La Meglio Gioventù

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La Meglio Gioventù
LA MEGLIO GIOVENTÙ
DI MARCO TULLIO GIORDANA
un’interpretazione simbolica e filosofica
L’Arno
1966. L’Arno travolge ogni cosa nella sua furia. Rompe gli argini, inonda Firenze,
sommerge e infanga tanta bellezza. Ma sotto l’acqua fangosa non tutti i tesori hanno perduto
intero il loro valore: occorre che qualcuno li disseppellisca e li ripulisca.
1966. Alluvione a Firenze. È la fine della gioventù: Matteo ha deciso quale sarà il suo
lavoro e Nicola incontra la donna che diverrà la sua compagna. Due scelte, si potrebbe dire,
“catastrofiche”: ché la polizia non darà l’ordine che Matteo ricerca, ma solo banali ordini, e
Giulia non sarà la roccia stabile per il fluido Nicola, ma una lama conficcata nella vita.
La vera catastrophé, però, non è nelle singole scelte, ma nell’irrompere della vita che
con la sua durezza e spietatezza travolge i fragili argini della gioventù, che resta lì, sotto il
fango, con i suoi tesori: occorrerà qualcuno per disseppellirli e ripulirli, quando sarà. Non
sempre ne uscirà ancora viva.
La famiglia Carati in estrema sintesi
Gioventù beata ma pensosa, mai frivola, quella di Matteo e Nicola Carati, due fratelli
ventenni o giù di lì, della borghesia romana. Il padre, piccolo imprenditore, la madre,
professoressa di lettere alle scuole medie. Di vedute aperte, i genitori, di valori borghesi
solidi. Con una figlia primogenita, Giovanna, e una più piccola, Francesca, nata negli anni del
baby boom a completare simmetricamente la prole.
Matteo, ovvero la vita è pura e perfettamente lucida solo nella morte
Matteo è bello da restare senza fiato. Scontroso, inquieto, tormentato. Attraversa,
facendosi impenetrabile, il teatro del mondo, di cui detesta le rappresentazioni. Cerca un
mondo vero dietro le quinte. Matteo mente, ma non recita; dissimula, ma non finge. Se va a
puttane, va a puttane, non va a vedere cosa si prova ad andare a puttane. Se legge, vuole il
cuore dello scrittore, non la maschera. Non recita a ripetere nozioni letterarie ad un assistente
di Sapegno. Rifiuta i baci delle ragazze. Cerca l’oltre e non si accontenta. Balla da solo in un
vortice di solitudine.
Matteo non ha preso trenta e lode all’esame, non è vero che sapeva di sua madre che
assisteva l’amico rimasto invalido, non è vero che ha un impegno urgente in questura. Egli
mente di continuo per non dover mentire una volta per tutte.
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Matteo non comprende i vicini, perché guarda troppo lontano, rifiuta le premure
ingenue del padre e la devozione castigata della madre, le cure delle sorelle; non accetta la
società e dove essa vada, la televisione vuota e insulsa, la dolcezza delle femmine. E più non
comprende e più legge, e più legge e più si allontana.
Proprio la ricerca disperata dell’essenza, del nocciolo duro della vita, lo costringe a
mentire per togliersi tante volte di impiccio, per non farsi imbrigliare da qualcuno che possa
frenare la sua ansia di assoluto con relazioni solo umane, troppo umane.
Per questo il Beccaio, che maledice il padre, la madre e il suo stesso seme è per lui il
poeta religioso per eccellenza. Perché la madre, il padre, quel seme, l’hanno strappato
all’assoluto a cui era congiunto da sempre e a cui potrà ricongiungersi solo con la morte.
Questo, l’assistente di Sapegno non può capirlo, non vale la pena parlarne, meglio uscire
fuori, scappare via e liberare Giorgia.
Matteo vuole liberare Giorgia non per curarla, ma perché il mondo deve cambiare,
perché la vita dovrebbe essere più vera e più giusta: tutti dovrebbero vedere cos’è vera
giustizia, così come la vedo io in questo abbaglio di assoluto rigore. Tutti devono vedere qual
è il giusto ordine delle cose, anche questo signore così stolido che verrebbe di prendere a botte
per la sua ignoranza, per il suo cinismo. Il mondo non deve essere cinico, deve essere puro. E
come può ignorare, se la verità è così limpida?
Giorgia, schedata come schizofrenica, è il vero alter ego di Matteo. Separata dal
mondo normale, vivente in un mondo altro, insondabile e per questo sano. Giorgia, liberata da
Matteo e curata da Nicola, sarà la prosecutrice dell’opera di salvazione iniziata da Matteo. E
se Nicola non riuscirà a guarire Matteo, Matteo salverà Nicola con la sua morte e tramite
Giorgia, lo libererà dalla sua malintesa libertà, che rischia di trasformarsi solo in una porta
sempre aperta sull’abisso. E lo ricondurrà a una compiutezza di vita quale a lui non toccò in
sorte.
Ascoltare Giorgia sarà per Nicola ascoltare Matteo, finalmente; comprenderne la
“folle” lucidità. Un suicida e una folle per far tornare a dire a un uomo, rimasto solo, che
“Tutto è bello”.
Il dialogo sordo e tenace, fatto di urla, pianti e abbracci dei due fratelli, di silenzi e
ironia, di treni che vanno e di lettere che arrivano, è la trama profonda del film e prosegue
intenso anche dopo il suicidio di Matteo, per il tramite di Giorgia, si diceva, e dei ricordi.
Matteo non comprende le vicende di tutti i giorni e incespica nei particolari, perché ha
già afferrato il tutto in una volta sola. Il “dover essere” lo ha rapito ed abbagliato. L’ideale è
talmente luminoso che la sua vita diviene un’ombra. La sua vita non accetta le linee curve, ma
non può essere retta come il puro ideale, è quindi una vita di linee spezzate, di sterzate
violente, di segmenti che non combaciano, come quelli del suo pullover anni '80, disarmonici
dietro una bellezza che è la vera maschera che Matteo è costretto dalla natura a indossare, ma
che non corrisponde all’intimo tormento. Per questo la sua stessa bellezza non può essere
rappresentata, fotografata, se non velata da una mano che faccia da schermo, per dire che
Matteo non è luce per una madre o per ogni altra donna, né sorriso per un fratello o un amico,
ma è ombra per occhi che hanno veduto troppa luce. Uno sguardo profondo che penetra oltre
le apparenze, finestra di un animo che non può accettare che le apparenze se ne vadano per i
fatti propri, senza corrispondere alla verità intuita.
Perché deve andare in galera il balordo pezzente e non il mandante in smoking?
Perché la gente educa i figli all’orrore e alla violenza mostrandosi indifferente e inerte di
fronte a un morto ammazzato?
Matteo si arruola nell’esercito e poi entra in polizia perché ha bisogno di recidere da
un giorno all’altro la fatica della mediazione nelle relazioni autenticamente umane. Che si
sappia chi dà ordini e chi li riceve, che i rapporti siano netti e squadrati come i volumi di uno
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scaffale. Non ci siano fusioni né effusioni e nell’ordine della gerarchia, che esteriormente
ingabbia, si sia liberi per l’assoluto a cui ci si è votati.
Però Matteo incespica negli uomini che lo amano, e anche lui li ama a suo modo, di un
amore tragico (per l’amico Gigi) che può arrivare fino ad uccidere e di un amore disperato
(per Mirella) fino a dare la vita e poi fuggire.
Il segreto del dramma di Matteo è nel rapporto con mamma Adriana, che riconosce di
non essere stata per lui una buona madre. E non lo è stata davvero, per quanto sia una grande
donna. Perché di fronte a un figlio così bello e così bravo e così misterioso è come se si fosse
dimessa da madre, e lo abbia idolatrato pure lei; con delicatezza e senza ostentazioni: ma tiene
la pagella con tutti “dieci” appesa sul comodino e per lei ciò che Matteo non fa e non dice va
bene come se lo dicesse e lo facesse e l’uno dato da Matteo vale ai suoi occhi il dieci e il
cento che le danno gli altri figli.
La lunga sequenza dell’ultimo dell’anno del 1983, la notte in cui Matteo si suicida, è
un capolavoro di finezza introspettiva e di simbolismo. Il racconto qui si concentra e si
addensa nell’apparente diluizione della narrazione di una lenta serata.
Siamo a Roma. Matteo entra nella casa della madre, dove si sta svolgendo il rito laico
e borghese della giocata a carte. Il Mercante in fiera, dilatato sapientemente dagli
sceneggiatori e dal regista, è una simbologia della vita borghese, dove si parte tutti alla pari,
ma poi si viene ingannati o baciati dalla fortuna, dove inesorabilmente, a poco a poco, si
perdono le forze con fatica e dispendio accumulate (e qualcuno le avrà accumulate e perse
invano), oppure si riceverà almeno un premio, ma proprio grazie a chi ha perduto tutto.
A dirigere il Mercante, Carlo, divenuto funzionario di alto rango della Banca d’Italia,
avvolgente, paterno, equilibrato, pensoso, mai sopra le righe, con la battuta pronta, ma gentile
mai sarcastica, smussato, levigato da tutti i lati. Quando entra Matteo, un alieno piombato nel
contesto, lo accoglie con una battuta dolcissima: “Deve esserci un errore... questa non è una
bisca”. Carlo vorrebbe avvolgere anche Matteo in quella che sembra essere una famiglia
serena, almeno l’ultimo dell’anno, ma che è invece una famiglia provata da dolori diversi, se
poi i dolori sono diversi e non sono un unico grande dolore: Carlo è puntato dai terroristi;
Nicola (con la figlia Sara) è stato abbandonato da Giulia, divenuta brigatista, Giovanna è
separata, Adriana è vedova.
Ma ci sono i bambini da far crescere e la famiglia borghese maschera il proprio dolore
e ricompone la sua angoscia per dare la gioia ai figli, e un esempio. È Sara a vincere il
Mercante, mentre gli altri piccolini ormai dormono e non si deve disturbarli.
Matteo per un attimo è integrato nell’abbraccio della famiglia, si siede al tavolo verde,
dà un contributo straordinario di 10.000 lire alla piccola Sara, rompe l’equilibrio del gioco,
dentro il gioco, ma solo per gioco. È rientrato in famiglia, sta tornando indietro nel tempo, alla
sua infanzia, alla madre. Sta prendendo la rincorsa. Torna indietro e prende la rincorsa per
spiccare il salto nel vuoto che lo porterà alla morte. Qualcuno può fermarlo? Si alza dal tavolo
da gioco e va nella camera da letto della madre, risale quindi al concepimento. E lì dialoga tra
silenzi e mezze frasi per l’ultima volta con la madre. Ha la pistola in mano. – Madre, toglimi
la morte dalle mie mani. Salvami – . Ma per la madre, così seria e delicata, ma mai così
fragile, quel figlio non è un bimbo da salvare, ma un idolo, come un parto più grande di lei: è
il figlio di tutti dieci, è il figlio troppo bello e che lavora per il bene. E allora Matteo, che forse
vorrebbe ricominciare da zero, dalla nascita, proprio la notte dell’ultimo dell’anno, ritorna il
duro, il forte che ha un caso difficile in questura, che lavora per il bene anche l’ultimo
dell’anno, che deve fare una telefonata urgente, che non deve essere disturbato, che deve
andare via.
Qualcuno può ancora fermarlo?
Le istituzioni sono fasulle e inefficaci, gli amici troppo distanti, la madre, che lo ha
generato alla vita, come ogni madre, lo ha generato anche alla morte. Come dice Groddeck, e
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come la sequenza nella stanza da letto esplicita per immagini: “La madre è la culla e la tomba,
dà la vita e la morte”1. Questo è il dramma. Quella stessa madre che ti ha dato la vita, ti ha
consegnato in balìa della morte, senza nulla potere. Ci sarebbe Nicola, il fratello. Sono
pressoché coetanei, hanno vissuto fianco a fianco la loro meglio gioventù. Ma tanto è per
l’ordine puro Matteo, quanto è per la pura libertà Nicola. Una libertà più forte dell’amore, e
che quindi rischia di spalancare le porte all’abisso della morte, dell’odio, della follia.
E così Matteo, di stanza in stanza e attraverso un lungo corridoio, ripercorre tutta la
sua vita, dal concepimento all’infanzia, alla giovinezza fino a ritornare nella sua solitaria casa
da single. Di qui, da questa piccola spelonca metropolitana, un ultimo sguardo sul mondo.
Prova a mangiare qualcosa, prende la carne che ha dentro un frigorifero desolatamente vuoto,
la annusa, puzza di putrefazione. Proprio come la carne esposta in TV nei primi programmi
discinti delle reti commerciali. Matteo non può accettare un mondo che va in putrefazione. E
decide di abbandonarlo. C’è, però, ancora Mirella, questa donna che è un timido raggio di
sole, che ha cercato di illuminare un altissimo monte circondato di nubi.
Mirella solo quella sera ha scoperto che “Nicola” è Matteo, che Matteo non è un
ingegnere, che le assenze sono presenze. Ha lottato contro la nebbia e l’oscurità. Ma Mirella è
il raggio di sole che non riesce ancora a scaldare nel pieno di una tempesta invernale, anche se
appare per un attimo tra le nubi più fosche. Ha bisogno di più tempo, sta covando il futuro,
dovrà attendere ancora a lungo una lontana primavera.
Matteo le telefona. Ormai è il primo dell’anno. Stavolta la presenza di Mirella è
un’assenza certificata dalla voce morta di una segreteria telefonica. La voce è quella di
Mirella, ma non è Mirella che parla. Mirella c’è, ma non c’è. E ci si mette pure il destino con i
suoi scherzi a impedire l’incontro di voci.
Matteo deve morire per rivivere. La morte autoinflitta non sarà vana: dal suo libero
sacrificio rinascerà Nicola, che curerà Giorgia e salverà Giulia; Mirella diverrà forte e
splendente, il figlio Andrea, nato dal breve amore di una notte, mitigherà i dolori di nonna
Adriana fino ad accompagnarla ad una morte serena e pudica e compirà quel viaggio fino a
Capo Nord che Matteo, padre fisico, e Nicola, padre spirituale, non avevano portato a
compimento.
Nicola, ovvero la vita come ricerca
Nicola è il baricentro del film, il personaggio attorno a cui, dall’inizio alla fine,
ruotano le vicende. È il meno drammaturgico dei personaggi, non il meno drammatico. E
grazie alla sua “regia” il film riesce a non divenire mai eccessivamente melodrammatico.
I drammi si costruiscono in alto, in sfere ideali superiori, quali quelle sideree e algide
di Matteo e Giulia, per poi scivolare verso di lui, che come un otre accoglie nel suo seno l’olio
buono di olive spremute e macerate. Nicola accoglie e introietta e, nel lunghissimo periodo,
attutisce l’asprezza delle esperienze, trasforma e rigenera.
Nicola sta in fondo, nella quotidiana normalità. Non lo agitano tensioni appariscenti,
non è avviato verso un destino segnato, ma è in perpetua ricerca. Il suo sguardo non è
abbagliato, ma penetrante e mobile, rapido ma discreto, in perpetua ricerca.
Nicola è il medico che cerca la cura innanzi tutto per sé stesso. Cura, non come
soluzione miracolosa a ogni problema, ma come adattamento sapiente e misurato a un mistero
sempre troppo grande.
La complementarità di Nicola con il fratello è la vera anima del film e racchiude il
ricco messaggio del regista, di cui Nicola esprime il punto di vista dolente ma non rasseganto,
mansueto e combattivo, di quella parte riflessiva della generazione che voleva cambiare il
mondo e c’è riuscita. E bisogna avere il coraggio di dire: in meglio.
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G. Groddeck, Il libro dell’Es, trad. it., Newton, Roma..., p. 73.
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Figure idealtipiche come quella di Nicola Carati non sono state così rare nell’Italia che
ereditò tutti i problemi causati dallo sviluppo uniti a quelli atavici dell’arretratezza, ma anche
una sapienza tradizionale e culturale che ha fruttificato nelle vite di tanti uomini e donne
onesti.
Nicola non rinuncia a cercare le strade che possano portare a umanizzare le relazioni
civili e sociali, anche attraverso ingenuità, errori, cadute, ma sempre animato da un amore
schietto per la verità, la vita, la libertà.
A petto di quella del fratello Matteo, che sdegna le ragazze, balla da solo, accompagna
in biblioteca una schizofrenica, le legge Lee Masters, manda a quel paese l’assistente di
Sapegno, l’entrata in scena di Nicola appare minimale, quasi banale: traccheggia con una
bella, vuole la casa dell’amico, mescola fantasia e pulsione erotica in una bizzarra
dichiarazione fatta di reminiscenze scolastiche e delfini volanti.
È il ragazzo normale, che aiuta il padre, se richiesto, che desta simpatia anche
nell’eccentrico “dinosauro” universitario.
Non si tralasci però la primissima scena del film, che, in una cornice quasi scanzonata,
presenta in sintesi il dramma autentico di quest’uomo: il padre gli regala uno scheletro da
studio di anatomia ed egli lo imbraccia come una Pietà.
Il padre, che poco prima parlava delle stranezze di Matteo, ne consegna a Nicola in
simbolo il cadavere e sembra dire: sarai capace di portare questo peso? Lo scheletro
abbracciato e sorretto rappresenta già dal primo capitolo, la missione di Nicola: reggere il
peso del dolore, trovare la cura che dalla tristezza porti alla gioia, dalla follia alla sanità, dalla
morte alla vita.
Anche le sorelle di Nicola, a lui molto affini, portano in grembo il dolore della
famiglia: la morte del padre, il suicidio del fratello, la morte della madre. Ma Nicola ha fatto,
inoltre, del dolore mentale, il più sfuggente e doloroso dei mali, il vero campo di battaglia
della sua vita e nel suo non soccombere sta l’eroismo e l’ottimismo che la storia trasmette,
nonostante le tante tragedie che la costellano.
È inevitabile trattare dei due fratelli accostandone le storie per lungo tempo parallele.
Dal confronto emerge tutta la complessità e multiformità dei caratteri, così ben delineata nello
sviluppo narrativo, ma già evidente sin dal principio.
Prendiamo il tema del viaggio.
Matteo non viaggia: interrompe il viaggio di vacanza, come interrompe gli studi
accademici. Da quel momento in poi si fa “spostare” da Treviso a Torino da Torino a Bologna
da Bologna a Palermo da Palermo a Roma, come un pacco postale, senza mai obiettare a un
ordine, perché la sua vera vita si svolge, come disincarnata, altrove: nei libri, nel pensiero, nel
dover essere, là dove una città vale un’altra, una donna un’altra, perché tutte imperfette e
vane.
Nicola è il viaggiatore puro, entra nei mondi e li perlustra e li abbraccia, vuole
coglierne l’anima, ma senza profanarli. Nicola viaggia ovunque in punta di piedi, vuole
assaporare tutto ma senza disturbare, senza recare offesa; il suo sguardo è sempre avido, mai
rapace. Così è nel suo percorso solitario in Norvegia, dove anche la pudica e delicatissima
conquista di una donna è prima di tutto un’avventura della conoscenza.
È vero, come dirà Giulia a Francesca: “Nicola non concepisce le differenze, per lui
grande piccolo, sano malato, è tutto uguale”, ma non perché appiattisca tutto nell’indistinto, al
contrario, perché tutto è degno di essere conosciuto e ammirato nella sua irripetibile unicità.
Anche questo tratto centrale della personalità di Nicola è già bene evidenziato negli
esordi giovanili: la baracca di Kati è un mondo pieno di sorprese meravigliose, galline che
beccano nella stia e chewin gum appiccicati alla spalliera, sacro e profano, bellezza e miseria;
la stessa prostituta è donna con cui entrare in relazione e da ascoltare. E Giulia, la futura
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compagna, lo lo attrae e lo rapisce con la musica e il mistero. Come la follia, suo campo di
lavoro.
Quando i dolori della vita si faranno grevi e molteplici, quando il suo amore e la sua
forza sembreranno inaridirsi, sarà l’ascolto di Giorgia, la paziente che lui ha salvato, a
salvarlo e a rimetterlo in viaggio.
Giorgia vuole che Nicola si metta alla ricerca di Mirella e lo spinge a ripartire, a
ripercorrere le strade del fratello, ad andare in Sicilia, isola arcana, e lì trovare una chiave per
riaprire un cuore che si sta gelando, per riaprire alla vita e alla speranza sé stesso e gli altri.
Cariche di un simbolismo mai calcato sono le scene di Nicola sulle navi che lo portano
prima verso l’estremo nord dell’Europa e poi verso l’estremo sud. A volte nella vita occorre
cambiare completamente rotta, ma sempre navigare e fare come la nave che solca l’onda e poi
la lascia richiudere alle sue spalle.
Si è scelto il tema del viaggio perché centrale nella prima parte del film e perché aiuta
a mettere in risalto in modo icastico il carattere fondamentale di questo personaggio, che è
l’amore per la ricerca. La ricerca che parte dalla meraviglia e si fa strada nella libertà è la cifra
della sua anima. Essa vuole giungere alla verità senza compromessi e senza infingimenti. La
ricerca della verità è sorretta dalla pazienza e sa aspettare a lungo, ma sa anche far scardinare
porte chiuse e squarciare veli d’ipocrisia o di nevrotica abitudine.
La ricerca della verità è l’aspetto più nobile dell’amore per la vita, che in lui si fa
pedagogia, nel senso pieno della parola. La figlia Sara, i pazienti, i nipoti, i giovani colleghi
sono tutti destinatari di un messaggio paterno e mai paternalistico, sono accompagnati lungo il
sentiero della vita che si schiude dinnanzi a loro con mano dolce, ma ferma. Nicola è capace
di trasmettere un universo di valori senza mai essere moralistico o saccente, perché egli stesso
sa ascoltare coloro ai quali può insegnare qualcosa e riceve da loro insegnamenti e valori in
un dialogo continuo che intesse tutta la storia.
I dubbi non lo portano mai allo scetticismo, l’angoscia e il dolore non lo isolano, ma lo
sfidano a riprendere il cammino. Del gioco della vita non rinnega le regole, a volte troppo
dure, a volte bizzarre. Le studia o le subisce, le accoglie e le tramanda. Crede solo
fermamente che il gioco sia degno di essere giocato, che il viaggio vada proseguito, che il
testimone debba essere passato.
Nel finale del film la sua figura giganteggia per i tanti piccoli successi del suo amore
paziente e tenace. Sara perdona la madre, Andrea, il nipote-figlio, raggiunge Capo Nord con
Ermione, egli stesso ritesse con Mirella l’ordito d’amore che Giulia e Matteo avevano
lacerato.
Nicola, allora, è un moderno Edipo, che giunto a Colono dopo una lunga vita
travagliata, può ancora dire, che “Tutto è bello”.
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