Scaricalo e stampalo

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Scaricalo e stampalo
«In forma sintetica queste sono storie di medici
e pazienti. Storie che guardano alla malattia
come a qualcosa che modifica il modo di essere
delle persone coinvolte. Cerco di raccontare il
rapporto medico-paziente mettendo in luce il
valore della relazione, la capacità di cogliere
nell’altro l’umanità ferita, dove l’altro non è solo
il paziente ma anche chi lo accompagna e chi
se ne prende cura. In questi racconti non c’è
l’esigenza di un finale ad effetto, ma la speranza
che lasciarsi coinvolgere dalla vicenda umana
dei protagonisti restituisca ai personaggi la loro
dignità di persone».
una rubrica di Patrizia Rocchi (gennaio 2010)
Ancora Natale
I
nfila le chiavi nella porta, appena il tempo di
far scattare la serratura e subito la sua voce lo
raggiunge. «Luca, sei tu? Hai preso tutto? Ti
sei ricordato le coccarde?»
Fa un respiro profondo e lascia andare le buste
in terra. Infila l’ombrello nel portaombrelli e allontana dalla fronte una ciocca di capelli fradicia. Poi
riprende le buste e le va a poggiare sul tavolo della
cucina. Le risposte gli arrivano in automatico,
non deve neppure pensarci, né calibrare le parole.
Mantiene la voce calma, con un tono pacato, priva di note di rimprovero o anche solo di disagio.
Moderatamente affettivo, controlla le pause nella
frase e persino il respiro durante il discorso. Lo
controlla senza sapere di farlo, un po’ come quando al mattino mette lo zucchero nel caffè e poi lo
mescola nella tazza. Sua moglie è nell’altra stanza.
Elena è molto bella, seduta su quel letto perfettamente pettinata e truccata, e molto particolare.
«Le coccarde le ho trovate solo rosse e dorate.
Vanno bene lo stesso?»
Lei sorride compiacente, scuote un po’ i capelli
di un bel castano dorato e scopre i denti bianchi e
perfetti, le gengive rosa e un filo di lingua umida.
Porta un rossetto color mattone appena lucido, e
la matita di un tono più scuro le disegna le labbra.
Gli occhi sono scuri e profondi, segnati da piccole
rughe.
«Tra poco arriverà Rosa e finiremo di preparare
la cena. Ora ti porto gli ultimi regali da incartare,
così finisci tu i pacchetti dato che sei molto più
brava di me».
«Pensi che sarà tutto pronto per le otto? Lo sai
come è esigente mio padre. A parole apprezza tut-
to, ma poi riesce sempre a trovare qualche difetto,
la pulizia delle cozze, la cottura dei gamberi, la
temperatura del vino…»
La ferma con un piccolo abbraccio e si siede
sul bordo del letto. Quel profumo di shampoo alla
frutta lo riporta lontano. Le sfiora la fronte con la
sua, e il naso con il naso, con piccoli gesti complici. Non sa perché ma la frutta c’entra sempre, ha
un posto importante tra loro. Sedici anni prima
mangiavano fragole e pesche bianche nei giardini
della villa comunale, quando riuscivano a vedersi
tra una lezione e l’altra in facoltà. Mordicchiavano
cracker e mele e si allacciavano su una panchina,
o dietro la panchina, o tra i cespugli. E più faceva
freddo e più sembrava bello, perché il parco era
nudo e solitario e potevano infilarsi le mani dappertutto senza doversi nascondere dai ragazzini.
Allora sbucciavano le arance e i mandarini odorosi
e si imboccavano l’un l’altro di spicchi di agrumi.
Gli piace ancora nello stesso modo, quando
non si spruzza i profumi costosi che lui le regala
nei periodi di umor nero, e sembra fresca e gustosa come una storia appena iniziata, ancora tutta da
sbucciare e assaporare.
«C’è mai stata una festa che ti sia riuscita
male?» Le risponde. «Come sempre tuo padre
porterà la sua migliore collezione di vini, criticherà
la cottura della pasta, la temperatura della stanza,
la gonna di Sofia e i pantaloni di Luca, sempre che
anche Sofia non metta i pantaloni, altrimenti criticherà che porti i pantaloni, ci affumicherà la casa
con la sua pipa e poi si addormenterà sulla poltrona mentre tua madre gli tira gomitate affettuose,
tuo fratello litiga con la moglie, mia sorella strilla
Patrizia Rocchi
ai figli e mia madre fugge in cucina a riordinare
qualcosa. Insomma, andrà tutto per il meglio come
deve andare, e poi tutti ti faranno i complimenti
e invidieranno le tue capacità organizzative senza
tentare di imitarti. Infatti non ci imitano, li invitiamo sempre noi. Ma tu sarai radiosa e irraggiungibile, e io sarò orgoglioso di te».
Riprende fiato, mentre lei ride. La bacia sul
collo, piccoli tocchi rassicuranti. Sa che funziona
sempre, naturale come lo zucchero nel caffè.
«Se tu sei convinto, io ti credo. E domani andiamo alla messa tutti insieme».
«Certo, come sempre no?»
Le sfiora la bocca.
«Ora vado a preparare qualcosa e ti porto i
pacchetti, amore».
Completa i suoi giri per le stanze, da un’occhiata ai figli che sono già ancorati a Facebook, si versa
un martini, poi altri due aperitivi con uno spruzzo
di gin, ma non troppo perché il pomeriggio è ancora lungo, la serata non è neppure cominciata e la
colf deve ancora arrivare.
«Ha detto il dottore che passa nel pomeriggio».
Gli dice lei dall’altra stanza.
«Ma dai! Il 24 dicembre, la sera della vigilia?
Ha saputo che abbiamo un regalo per lui? Sarà
venuto a riscuotere».
«Ma che dici? Dopo tanti anni che mi segue
ancora non hai capito come è fatto».
«Non ti sento amore, me lo spieghi dopo. Tanto il regalo se lo prende ugualmente».
«Tu sei una distrazione continua».
«Ma una distrazione che ti piace no? E poi da
cosa ti distraggo? Semmai ti faccio un favore. Sono
un’alternativa alla noia di tutti giorni, a quella
palla di tua moglie che ancora, nonostante tutto, si
atteggia a ragazzina».
«Sta’ zitta. Continua così ma non parlare».
Respira rapido, affannato, i capezzoli nodosi
di lei sotto le dita, l’inguine spinto addosso al suo
bacino, l’urgenza di prenderla e venire. Flora è
così giovane, così giovane da essere una studentessa, e lui il suo professore. Coetzee ci ha scritto
sopra una storia, e non solo lui, ma quel Vergogna
gli suona troppo bene, gli piace così tanto rotolarsi
nel senso di colpa, trova eccitante persino il rischio
di mettere in gioco la professione, l’orrore che potrebbe vedere negli occhi dei suoceri. Flora non si
fa pregare, anzi a volte è lui che teme di deluderla,
di non essere all’altezza delle sue richieste.
Distrarsi non è male, c’è più sesso in quel desiderio da adolescenti, in quei rapporti sui sedili
dell’auto, in quello sfiorarsi e ignorarsi e cercarsi
di nascosto ogni giorno, che in tutta la maledetta
letteratura che insegna.
Ora cominciano le vacanze di Natale. Quindici
giorni nella bolla, sospeso in attesa di sms. Ora
astinenza, funzione di infermiere premuroso e
un’ondata di affetto legittimo che comunque c’è e
rischia di farlo affogare.
Può finire il mondo ma Natale non si tocca. I
pacchetti sono sotto l’albero e l’odore della pasta
al forno si sente fino al piano terra. Quando il
dottore suona va lui ad aprirgli, con l’aria ossequiosa e riconoscente che Elena si aspetterebbe
di vedergli.
«Buona sera, dottore. È una grande cortesia
che ci fa, venire a visitare Elena proprio oggi».
Il medico lo liquida con un gesto del capo e va
spedito verso la loro stanza da letto.
Elena squittisce di gioia. Lui resta fuori, non
assiste mai ai controlli, ma gli sembra di vederla,
felice di spogliarsi (anzi, lui l’aiuta sicuramente),
mentre piega il collo da un lato, dall’altro, allunga
le mani, cerca di mettersi in piedi e fa tutti quei gesti strani che sono richiesti in un esame neurologico. Gli appare come ogni giorno, armata della sua
malattia che la rende vittima e centro d’attenzione,
una malattia che lei affronta così bene da meritarsi
i complimenti di tutti quelli che passano a trovarla, e che spendono parole affettuose, scherzano e
incoraggiano, e poi se ne vanno a casa loro. Vede
le mani di lui sulla sua pelle liscia, sulle sue gambe
senza vita, sulle cosce, sui fianchi. Chissà se le ha
mai toccato il seno. Lei avrebbe quell’espressione
appagata, in parte imbronciata in attesa di coccole,
in parte stupita dal suo caloroso interesse. Chissà
se fa così con tutte.
Quando il medico lascia la stanza lui non si fa
trovare, si chiude in bagno e aspetta che sia uscito,
ma poi sente la voce della colf che dice al medico
di accomodarsi in salotto, che il signore arriverà
subito. Non può sfuggirgli.
«Eccomi, caro dottore, mi permetta di rinnovarle gli auguri per le feste imminenti».
«Non è il momento di parlare di questo. Lei si
sarà sicuramente reso conto delle condizioni di sua
moglie».
Il medico fa una pausa, con le mani appoggiate
alla valigetta di pelle e le gambe un po’ divaricate.
Lui si accorge che ha l’aria stanca, un calzino sceso
quasi alla caviglia e il collo della camicia sbottonato. Avverte che se il dottore è ancora lì è per
comunicargli qualcosa che lui non ha alcuna voglia
di sapere.
«Le condizioni di Elena mi sembrano sempre
le stesse, alcuni giorni va meglio, altri peggio. È
l’andamento della malattia, no? È proprio della
sclerosi, mi pare. Sono quindici anni che andiamo
avanti così».
Patrizia Rocchi
«Sua moglie ha dolore, parestesie, il segno di
Lhermitte – che in pratica consiste in scosse elettriche che percorrono la schiena – e un progressivo deficit cognitivo. Inoltre presenta incontinenza
occasionale e alterazioni della strutturazione del
linguaggio. In una parola sta peggiorando, e sta
passando da una tipologia di malattia a una più rapida e aggressiva. Ho concordato con lei un ricovero appena passate le feste, ma non sono neppure
certo che mi abbia capito del tutto. Per questo
dovevo vederla. Sua moglie sembra distaccata dalla sua condizione, è assente. Credo che sia in parte
inconsapevole del suo stato».
Il medico si solleva dalla poltrona con fatica.
Lui lo guarda senza riuscire a muoversi, oppresso
dalla gravità dell’altro. Vergogna, vergogna. Vorrebbe essere smascherato, vorrebbe vedere nello
sguardo del dottore tutto il suo disprezzo. Invece
quell’uomo non mostra nient’altro che la voglia di
andarsene e la preoccupazione di aver terminato il
proprio lavoro. Non lo condanna e non lo assolve.
Non è neppure il suo medico. È quello di Elena,
chissà per quanto ancora. Solo allora realizza quello che si era rifiutato di capire.
«Può morire? Dottore, potrebbe peggiorare
fino al punto da rischiare la vita?»
«Forse non sono stato chiaro. Sta già accaden-
do. Per questo dobbiamo ricoverarla e probabilmente cambiarle la terapia».
Ora il medico si muove più velocemente. Si avvicina alla porta, gli tende la mano e apre la bocca
per formulare i saluti di rito ma lui lo precede. «La
lasci andare». Gli dice. «Non tenti terapie eroiche.
La lasci andare».
«Non ho capito. Vuole che la lasci morire? Che
l’abbandoni a un’evoluzione maligna senza cercare
di curarla? Vuole che sia io a decidere il suo futuro?»
«Elena rifiuterebbe di diventare una larva incapace di muoversi, di pensare, di decidere quando
urinare. Già così, la sedia a rotelle, la stanchezza
cronica. La lasci morire. Senza dolore, con dignità».
Il medico scuote la testa. «Non sono qui per
liberare lei da un problema. Non posso affrontare
questo discorso ora, e forse non lo farò neppure in
futuro. Non parli con me, parli con sua moglie e
con se stesso. So molto bene che seguire una persona con un’invalidità grave e progressiva non è
facile. Avrete un supporto psicologico. Non posso
dirle altro».
Poi si libera di quella conversazione gravosa e
si chiude la porta alle spalle.
Elena già lo chiama. Potrebbe morire. Morirà.
Lui respira profondamente. Tra poco arrivano
gli ospiti. Natale non si tocca.
Patrizia Rocchi