prima - Fisco Oggi

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La legislazione sulle Cfc (1)
Dal diritto comparato alla situazione italiana (1)
La promulgazione, in molti Stati industrializzati1, di una normativa sulle “Controlled foreign
companies” è una tendenza manifestatasi negli ultimi decenni del ventesimo secolo, allo scopo di
colpire la pratica, sempre più accentuata, di trasferire in Stati o territori a fiscalità più vantaggiosa le
attività maggiormente redditizie, o i capitali da investire in attività non operative.
Tale forma di “delocalizzazione” si pone a cavallo tra la legittima pianificazione fiscale ed elusione,
e tende alla costituzione di realtà indipendenti.
La creazione, infatti, di semplici branch o stabili organizzazioni, che non godrebbero di autonomia
giuridica dalla società madre, causerebbe la riconducibilità del reddito estero al soggetto residente
nello Stato a fiscalità ordinaria (in virtù del c.d. world wide principle, che vede l’ordinamento
sottoporre a imposizione anche i redditi esteri dei soggetti residenti).
Da tale tendenza trovano origine le norme sulle “Cfc” (dette anche Cfc legislation o Cfc rules), che,
con l’utilizzo di vari criteri, imputano al soggetto controllante nazionale tutto o parte del reddito,
rectius dell’utile distribuibile, prodotto dalle società controllate estere.
La cfc legislation: i motivi di una scelta
Di sicuro interesse per l’interprete è comprendere se il fenomeno elusivo della “delocalizzazione dei
redditi” sia stato sempre presente nei sistemi fiscali dei Paesi più industrializzati, o se esso
costituisca, in un certo senso, una tendenza tipica degli ultimi decenni del ventesimo secolo, periodo
temporale in cui si registra la promulgazione di una legislazione ad hoc.
A tale proposito il rapporto Ocse “Studies in taxation of foreign source income – Controlled
Foreign Companies Legislation” del 19962 evidenzia che negli ultimi decenni dello scorso secolo:
- la quantità e la complessità degli scambi internazionali si è molto accresciuta;
- uno dei motivi alla base dell’incremento è la particolare efficienza raggiunta dai mezzi di
comunicazione, e, più in generale, dallo sviluppo tecnologico;
- si è affermata la prassi di costituire sinergie tra soggetti residenti in diversi Stati allo scopo di
potenziare la produzione, il marketing e, più in generale, l’efficienza tecnologica di ciascuna realtà
imprenditoriale;
- la rimozione delle barriere che in precedenza impedivano la movimentazione dei capitali ha
permesso alle realtà multinazionali, che hanno incrementato rispetto ai decenni precedenti le proprie
quote di mercato, l’adozione di pratiche ritenute, da alcuni Stati, lesive delle proprie prerogative
fiscali.
La legislazione Cfc, precisa il rapporto Ocse, è stata concepita principalmente “as an instrument to
guard again the unjustifiable erosion of the domestic tax base by the export of the investment to
non-resident corporations”3 ma è anche utilizzabile per conseguire un risultato di minore portata,
ovvero il rafforzamento degli strumenti del singolo Stato nei confronti del transfer pricing.
Di conseguenza è lecito desumere che, se nei decenni e addirittura nei secoli scorsi la fruizione di
regimi fiscali più vantaggiosi era possibile (specialmente se il regime di favore era proprio di uno
Stato confinante), a patto di sfuggire ai diffusi divieti di esportazione di valuta, con la
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Status che spesso coincide con l’adozione di un avanzato sistema fiscale.
Si rinvia, per la consultazione, al sito Internet http://www.oecd.org.
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Per tutelare l’ingiustificabile erosione della base imponibile tramite la realizzazione di investimenti a beneficio di
società non residenti.
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liberalizzazione dei mercati e lo sviluppo delle nuove tecnologie la diffusione di tali prassi ha
raggiunto un livello particolarmente dannoso per lo Stato a fiscalità ordinaria.
Il danno creato all’erario viene solitamente definito come “tax deferral”4: ovvero come
indeterminato differimento della tassazione sugli utili realizzati dalla società estera, che si guarda
bene dal distribuirli, visto che i relativi dividendi sconterebbero, in capo alla controllante,
l’imposizione dello Stato a fiscalità ordinaria.
E’ anche necessario evidenziare che in alcuni “paradisi fiscali” è maggiormente diffuso uno scarso
rispetto dei princìpi volti alla formazione del bilancio d’esercizio, con la conseguenza che gli utili
non distribuiti, accantonati in riserve, potrebbero, ad esempio, essere artatamente “erosi”, negli
esercizi successivi, da perdite generate tramite costi artificiosi.
La disciplina Cfc, unitamente alla richiesta di esibizione di bilanci certificati da società di revisione
(nel caso sia necessario fornire la prova di effettiva operatività della controllata estera),
costituiscono un argine anche per tali comportamenti fraudolenti.
I precedenti storici in materia
L’ordinamento precursore in tema di Controlled foreign companies è quello degli Stati Uniti. Già
negli anni ’30 dello scorso secolo si dotarono per primi di una legislazione “Cfc”, ampliandone la
portata nel 1962 (c.d. Subpart F legislation). Negli Stati Uniti, come noto, vige il criterio della
cittadinanza, secondo cui sono sottoposti a imposizione i cittadini, ovunque residenti, relativamente
ai redditi prodotti anche al di fuori del territorio della Confederazione. La Repubblica federale di
Germania, primo Stato europeo, ha provveduto a adottare una legislazione Cfc nel 1972 mentre la
Francia e il Regno Unito rispettivamente nel 1980 e nel 1984.
Le caratteristiche della Cfc legislation
La dottrina distingue, a livello di macrocategorie, due grandi filoni normativi:
- il primo si basa sul c.d. transnactional approach, che sanziona soltanto alcune tipologie di reddito
prodotte dalla società controllata estera, disinteressandosi della sua localizzazione. In questo caso il
reddito colpito è solitamente il c.d. “passive income”, (ovvero reddito di capitale, dividendi,
royalties, canoni di locazione, e così via) per sua natura non generato da una attività “operativa”.
Una efficace definizione di “passive income” è stata offerta dalla circolare Assonime n. 65 del 18
dicembre 2000, che lo identifica come il reddito “derivante, più che dall’esercizio di una effettiva
attività economica, dalla produttività insita in cespiti di facile mobilità, quale, tipicamente, il
reddito di natura finanziaria…”. Il transnactional approach è stato adottato, ad esempio, in
Germania, negli Stati Uniti, in Danimarca e Spagna. In Spagna, in particolare, rilevano (ai fini del
calcolo necessario a verificare la misura della loro diretta imputabilità alla società residente) i
redditi derivanti da beni immobili, da attività e servizi finanziari e i capital gain generati dalla
cessione di tali attività;
- il secondo si basa invece sul c.d. jurisdictional approach (o locational approach), ed è l’approccio
normativo seguito ad esempio dalla Francia (ordinamento cui si ispira il nostro sistema)5 che, in
prima battuta, identifica una serie di Stati o territori a fiscalità privilegiata (c.d. “paradisi fiscali”)
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“The postponement of domestic taxation is commonly referred to as <<deferral>>. The only tax currently levied on
the foreign income of foreign corporations is the foreign corporate tax. Domestic tax is deferred until the resident
shareholders receive distributions form the foreign corporation or dispose of their shares. Where the foreign corporate
tax is non-existent or insignificant in comparison to the tax which would be charged if the foreign corporation were
treated as a domestic corporation, they may be substantial monetary advantages in earning certain forms of income
through such foreign corporations”. (Rapporto OCSE “Studies in taxation of foreign source income – Controlled
Foreign Companies Legislation”, Cap. I par. C, 1996).
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Altri Stati che adottano il jurisdictional approach sono ad esempio il Regno Unito (1984), la Svezia (1990), il
Portogallo (1995).
elencandoli in un provvedimento di legge periodicamente aggiornato (“black list”), oppure, in un
procedimento a contrario, elencando soltanto i Paesi che non godono di un trattamento fiscale
privilegiato (c.d. “white list”).
Sono anche possibili elencazioni che ricomprendono Stati considerati “paradisi fiscali” soltanto se
torni applicabile una determinata normativa locale di favore, oppure che consentano alla
controllante una dimostrazione del regime di tassazione subìto dalla controllata. E’ questo il caso
delle c.d. “grey list”. Peculiare l’esempio della Nuova Zelanda, che, dal 1993, ha abrogato la
“black list” vigente dal 1988 e adottato una legislazione Cfc molto restrittiva, che considera
“paradisi fiscali” tutti gli altri Stati con una imposizione complessivamente inferiore alla propria,
fatti salvi quei pochi (meno di una decina) elencati in una “white list”.
La compatibilità con altre norme giuridiche
La legislazione Cfc, nelle sue svariate configurazioni, deve comunque mantenere la compatibilità
con le altre norme giuridiche vigenti. A tale proposito vengono sollevate, tradizionalmente, due
obiezioni:
1) la compatibilità delle norme Cfc con l’articolo 7 del Modello Ocse di Convenzione contro le
doppie imposizioni che stabilisce l’imponibilità del reddito d’impresa esclusivamente nello Stato di
residenza. La questione è di particolare importanza perché su questo modello, periodicamente
aggiornato, si fondano numerose Convenzioni fra Stati che nei singoli ordinamenti,
successivamente alla ratifica, assumono forza di legge. L’articolo 7 del Modello, in particolare,
stabilisce che “gli utili di una impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto
Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una
stabile organizzazione ivi situata”. Evidentemente questa previsione potrebbe cozzare contro le
norme Cfc, che dispongono la rilevanza del reddito di una società estera, soggettivamente distinta
da quella residente, nello Stato di quest’ultima. Si segnala, tra l’altro, che anche le Convenzioni
stipulate dall’Italia riprendono fedelmente quanto suggerito dall’articolo 7 del Modello, come
risulta, ad esempio, dalla formulazione dell’articolo 7 della recente Convenzione Italia-Uzbekistan,
ratificata con la legge n. 22 del 10 gennaio 2004 e in vigore dal 26 maggio 20046.
In realtà non soltanto la dottrina, ma anche l’Amministrazione finanziaria ha avuto occasione di
precisare che non si ravvisano conflitti tra le norme Cfc e l’articolo 7 citato. La circolare n. 207/E
del 16 novembre 2000, al paragrafo 1.1.1, in cui vengono commentate le nuove norme Cfc inserite
nel nostro ordinamento, evidenzia:
“...considerato che molti Stati hanno stipulato con l'Italia Convenzioni contro le doppie
imposizioni, si ritiene opportuno precisare che le disposizioni introdotte dalla normativa in esame
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L’art 7 della “Convenzione tra il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica dell'Uzbekistan per
evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali”
recita:
“1. Gli utili di un'impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l'impresa non
svolga la sua attività nell'altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l'impresa svolge
in tal modo la sua attività, gli utili dell'impresa sono imponibili nell'altro Stato ma soltanto nella misura in cui detti
utili sono attribuibili a:
a) detta stabile organizzazione, ovvero
b) vendite in detto altro Stato di beni o merci di natura identica o analoga a quelli venduti per mezzo di detta stabile
organizzazione.
2. Fatte salve le disposizioni del paragrafo 3, quando un'impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività
nell'altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato contraente vanno
attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di
un'impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena
indipendenza dall'impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione.
3. Nella determinazione degli utili di una stabile organizzazione sono ammesse in deduzione le spese sostenute per gli
scopi perseguiti dalla stessa stabile organizzazione, comprese le spese di direzione e le spese generali di
amministrazione, sia nello Stato in cui è situata la stabile organizzazione, sia altrove (…)”.
non appaiono in contrasto con quelle convenzionali e pertanto si dovranno ritenere operanti anche
in presenza di Convenzioni che non contengano apposite clausole dirette a salvaguardare
l'applicabilità della normativa Cfc”.
Aspetto rilevante è che in molte Convenzioni7 vengono inserite previsioni che salvaguardano
l’applicazione della normativa interna in ambito Cfc, evitando a maggior ragione il conflitto con
l’articolo 7 citato.
2) la compatibilità delle norme Cfc con il principio di libertà di stabilimento di cui agli articoli 43 e
48 del Trattato dell’Unione europea. Il testo vigente dell’articolo 43, in particolare, precisa che “le
restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro
Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di
agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno
Stato membro”.
La norma deve essere letta in connessione all’articolo 48, che ne estende il versante applicativo: “le
società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale,
l'amministrazione centrale o il centro d'attività principale all'interno della Comunità, sono
equiparate, ai fini dell'applicazione delle disposizioni del presente capo, alle persone fisiche aventi
la cittadinanza degli Stati membri..8”.
Le norme citate, come è evidente, riguardano i soli Stati dell’Unione europea. Di conseguenza esse
entrerebbero in conflitto con le locali normative Cfc soltanto se queste ultime sanzionassero la
delocalizzazione in altri Stati appartenenti all’Unione europea. Ebbene, nella gran parte delle black
o grey list degli Stati dell’Unione europea non vengono ricompresi altri Stati dell’Unione, se non, in
rari casi, soltanto per particolari legislazioni di favore che tornano applicabili ad alcuni tipi
societari; senza, quindi, che possa considerarsi violata la libertà di stabilimento.
Antonio Karabatsos
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Germania e Francia hanno stipulato svariate convenzioni contenenti norme che salvaguardano l’applicazione della
propria legislazione Cfc.
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L’articolo continua inoltre stabilendo che “per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale,
ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad
eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro”.