Fenomenologia della sindrome NIMBY - Tocqueville

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Fenomenologia della sindrome NIMBY - Tocqueville
focus paper, n. 36 – settembre 2014
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FENOMENOLOGIA DELLA SINDROME NIMBY
di ROBERTO ADRIANI
Adjunct Fellow Centro Studi Tocqueville-Acton
Nota
Il paper che segue è stato estrapolato dalla ricerca intitolata Effetto Nimby: ipotesi di prevenzione
e contenimento. La comunicazione come leva strategica.
La ricerca è stata realizzata in collaborazione con IASSP – Istituto Alti Studi Strategici e
Politici e avvalendosi del contributo di quattro esponenti dell’Istituto: il Prof. Giuliano
Urbani, il Prof. Nicola Piepoli, il Generale Carlo Jean e il Prof. Antonio Maria Rinaldi, ai
quali va il mio ringraziamento.
Abstract
Il cosiddetto fenomeno Nimby (Not In My Backyard) è uno dei maggiori ostacoli che oggi
rallentano, e talvolta impediscono, la realizzazione di un’opera in Italia.
L’opposizione alla realizzazione di un’opera infrastrutturale è prevalentemente esercitata da
parte delle comunità locali nella cui area geografica dovrà essere realizzata, anche se spesso
questa opposizione trova spazi di consenso anche a livello nazionale, oltre che risonanza
mediatica e politica.
Il Nimby è un fenomeno nel quale operano dinamiche complesse, che richiedono di un
approccio multidisciplinare per essere studiate. Dalla sociologia, alla psicologia, alla scienza
politica e ai media studies.
L’articolo che segue prende in esame la nascita di questo fenomeno, non tipicamente
italiano ma che nel nostro paese trova ampia diffusione, le sue modalità di funzionamento,
oltre al modo in cui la leadership viene esercitata.
Parole chiave: Nimby, comunità, paura, leadership, consenso, fiducia/sfiducia.
1
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Origini e caratteristiche dei Nimby movements
Nimby: not in my backyard, è l’acronimo ormai universalmente utilizzato per indicare una
opposizione, generalmente accompagnata da manifestazioni pubbliche, verso la
realizzazione di un’opera di una certa dimensione e impatto. Fenomeni Nimby riguardano
tradizionalmente l’avversione per la realizzazione di impianti industriali, infrastrutture per il
trasporto, energia, rifiuti e simile.
Si tratta di un acronimo che ha avuto larga fortuna a livello internazionale all’interno di
varie comunità professionali, quali economisti, esperti di grandi opere, specialisti della
comunicazione e delle scienze sociali, giornalisti e mondo politico, sino a divenire un
termine ormai largamente conosciuto e utilizzato.
Riguardo alla nascita del termine Nimby, vi è in letteratura un certo consenso nel datarne la
nascita al 1980, quando questa sigla fu utilizzata per la prima volta da Walter Rodgers,
esponente dell’American Nuclear Society1.
Tuttavia altri autori retrodatano di circa un decennio questo acronimo2, che comparirebbe
invece, seppure in forma gergale, nel linguaggio utilizzato negli anni Settanta dai manager di
aziende operanti nella gestione dei rifiuti tossici, che lo usavano per indicare i movimenti di
protesta contro gli impianti di trattamento e stoccaggio3.
In Gran Bretagna invece l’acronimo si diffonde a seguito delle proteste contro l’espansione
residenziale nelle campagne, permessa dalla nuova legislazione varata dal Ministro
dell’Ambiente Nicholas Ridley, il quale utilizza esso stesso il termine Nimby, dandone così
grande notorietà nell’opinione pubblica britannica4.
Possiamo quindi dire che questi movimenti nascono a cavallo tra gli anni Settanta e
Ottanta, quando nei Paesi sviluppati si afferma l’idea dell’attenzione all’ambiente come
precondizione per condizioni di vita salutari.
Se da un lato questa aspirazione appare del tutto legittima, dall’altro spesso finisce per
assumere connotati propriamente politici che nulla hanno più a che fare con il confronto
costruttivo e la corretta informazione.
Non è una caso che spesso le battaglie contro un’infrastruttura siano trascese, divenendo in
realtà solo un momento, un simbolo, di una più ampia “weltanschauung”.
Non è un caso che i movimenti Nimby siano nati nei Paesi più sviluppati, nei quali si è già
goduto del frutto del progresso scientifico e tecnologico. Comunità benestanti se
confrontate con altre che non hanno goduto delle medesime opportunità.
La letteratura parla in questo caso di razzismo ambientale, un concetto affrontato anche da
Bullard nei suoi studi sulla giustizia ambientale.
Bullard rimprovera infatti alle comunità bianche agiate degli Stati Uniti di opporsi ad
infrastrutture nei loro territori per motivi ambientali, ma di essere accondiscendenti qualora
1
http://www.etymonline.com/index.php?term=nimby
Mengozzi A., Il GIS nel mio cortile, in: Quaderni del Territorio. Rappresentare la Territorialità (a cura di
Bonora P.), n°1, Bologna, novembre 2011, Università di Bologna Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà,
pgg. 27-80.
3 Travel Livezey E., Hazardous Waste, Christian Science Monitor, Nov. 6, 1980.
4 Hubbard P., Nimby, in: International Encyclopedia of Human Geography, Kitchin R. e Thrift N., Oxford,
2009, Elsevier Ltd., pgg. 444-449.
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queste vengano invece realizzate nei territori abitati da comunità afroamericane più deboli
politicamente e meno abbienti, o altrove in Paesi in via di sviluppo5.
Proprio perché i movimenti Nimby sono spesso associati anche ad una diversa, e legittima
fintanto che sia espressa pacificamente, visione della società, la comunità internazionale
degli studiosi si è sforzata di trovare un altro acronimo che descrivesse queste forme di
opposizione in modo più asettico, proprio per favorirne lo studio ed evitare il più possibile
la contaminazione ideologia delle scienze sociali che presiedono a questo studio.
A questo scopo è stato coniato nel 1981 dal Prof. Frank Popper il termine LULU: Locally
Unwanted Land Uses.
A differenza dell’acronimo Nimby, dove l’accento viene posto sulla dimensione locale e
proprietaria del luogo dove realizzare l’opera (il mio cortile) e quindi con un’accezione
larvatamente egoistica, il termine Lulu indica una generica contrarietà all’utilizzo di un
determinato territorio per un determinato uso, indipendentemente che sia il proprio o
quello di un altro soggetto o comunità6.
Questo sforzo ha però prodotto risultati modesti. La letteratura riporta infatti da un lato
l’affermarsi sempre maggiore del termine Nimby, dall’altro l’esplosione di altri acronimi più
o meno fantasiosi, ma non consolidati, volti a descrivere diverse sfumature e gradi di
Nimby.
NIMTOO: Not In My Term Of Office
CAVE people: Citizens Against Virtually Everything
BANANA: Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone
NIABY: Not In Anyone’s BackYard
NOPE: Not On Planet Earth.
Altri acronimi sono invece nati per identificare fenomeni esattamente opposti (comunque
poco numerosi) ovvero di accettazione nel proprio territorio.
YIMBY: Yes In My Back Yard7 o PIMBY: Please In My Back Yard.
La sindrome Nimby
Pur essendo l’opinione pubblica italiana tradizionalmente cauta verso le grandi opere (si
vedano i ripetuti sondaggi sulla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina ad esempio)
il fenomeno Nimby ha in realtà una forte vocazione territoriale.
Questa peculiarità deriva dal fatto che, nella maggior parte dei casi, i movimenti locali che si
oppongono all’opera motivano la loro contrarietà con timori sulla salute delle popolazioni
che vi abitano derivanti dall’opera stessa (stabilimenti industriali, rigassificatori, cementifici
ecc…).
Se da un lato questi timori sono ovviamente comprensibili, dall’altro spesso sono anche il
frutto di una scarsa capacità di comunicazione e dialogo da parte dei soggetti proponenti.
5
Bullard J., Confronting Environmental Racism: Voices from the Grassroots Boston, Boston, 1993, South
End Press.
6 Burningham, K., Using the Language of NIMBY: A topic for Research not an activity for researchers., in
Local Environment Vol. 5, 2000, No. 1, pgg. 55-67.
7 Burningham K., Barnett J. & Thrush D., The limitations of the NIMBY concept for understanding public
engagement with renewable energy technologies: a literature review, Working Paper 1.3, Manchester, 2006,
School of Environment and Development, University of Manchester, pg.5.
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In particolare le istituzioni pubbliche e le aziende che devono presiedere alla realizzazione
dell’opera.
Per tutti questi motivi la sindrome Nimby deve essere distinta da una generica contrarietà,
o scetticismo, verso una determinata opera, motivata solo da considerazioni economiche
quali l’eccessiva dispendiosità o l’inutilità, come nel caso del ponte sullo stretto ad esempio.
È infatti ipotizzabile che, qualora il progetto del ponte sullo stretto prendesse davvero il
via, nascerebbero anche in questo caso dei movimenti locali di opposizione all’opera. Anzi,
addirittura questo è già accaduto, con la nascita qualche anno fa del movimento No Ponte
(http://www.noponte.it/).
Movimento attualmente più o meno silente ma che, con tutta probabilità, tornerebbe ad
incarnare più che mai il ruolo di principale protagonista, sul territorio appunto, di lotta
contro l’opera, qualora questa dovesse concretamente prendere il via.
Già dalla sua natura, risulta quindi evidente che la sindrome Nimby è un fenomeno difficile
da contrastare, perché affonda le sue radici in ciò che di più caro ciascuno di noi ha, ovvero
la salute e il benessere proprio e dei propri familiari.
È anche per questo che i Nimby movements, una volta emersi, sono difficili da contrastare
ex post. Ragion per cui sarebbe più saggio, utile e meno dispendioso, fare precedere l’avvio
di un’opera da un articolato processo di dialogo con il territorio, onde evitare sin dall’inizio
la nascita di timori infondati e trovare invece soluzioni su quelli che possono avere un
qualche fondamento.
In questa delicata fase giocano un ruolo fondamentale anche gli organi di informazione. I
media sono un soggetto strategico nella costruzione del dialogo con il territorio, purtroppo
neanch’essi non sempre scevri da pregiudizi.
Riguardo il delicato ruolo dei media, è utile qui riportare un’analisi condotta dal Nimby
Forum già nel 2008 sulla rappresentazione del fenomeno da parte dei media.
Rappresentazione che oggi pare non essere molto mutata, anche se con l’esplosione del
web 2.0 i media non sono ormai più gli unici detentori dei canali di informazione su questo
tema, come in generale su qualunque argomento.
Secondo l’Osservatorio Media Nimby Forum, si osserva che i mezzi d’informazione
confermano la tendenza a dare spazio con maggiore frequenza alle istanze di chi si oppone
alle opere di pubblica utilità. Prevale quindi un’informazione nettamente sbilanciata, se non
altro in termini di spazio e visibilità concesse, a favore dell’opposizione agli impianti censiti.
Le posizioni “contro”, che si attestavano attorno al 55% nel corso della prima edizione,
sono risultate in costante aumento fino a raggiungere il dato rilevato nel 2008, che vede il
68% degli articoli analizzati riportare in prevalenza, se non esclusivamente, posizioni di
opposizione all’impianto in questione.
Marginale, e in diminuzione rispetto al 10,5% rilevato nella terza edizione, è l’incidenza
degli articoli che riportano una percezione positiva degli impianti censiti (7,1%).
Appare invece pressoché stabile la percentuale relativa agli articoli neutrali (24,9%) in cui
sono esposte in maniera bilanciata sia le posizioni “contro” sia le posizioni “a favore” dei
progetti censiti.
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Le osservazioni sulla parzialità della percezione del fenomeno fornita dalla stampa, relative
a un’accentuata tendenza a connotare negativamente le notizie inerenti casi di
contestazione, trovano conferma anche esaminando i titoli degli articoli, caratterizzati da un
forte sensazionalismo.
Le espressioni “no”, “opposizione”, “contro”, confermano il primato nella classifica delle
espressioni maggior- mente utilizzate dai titolisti detenuto fin dalla prima edizione
dell’Osservatorio Nimby Forum.
Seguono, nelle prime posizioni della classifica, ulteriori vocaboli connotati negativamente
quali “battaglia”, “lotta”, “scontri” o ancora “protesta”, “polemica” e “manifestazione”,
“corteo”, “presidio”.
Nell’effettuare questa analisi non si può tuttavia prescindere dall’esigenza di sintesi di chi
scrive i titoli e dalla consapevolezza che gli elementi negativi catalizzano maggiormente
l’attenzione del lettore.
Per questo motivo sono molto diffusi titoli d’effetto, che lasciano presagire articoli
fortemente polemici e nettamente contrari all’opera in questione. Riportiamo alcuni
significativi esempi: “L’opposizione va alla guerra contro il mega eolico”, “No agli
inceneritori, portatori di malattia e morte”, “La discarica come una bomba ecologica”,
“Quel rigassificatore distruggerà il mare”8.
Chiediamoci adesso quanto costa la sindrome Nimby, ovvero quali sono i costi che il
sistema Paese nel complesso deve sostenere per la mancata o ritardata realizzazione di
un’opera necessaria.
Gli ultimi dati del rapporto Nimby Forum, mostrano per la prima volta una lieve flessione
del numero degli impianti contestati, anche se questo trend non deve indurci a facili
ottimismi. In primo luogo perché il numero complessivo (336 impianti) rimane ancora
molto alto. In secondo luogo perché la crisi ha contratto gli investimenti in nuove opere.
Come dicevamo sono 336 gli impianti contestati censiti dal rapporto Nimby Forum
edizione 2014 (dati 2013), in diminuzione del 5% rispetto all’edizione precedente.
La rilevazione 2013 conferma il trend settoriale già emerso nelle ultime edizioni del Forum,
con una netta preponderanza del comparto elettrico (213 impianti contestati, pari al 63,4%
del totale) sugli impianti relativi al trattamento e allo stoccaggio di rifiuti urbani e industriali
(85 impianti, 25,3%) e sul settore infrastrutture, per cui si contano 32 opere osteggiate
(9,5%). Nella categoria “comparto elettrico” rientrano gli impianti per la produzione di
energia elettrica da fonti convenzionali e rinnovabili, oltre alle infrastrutture di trasporto e
stoccaggio di elettricità e gas9.
Contestazioni locali e interessi generali
Una variabile fondamentale per capire e gestire i fenomeni Nimby, è data dalla
contrapposizione tra interessi particolari e interessi generali.
8
Nimby Forum, Il passo lento. Energia, ambiente e infrastrutture in Italia. Governance territoriale, dialogo e
sviluppo sostenibile per superare la crisi. IV Edizione, 2008, Milano, Fondazione Aris, pgg. 18-19.
9
Nimby Forum, Sblocca-Italia. Ultima chiamata Semplificazione e sostenibilità, ripresa economica e rilancio
infrastrutturale: quale Italia stiamo costruendo?, Milano, IX Edizione, 2013, Allea – Comunicazione e
Relazioni Istituzionali, Aris – Agenzia di ricerche, Informazione e Società, pgg- 19-23.
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Detto in altri termini, del timore o convinzione della popolazione locale che i benefici
dell’opera sarebbero di tutta la collettività nazionale, mentre i costi, anche in termini di
rischio salute, solo a carico delle comunità locali10.
A ciò deve aggiungersi che i benefici possono distribuirsi in modo ineguale anche livello
locale e favorire maggiormente alcuni gruppi a scapito di altri, così come i costi possono
gravare maggiormente su talune categorie di residenti11.
Si tratta questa di una variabile fondamentale e della quale sono ben consapevoli anche gli
stessi attivisti che si oppongono all’opera da realizzare.
Come abbiamo visto in precedenza, sottolineare esclusivamente l’aspetto locale della
protesta da parte degli oppositori, rischia di far percepire questi ultimi come arroccati su
posizioni sostanzialmente egoiste e quindi non solo incapaci ma addirittura ostili all’idea di
guardare ai vantaggi che l’opera arrecherebbe invece alla collettività, vantaggi che ne
giustificano appunto la realizzazione.
Gli attivisti Nimby sono ben consapevoli di questo rischio e cercano di minimizzarlo
opponendo non semplicemente la loro contrarietà all’opera, ma una vera e propria visione
alternativa della società, nella quale i rapporti politici, economici e sociali sono ridefiniti
spesso su basi solidaristiche e sostanzialmente ostili, o almeno fortemente diffidenti, verso
l’economia di mercato12.
Si tratta di un fenomeno che è stato definito di salita in generalità, ovvero di socializzazione
della protesta, di allargamento dei confini sociali, geografici e possibilmente anche politici,
della protesta13.
Alla luce delle dinamiche suesposte che attraversano i movimenti Nimby, occorre tuttavia
sottolineare che questa salita in generalità può avere sostanzialmente due tipi di
motivazioni.
La salita in generalità è un puro artificio retorico, una tecnica di comunicazione mirante a
contrastare il rischio di isolamento del movimento di opposizione.
È chiaro infatti che un approccio esplicitamente egoistico (no all’opera nel mio territorio
ma si in quella del mio vicino) avrebbe ben poche possibilità di conquistarsi un consenso
fuori dal proprio ambito e quindi sarebbe inevitabilmente destinato alla sconfitta per mano
(Governo, aziende ecc…) di chi propone l’opera.
La socializzazione della protesta diventa allora un espediente per coprire un atteggiamento
da free raider, ossia di una comunità che desidera godere dei vantaggi prodotti dall’utilizzo
dell’opera ma non vuole sostenerne alcun costo, preferendo scaricarlo su un’altra comunità,
più o meno vicina.
10
Fedi A., Mannarini T. (a cura di), Oltre il Nimby. La dimensione psico-sociale della protesta contro le opere
sgradite, Milano, 2008, Franco Angeli, pg. 16.
11 Nespor S., Alta Velocità e effetto Nimby, in rivista online Ambiente Diritto – Greenlex, Tortorici, 9 marzo
2012, Fulvio Conti Guglia Editore, http://www.ambientediritto.it/home/oad/alta-velocit%C3%A0-eeffetto-nimby
12 Gordon C. and Jasper J., Overcoming the NIMBY Label Rhetorical and Organizational Links for Local
Protestors Research in Social Movements Conflict and Change, Vol. 19, 1996, JAI Press Inc, pgg. 159-181.
13 Lolive J., La montée en généralité pour sortir du Nimby. La mobilisation associative contre le TGV
Méditerranéen, in Politix, Vol. 10, n°39, Troisième trimestre 1997, pgg. 109-130.
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Si tratta di un atteggiamento in qualche modo inconfessabile ma abbastanza diffuso, la cui
esistenza si può desumere anche dal silenzio, in termini di assenza di protesta e solidarietà,
delle comunità confinanti di quella alla quale viene richiesto di ospitare l’opera.
Si tratta di una situazione particolarmente insidiosa e difficile da gestire per le istituzioni e le
aziende coinvolte, perché in questo caso i costi sono concentrati e i benefici invece diluiti
su un’area più vasta, con soggetti diversi che ne beneficiano in proporzione diversa.
Un caso tipico sono le discariche o altri impianti di trattamento rifiuti, dove le comunità
confinanti a quella che le ospiterà, sono ben liete di poter usufruire del servizio di
smaltimento rifiuti, senza dover pagare il costo di ospitare queste strutture14.
La seconda motivazione che sottende alla salita in generalità può invece essere frutto di una
genuina visione alternativa della società. In questo caso chi si oppone all’opera cerca di
estendere la protesta perché, in buona fede, ritiene che questa sia il tassello di una protesta
più ampia che deve essere condotta contro un modello economico, politico e sociale che si
ritiene sbagliato. È purtroppo però esperienza comune che questo tipo di motivazioni, per
quanto in buona fede, diano luogo a dinamiche che possono a volte sfuggire di mano,
generando così anche atti di violenza che mai possono essere giustificati. La descrizione
delle motivazioni che stanno dietro ai movimenti Nimby ha dato vita a diversi tentativi
interpretativi e modalità narrative, che riportiamo nella seguente tabella15.
Le interpretazioni
Perché i conflitti
territoriali sono così
diffusi ora?
1 . P a r t i c o l a r i s m o Perché la politica non
riesce più ad aggregare
interessi sempre più
frammentati
Qual è il vero oggetto
del contendere?
2 . S o b il l a z i o n e
Perché esiste un
crescente numero di
imprenditori della
protesta
La posta in gioco è
diversa da quella che
sembra
3. Sproporzione
t r a c o s t i e benefici
Perché c’è
sproporzione tra i costi
e i benefici
4. Rischi
Perché la società
postmoderna è una
società del rischio
Migliore distribuzione
dei costi e dei benefici.
Compensazioni e
mitigazioni
La valutazione del
rischio
La definizione
dell’interesse generale
Come possono
essere
affrontati?
Creando vaste
coalizioni
attorno
all’interesse
generale
Smascherando i
sobillatori ed
eventualmente
risolvendo la
contesa che sta
dietro le quinte
Negoziazione o
aste
Negoziando
l’accettabilità dei
rischi. Offerta
14
Mengozzi A., op. cit., pg. 4.
Bobbio L., Conflitti territoriali: sei interpretazioni, in TeMA trimestrale del Laboratorio Territorio Mobilità
e Ambiente, Napoli, Vol. 4, N° 4, dicembre 2011, Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio
Università degli Studi di Napoli “Federico II”, pg. 87.
15
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5. Luoghi contro flussi
6. Un nuovo modello di
sviluppo
Perché i territori sono
sempre più minacciati
dai flussi
Perché vi è una
crescente
consapevolezza della
necessità di superare
l’attuale modello di
sviluppo
La sovranità. Le
identità locali
Decrescita, sviluppo
locale
di garanzie.
Rinegoziando gli
ambiti di
sovranità
Modificando
radicalmente
l’impostazione
delle grandi
opere
Un’ultima annotazione sempre per quanto riguarda la contrapposizione tra interessi.
In questo caso non prendiamo in considerazione la dinamica locale vs. generale ma quella
che intercorre all’interno del contesto locale stesso.
I movimenti Nimby sono caratterizzati da una forte esposizione mediatica a livello locale,
talvolta anche nazionale e in qualche particolare caso anche internazionale. Ne consegue
che il loro peso a livello territoriale sia decisamente elevato, talvolta anche a dispetto
dell’essere o meno maggioranza.
Questa situazione fa si che spesso si inneschi, da parte di chi è invece a favore dell’opera, la
cosiddetta spirale del silenzio16.
La spirale del silenzio è un fenomeno che si produce quando un determinato segmento
dell’opinione pubblica percepisce, talvolta erroneamente, di essere minoranza rispetto al
main stream e preferisce di conseguenza tacere o mimetizzare le proprie opinioni, pur di
evitare un conflitto che si presenta arduo da gestire e vincere.
Questa sorta di auto censura alimenta ulteriormente il proprio senso di isolamento e
minoranza, creando appunto una spirale che si autoalimenta.
Questo è ciò che accade spesso nelle comunità locali dove si sono radicati i Nimby
movements.
Questo fenomeno produce effetti particolarmente distorcenti soprattutto nei confronti
degli amministratori locali.
Se infatti i comuni cittadini possono rifugiarsi appunto nel silenzio, rinunciando o
autolimitando l’esercizio della propria libertà di espressione, gli amministratori pubblici
sono chiamati invece a pronunciarsi pubblicamente e a prendere una decisione, proprio in
virtù del loro ruolo istituzionale.
Le forme di leadership dei Nimby movements
Pur senza cadere in formulazioni un po’ generiche e “romantiche” di movimento
partecipato dal basso, senza vere e proprie leadership, spontaneo ecc… occorre riconoscere
che questi movimenti presentano delle caratteristiche peculiari in termini organizzativi e
decisionali. Questo però come detto non significa che non esistano al loro interno in
qualche modo delle leadership che quanto meno li orientino.
16 Noelle-Neumann E., La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinione pubblica, Roma, 2002, Meltemi
Editore.
8
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Come prima annotazione, possiamo dire che spesso nei Nimby movements la leadership
non rispecchia esattamente il modello che ci si potrebbe aspettare in questi casi, del Cesare
che parla al proprio popolo senza intermediari, del capo che instaura con esso un rapporto
diretto17.
La leadership di un movimento Nimby, seppure frutto anche di abilità personali, oratorie e
carismatiche, poggia prima di tutto sulla capacità di influenza più che di comando diretto di
un’organizzazione.
L’influenza è da intendersi in questo caso come capacità di instancabile diffusione di
informazioni a supporto della posizione contraria all’opera.
Questo tipo di informazioni sono solitamente di tipo tecnico, con le quali gli attivisti
scendono sul terreno in teoria a loro più ostico, quello appunto degli addetti ai lavori,
sfidando quest’ultimi e spesso vincendo. Ecco allora che il leader è colui il quale sa, meglio
di altri, organizzare e coordinare questa complessa macchina della comunicazione.
È a questo punto utile chiederci come mai gli attivisti, solitamente non esperti della materia,
risultano più convincenti dei tecnici?
In primo luogo occorre considerare che, salvo casi eccezionali, chi propone l’opera
considera la comunicazione come una sorta di attività auto efficiente, ossia in grado di
risultare convincente per il solo fatto di poggiare su elementi tecnico scientifici. In realtà le
cose stanno molto diversamente e quasi mai sono self explaining.
Prima di tutto occorre considerare che le istituzioni e le aziende che propongono l’opera
sono quasi sempre orientate a presentare la propria proposta in termini strettamente
razionali, dimenticando che i loro interlocutori vivono anche una sfera emotiva, come tutti
noi, da tenere in considerazione.
È opportuno qui sottolineare che con la contrapposizione ragione vs. emozione, non si
vuole in alcun modo sminuire la dignità della protesta (quando non violenta), riducendola a
espressione di un atteggiamento rozzo e superficiale. Si vuole solo indicare il fatto che una
comunicazione efficace deve tenere in considerazione tanto gli elementi razionali quanto
quelli emotivi, soprattutto quando i propri interlocutori risiedono nel luogo dove sarà
realizzata l’opera e quindi vivono l’intera vicenda con un comprensibile surplus di
emotività, preoccupazione e timore.
Al contrario, gli attivisti sono maggiormente in grado di reinterpretare, rendendo
immediatamente comprensibili, concetti tecnici altrimenti astratti e sfuggenti.
Si prenda ad esempio il noto caso del movimento No Tav in Val di Susa. Agli inizi della
protesta, nei primi anni Novanta, gli attivisti registrarono il rumore assordante di un TGV
in transito in Francia e poi lo fecero ascoltare in diversi incontri pubblici in Val di Susa,
rendendo concreto, facendo toccare con mano, quanto la vallata si sarebbe a loro dire
deturpata, anche dal punto di vista dell’inquinamento acustico18.
A quel punto una riflessione razionale, basata ad esempio sulle condizioni nelle quali quel
rumore era stato registrato, se le condizioni sarebbero state le stesse anche in Val di Susa
ecc…. per quanto tecnicamente fondata, è però totalmente perdente rispetto all’impatto
emotivo suscitato dalla comunicazione degli attivisti. Ecco perché chi propone un’opera
dovrebbe anche tenere in considerazioni questi aspetti nella sua comunicazione.
17
18
Cavalli L., Governo del leader e regime dei partiti, Bologna, 1992, Il Mulino, pg. 200.
Fedi A., Mannarini T. (a cura di), op. cit., pg. 31.
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Vi è poi un altro elemento da ricordare, stavolta di ordine culturale.
Siamo ormai abituati a considerare la scienza come una forma di conoscenza assolutamente
obiettiva e fondata su dati oggettivi e incontrovertibili.
Dall’altro lato però, vittime anche di una delusione post positivistica, quasi nessuno sembra
riversare nella scienza la fiducia che meriterebbe. Perché questo atteggiamento
schizofrenico?
Il tema è ampissimo, possiamo qui limitarci a dire che spesso è stata la politica, o più
precisamente la sfera del dibattito pubblico, ad alimentare questo atteggiamento. Da un lato
la consapevolezza che la scienza è un percorso lungo e accidentato. Dall’altra l’illusione che
le conoscenze scientifiche, una volta acquisite, siano più o meno indiscutibili. Abbiamo
insomma attribuito alla scienza un eccesso di obiettività e la politica (nel senso più ampio
dei policy makers, di chi fa le politiche scegliendo e prendendo decisioni, come quella di
realizzare una grande opera) ha brandito la scienza e le sue conclusioni – o assunti di base,
a seconda dei casi – per dimostrare la correttezza della propria opinione rispetto a quella
degli avversari politici, facendo così un torto sia alla scienza che alla politica19.
Il dibattito scientifico, al contrario, è fatto di opinioni e correnti che si confrontano per
lungo tempo, fino ad addivenire a conclusioni generalmente condivise dalla comunità
scientifica e comunque sempre suscettibili di essere riviste qualora si presentino elementi
nuovi.
Questo non significa che prendere decisioni, per un policy maker, su elementi scientifici, sia
sbagliato, al contrario. Significa però saper prendere questi elementi come veri e verificati,
ricercando un confronto e un dialogo all’interno del quale questi elementi non siano assunti
come la prova schiacciante e definitiva della superiorità della nostra opinione.
Ecco quindi che in un conflitto di questo tipo e con questo contesto generale, per attivisti
ben informati che sanno tradurre in azioni di comunicazione efficaci, quindi non solo
razionali, i loro messaggi, il compito risulta facilitato.
Possiamo in sintesi affermare che in questi movimenti la leadership è solitamente
caratterizzata da buona conoscenza degli aspetti tecnici dell’opera da realizzare
accompagnati da una forte capacità di tradurre queste informazioni in un linguaggio
semplice, al limite della distorsione. Il tutto sostenuto ovviamente da una qualche abilità
politico organizzativa.
Ad un livello inferiore possiamo collocare i cosiddetti esperti. Ovvero militanti che per
professione hanno competenze tecniche sull’opera da realizzare, quali ad esempio
professori universitari, ingegneri, geologi ecc… i quali non solo mettono le loro
competenze a servizio della leadership del movimento, ma la legittimano attraverso
interviste e prese di posizione pubbliche in qualità appunto di esperti.
Ovviamente ci sono anche molti altri esperti che la possono pensare diversamente ma,
come dicevamo prima, siamo così abituati a utilizzare la scienza come arma del dibattito
politico, che ormai l’obiettivo è segnare un punto a proprio favore piuttosto che avere un
confronto costruttivo e depoliticizzato. Senza considerare che anche questi esperti a favore
dell’opera possono finire vittime della spirale del silenzio.
19
Pielke Jr. R.A., Scienza e Politica. La lotta per il consenso, Bari, 2005, Laterza, pgg. 112-113.
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I costi sociali della sindrome Nimby
Il costo più evidente è, in taluni casi, quello dovuto allo scatenarsi di ondate di violenza,
come spesso è accaduto nella più volte citata vicenda della Val di Susa.
In queste circostanze, oltre all’ovvio costo in termini personali cui i soggetti autori delle
violenze vanno incontro, si verificano esternalità negative più ampie e soprattutto più
durature negli anni, capaci di lasciare profonde cicatrici nel tessuto sociale della comunità
locale.
Vi è da considerare in particolare l’improvviso e radicale mutamento dei rapporti sociali e
delle relazioni all’interno della comunità. In particolare, nei momenti in cui il movimento
gode di un certo consenso, esso può esercitare, anche inconsapevolmente, una notevole
pressione psicologica anche su chi non si sentirebbe di condividere l’opinione
maggioritaria20.
In questi casi si verifica spesso il fenomeno, visto in precedenza, definito della spirale del
silenzio, alterando quindi la corretta percezione delle maggioranze e minoranze.
Nel caso della Val di Susa ci sembra di poter dire che la spirale del silenzio riguardi i
valligiani favorevoli o moderatamente favorevoli alla TAV. Possiamo dire che anche i
contrari siano in qualche modo vittima della spirale, dal momento che, grazie al silenzio dei
favorevoli, possono credere, erroneamente, di rappresentare la totalità dell’opinione
pubblica locale. Nei casi peggiori, dove non vi è neppure buona fede, il movimento può
arrogarsi il diritto di parlare a nome della totalità della comunità. Esercizio sempre
pericoloso e destinato a lasciare profonde cicatrici nel tessuto sociale del luogo. La
mobilitazione ridisegna i confini della comunità e ne modifica la geografia relazionale,
motivo per cui nel futuro potrebbero sorgere anche nuovi conflitti sulla basa della mutata
realtà sociale.
A proposito della vicenda dell’alta velocità in Piemonte, una ricerca ha rilevato che oltre il
30% degli abitanti erano moderatamente favorevoli all’alta velocità. Eppure se sui media il
movimento No TAV è sempre stato ampiamente presente e rappresentato, la voce dei
favorevoli, una minoranza secondo la ricerca ma comunque molto consistente, è
praticamente assente.
La ricerca riporta in proposito verbatim particolarmente illuminanti di alcuni intervistati In
Valle una persona non può dir che è favorevole senza rimediare un pugno sul naso! Oppure ancora E’
più una scelta non far parte del movimento che farne parte21.
Senza dimenticare le minacce ricevuta, sotto forma di proiettili spediti per posta, dal
Sindaco e dall’Assessore ai Trasporti di Susa, Gemma Amprino e Salvatore Panaro22.
Le dinamiche interne ai movimenti Nimby sono così marcatamente locali da rendere quasi
impraticabile la collaborazione tra più movimenti in una scala nazionale. Sbaglieremmo
tuttavia a considerare l’aspetto locale legato essenzialmente ad una variabile di tipo
territoriale.
20 Asch N.E., Opinion and social pressure, Scientific American, Vol. 193 n°5, San Francisco, 1955, Freeman
W. H., and Company, pgg. 31-35.
21 Fedi A., Mannarini T. (a cura di), op. cit. pgg. 140-141.
22 Imarisio M., Lettera con proiettile e minacce di morte alla sindaca pro Tav di Susa Corriere della Sera, 18
aprile 2014, pg. 19.
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In questo caso la dimensione locale fa perno soprattutto sul concetto di comunità. In altre
parole, ciò che caratterizza davvero un movimento Nimby non è tanto il fatto di essere
concentrato localmente su un determinato territorio, quanto piuttosto lo svilupparsi
all’interno di una comunità. Ossia un gruppo con un buon grado di controllo sociale sui
suoi membri, dotato di norme e aspettative che ne definiscono l’identità. Questa è la risorsa
principale dei Nimby movements.
Se, per ipotesi, potesse darsi una comunità estesa su un territorio ampio, oltre la
dimensione prettamente locale, il movimento potrebbe prosperare ugualmente.
Al contrario, anche in realtà geograficamente molto limitate ma che non sono in grado di
esprimere un senso di comunità, non possono essere terreno fertile per questo tipo di
mobilitazioni.
I tratti caratteristici del fenomeno Nimby
Quanto detto sopra ci consente di tratteggiare una sintesi del fenomeno Nimby, in grado di
mettere in luce gli elementi più caratteristici di questo fenomeno.
In primo luogo dobbiamo evidenziare la dimensione locale dei Nimby movements.
Occorre però qui specificare bene cosa intendiamo per dimensione locale, onde attribuirne
un’importanza eccessiva o quantomeno distorta.
Per dimensione locale intendiamo il fatto che la scintilla che accende i Nimby movements è
tradizionalmente il rifiuto di un’opera da realizzare in un determinato luogo. Luogo che,
spesso ma non sempre, è una realtà di provincia e decentrata rispetto alle grandi città.
La dimensione locale inoltre caratterizza poi le proteste e le manifestazioni che i movimenti
organizzano, nel senso che queste si verificano fisicamente in questo luogo.
Tuttavia, e qui sta l’avvertenza richiamata sopra, questo non significa che le ragioni della
protesta, soprattutto quando sono particolarmente accese e durature, non sposino anche un
approccio alla vita e, per usare un termine oggi un po’ desueto, un’ideologia complessiva,
nella quale il rifiuto dell’opera si inserisce in modo perfettamente coerente,
rappresentandone comunque solo una parte del tutto.
Il secondo aspetto, anche questo cruciale, consiste nell’egemonia che il movimento si
conquista spesso, a livello di comunicazione, nel territorio di riferimento.
Questa egemonia, spiegata in precedenza nei termini della spirale del silenzio, inibisce spesso i
soggetti, minoritari o meno che siano, ad esprimere liberamente la loro opinione a favore
dell’opera.
Questo effetto si produce non in virtù di minacce fisiche o simile ma semplicemente per
una sorta di stigma morale che colpisce immediatamente chi si permette di dichiararsi a
favore dell’opera, il quale viene immediatamente visto e rappresentato come un nemico
interno, quasi un reietto. Una condizione questa difficilissima da sostenere per chiunque
abiti in quello stesso territorio e che per questo può portare al silenzio, all’autocensura.
Il terzo elemento da considerare è la particolarissima forma di leadership che i Nimby
movements di solito esprimono.
Queste leadership possono essere più o meno carismatiche ma ciò che le contraddistingue è
la incessante, instancabile, attività di comunicazione su elementi tecnico scientifici relativi
all’opera da realizzare, come visto in precedenza.
In alcuni casi questa si basa semplicemente su dati apparentemente tecnico scientifici ma
che, ad un serio esame da parte della comunità scientifica si rivelano infondati.
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Molte altre volte invece, questi dati sono gli stessi che sono in mano a chi intende realizzare
l’opera, ma questi (aziende incaricate in particolare) non le sanno comunicare con la stessa
efficacia e capacità divulgativa.
I leader Nimby sono mediamente più bravi a maneggiare la comunicazione, anche perché
partono da una posizione di grande vantaggio: è immensamente più facile far impaurire la
popolazione che non rassicurarla.
Aggiungiamo infine un ultimo fattore, che riguarda le istituzioni che decidono di realizzare
l’opera.
Spesso purtroppo le istituzioni italiane non sono mai state molto amiche del cittadino,
hanno sempre fatto fatica a capirne i bisogni e i normali timori. Questo ha creato un
atteggiamento di sfiducia verso le istituzioni, tale alla fine da rendere più credibile un
comitato di volontari che si oppone all’opera, piuttosto di un’istituzione, soprattutto se
centrale e quindi “lontana” dal territorio. Sospetta quindi perlomeno di non avere un reale
interesse della salute e del futuro dei cittadini di un determinato territorio.
Si tratta di un gap che deve essere recuperato se vogliamo ricreare non solo un senso vero
di nazione ma anche di comunità.
Il fenomeno Nimby e la sfiducia nelle istituzioni
Uno degli aspetti che caratterizza ogni contestazione Nimby è la forte sfiducia nelle
istituzioni, soprattutto quelle nazionali, per non parlare di quelle UE, ma spesso anche
locali, soprattutto quando quest’ultime hanno il coraggio di opporsi ai comitati.
Quello del rapporto degli italiani con le loro istituzioni è storicamente complicato. Per
onestà intellettuale occorre riconoscere che quest’ultime spesso hanno preferito la logica
del blitzkrieg, dell’imposizione rapida dall’alto rispetto alla faticosa ma solida strada della
costruzione del consenso.
Il consenso presuppone un atteggiamento di apertura al dialogo, di trasparenza e anche di
disponibilità ad apportare piccoli cambiamenti ai progetti iniziali, se questi servono a
tranquillizzare la popolazione locale.
In Italia le istituzioni tendono invece a seguire la strada opposta. Da un lato privilegiano la
logica dell’imposizione a quella del dialogo. Dall’altra, anziché lavorare assieme e accogliere
anche alcune richieste di modifica dei progetti avanzate dalla comunità locale, si preferisce
discutere delle cosiddette compensazioni, ovvero realizzazioni di opere integrative (scuole,
palestre e simile) a beneficio della comunità locale, in una logica di scambio anziché di
condivisione.
Il risultato di questa pessima strategia è il rallentamento infinito delle infrastrutture, oltre al
fatto che gli enti locali pretendono opere compensative sempre più costose, tali da far
risultare in qualche modo anti economica la realizzazione stessa dell’opera.
La logica della condivisione presuppone invece che si apra un dialogo in anticipo, prima
che partano i lavori. Questo costa tempo e fatica ma, a ben guardare, i rallentamenti e la
gestione delle proteste costano tempo e fatica addirittura in misura maggiore.
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È un circolo vizioso: più le scelte vengono imposte, più si rafforza la diffidenza della
popolazione; viceversa, più è forte la sindrome Nimby, più è forte la tentazione da parte
delle autorità di decidere senza consultare le comunità locali23.
Insomma, se il filo sottile di fiducia che legava i cittadini alle istituzioni si è rotto, questo è
colpa anche di quest’ultime. Quel legame di fiducia che trasforma il singolo individuo in
cittadino, spingendolo a comprendere ed accettare decisioni in alcuni casi anche dolorose.
Finché non si comprende che il problema non è la singola discarica ma che questo ha
assunto ormai un carattere generale di sfiducia e disaffezione diffusa e finché non si
ricostruisce, con grande difficoltà e con tempi lunghi, questo legame allora avremo la
certezza che ogni decisione sarà osteggiata con il solo risultato di ritardarne la realizzazione
aumentando il gap italiano con paesi più avanzati.
Due sono i percorsi da tenere in considerazione perché qualcosa possa veramente
cambiare, uno ex ante fatto di condivisione, trasparenza e credibilità, parole d’ordine che da
oggi dovrebbero accompagnare le proposte di intervento ancor prima che queste siano
ormai scelte consolidate difficili da far accettare spesso proprio perché non condivise sin
dall’inizio.
Successivamente, invece, servono controlli, tempi e costi di realizzazione certi,
monitoraggio, informazione, indagini e, qualora riscontrate negligenze, tempi rapidi per il
giudizio, condanne vere e severe, risarcimenti commisurati al danno nonché bonifiche
immediate. Solo con l’insieme di queste misure si potrà realmente arrivare a scelte più
rapide e soprattutto meno osteggiate24.
Questo secondo passo da compiere, tanto importante quanto il primo, ci ricorda che la
sfiducia nelle istituzioni è anche la sfiducia nel fatto che le grandi opere infrastrutturali
inizino e finiscano nei tempi, senza sprechi, senza sfregi per l’ambiente, senza impatti di
lungo termine sulla vita delle comunità, senza infiltrazioni della criminalità.
Oramai negli italiani è subentrato il pensiero “meglio non iniziare, se non si sa quando
finirà”25.
L’accettazione sociale di scelte di politica ambientale e tecnologica, tutte ritenute
potenzialmente generatrici di rischio, è mediata dal quel particolare e prezioso bene che è la
fiducia nelle istituzioni, in quelle stesse istituzioni che sono chiamate a realizzare e
controllare a loro volta l’affidabilità e la sicurezza dell’opera che si realizzerà26.
Da un lato, come abbiamo detto, le istituzioni non sempre hanno dato l’impressione di
voler veramente dialogare con il territorio. A questo aggiungiamo pure che le istituzioni
sono direttamente o indirettamente espressione della politica, come è normale che sia. Se
non che la politica in Italia ha ormai raggiunto livelli di fiducia estremamente bassi.
E tuttavia si intuisce che vi sono anche altre ragioni, forse di natura persino antropologica,
che hanno prodotto questa vistosa incrinatura nel rapporto con le istituzioni.
23
Gangemi P., Nimby: il circolo vizioso italiano e i contadini di Tolstoj, http://www.enerblog.it/nimby-ilcircolo-vizioso-italiano-e-i-contadini-di-tolstoj.html 12 aprile 2013.
24 Angelelli V., Dietro la syndrome Nimby italiana, L’Huffington Post, http://www.huffingtonpost.it/valerioangelelli/dietro-la-sindrome-nimby-_b_1937580.html 4 ottobre 2012.
25 Amenduni D., Siamo Schiavi dei NIMBY (Not in My Back Yard)? Il Fatto Quotidiano,
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/30/litalia-schiava-dei-nimby-not-in-my-back-yard/131375/ 30
giugno 2011.
26 Lombardi M., Comunicare nell’emergenza, Milano, 2005, Vita e Pensiero, pg. 24.
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Questo ci porta a pensare che la fiducia potrà essere recuperata solo con uno sforzo e una
visione ampi, che recuperino un senso di comunità nazionale e anche locale, ovvero di
comunità che non si percepisce in conflitto, anche solo potenziale, con lo Stato e le sue
istituzioni.
L’idea di comunità
La crescente globalizzazione degli ultimi decenni ha inevitabilmente prodotto, assieme a
molti effetti positivi, anche alcuni effetti negativi. In un mondo sempre più interconnesso,
gli effetti negativi di una determinata politica (nel senso anglosassone di policy) si dispiegano
su scala globale tanto quanto gli effetti positivi. Possiamo dire che oggi come non mai è
vero l’assunto della teoria del caos per il quale “una farfalla sbatte le ali a Tokyo e a New
York piove”.
Sono molti gli autori, di vario orientamento, che in questi ultimi decenni si sono
confrontati con questo fenomeno e le paure che genera nei confronti di buona parte
dell’opinione pubblica mondiale, soprattutto quella parte che della globalizzazione ha
sperimentato più gli effetti negativi di quelli positivi.
Basti qui ricordare Ulrich Beck quando parla di società del rischio, Zygmunt Bauman con la
società liquida o Anthony Giddens con la sua modernità riflessiva.
Ecco allora che l’idea di comunità, soprattutto in questi strati sociali, si è fatta strada come
possibile difesa contro un mondo percepito come sempre più rischioso e ostile.
La comunità vista come luogo nel quale si riconoscono, e si aiutano, soggetti che
condividono una stessa identità, stessi valori di riferimento, stessa storia.
Sino a circa venti o trenta anni fa, l’idea di comunità come riparo dagli effetti negativi della
globalizzazione era più che altro dibattuto tra gli esperti di scienze sociali e accademici in
genere.
I sostenitori di questo approccio hanno dato vita ad una corrente di pensiero, il
comunitarismo, rappresentata da autori come Amitai Etzioni, Michael Walzer, Michael Sandel,
in opposizione all’approccio liberale, più o meno classico, rappresentato da John Rawls,
Ronald Dworkin, Bruce Akerman e altri.
L’idea di fondo dei comunitaristi è che non sia sufficiente garantire un sistema liberale di
diritti, pluralismo e uguaglianza di fronte alla legge, ma che sia necessaria una più profonda
condivisione di identità e valori, come detto in precedenza.
Detto in altri termini, i comunitaristi rimproverano ai liberali una visione troppo astratta e
non contestualizzata della realtà concreta27.
A questo riguardo Alain Caillé distingue tra socialità primaria, fondata sui rapporti
interpersonali stretti tipici di una comunità e la socialità secondaria, quella incarnata dalle
istituzioni pubbliche e dalle loro relazioni funzionali e impersonali. Secondo Caillé non può
esistere la seconda senza la prima, considerata come base per la convivenza civile28.
È facile qui rintracciare la classica distinzione che, prima ancora dei comunitaristi, già
Ferdinand Tönnies aveva operato parlando delle differenze tra gemeinschaft und gesellschaft,
comunità e società.
27
28
Sandel M., Il liberalismo e i limiti della giustizia, Milano, 1994, Feltrinelli, pg. 22
Caillé A., Il tramonto del politico, Bari, Dedalo, 1995, pgg. 247-247.
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È esperienza comune constatare come oggi questa disputa sia scesa dall’empireo
dell’accademia e abbia contaminato non solo il dibattito politico quotidiano ma più in
generale il senso comune, divenendo parte centrale della proposta politica di molti partiti e
movimenti. Basti pensare alla critica feroce sviluppatasi in Europa contro le istituzioni
comunitarie e in generale contro ogni organismo sovranazionale, per rivolgersi infine
contro le istituzioni nazionali in contrapposizione a quelle locali, della comunità appunto.
In Europa si tratta di un fenomeno relativamente nuovo dove invece, soprattutto
guardando all’Ottocento e al Novecento, sono stati i nazionalismi più che i localismi ad
aver avuto un ruolo predominante.
Negli Stati Uniti è invece più radicata la tradizione libertaria, fortemente critica verso il
governo federale, che ha poi contaminato a sua volta sia i partiti politici tradizionali, in
particolare quello Repubblicano, che movimenti meno convenzionali come il Tea Party.
Se da un lato la comunità è un’importante risorsa, anche in termini di mutuo aiuto tra i suoi
membri contro le avversità della vita, occorre fare attenzione a che non degeneri in un
atteggiamento isolazionista che impedirebbe, soprattutto alle future generazioni, di godere
delle opportunità che invece la globalizzazione e in generale “l’apertura al mondo”
comunque offrono.
Si tratta qui di valorizzare e in qualche caso ricostruire (si pensi alle periferie degradate delle
grandi città) i rapporti sociali all’interno delle comunità evitando però il pericolo opposto di
una chiusura a riccio contro il mondo e la modernità.
E qui torniamo al nostro tema centrale, i movimenti Nimby.
Più volte in questo lavoro abbiamo sottolineato la dimensione territoriale di questi
fenomeni, spesso connessi però ad una visione più ampia della società e delle sue leggi, ad
una visione quindi totus politicus.
Dobbiamo riconoscere il valore dell’idea di comunità e quindi, come conseguenza, anche il
valore del dialogo verso le popolazioni locali quando le istituzioni decidono di realizzarvi
un’opera di rilievo e spesso di interesse non solo locale.
Allo stesso tempo però dobbiamo evitare, in primis grazie ad una buona e trasparente
attività di comunicazione e dialogo, che i movimenti Nimby possano trascinare queste
comunità verso un auto isolazionismo che alla lunga produrrebbe effetti devastanti in
termini di opportunità, in primo luogo per le giovani generazioni del luogo, oltre che più in
generale per tutti, come abbiamo raccontato nelle pagine precedenti.
Come so può riuscire a fare questo? Tornando al confronto tra liberali e comunitaristi,
dobbiamo in ricercare un equilibrio tra l’impostazione classicamente liberale di società
pluralista (una ricetta un po’ vecchia forse ma che fino ad oggi è l’unica che nonostante
tutto ha funzionato, consentendo ai paesi che l’hanno adottata un livello accettabile di
libertà e convivenza civile) e le nuove istanze che invece mettono l’accento sulla necessità
di politiche meno astratte e più vicine al vissuto quotidiano dei cittadini. In questo senso
sarebbe sciocco ignorare ad esempio le difficoltà di convivenza con un’immigrazione che
negli anni si è fatta molto consistente.
La sfida oggi per la classe dirigente è di realizzare una mediazione tra diritti universali e
culture particolari, sia a livello internazionale che all’interno delle stesse nazioni, tra Stato e
comunità locali e tra le stesse comunità. Perseguire insomma un universalismo delle
16
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differenze29 nel quale la geopolitica interna può essere un valido supporto, come illustrato
nel paragrafo precedente.
La società contemporanea è sicuramente più complessa di quella del recente passato.
Possiamo dire che questa complessità e le paure che genera, è l’esternalità negativa di un
processo positivo, quello del crescente ampliamento degli spazi di libertà che abbiamo
conosciuto in occidente, soprattutto dalla seconda guerra mondiale in avanti.
Maggiori libertà, desiderabili in quanto tali, comportano però anche maggiori rischi per la
sicurezza di ciascuno di noi30.
È questa in sintesi la mediazione che dobbiamo trovare per fare in modo che la comunità
locale sia una risorsa e non una via di fuga dalla modernità.
Si tratta di un compito certamente arduo, ma una classe dirigente che vuole definirsi tale ha
il dovere di trovare il modo giusto per gestirlo e risolverlo. Non siamo disarmati, possiamo
farlo se lo vogliamo.
Si tratta insomma di dare un respiro più ampio e di saper scegliere per il meglio. Questo
non deve escludere ovviamente la competizione di idee e proposte. Al contrario la
competizione, così come l’ambizione personale, sono un grande motore e stimolo allo
sviluppo. Occorre però fare in modo che la competizione spinga verso l’alto, non verso il
baso. Occorre che l’iniziativa di qualcuno possa esser fermata solo da chi ne ha un’altra
migliore da proporre, una sorta di veto costruttivo rispetto a quello distruttivo31.
29
Fistetti F., Comunità, Bologna, 2003, Il Mulino, pgg. 150-166.
O. (a cura di), Focault M., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984,
Milano, Medusa, 2001, pgg. 159-167.
31 Scotti G., Crescere con consapevolezza nei veri valori, in Rizzi I., (a cura di), Etica anticrisi, op. cit. pg. 375.
30Marzocca
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CHI SIAMO
Il Centro Studi Tocqueville-Acton (CSTA) nasce al fine di favorire l’incontro tra studiosi
dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storico inglese Lord Acton, nonché
di cultori ed accademici interessati alle tematiche filosofiche, storiografiche,
epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche e culturali, che hanno come riferimento
la prospettiva antropologica ed i principi della Dottrina Sociale della Chiesa.
PERCHÈ TOCQUEVILLE E LORD ACTON
Il riferimento a Tocqueville e Lord Acton non è casuale. Entrambi intellettuali cattolici,
hanno perseguito per tutta la vita la possibilità di avviare un fecondo confronto con quella
componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo, utilitarismo e
materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni con quelle tipiche del
pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana.
MISSION
Il Centro, oltre ad offrire uno spazio dove poter raccogliere e divulgare documentazione
sulla vita, il pensiero e le opere di Tocqueville e Lord Acton, vuole favorire e promuovere
una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi della concorrenza, dello
sviluppo economico, dell'ambiente e dell'energia, delle liberalizzazioni e delle
privatizzazioni, della fiscalità e dei conti pubblici, dell'informazione e dei media,
dell'innovazione tecnologica, del welfare e delle riforme politico-istituzionali. A tal fine, il
Centro invita chiunque fosse interessato a fornire materiale di riflessione che sarà inserito
nelle rispettive aree tematiche del Centro.
Oltre all'attività di ricerca ed approfondimento, al fine di promuovere l'aggiornamento della
cultura italiana e l'elaborazione di public policies, il Centro organizza seminari, conferenze e
corsi di formazione politica, favorendo l'incontro tra il mondo accademico, quello
professionale-imprenditoriale e quello politico-istituzionale.
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