrive Archiloco, poeta lirico e guerriero dell’Isola di Paro nel VII secolo a.C.: “Nella
brama d’amore io giaccio, infelice, senza più vita, dagli aspri dolori che mandan gli dei,
trafitto nelle ossa” (frag. 193 West).
Oppure come dice Saffo: “Squassa Eros l’animo mio, come il vento sui monti che investe
le querce. Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente: dolceamara invincibile
belva” (frag. 47, 130 Voigt).
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La concezione antica dell’amore è perciò legata alla fragilità. Gli uomini e le donne si
sentivano sballottati dalla passione senza possibilità di opporsi ad Eros, dio dell’amore
associato esclusivamente alla giovinezza, alla follia divina e all’istintività.
La componente affettiva che caratterizza l’idea moderna dell’amore è stata sviluppata, in
letteratura, soprattutto dal Romanticismo ed è rara da rintracciare nella poesia antica.
Tuttavia Saffo, poetessa nativa dell’isola di Lesbo, nel VI sec a.C. dice: “un esercito di
cavalieri, dicono alcuni, altri di fanti, altri di navi, sia sulla terra nera la cosa più bella: io
dico, ciò che si ama. E’ facile far comprendere questo ad ognuno. Colei che di bellezza fu
superiore a tutti i mortali, Elena, abbandonò il marito pur valoroso, e andò per mare a
Troia; e non si ricordò della figlia né dei cari genitori; ma Cipride la travolse innamorata.
Ora mi ha svegliato il ricordo di Anattoria che non è qui; ed io vorrei vedere il suo amabile
portamento, lo splendore raggiante del suo viso ben più che i carri dei Lidi e i fanti che
combattono in armi” (frag. 16 Voigt).
Saffo visse nel particolare ambiente del Tiaso, cioè un tipo di “scuola” femminile dove le
ragazze imparavano il canto, la poesia e tutto ciò che serviva per diventare mogli e madri,
e dove era convenzione che si instaurasse fra le allieve e l’insegnante, come nel caso di
Saffo, un amore omoerotico caratterizzato comunque dall’affetto. Perciò in questo canto la
poetessa riconosce nell’oggetto d’amore la vera bellezza, che non appartiene ad una
persona amata ben definita, come per esempio Anattoria, ma che da lei diparte verso
un’Idea che oggi potremmo considerare platonica.
E proprio così Leopardi, pur non conoscendo questo componimento di Saffo, scoperta
papiracea a lui successiva, si rivolge alla donna ideale che il suo sentimento lo ha portato
a concepire nel canto Alla sua donna (vv. 45 ss.) “Se dell’eterne idee / l’una sei tu, cui di
sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita, / e fra caduche spoglie / provar gli
affanni di funerea vita; / o s’altra terra ne’ superni giri / fra’ mondi innumerabili t’accoglie, /
e più vaga del Sol prossima stella / t’irraggia, e più benigno etere spiri; / di qua dove son
gli anni infausti e brevi, / questo d’ignoto amante inno ricevi”.
In ogni caso, sotto il profilo dell’amore, l’autore antico più adatto ad un confronto con
Leopardi è Catullo, poeta latino del I sec. a.C.
Infatti nelle sue poesie l’amore viene considerato un sentimento totalizzante che non
comprende soltanto l’aspetto passionale del dio Eros, come si vede nel carme 72 dove
Catullo afferma di aver amato la sua donna “come un padre ama i figli e i generi”, e quindi
nel modo più affettuoso e delicato possibile. Nel poeta latino viene perciò approfondito il
passaggio dall’oggetto d’amore a qualcosa di più grande, già anticipato da Saffo.
Catullo si innamorò di Clodia, da lui chiamata con lo pseudonimo di Lesbia, una donna di
facili costumi che lo considerò sempre come uno dei suoi tanti amanti, mentre invece per
lui Clodia rappresentò la ragione di vita. La loro storia fu un alternarsi di momenti di
passione, di tenerezza, e di altri in cui sembrava che il loro amore fosse giunto al termine
a causa dell’ennesimo tradimento da parte di lei. Così Catullo, che riversava sulla donna il
suo bisogno infinito di felicità e di amore, rimase spesso deluso dalla donna, ma non
abbandonò mai quella domanda di amore che a lei lo aveva legato, e che non riuscì mai a
spezzare fino alla morte, che lo colse a soli trent’anni.
Così si legge nel carme 72: “Una volta dicevi di conoscere solo Catullo, e che non mi
avresti cambiato neppure con Giove. Ti ho amato come un padre ama i figlie e i generi.
Ora ti ho conosciuto, e anche se brucio più forte, ai miei occhi vali molto di meno. Come
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può essere, dici? Perché l’offesa che tu mi hai fatto costringe un amante ad amare di più,
ma a voler bene di meno”.
La contrapposizione finale tra amare e voler bene denota da una parte la passione, che
continua a legare il poeta con la sua indomabile istintività, e dall’altra l’affetto che è stato
offeso, deluso, ma che non si spegne pur non trovando una risposta adatta alla propria
esigenza.
Leopardi, deluso allo stesso modo di Catullo dalle donne incontrate nella sua vita, che non
corrisposero mai il suo sentimento, nel canto Aspasia (vv. 37 ss.) descrive proprio questo:
“Vagheggia / il piagato mortal quindi la figlia / della sua mente, l’amorosa idea, / che gran
parte d’Olimpo in sé racchiude, / tutta al volto, ai costumi, alla favella, / pari alla donna che
il rapito amante/ vagheggiare ed amar confuso estima. / Or questa egli non già, ma quella,
ancora/ nei corporali amplessi, inchina ed ama. / Alfin l’errore e gli scambiati oggetti /
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa / la donna a torto”.
La pretesa che la donna, entro i suoi limiti di essere umano, possa soddisfare la domanda
di infinito che l’amore genera è forse la delusione più dolorosa cui la “sublimità del sentire”
può condurre.
Ed è per questo che Catullo scrive il suo componimento più celebre, il carme 85: “Odio ed
amo. Mi chiederai come faccio. Non so, ma lo sento accadere, e mi tormento”.
Catullo e Leopardi dunque, a distanza di secoli, intravvedono nell’oggetto d’amore ciò che
eleva il sentimento oltre se stessi, ma scoprono la persona amata inadatta a soddisfare
tale esigenza, e percorrono l’esperienza propria di ogni rapporto, anche della più pacifica
relazione fra marito e moglie, dove le differenze sembrerebbero portare all’odio piuttosto
che all’amore, ma dove invece quest’ultimo continua ad alimentarsi nella ricerca infinita di
quel “tu” che la persona amata per noi significa.
…Dalla terra al cielo
Da un punto di vista filosofico egli affermava, avendo abbracciato il sensismo, che la realtà
non poteva essere manifestazione di qualcos’altro perché niente di più poteva esistere
oltre ad essa.
Eppure in Aspasia (vv. 33 s. e vv. 63 ss.) sembra che Leopardi intravveda il divino nella
donna amata: “Raggio divino al mio pensiero apparve, / donna, la tua beltà… / Non sai /
che smisurato amor, che affanni intensi, / che indicibili moti e che deliri / movesti in me; né
verrà tempo alcuno / che tu l’intenda. In simil guisa ignora / esecutor di musici concenti /
quel ch’ei con mano o con la voce adopra / in chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta / che
tanto amai. Giace per sempre, oggetto/ della mia vita un dì: se non se quanto, / pur come
cara larva ad ora ad ora / tornar costuma e disparir. Tu vivi, / bella non solo ancor, ma
bella tanto, / al parer mio, che tutte l’altre avanzi. / Pur quell’ardor che da te nacque è
spento: / perch’io te non amai, ma quella Diva / che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. /
Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque / sua celeste beltà, ch’io, per insino / già dal
principio conoscente e chiaro / dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi, / pur nei tuoi
contemplando i suoi begli occhi, / cupido ti seguii finch’ella visse, / ingannato non già, ma
dal piacere / di quella dolce somiglianza, un lungo / servaggio ed aspro a tollerar
condotto”.
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Questo “raggio divino” che Leopardi percepisce indipendente dalla donna, o che almeno
deve a lei solo l’ispirazione, è ciò che Pindaro aveva identificato nel raggio del dio che
discende sull’uomo e che rende dolce la vita.
Leopardi e Pindaro sembrano trovarsi nella stessa situazione dell’homo religiosus, cioè
dell’uomo che si pone le domande sulla propria esistenza, chiedendosi se non ci sia in
fondo qualcosa di divino alla base della “sublimità” che prova osservando l’infinito dentro
di sé e la realtà finita in cui vive.
Tuttavia la differenza fra i due si rivela abissale se si pensa alla prospettiva alla base di
questo sentire.
Per gli uomini antichi infatti questo “raggio divino” non poteva che essere attribuito alla
scelta casuale degli dei che favorivano l’uomo o no a seconda del loro capriccio. Quindi
l’uomo, davanti alla sua debolezza e alla sua domanda si sente come su una “zattera” ad
affrontare da solo il mare della vita, come Platone, filosofo vissuto ad Atene tra il V e il IV
secolo a.C., afferma nel Fedone riguardo alla questione dell’immortalità dell’anima: “infatti,
trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o
apprendere da altri come stiano le cose oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è
impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare
e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a
meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su
più solida nave, cioè affidandosi alla rivelazione di un Dio” (85 c-d).
Platone si rende conto che se l’uomo non riesce a spiegare con le sue forze, senza
trascurare nessuna via, certi aspetti della vita umana, ci sono due possibilità: scegliere il
migliore degli argomenti umani, e quindi tentare una strada per niente al riparo da errori,
oppure affidarsi alla rivelazione di un dio. Con questa affermazione il grande filosofo
intuisce che l’unica cosa in grado di aiutare l’uomo è il suo creatore, cioè il dio, e si fa per
così dire profeta della venuta di Cristo.
La figura di Gesù infatti dona all’uomo la possibilità di unire l’umano e il divino e scioglie il
“garbuglio”, in quanto costituisce una promessa certa di felicità per il futuro, essendo
comprensiva sia del suo slancio verso l’infinito, sia della sua debolezza e nullità.
Il Cristianesimo perciò non è una possibilità di risposta qualunque, ma forse l’unica che
permetta all’uomo di tenere uniti entrambi gli aspetti della sua natura, pur all’interno di un
faticoso percorso di scoperta e confronto.
Infatti per un autore greco cristiano come Gregorio Nazianzeno, teologo e poeta del IV
secolo d.C., il rapporto con Cristo è drammatico e non rappresenta una consolazione, ma
fa sorgere quasi con più urgenza le domande sul destino, per niente placate dalla
prospettiva che la morte non è l’ultima parola sulla vita.
Il Nazianzeno giunge a delle conclusioni non meno pessimiste di quelle cui erano giunti i
pagani Teognide e Simonide, considerando la vita un monotono susseguirsi di veglia e
sonno, di malattia e salute in cui i dolori sono cominciati dalla nascita e si protrarranno
finché non giungerà il momento di “marcire nella carne”, prospettiva tutt’altro che
tranquillizzante (Greg. Naz. Carm. II, l, 74).
Dunque l’uomo, cristiano o pagano che sia, è portato per sua natura a interrogarsi sulle
medesime questioni e a giungere ad una conclusione pessimistica. Ma la differenza del
Nazianzeno consiste nel punto cui quelle domande umanissime tendono: la possibilità di
aggrapparsi a un dio presente, che offre la sua mano, e al quale l’uomo si sente legato
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tramite l’anima, elemento partecipe della natura divina, mentre solo il corpo è relegato al
destino terreno.
Perciò la morte può essere vinta, in quanto non basta a determinare pienamente la natura
umana, e ciò costituisce la certezza, per il cristiano, che il dolore della vita un giorno avrà
senso, e che si può sfuggire all’“abisso orrido, immenso / ov’ei precipitando il tutto
obblia…” (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 35 s.).
E questa, come dice Davide Rondoni, p. 106, è “la grande questione che... Leopardi pone
al pensiero contemporaneo: è vero o no che tutta questa nostra vita è fatta per arrivare a
un “abisso orrido, immenso” (che non è solo quello della morte)? Il senso del viaggio è
questo?”
Conclusioni
“Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? /
Se la vita è sventura, perché da noi si dura? / Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu
mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale. / Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì
pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; /
che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perir della terra, e venir
meno / ad ogni usata, amante compagnia. / E tu certo comprendi / il perché delle cose, e
vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a
qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l’ardore, e che procacci / il verno co’
suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. /
Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al
ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando
miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria
infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io
che sono?”
L’ampio percorso con cui ho sviluppato la mia tesi nasce dal Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia (vv. 52 ss.), che io chiamo “il canto delle domande”, e che ha suscitato
una grande domanda in me: in che modo Leopardi, uomo di infinita umanità, che ebbe la
forza di gridare al cielo “ed io che sono?” giunse a negare il significato stesso del suo
potente grido?
Ora so che non avrei trovato una risposta tanto completa se non avessi accettato la
proposta della mia insegnante.
Nel Canto Notturno sono presenti delle constatazioni negative da cui sembra che nulla
possa risollevarsi, come per esempio la descrizione dell’abisso dove “il tanto affaticar fu
volto” (v.34), cioè dove la nostra vita, secondo il poeta, avrà fine dopo essere cominciata
“a fatica” (v.39).
Eppure tutto ciò fa sorgere una contraddizione: “se la vita è sventura, perché da noi si
dura?”.
Tale interrogativo rinasce disperatamente dopo la spiegazione razionale e pessimista
dell’esistenza che pure sembrerebbe corretta. Chi può negare che la vita, in fondo, sia
sventura?
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Tuttavia ciò non basta al poeta, e fa scattare qualcosa che non appartiene soltanto a lui,
Giacomo Leopardi, ma all’umanità di cui egli si fa portavoce.
La domanda infatti sorge in ogni uomo che, conscio della propria fragilità, intravvede in sé
il desiderio di bellezza e di gioia infinita, contrastato dalla realtà al punto da concepire il
pessimismo, come fanno Teognide e Simonide, riprendendo un motivo già presente
nell’Iliade.
Alcuni uomini cercano di trarsi fuori dalla “sventura” della vita e seguono l’esortazione di
Mimnermo, cioè godono dei fragili doni che la giovinezza per un certo tempo offre, oppure
abbracciano l’ideale di “indifferenza” del saggio stoico, concentrando i proprio sforzi alla
ricerca della virtù.
Altri ancora individuano una possibile soluzione alla domanda di felicità nelle sembianze
della persona amata, come la poetessa Saffo, fino ad arrivare a Catullo, che descrive per
la prima volta l’amore come sentimento in grado di elevare l’uomo alla statura della sua
stessa infinita domanda, dove la donna amata non basta più in sé, ma diventa segno di
qualcos’altro.
Ecco che, come intuito da Pindaro, questo qualcosa d’altro, questa Bellezza con la “b”
maiuscola che fa diventare dolce la vita discende da un dio.
E allora la risposta migliore a quel bisogno d’infinito è l’Amore di un dio che costituisce una
certezza e una possibilità di gioia non più parziale, ma totalizzante.
Leopardi riconosce che né i doni della giovinezza, né l’indifferenza dello stoico bastano
per raggiungere la vera felicità e individua anche l’aspetto divino dell’amore, che però
nega razionalmente.
Ed è questa negazione che lo fa gridare sotto le stelle nel Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia.
Quando dice “a che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che
vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?” Leopardi percorre il dramma
umanissimo che ogni uomo serio con sé stesso è portato a fare nel corso della sua vita,
che non si allevia nemmeno nella prospettiva cristiana, in quanto nasce dallo stesso punto
vivo che in lui, negli antichi e in noi corrisponde.
Il parere di alcuni critici, come Sapegno, che considerano adolescenziali tali domande, non
più degne di un uomo adulto, affermano che il pessimismo e la filosofia costituiscono la
massima espressione poetica di Leopardi e che con esse il poeta abbia abbandonato e
giustamente negato la ricerca della felicità e del perché dell’esistenza.
Ma se così fosse, cos’altro mai sarebbe ragionevole chiedere a se stessi? Quale altra
ricerca nella vita avrebbe più senso di quella della felicità? E’ forse meglio distrarci dalla
vera indagine di noi stessi?
Ma Leopardi a mio parere non è solo il “poeta delle domande”, ma anche il “poeta del
desiderio”.
Questo aspetto emerge dal Canto Notturno, dove il desiderio di felicità si traduce in una
ricerca disperata, in un continuo interrogare la luna fino al momento in cui il Poeta, dopo
aver escluso tutte le possibili soluzioni una dopo l’altra ed essere arrivato alla spiegazione
razionale che la felicità non può esistere, davanti alla domanda cruciale per la sua
esistenza “E se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita?”(lettera allo Jacopssen,
1823) risponde: “Qualche bene o contento / avrà fors’altri; a me la vita è male” (Canto
notturno, vv.103 s.). Ma dopo qualche verso (118 ss.) egli è costretto ad ammettere “...un
fastidio m'ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che
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mai son lunge / da trovar pace o loco”, e secondo me ciò mostra che la riflessione
pessimistica è come superata dal desiderio di felicità che continua ad esistere e che ci fa
alzare ogni giorno.
E bene ha messo in luce Elena Landoni, p. 61, questa contraddizione di Leopardi tra la
prospettiva teorico-riflessiva, propria delle opere in prosa ma rintracciabile anche nelle
poesie, e quella poetica “sorretta sino alla fine da un'impostazione riassumibile in alcune
categorie autenticamente religiose”.
Secondo me la negazione dell’oggetto del desiderio ribadita nella terribile chiusa “è
funesto a chi nasce il dì natale” (v. 143) non fa che aumentare la forza poetica degli
interrogativi, poiché essa ci priva della speranza fondamentale che questa vita abbia un
senso, e che la felicità possa essere raggiunta attraverso un cammino di dolore che non
sia inutile, ma nello stesso tempo ci getta con prepotenza dentro la domanda proprio
perché mette in pericolo, e perciò in movimento, quel punto vivo che ci costituisce alla
radice, dal quale scaturiscono le domande: il nostro cuore.
Perciò mi sento pronta ad affermare, in conclusione della tesi, che non è il pessimismo a
determinare la grandezza di Leopardi, uomo alla ricerca di un tenero e duraturo affetto e
poeta dei “moti del cuore” che ci tocca tutt’oggi nel profondo, quanto piuttosto la sua
sensibilità nei confronti delle domande fondamentali del cuore dell’uomo.
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