Coraline e la porta magica

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Coraline e la porta magica
L’amore buio
di Antonio Capuano
Sinossi
Al termine di una giornata passata al mare e una serata in pizzeria, un gruppo di sedicenni napoletani
prende di mira Irene, una coetanea della Napoli-bene scelta a caso che sta rientrando a casa. Il “branco”
la stupra e fugge nella notte sperando nell’impunità. Ciro, uno dei ragazzi, il giorno dopo decide di
costituirsi e denuncia i suoi complici. Condannato a due anni, il ragazzo viene recluso nel carcere minorile
di Nisida dove incomincia un difficile percorso di riflessione non solo sul gesto che lo ha condotto lì, ma
anche sulla propria condizione in generale. Intanto Irene, per cercare di superare il trauma dello stupro,
incomincia una terapia psicanalitica e un corso di teatro che l’aiutano a capire che quell’esperienza non
l’ha soltanto ferita ma anche profondamente cambiata: adesso si interessa alla vita nei quartieri popolari
di Napoli e guarda con noia al proprio confinamento nella parte bene della città. In carcere Ciro, recluso
con i suoi complici, non riceve ritorsioni perché il clan camorristico del suo quartiere ha messo tutto a
tacere elargendo somme di denaro e favori alle famiglie degli altri ragazzi. La vita in carcere non è così
male, anzi la sensazione di molti dei ragazzi è quella di godere di maggiori cure e più possibilità di quanto
non avvenga fuori dove il loro destino pare segnato. Anche grazie a questa condizione “privilegiata” Ciro
tenta di rielaborare le proprie esperienze attraverso la scrittura, fino a decidere di inviare delle lettere a
Irene, a cercare un contatto con lei. Dapprima la ragazza rifiuta le missive di Ciro, poi gradualmente
comprende che il tentativo di contatto del coetaneo può essere l’occasione di scoprire un mondo diverso
dal suo, analogo a quello che, al di là della sofferenza, le ha rivelato la triste esperienza dello stupro.
Terminato il liceo Irene si trasferisce con il fidanzato negli Stati Uniti dove continua gli studi in una
prestigiosa università, mentre Ciro esce di prigione decisamente cambiato: entrambi i ragazzi sono
consapevoli che l’esperienza vissuta li ha aiutati a scoprire una parte di se stessi che ancora non
conoscevano.
Presentazione critica
Introduzione al film
La città dei ragazzi
Il cinema di Antonio Capuano si basa su due capisaldi, su due elementi ricorrenti di film in film: da un
lato la città di Napoli in quanto universo da scoprire e riscoprire, un luogo stratificato, dove le
contraddizioni convivono in apparente (dis)armonia, attraversato da una permeabilità delle classi sociali
che raramente si può constatare in altre realtà; dall’altro i giovani (bambini, adolescenti o ragazzi) come
portatori di uno sguardo diverso, capace di leggere la realtà (spesso degradata) in cui vivono meglio degli
adulti, troppo presi da una quotidianità che tende ad affievolire i sensi e ad addormentare le coscienze. A
incominciare dall’esordio del 1991 con Vito e gli altri che documentava con lirica crudeltà la vita di uno
scugnizzo contemporaneo, passando per Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), storia del legame che si
instaura tra un prete anticamorra e un adolescente che vive fuori dalla famiglia, fino ad arrivare a La
guerra di Mario (2005), incentrato sul rapporto impossibile tra una famiglia borghese e un bambino vittima
di abusi dato loro in affido dai servizi sociali, i minori per Capuano sono sempre stati i protagonisti (anche
negativi, come nel caso del Ciro di L’amore buio) di percorsi complessi, difficili, spesso disperati ma
comunque animati da una grande vitalità capace di riscattarne i destini, di proiettarli in un futuro che è
d’obbligo immaginare migliore.
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Anche libero va bene – scheda critica
L’amore buio riprende la dialettica tra quartieri alti e bassi, tra l’alta borghesia e chi vive nelle zone
della città dominate dal degrado e dalle organizzazioni criminali, tuttavia inserendo una novità di non
poco conto: se in Pianese Nunzio, 14 anni a maggio e in La guerra di Mario la dialettica tra classi sociali
diverse, tra ceto borghese e popolare rifletteva il rapporto tra adulti e minori, appartenendo i primi alle
classi abbienti e acculturate e i secondi a quelle meno fortunate, in questo film i due protagonisti sono
entrambi adolescenti, dunque la loro diversa posizione sociale e culturale non è ulteriormente
sottolineata dalla differenza di età. Per la prima volta la realtà stratificata della metropoli partenopea
può comunicare alla pari, facendo appello a quel sentimento di uguaglianza capace di accomunare le
persone della stessa età che siano disposte a mettersi in gioco per davvero.
La regia di Capuano, coadiuvata dal contributo tecnico del direttore della fotografia Tommaso
Borgstrom riesce a rendere percettibile anche visivamente la distanza tra i due protagonisti: le prime
sequenze del film incentrate sulla giornata di Ciro in compagnia dei suoi complici, trascorsa al mare tra
tuffi, sole e canzoni neomelodiche, colpiscono per la fotografia dai colori sgargianti, irreali, acidi, una
realtà altra non solo per lo spettatore ma anche per gli stessi protagonisti che, dietro le sbarre del carcere
minorile di Nisida, scopriranno quanto fosse artificiale la loro vita precedente; i brani del film nei quali
compare Irene e la sua famiglia sono dominate, al contrario, dai toni scuri, dalla nitidezza dell’immagine
e da molti silenzi che amplificano la sensazione di solitudine della protagonista, il suo lavoro di scavo
interiore alla ricerca di un senso per l’esperienza tremenda che ha vissuto.
Come sempre nei film dell’autore partenopeo sono da rimarcare le interpretazioni dei giovani attori,
quelle dei due protagonisti su tutte: fatta di energia trattenuta, di sguardi intensi e dritti verso l’obiettivo
(e l’interlocutore) quella di Gabriele Agrio nel ruolo di Ciro, decisamente languida ma non per questo
meno intensa la performance di Irene De Angelis in quello di Irene. Entrambi alla loro prima esperienza di
cinema, sono solo gli ultimi di una lunga schiera di attori non professionisti che Capuano inserisce nelle
sue pellicole
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Entre les murs
L’amore buio è uno dei rari film italiani (ma anche stranieri) sulla carcerazione minorile, un universo
raramente considerato non solo cinematograficamente ma anche nella realtà, specie in Italia dove la
detenzione è spesso considerata come il rimedio a problemi sociali che invece richiederebbero altre
soluzioni guidate da criteri di prevenzione e ispirati a un’idea di recupero più che di semplice restrizione o
contenimento del condannato. È un tema, quello del riscatto e del reinserimento sociale, che il film porta
in primo piano nel corso della parte ambientata dietro le sbarre dove assistiamo a un calco
sostanzialmente fedele di come scorre la vita nel carcere minorile di Nisida (una realtà per molti versi
all’avanguardia non solo in Italia ma anche in Europa), nonché in una frase del rap composto da Ciro per
una delle molte attività svolte grazie agli operatori nella quale il ragazzo si domanda perché tutte le
possibilità che gli sono state date in carcere non ha potuto averle quando era libero. Un concetto ribadito
dal padre del ragazzo nel corso di una visita in carcere quando, ricordando al figlio gli obblighi verso la
cosca camorrista ai quali dovrà ottemperare una volta fuori, afferma che “il vero carcere è fuori”.
Quelli appena citati sono solo due tasselli di una dinamica tra interno ed esterno, tra carcere e libertà
che, tuttavia, il film sviluppa molto più in profondità e con grande intensità attraverso il dialogo a
distanza tra Ciro e Irene. Capuano disinnesca la consueta dialettica tra vittima e carnefice dandoci di
Irene un ritratto di giovane donna colpita da un trauma fortissimo ma capace di reagire e di Ciro quello di
un ragazzo consapevole del proprio errore e non solo pronto a pagare con il carcere ma anche desideroso –
sia pure tra mille incertezze – di intraprendere un percorso di recupero. Piuttosto ciò che cerca il regista
(autore anche della sceneggiatura) è di instaurare, anche a prezzo di qualche inverosimiglianza, un
parallelo tra la condizione di due individui così diversi. Scopriamo, poco per volta, come la condizione dei
due adolescenti sia in fondo simile, ovvero come tanto Irene quanto Ciro vivano in una realtà sociale che
ha già determinato il loro cammino: che si tratti di diventare la moglie annoiata di un agiato
professionista o di fiancheggiare i clan camorristi attraverso attività a cavallo tra lecito e illecito,
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Anche libero va bene – scheda critica
entrambi i ragazzi sentono (soprattutto grazie all’evento traumatico vissuto) il peso di un futuro
condizionato, ipotecato.
Gli elementi attraverso i quali Capuano riesce a instaurare tale parallelismo sono molteplici: entrambi i
ragazzi cercano nella recitazione una forma di rielaborazione delle proprie esperienze, di affermazione
della propria identità e, soprattutto per Ciro, di scoperta della propria sensibilità; tanto Irene quanto Ciro
devono rimodulare il rapporto con il proprio corpo, la prima accettandone la violazione subita, il secondo
sopportando la costrizione in una condizione innaturale come quella del carcere; entrambi sono
protagonisti di fughe fisiche (Irene che si addentra nei “famigerati” quartieri spagnoli perdendosi e
ritrovandosi, quasi in trance, di fronte a un dipinto sacro di Caravaggio, Ciro che fugge dal penitenziario
durante un bagno nelle acque dell’isola per poi rientrare, stremato e ferito, a tarda notte) che si
dimostrano soprattutto fughe interiori, alla ricerca di se stessi. Un parallelismo che diviene palpabile
nell’ultima sequenza del film attraverso un campo/controcampo tra Ciro appena scarcerato e Irene che si
trova negli Stati Uniti con il suo fidanzato: un fronteggiarsi di sguardi che esclude la realtà circostante, un
incontro ovviamente virtuale, una licenza poetica che Capuano si concede per mantenere il punto sul suo
provocatorio assunto, ovvero che, al di là delle barriere sociali, ognuno vive in una sorta di prigione (più o
meno dorata) dalla quale attende di essere (in un modo o nell’altro) liberato.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
L’amore buio appartiene a una lunga lista di pellicole incentrate sulla vita di bambini e adolescenti
all’interno del difficile contesto partenopeo: oltre ai già citati film di Capuano potrebbero far parte di
un’ipotetica rassegna di titoli sul rapporto tra infanzia e Napoli anche Certi bambini dei fratelli Frazzi, sul
percorso di corruzione di un giovanissimo delinquente, il celeberrimo Gomorra di Matteo Garrone tratto
dal romanzo di Roerto Saviano ambientato nel quartiere-ghetto di Scampia, ma anche Non è giusto di
Antonietta De Lillo che propone un’immagine inedita tanto della città quanto dei bambini napoletani.
Ambientati nelle carceri minorili come L’amore buio sono anche i film italiani Jimmy della Collina di
Enrico Pau (2006) che dedica buona parte del racconto alla descrizione delle forme di pena alternativa
all’interno di una comunità, il più datato Mery per sempre di Marco Risi (1989) ambientato nel carcere
palermitano di Malaspina, ma soprattutto il capolavoro neorealista Sciuscià di Vittorio De Sica (1946). In
ambito straniero è possibile citare Pixote, la legge del più debole di Hector Babenco (Brasile, 1980),
Salaam Bombay! di Mira Nair (India 1988) ma soprattutto i più recenti Il figlio di Luc e Jean-Pierre
Dardenne (Francia/Belgio 2002), Les choristes – I ragazzi del coro di Christophe Barratier (Francia 2004) e
Picco di Philip Koch (Germania 2010) nel quale, a differenza di L’amore buio ogni spazio per la
riabilitazione attraverso attività educative e di riflessione per mezzo di un adeguato supporto psicologico
risultano completamente assenti.
Fabrizio Colamartino
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