Goya e l`Italia

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Goya e l`Italia
Goya e l’Italia
Claudio Strinati
Il rapporto di Goya con l’ arte italiana è stato molto studiato e approfondito ma resta incerto nelle sue linee di fondo. Di solito si tende a sostenere che nella formazione dello stile di Goya sia stata determinante la conoscenza dell’ arte di Corrado Giaquinto, il grande pittore della scuola napoletana attivo e rispettatissimo in Spagna al servizio della Corte. In effetti Giaquinto influenzò l’ ambiente spagnolo e incarnò meglio di ogni altro la figura del pittore elegante, sorridente, fresco nel colore e fluido nel disegno che delinea un mondo eletto in cui una classe dominante si potè rispecchiare senza alcun coinvolgimento con i problemi reali della storia e della società. Dato che Goya è invece ricordato e venerato proprio per la scelta opposta fino al parossismo della Quinta del Sordo ci si può legittimamente chiedere quale sia stato il dare e l’ avere tra il pittore spagnolo e l’ ambiente italiano a partire da questo singolare paradosso che vede Goya seguace, entro certi limiti e poi durissimo contestatore, di una linea di pensiero artistico che ebbe nel Giaquinto un esponente molto valido. In proposito è stata ripetutamente vagliata una celebra tesi di Roberto Longhi che attribuì a Goya una partecipazione nel ciclo di affreschi eseguiti intorno alla metà del secolo diciottesimo nella chiesa romana della SS. Trinità degli Spagnoli di Via Condotti dove è documentata la presenza del Giaquinto e del suo allievo spagnolo Antonio Gonzalez‐Velazquez. Questo raffinato allievo del Giaquinto lasciò nella chiesa vari lavori per cui il suo stile è facilmente identificabile e la connessione con il Giaquinto appare molto marcata. Il lavoro maggiore del Gonzalez‐Velazquez fu nella affrescatura della cupoletta e dei pennacchi. Il suo stile si riconosce ma alcune figure di angeli nella cupola sembrarono al Longhi distaccarsi dal tipico stile di Gonzalez‐Velazquez per una qualità maggiore e una sensibilità più marcata. Longhi ritenne che il giovane Goya avesse messo mano a quegli angeli e non ci sarebbe nulla di strano che un giovane pittore spagnolo residente a Roma avesse collaborato con un collega conterraneo in un cantiere artistico come quello della SS. Trinità di Via Condotti così importante per la produzione artistica del tempo. Questo problema ha appassionato molti storici dell’ arte ma la questione è ancora aperta. Non sono mai emersi documenti d’ archivio che possano comprovare l’ ipotesi longhiana e l’ analisi stilistica dell’ affresco vede gli studiosi separati. Chi pensa che la tesi sia convincente, chi la reputa assurda e indimostabile. Ma ciò che conta è la sostanza storica dell’ argomento. Goya, che era a Roma nel 1770, può aver collaborato o meno con Gonzalez‐Velazquez in questa impresa della SS. Trinità dei Condotti ma non c’è dubbio che in quella bellissima chiesa giunse a piena maturazione un fenomeno artistico che Goya dovette comunque avere presente e a cui avrebbe ben potuto far riferimento anche se non vi agì necessariamente in prima persona. Il cantiere della chiesa della SS. Trinità di Via Condtti si può datare, per la maggior parte delle opere ivi eseguite, intorno alla metà del diciottesimo secolo. Molti artisti vi parteciparono e crearono un contesto, fatto di pale d’ altare di affreschi e di decorazioni 1
vari, molto interessante e tale addirittura da far comprendere bene quale fosse la situazione dell’ arte a Roma poco prima che un grande rivolgimento politico relegasse l’ ambiente romano in una posizione marginale con la conseguente crescita a dismisura di quello francese. Goya non era italiano e non era francese. Non apparteneva dunque a nessuna delle due grandi tradizioni artistiche che stavano per scambiarsi il testimone ormai sempre più nelle mani dell’ Accademia di Francia a Roma e poco dopo dei pittori della Rivoluzione. Nel cantiere della SS. Trinità dei Condotti non si avverte alcun sentore di tempi nuovi ma al contrario si avverte un senso di piena soddisfazione e sicurezza che infonde al visitatore e al fedele una strana impressione di fatto compiuto e non più ulteriormente modificabile o migliorabile, tale da lasciare sostanzialmente insoddisfatti. Sull’ altare maggiore della chiesa troneggia una superba pala d’ altare del Giaquinto eseguita nel 1749 oltre venti anni prima dell’ arrivo di Goya a Roma. Vi si vede la SS. Trinità e un angelo grandioso che libera uno schiavo dalle catene. Era questa della liberazione degli schiavi una delle missioni dei padri Trinitari e quindi il quadro aveva una valenza politica oggi mal percepibile. Il quadro è un capolavoro di grazia e luminosità. Le immagini dell’ angelo e dello schiavo emanano la stessa pienezza e felicità. Non c’è alcuna relazione tra la storia reale e l’ arte, e l’ opera vale per la sua bellezza intrinseca più che per il messaggio che emette. Ma tutte le altre opere d’ arte realizzate per questa chiesa hanno il medesimo carattere anche se molto diversi sono gli stili degli autori presenti. C’è, ad esempio , un finissimo artista che ebbe poi fama internazionale, Andrea Casali che è la quintessenza del patetismo e del languore; c’è un severo pittore proveniente alla lontana dalla nobile scuola dei Caracci, Gaetano Lapis, che rappresenta come meglio non si potrebbe la compostezza e la compunzione del vero pittore religioso, nitido, pulito , amabile, ineccepibile nella rappresentazione della devozione e della santità; c’è un potentissimo maestro del barocco più clamoroso e magniloquente, Gregorio Guglielmi; c’è un aspro e dolente pittore spregiatore dlela superficialità e della facilità di eloquio, il romano Marco Benefial. Gonzalez‐Velazquez agisce in un tale contesto. Segue lo stile del Giaquinto, è solo un po’ meno luminoso e splendente. Ma si qualifica come artista di merito in perfetta consonanza con un clima culturale sempre più lontano da un qualsivoglia coinvolgimento con i veri drammi dell’ esistenza. Goya conobe bene questa cultura e apparentemente la seguì negli anni giovanili anche se, da vero spagnolo, la sua aderenza alla vita reale non venne mai meno neppure nelle prime prove in cui una delicata pasta cromatica rifulge nei suoi dipinti delicatamente formulati quasi che dovessero fungere da lieto accompagnamento di una vita nobiliare e inappuntabilmente serena, come si vede ad esempio nel ciclo del 1774, ad olio su muro, per la cappella della Certosa di Aula Dei presso Saragozza. Lui però non era così. La sua origine era umile ma gli studi erano stati buoni, favoriti del resto dall’ aver potuto vedere negli anni dell’ adolescenza maestri come Mengs e Tiepolo giunti a Madrid agli inizi degli anni sessanta, rivali memorabili e grandi artisti entrambi. Ma come Goya sia arrivato a ribaltare i presunti presupposti della sua educazione e a diventare quella sorta di artista politico, fosco, tenebroso e potentissimo nell’ espressione, non è ben chiaro specie considerando come i tanti aneddoti che nel tempo 2
di accumularono su di lui delineandone un carattere ribelle e violento sarebbero in buona parte inventati e comunque poco attendibili. Goya per noi è il grande cantore dei Cartoni per gli arazzi reali dove la dorata vita della Corte è raffigurata in un brivido di orrore e repulsione che trasforma le persone in pupazzi atoni e inconsapevoli, delle Stregonerie, del Colosso, dei tanti Ritratti in cui sembra che il pittore abbia inghiottito l’ anima dei personaggi per incatenarli a un beffardo destino, dei Fucilati del 3 marzo 1808, dei Capricci, della Tauromachia, dei Disperati. Vissuto nell’ età del Romanticismo e del Neoclassicismo, Goya non è né l’ uno né l’ altro. Non partecipa in alcun modo all’ evoluzione del filone dominante tra la fine del diciottesimo e l’ inizio del diciannovesimo secolo del Neoclassicismo di impronta italo‐
francese. Non è un rivoluzionario né un conservatore almeno dal punto di vista del linguaggio figurativo. Ma è un furibondo interprete di una sorta di disperazione generale che promana dalla coscienza dell’ individuo e sembra voler prescindere dall’ immediatezza della storia per elevarsi su un piano di universale tormento e sconvolgente delusione. Non avrebbe potuto avere un impatto sugli sviluppi dell’ arte italiana nel corso dell’ Ottocento forse proprio perchè di fatto, pur brevemente presente in Italia, non ne aveva tratto materia di interesse e aveva guardato ai modelli italiani come a relitti superati e derisi dal tempo. In un libro molto importante del 1999 Goya. The last Carnival gli autori Victor I. Stoichita e Anna Maria Coderch hanno collegato l’ ispirazione goyesca alla tradizione della follia maturata nel mondo umanistico nord europeo che, inaugurata dal libro della Nave dei Folli di Sebastian Brant alla fine del Quattrocento esplode letteralmente nell’ opera del marchese De Sade attraversando la seconda metà del diciottesimo secolo nell’ apoteosi demoniaca del mondo perverso da intendersi in una accezione che non è naturalmente la pedestre metafora sessuale della sottomissione generante il piacere ma è la proiezione universale del disagio dell’ esistenza rispetto all’ ordine sociale che non consente all’ idea stessa del trasgredire e condanna alla perdizione l’ individuo tralignante. E’ la logica goyesca così come è chiaramente espressa nel celebre avviso del Diario di Madrid del 6 febbraio 1799 che annuncia la pubblicazione dei Capricci. Nel memorabile testo è chiara la tesi in base a cui la raccolta delle sublimi e inquietanti incisioni scaturisce dalla ferma certezza di Goya che degnissimo e necessario campo di rappresentazione della pittura possa e debba essere la critica degli errori e dei vizi umani attraverso il nobilitante messaggio dell’ immagine. Il Diario dice a chiare lettere che questo tipo di arte ha un senso educativo profondo anzi è la lotta stessa contro l’ ignoranza. E’ una dimensione estetica che non appartiene alla cultura figurativa italiana o perlomeno non vi appartiene nel senso goyesco perché è innegabile che una funzione didattica e formativa sia invece ben presente nella storia della pittura e della scultura in Italia nella seconda metà del Settecento ma per lo più in chiave dottrinale cattolica e, invece, molto difficilmente come manifestazione di un libero pensiero rivolto alla critica delle distorsioni che al contrario condizionavano tutto l’ apparato figurativo con il conseguente obbligo di non poter prescindere dai presupposti dell’ iconografia consolidata, sacra o profana che fosse, se non per piccoli scarti progressivi dettati nei casi più felici dall’ estro di pittori finissimi 3
come furono, ad esempio, Felice Giani, Marcello Leopardi, Giuseppe Cades e pochi altri, paralleli per qualche verso all’ evoluzione goyesca ma lontani le mille miglia da quel mondo doloroso. Dunque non si può parlare di sintonia con l’ universo goyesco in Italia prima della fine dell’ Ottocento quando le immagini distorte e tragiche dei derelitti e dei marginali entrano nel discorso figurativo del nostro Paese, non già per influsso goyesco ma per l’ adesione agli ideali socialisti che generano un capolavoro come il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo ( esattamente cento anni dopo il citato Diario di Madrid ) dove la qualità “classica” è comunque preservata dalla eletta stesura pittorica, fino a confluire nei deliri della Città che sale di Boccioni scaturita, anch’ essa a un livello altissimo di qualità, dall’ angosciante disputa dell’ Antico e del Moderno. sentita nell’ ambiente futurista con particolare intensità. Solo a quel punto l’ arte italiana scopre la dimensione goyesca rimasta sepolta nei meandri della coscienza rivoluzionaria pure latente nel Risorgimento italiano. Saranno gli esponenti della scuola romana della pittura degli anni venti e trenta del Novecento a trovare una dimensione goyesca in parallelo alle sconvolgenti esperienze letterarie di Moravia e pochi altri. Risorge in questa scuola romana la dimensione tragica del vivere secondo il principio della maschera goyesca che si incardina sull’ individuo e lo distrugge fino a farne esplodere il terrore ineliminabile, con una logica figurativa che soltanto il cinema e il video musicale, nelle forme dello Zombie e dell’ idea del morto vivente che pure sconfina nel grottesco e nella burla, hanno potuto rappresentare nuovamente a così grande distanza da un artista come Goya. Ma non c’è dubbio che una dimensione goyesca attraversa pittori come Mafai, Scipione, Ziveri. Come Moravia questi artisti rappresentano una umanità non tanto di maschere ma di mostri metafisici che, nel loro caso, sono diretta emanazione del timore di disfacimento della città eterna non più in grado di riconoscersi dopo l’ aggressione delle avanguardie storiche volte a trovare ben altre radici e tradizioni cui collegarsi per acquisire lo statuto di dignità e fierezza cui Goya aspirò, sprofondando poi nel nulla della Quinta del Sordo ma lasciando anche un ammonimento micidiale per tutti coloro che di tempo in tempo tendono a identificare il presunto progresso della comodità sociale per alcuni e della disperazione per altri come un punto di arrivo degli scopi di un’ esistenza che crede di riuscire a esorcizzare il male qualificandolo direttamente come la sede del brutto e del riprovevole. 4