Dall`immigrazione come risorsa alle risorse dei

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Dall`immigrazione come risorsa alle risorse dei
Dall’immigrazione come risorsa
alle risorse dei quartieri multietnici
Pianificazione e “città delle differenze”
di
Paola Briata
Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011
Università IUAV di Venezia
Cà Tron – Santa Croce 1957
30135 Venezia
Dipartimento di Architettura e Pianificazione
Politecnico di Milano
Via Bonardi 3 20133 Milano
[email protected]
1
Introduzione
Nonostante un panorama legislativo ancora impostato in termini emergenziali e di esclusivo
controllo dei flussi (Rivera, 2009), nel 2009 è stata stimata nel nostro paese la presenza di quasi
cinque milioni di immigrati regolari con un aumento di circa mezzo milione di unità rispetto al
2008. I dati disponibili rivelano dunque una presenza consistente – pari all’8,3 % della popolazione
– e caratterizzata da una crescita esponenziale. Una presenza destinata sicuramente ad aumentare,
anche a seguito della recente crisi politica in Nord Africa e in Medio Oriente. Si tratta dunque di un
fenomeno strutturale che, come tale, necessita di essere governato.
Negli ultimi anni il dibattito nazionale e internazionale ha prodotto una letteratura multidisciplinare
ormai molto ampia e articolata sui punti di forza, ma anche sulle fragilità dei “modelli di
integrazione” proposti nei paesi che hanno dovuto affrontare la questione della presenza immigrata
prima del nostro (Martiniello, 1997).
Senza negare l’estrema rilevanza di tale dibattito e l’influenza che questo può esercitare sugli
strumenti di governo del territorio1, riempire di contenuti parole come “integrazione” o “inclusione”
implica anche avviare una riflessione sulle specificità del contributo che ogni singola disciplina, in
concorrenza e integrazione con le altre, può dare nel perseguimento di simili ambiziosi obiettivi.
Questo paper si propone di proseguire un ragionamento già in parte avviato in tal senso con
riferimento agli strumenti di governo del territorio attivati in contesti multietnici in Italia (Briata,
2010) e tenendo conto di quanto il dibattito sugli spazi urbani dell’immigrazione abbia sempre
dedicato molta attenzione al tema della concentrazione dei nuovi arrivati in alcune aree (Tosi,
2000). In tutti i paesi occidentali, i quartieri caratterizzati da una presenza etnica “elevata” sono
visti infatti come “mondi a parte” all’interno dei quali si creano delle barriere che impediscono
l’interazione con il resto della società, rendendo problematici i percorsi di “integrazione” (Musterd,
Andersson, 2005).
Tenendo conto dell’aggressività che caratterizza il discorso pubblico su questo tema nel nostro
paese, i ragionamenti che vengono proposti in questo paper prendono le mosse da una ricerca nella
quale si è provato ad affrontare una questione sicuramente spinosa agli occhi dell’opinione pubblica
qual è l’immigrazione partendo da uno degli aspetti “apparentemente” meno problematici – ma
anche più visibili e quindi più soggetti all’etichetta della “concentrazione” – che la caratterizzano:
quello della presenza commerciale straniera nelle nostre città.
1
Ho riflettuto in tal senso in Briata (2007).
2
Il riferimento alle economie “etniche2” come risorsa e non come problema per le città e i territori è
stato approfondito da studi che hanno sottolineato aspetti di natura economico-sociale come la
disponibilità da parte dei nuovi arrivati a farsi carico di professioni labour-intensive e/o non più
presidiate dai lavoratori italiani (Bonomi, 2008; Ambrosini, 2010). Questa disponibilità, associata
alla flessibilità e alla maggiore propensione al rischio (Ambrosini, 2009), ha reso possibile la
crescita degli immigrati imprenditori che, nonostante la negatività dell’attuale congiuntura
economica, contribuiscono oggi alla formazione di circa il 10% del Prodotto Interno Lordo
(Fondazione Ethnoland, 2009). Per avere dei termini di confronto, si tratta di un contributo non
molto distante da quel 13% che proviene da un settore radicato nel nostro paese e riconosciuto a
livello internazionale come il turismo.
Con riferimento più specifico al commercio, gli studi urbani hanno evidenziato come nelle città,
dove gli esercizi di vicinato tradizionali presentano da almeno un decennio un trend di rapida
diminuzione, le attività dei nuovi arrivati, nonostante alcune innegabili criticità, abbiano garantito la
vitalità di numerosi quartieri (Lanzani, 2003; Grandi, 2008).
Tenendo conto di questo contesto generale, il paper prende le mosse dagli esiti e dalle criticità di
una ricerca sul governo dei territori del commercio etnico in alcune città venete svolta tra aprile
2010 e luglio 20113.
Il Veneto è una delle principali regioni di attrazione di flussi migratori e, dal 2000 al 2008, si è
passati da 15mila a 35mila titolari di cariche imprenditoriali (Osservatorio regionale
sull’immigrazione, 2009). Dal punto di vista che si vuole adottare, rappresenta inoltre un caso
interessante perché gli stranieri hanno dimostrato una crescente capacità di radicamento nei tessuti
produttivi diffusi, talvolta grazie al sostegno dell’imprenditoria autoctona, ma più problematico
risulta l’inserimento nelle città (Barberis, 2008).
Queste condizioni di contesto hanno determinato la scelta di realizzare direttamente due studi di
caso sul quartiere di Veronetta a Verona e sul quartiere Arcella a Padova, attraverso i quali si è
cercato di comprendere caratteri, problematiche e potenzialità di queste economie, nonché il livello
di conoscenza del fenomeno da parte delle pubbliche amministrazioni e il trattamento dello stesso
attraverso le politiche.
2
Da almeno un decennio è in corso una profonda revisione delle ipotesi “culturaliste” che hanno caratterizzato gli studi
sulle economie promosse dagli immigrati. Questi nuovi approcci hanno permesso di vedere con maggiore chiarezza la
pluralità di forme assunte dalle così dette “economie etniche” con riferimento alla rilevanza dei rapporti transnazionali
che costruiscono, alla clientela più o meno connotata dal punto di vista etnico alla quale si rivolgono e alle relazioni che
stabiliscono con il territorio in cui si insediano (cfr. Kloostermann, Rath, 2001). Le virgolette rispetto a questa
espressione, che non verranno più ripetute, servono ad avvisare il lettore che il concetto non viene in alcun modo dato
per scontato.
3
Il lavoro è stato finanziato attraverso un assegno di ricerca dall’Università IUAV di Venezia.
3
La scelta è caduta su queste città sia per la presenza di due quartieri in rapida trasformazione, anche
a causa della rilevanza della presenza immigrata nel tessuto commerciale, sia per la diversa
impostazione che caratterizza il discorso pubblico nel panorama urbano4 – estremamente aggressivo
nella Verona governata dal leghista Flavio Tosi, più pacato a Padova, nonostante le problematiche
significative emerse in un recente passato in Via Anelli e arrivate agli onori delle cronache
nazionali, sotto il governo della giunta di centro-sinistra guidata da Flavio Zanonanato.
L’articolo restituisce nei primi due paragrafi gli esiti dell’indagine sul campo nelle due città per poi
proporre alcune riflessioni “conclusive”, centrare in particolare sulle modalità di costruzione e
trattamento del problema chiamate in causa dalle amministrazioni, ma soprattutto dagli studiosi
attenti ai temi di governo del territorio5.
1. Veronetta – tra dinamiche di quartiere e una nuova strategia di sviluppo della città
1.1. Una banlieue a Verona?
“Banlieue Verona” (senza interrogativo): questo il titolo di un articolo apparso il 28
ottobre 2010 sul settimanale L’espresso nella sezione “Inchiesta su come cambia una
città”.
Incipit: “Immigrati sempre più numerosi. Convivenza sempre più difficile. E negozi
ceduti dagli italiani agli stranieri. Viaggio nel quartiere ghetto di Veronetta, ieri
Terronetta, dove la globalizzazione avanza. Nonostante la Lega”.
Veronetta si trova oltre l’Adige rispetto al centro storico di Verona, ma in una posizione semicentrale e interna alle mura. L’arena è a dieci minuti a piedi e l’università ha iniziato a insediarsi in
quest’area dagli anni ’70, espandendo progressivamente la propria presenza. Ciò nonostante,
Veronetta è percepita come una periferia, soprattutto per la composizione economico-sociale dei
suoi abitanti. Tra questi, immigrati dal meridione d’Italia nel dopoguerra, dai paesi meno sviluppati
del nostro dalla seconda metà degli anni ’90 quando “terronetta” diventa, per alcuni, “negronetta”.
La posizione a ridosso del centro, la presenza dell’università, i caratteri del tessuto urbano e gli
edifici storici rendono però questo quartiere ben lontano dall’immagine della banlieue. Veronetta
non è neppure di un ghetto: la popolazione di origine immigrata non supera il 21% dei 10.000
4
Questa scelta è stata fatta nella consapevolezza che non sempre il colore politico delle giunte che guidano le città è
correlato al discorso pubblico promosso a livello locale in materia di immigrazione né, come ha mostrato con grande
efficacia Tiziana Caponio (2006), alla effettiva “capacità integrativa” degli ambiti urbani. È dunque al dibattito così
come è emerso soprattutto nella stampa e nei media locali che si è fatto riferimento in questo senso.
5
I casi presi in esame sono stati già presentati e discussi nell’ambito della Conferenza SIU 2011 (Briata, 2011b). Ciò
nonostante, il dibattito teorico di riferimento e le conclusioni proposte sono profondamente diverse. Ringrazio Carlotta
Fioretti e Giancarlo Paba che mi hanno stimolato a guardare le stesse esperienze da un diverso punto di vista (cfr.
Fioretti, 2011).
4
abitanti e vede la compresenza di persone provenienti da paesi diversi (Marocco, Nigeria, Ghana,
Sri Lanka, Cina, Albania)6. Il quartiere è sicuramente interessato da situazioni di degrado fisico che
riguardano gli edifici, gli alloggi e lo spazio pubblico. Presenta il più alto tasso della città di
famiglie unipersonali (single e studenti), così come è elevata la presenza di persone anziane
(Comune di Verona, 2011). Sono inoltre già visibili tracce di gentrification nelle vie più vicine
all’Adige e all’Università, così come in presenza dei palazzi più antichi e di pregio architettonico.
Un aspetto che “fa problema” nel dibattito cittadino è la progressiva sostituzione delle attività
commerciali di vicinato con esercizi gestiti da immigrati. Il fenomeno è significativo, seppure
concentrato su un numero ridotto di vie (tab. 1)7. Tuttavia, la presenza di esercizi gestiti da italiani
rimane maggioritaria anche in via XX settembre, una delle arterie principali del quartiere che risulta
la strada maggiormente interessata da questo fenomeno, dove la percentuale di negozi gestiti da
stranieri è attorno al 34%. Si tratta inoltre di un tessuto commerciale articolato dove la presenza di
call center, money transfer e rivenditori di kebab è associata a negozi che vendono accessori o
generi alimentari di vario tipo non necessariamente connotati dal punto di vista etnico, alcune
macellerie halal e dei bar. La stessa presenza commerciale italiana è differenziata: piccoli
supermercati e discount si alternano a macellerie, panetterie e fruttivendoli, librerie, bar tradizionali
e altri più “innovativi” associati ad attività artistico-culturali. È presente anche una confetteria
aperta qualche anno fa da una imprenditrice che ha visto nella presenza straniera un’opportunità:
“bambini e matrimoni: una risorsa in crisi profonda nei quartieri a maggioranza italiana”, ha
spiegato nell’articolo de L’espresso citato nell’incipit. Situazioni non dissimili sono state rilevate
negli altri assi commerciali portanti di Veronetta, che scorrono parallelamente all’arteria principale.
Via-asse commerciale
Esercizi italiani
Esercizi stranieri
Percentuale stranieri
Via XX settembre
64
33
34%
Asse Via Mazza – Via Cantarane
23
8
25%
Asse Via Trezza – Via San Nazzaro
34
14
29%
Tabella 1 – esercizi commerciali italiani e stranieri nelle principali strade di Veronetta
Di giorno l’area è ampiamente vissuta e la presenza immigrata sembra spaventare soprattutto le
persone anziane sia per il disorientamento di fronte ai rapidi cambiamenti in atto, sia per
6
L’allusione ai ghetti, in letteratura, compare con riferimento ad aree dove la popolazione straniera supera ampiamente
il 60%, spesso con una forte presenza “mono-etnica” (Marcuse, Van Kempen, 2000).
7
In mancanza di intrecci tra dati qualitativi e quantitativi presso le amministrazioni, sia a Verona che a Padova è stata
operata una selezione delle vie commerciali maggiormente caratterizzate dalla presenza immigrata per poter effettuare
dei rilievi diretti.
5
l’aggressività del discorso pubblico emerso in città. Il senso di insicurezza deriva soprattutto dai
ripetuti episodi di ubriachezza, molestie e disturbo alla quiete pubblica di gruppi marginali di
immigrati, in alcuni casi dediti alla microcriminalità. Episodi spesso concentrati in zone circoscritte,
che funzionano talvolta anche da alloggio precario (Bertani, 2006)8. Le persone più giovani stanno
invece superando la diffidenza verso gli stranieri e alcuni negozi sono frequentati anche da italiani,
soprattutto laddove i prodotti in vendita non hanno alcuna connotazione etnica. Contrariamente a
quanto avviene in altre realtà (si pensi, ad esempio, al quartiere del Carmine a Brescia o al centro
storico di Genova) stupisce invece l’incapacità del tessuto commerciale portato dagli immigrati – in
particolare della ristorazione take away e low cost – di intercettare le esigenze degli studenti.
In termini generali, è possibile affermare che la percezione di disagio così come è descritta
“dall’esterno” sia peggiore rispetto a quella effettivamente vissuta “all’interno9”. Al tempo stesso,
sono gli abitanti di Veronetta a ritenere che sia importante non dare troppa enfasi alle situazioni
problematiche, proponendo immagini meno negative del quartiere.
1.2. Da un approccio integrato alla “politica delle ordinanze”
Un’analisi delle politiche proposte per Veronetta da quando la presenza immigrata ha iniziato a
“fare problema” permette di registrare alcuni cambiamenti forse solo in parte imputabili ai
mutamenti avvenuti nel governo della città.
Dal 2002 al 2007 Verona è stata governata da una giunta di centro-sinistra che ha provato a
riproporre a Veronetta l’approccio integrato già sperimentato nell’area periferica di Borgo Nuovo
attraverso la realizzazione di un Contratto di quartiere. Uno studio di fattibilità per un Contratto di
quartiere da realizzare a Veronetta è stato messo a punto nel 2006 dal Comune in collaborazione
con Studio Guglielma, un’associazione che si occupa di progettazione partecipata e che aveva già
promosso l’iniziativa “Veronetta si-cura”, nella quale il tema della sicurezza era declinato in termini
di convivenza e coesione delle diverse popolazioni presenti nella zona (De Vita, 2010).
Questo patrimonio di ipotesi di intervento e politiche è andato perdendosi a partire dal 2007 con
l’elezione a Sindaco di Flavio Tosi. La sicurezza dell’intera città e, in particolare, di Veronetta, è
stata uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Tosi. Una visione della sicurezza che
si è concretizzata nella presenza costante di volanti della polizia, nell’installazione di telecamere
8
Molte delle considerazioni su come si vive oggi a Veronetta derivano dalla collaborazione con Michele Bertani,
sociologo presso l’Università di Verona, attento osservatore delle dinamiche del quartiere come studioso e abitante. Le
informazioni contenute nel suo contributo del 2006 sono dunque aggiornate alla situazione attuale.
9
Questo riferimento a descrizioni e dinamiche “interne” ed “esterne”, che verrà ripresa più volte nell’ambito del saggio,
viene proposta nella consapevolezza che la distinzione tra “ciò che sta dentro e ciò che sta fuori” da un territorio, non è
mai definibile in termini assoluti: si tratta di costrutti strategici messi in atto dagli attori in gioco (compreso il
ricercatore che a tali distinzioni si affida) per operare delle semplificazioni utili a prefigurare corsi d’azione (e di
ricerca) piuttosto che altri.
6
nelle aree più problematiche, così come nell’emanazione di una serie di ordinanze che hanno
colpito soprattutto le attività svolte nei call center e limitato gli orari di apertura degli esercizi e
della somministrazione di bevande alcoliche. Queste ultime regole hanno colpito anche i bar gestiti
dagli italiani.
A dicembre 2010, l’amministrazione ha inoltre lanciato un Piano per il centro storico che include
anche Veronetta. Il piano intende proporre una serie di regole estetiche per i fronti commerciali e
porre dei limiti alle attività “in contrasto” con la tutela dei valori artistici, storici e ambientali della
città. Per le attività di produzione e somministrazione di “cibi etnici” si ipotizza il divieto di nuove
aperture entro un raggio di 300 metri da quelle già esistenti.
Ciò che più colpisce della “politica delle ordinanze e dei regolamenti” non è tanto la necessità,
talvolta legittima, di regolare alcuni usi nelle aree commerciali, ma l’assoluta incapacità di pensare
ad ambiti sicuramente problematici della città in una dimensione integrata. A Veronetta i problemi
sono infatti ben più ampi del decoro dei fronti commerciali – ad esempio, la scarsa qualità dello
spazio pubblico non è certo imputabile alla presenza immigrata – ma nessun progetto di recupero
complessivo sembra essere all’ordine del giorno. Si propone dunque una forma di governo del
territorio declinata “in negativo”, basata soprattutto sull’intralcio di alcune attività.
La prospettiva cambia completamente se si guarda a Veronetta da un altro punto di vista. La zona è
infatti dominata dalla presenza di due aree dismesse di 200.000 metri quadrati, precedentemente
occupate da due caserme. Dopo numerose empasse, la progettualità su queste aree acquisite dal
Comune ha subito un’accelerazione nel 2009 con la promozione di un Programma complesso che
prevede la realizzazione di nuovi spazi universitari, social housing, edilizia privata e un parco.
Questo intervento “raddoppia” di fatto il territorio di Veronetta ed è finalizzato a conferire una
nuova rilevanza strategica ad un’area finora ai margini delle traiettorie dello sviluppo urbano
(Boninsegna, 2009). Il nuovo dinamismo che ha investito il quartiere si riflette anche in un
mutamento dei confini di Veronetta dal punto di vista delle politiche: se fino a qualche anno fa
l’attenzione era tutta centrata sul quartiere residenziale storico al quale si affiancava il “buco nero”
della zona militare, oggi si guarda soprattutto alle aree interessate dalla trasformazione. In questo
contesto più generale, è forse opportuno chiedersi anche quanto della politica delle ordinanze e
della mancanza di progettualità “in positivo” per l’altra parte di Veronetta non sia imputabile ad un
preciso disegno di disinvestimento su un tessuto urbano dal futuro incerto per la pressione
immobiliare che si verrà a creare a seguito dei progetti di riqualificazione e per la scarsa
compatibilità della realtà economica e sociale attualmente presente con le nuove funzioni che
andranno a insediarsi.
7
2. Arcella – tra il rifiuto dello stigma e la ricerca di “centralità”, “lontani” dal centro
2.2. Il panificio (dei musulmani) chiude
“Chiude per sempre il panificio dei musulmani”. Questo il titolo di un articolo
apparso su Il Mattino di Padova il 31 ottobre 2010.
Incipit: “Niente da fare. Hanno vinto i pregiudizi. Non è servita a niente la campagna
a favore che gli hanno fatto tanti residenti e negozianti del rione Prima Arcella. Il
panificio con annesso laboratorio che si trova in Via Tiziano Aspetti tra la pizzeria
Penelope e il ristorante indiano Jaipur Samrat, gestito da un tunisino musulmano, ha
chiuso i battenti per sempre. Tra le cause che ne hanno determinato la chiusura, sia
l’arrivo del tram lungo l’asse Aspetti-Reni, sia la scelta razziale, a sfondo anche
religioso, di non andare ad acquistare il pane italiano prodotto dal panettiere arabo”.
Arcella10 è un quartiere immediatamente a nord della stazione ferroviaria di Padova che si è
sviluppato soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, diventando in breve tempo una delle aree
più popolose della città. Il tessuto urbano, meno denso e sicuramente non caratterizzato da presenze
storiche significative, condivide con Veronetta la rilevanza della dimensione “di quartiere” nella
vita dei suoi abitanti, la relativa vicinanza con il centro storico – raggiungibile in pochi minuti con
una metrotranvia aperta di recente – e l’insediamento di numerose comunità di immigrati11. Anche
in questo caso non è possibile parlare di un ghetto, sia perché la percentuale di italiani rimane di
gran lunga maggioritaria, sia per la presenza di immigrati provenienti da paesi molto diversi. Ad un
numero consistente di rumeni e moldavi, si associano infatti presenze significative di cinesi e
nigeriani. L’invecchiamento della popolazione locale rappresenta un problema anche per l’Arcella,
tuttavia questa tendenza è in parte contrastata dalla presenza degli studenti che frequentano le
università localizzate in centro. La presenza di famiglie unipersonali è, di conseguenza, molto
elevata.
Come a Veronetta, la presenza immigrata è particolarmente visibile nelle sostituzioni che
avvengono nel tessuto commerciale. Questo mutamento è molto evidente nella parte sud del
quartiere nell’area del rondò Borgomagno, uno snodo a ridosso del cavalcavia che supera il
tracciato ferroviario collegando l’Arcella al centro cittadino, lungo l’arteria principale della zona,
10
Arcella è il rione più a sud dei tre che compongono la zona di decentramento denominata Quartiere 2 Nord a Padova.
Seppure con “Arcella” si tenda ad identificare quasi tutto il territorio del quartiere nord, la ricerca ha focalizzato
l’attenzione solo sul rione Arcella in senso stretto perché è in questa area, a ridosso della stazione ferroviaria, che si
riscontra la maggiore presenza immigrata nel tessuto commerciale e, da diversi punti di vista che non riguardano solo
gli stranieri, anche i maggiori problemi.
11
Nel 2009 gli stranieri rappresentavano il 22,16% dei 15.000 abitanti dell’Arcella (Comune di Padova, 2010).
8
via Tiziano Aspetti e in via Jacopo d’Avanzo che si dispiega in un’infelice spazio residuale sul retro
della stazione (tab. 2).
Via-Piazza
Esercizi italiani
Esercizi stranieri
Percentuale stranieri
Rondò Borgomagno
8
13
61%
Via Tiziano Aspetti
69
28
29%
Via Jacopo d’Avanzo
7
7
50%
Tabella 2 – esercizi commerciali italiani e stranieri nelle principali strade dell’Arcella
Particolarmente significativa è la presenza straniera nei pressi del rondò Borgomagno, uno snodo
viabilistico privo di qualunque connotato di “piazza”, che non ha comunque scoraggiato
l’insediamento di alcuni esercizi di qualità: una macelleria rumena, un alimentari moldavo, un
parrucchiere cinese. Queste attività convivono con altre (italiane e straniere) che connotano tessuti
commerciali di minore qualità: money transfer, call center, sale giochi, una scuola guida, alcuni bar.
Via d’Avanzo rappresenta senza dubbio una delle aree più problematiche dell’Arcella. Qui sono
state organizzate iniziative specifiche per contrastare la prostituzione e retate contro gli spacciatori
di droga. Non si tratta di un vero e proprio asse commerciale perché, tenuto conto della lunghezza
della via, il numero complessivo delle attività italiane e straniere è ridotto e discontinuo. Per quanto
riguarda il commercio etnico, si tratta di attività in larga misura problematiche, soprattutto per la
presenza di diversi esercizi gestiti da nigeriani dove le condizioni igieniche appaiono molto critiche
e nei quali convivono, nello stesso negozio, attività differenti – money transfer, call center, vendita
di alimentari e bevande, vendita di vestiario.
In via Tiziano Aspetti il rapporto tra le attività gestite da italiani e quelle gestite da stranieri cambia
significativamente. Come a Veronetta è rilevabile una buona articolazione commerciale e le attività
degli immigrati integrano quelle “autoctone”. Contrariamente ad altre realtà, poco significativo è il
numero di call center e money transfer. Sono presenti dei ristoranti etnici frequentati anche da
italiani, così come alcuni negozi – un ortofrutta, il panettiere del quale si parla nell’incipit, al posto
del quale ha aperto una pasticceria cinese – in cui c’è stato un passaggio di gestione dagli italiani
agli stranieri. Spicca inoltre la presenza dei bar gestiti da immigrati di origine cinese, un fenomeno
rilevabile in tutta la città e in altre realtà urbane italiane, che ha assunto all’Arcella dimensioni
significative.
La chiusura del panettiere ha suscitato un moto di sdegno nell’amministrazione padovana e in
alcune associazioni e “personalità” del quartiere che si sono battute perché gli abitanti andassero
9
oltre i pregiudizi. Le associazioni laiche e religiose12 presenti nella zona testimoniano di un clima di
diffidenza verso gli stranieri che non è però assimilabile ad un rifiuto. All’Arcella come a Veronetta
emerge la consapevolezza che, a fianco di una minoranza che delinque rimbalza agli onori delle
cronache, esiste una maggioranza di famiglie che si stanno radicando e che è, nei confronti degli
immigrati che commettono atti criminosi o semplicemente che sono causa di disturbo, se possibile
ancora più dura di quanto non lo siano gli italiani.
Al tempo stesso, gli abitanti sembrano maggiormente preoccupati dell’assenza di occasioni di
incontro socio-culturale e di luoghi di aggregazione: spicca infatti nel quartiere la mancanza di una
via commerciale in senso stretto, così come di una piazza o di una qualunque “centralità”. Da
questo punto di vista, non soddisfa la riqualificazione portata avanti di recente in una delle possibili
centralità del quartiere, Piazza Azzurri d’Italia. E, ancora, pur essendo la via principale dell’Arcella,
la stessa via Aspetti non si presenta come un’asse commerciale vero e proprio per la discontinuità
dei fronti, la scarsa qualità dello spazio pubblico, la compresenza del traffico veicolare che scorre a
velocità elevata e della metrotranvia che – nonostante presenti l’innegabile vantaggio di collegare in
pochi minuti diversi parti del quartiere e il quartiere stesso con il centro storico – è stata da più parti
criticata per la sua pericolosità. Non a caso, non è poi così chiaro nello stesso articolo de Il Mattino
riportato nell’incipit se il panettiere abbia realmente chiuso per un rifiuto di natura religiosaculturale da parte della popolazione italiana, o a causa delle condizioni di disagio denunciate da
molti esercenti dell’Arcella dopo l’arrivo del tram.
Infine, ciò che emerge dalle interviste agli attori attivi a livello locale, è un certo disagio di fronte
all’immagine negativa del quartiere così come è stata costruita “all’esterno”: pur non essendo
mancati atti di microcriminalità e di delinquenza, sono in molti a sottolineare che questi siano stati
amplificati dai media. Esistono sicuramente luoghi degradati e sacche di marginalità come Via
d’Avanzo o l’area sotto il cavalcavia della stazione che, in un passato molto recente, ha anche
ospitato le situazioni problematiche allontanate da Via Anelli, ma l’immagine complessiva
“dall’interno” è quella di un quartiere che sente il bisogno di una maggiore progettualità da parte
dell’amministrazione. Questa sorta di stigmatizzazione ha portato l’Arcella, un quartiere già di per
sé portato a considerasi “altro” rispetto al centro di Padova, a rinchiudersi ancora di più in se stesso
e a rivendicare maggiormente la propria autonomia.
12
Sono grata a Francesca Gelli e agli allievi del suo corso di “Politiche pubbliche e pubblica amministrazione” presso
l’Università IUAV di Venezia che hanno lavorato sull’Arcella tra ottobre 2010 e febbraio 2011 e, nel corso di un
workshop organizzato assieme, hanno condiviso con me quanto rilevato attraverso le loro analisi e interviste agli attori
locali.
10
2.2. Primissimi esercizi di inclusione?
L’apertura dei negozi gestiti dagli stranieri non ha generato diffidenza negli abitanti dell’Arcella.
L’Assessorato al commercio e alle attività produttive è stato in tal senso sollecitato dai cittadini
affinché fosse garantito innanzi tutto un allineamento ai canoni occidentali dal punto di vista
igienico sanitario 13.
Seppure anche a Padova e all’Arcella la gestione della presenza di queste attività stia stata
affrontata attraverso ordinanze di chiusura anticipata o volte a limitare la somministrazione di
bevande alcoliche, si riscontrano anche le primissime tracce di un approccio diverso. La Giunta che
ha preceduto quella in carica e, in particolare, l’Assessorato alla Polizia Municipale con la
collaborazione di Confesercenti, di Banca Popolare Etica e dell’associazione Mimosa14, ha
promosso nell’area antistante la stazione dove sono attestate numerose attività gestite da stranieri,
un progetto volto a riqualificare la zona con la partecipazione dei gestori degli esercizi commerciali
e degli abitanti. L’asse portante di questa zona che collega in pochi minuti a piedi la stazione con il
centro cittadino, potrebbe essere una sorta di “porta di ingresso” in città, se non fosse ormai
dominato da una situazione viabilistica complessa, per molti versi simile a quella di Via Tiziano
Aspetti all’Arcella e da un tessuto commerciale di scarsa qualità al quale contribuisce una presenza
significativa di call center e money transfer.
Il progetto partecipato ha visto la realizzazione di una intensa fase di indagine sul campo portata
avanti dal Dipartimento di Formazione all’educazione dell’Università di Trieste e IRES Friuli
Venezia Giulia (Banca Etica, 2008). La ricerca ha previsto forme di osservazione etnografica,
interviste a testimoni privilegiati (in particolare, residenti e commercianti, di origine immigrata e
non), la formazione di gruppi di discussione con realtà sociali presenti e attive sul territorio e con gli
attori individuati come “grandi portatori di interesse” per la zona (Associazioni di categoria,
imprese, esercenti, grande distribuzione e stazione FFSS).
Gli esiti sono interessanti, da un lato perché a sud della stazione si registrano una serie di
convergenze “di percezione” con quanto rilevato attraverso la ricerca svolta all’Arcella, dall’altro
perché l’amministrazione sembra voler riproporre proprio all’Arcella la metodologia di indagine già
attivata qui. Tra gli esiti significativi è possibile segnalare: la differenza tra la percezione “esterna”
e quella “interna” della zona, ma anche tra quella diurna e quella notturna, tra la città degli uomini e
quella delle donne; una visione della presenza immigrata sicuramente non pacifica, ma neppure
stereotipata – più che un giudizio negativo sulla presenza di stranieri, ancora una volta, sono le
condizioni e il comportamento delle persone a fare la differenza; una visione della sicurezza che,
13
Le informazioni riportate in questo paragrafo derivano principalmente da un’intervista diretta svolta a febbraio 2011
all’Assessore al commercio e alle attività produttive del Comune di Padova, Marta Dalla Vecchia.
14
Si tratta di un’associazione attiva a Padova da molti anni sui temi dell’integrazione.
11
lungi dall’assecondare le immagini proposte dai media, non propone solo ed esclusivamente
l’allontanamento degli stranieri, ma si interroga sulle possibilità di un recupero di una “normalità
perduta” attraverso la promozione di iniziative volte a riqualificare l’area, a darle realmente il ruolo
di porta di ingresso nella città, a renderla più vissuta e vivibile e, in sostanza, “più simile al centro”.
Interessanti sono anche le parole-chiave identificate in base all’indagine per guidare la progettualità:
“controllare”, ma anche “promuovere e aggregare”.
Questa indagine ha costituito la premessa di un percorso progettuale che ha visto l’apertura di un
mercato agricolo, voluto dagli abitanti in un’area particolarmente problematica, la promozione di
alcuni eventi per animare la zona, e un’iniziativa seguita direttamente da Confesercenti, “l’adozione
di un negozio etnico” da parte dei commercianti italiani per costruire dei ponti con gli esercenti
stranieri e per aiutare gli immigrati a rendere i propri negozi attrattivi anche per la popolazione
autoctona.
Il percorso ha suscitato l’interesse di chi attualmente gestisce l’Assessorato al commercio e alle
attività produttive che ha deciso di riproporlo nei prossimi mesi anche all’Arcella, coinvolgendo
nella partnership progettuale oltre a Confesercenti, anche Ascom e Confcooperative. È stata
riportata nel dettaglio non tanto per gli esiti, ancora tutti da valutare15, ma per il modo inusuale di
“costruire il problema” che sembra in parte individuare. Una riproposizione di questo modo di
lavorare all’Arcella, potrebbe dare forse esiti ancora più interessati anche e soprattutto per la
connotazione “di quartiere” che la caratterizza e per come tale immagine, non immune da tensioni
“autarchiche”, possa essere giocata nel contrapporsi allo stereotipo della zona problematica
costruito dall’esterno, aprendo nuovi margini per la ricerca e per l’azione.
3. Appunti per ripensare un’agenda di ricerca
3.1. Narrazioni, stereotipi, assunzioni
Una conclusione “lineare” di questo contributo16, avrebbe cercato in primo luogo di mettere in
evidenza una serie di questioni relative “all’impostazione del problema” da parte delle pubbliche
amministrazioni a partire dalla mancanza di una sorta di “censimento qualitativo” di quanto avviene
nei tessuti commerciali dove sono presenti gli immigrati.
Sarebbe dunque stato evidenziato come le forme imprenditoriali incontrate nel corso della ricerca
sul campo svolta direttamente siano molto diverse tra loro: a Veronetta e all’Arcella, come in molti
altri quartieri multietnici in Italia e all’estero, convivono attività prive di qualunque connotazione
etnica cedute dagli italiani agli stranieri (ortofrutta, panetterie, bar), esercizi che, seppure
15
L’area antistante la stazione si presenta tuttora come un ambito urbano problematico e caratterizzato da un tessuto
commerciale di scarsissima qualità.
16
Una riflessione che va in questa direzione “chiude” il mio recente contributo alla conferenza SIU (Briata, 2011b).
12
etnicamente connotati, sono un servizio per popolazioni diverse (i kebab, i take away di vario tipo, i
ristoranti, le macellerie rumene), forme imprenditoriali rivolte esclusivamente agli stranieri.
Un’impostazione di questo tipo è di solito finalizzata a concludere che “bisognerebbe imparare a
distinguere”, che ciò che può apparire come “concentrazione” di negozi gestiti da stranieri, se
guardato nel dettaglio può presentarsi come un insieme articolato di attività che rappresentano
servizi e risorse per un quartiere nel suo complesso.
Al tempo stesso, anche in presenza di attività rivolte solo agli stranieri, si sarebbe cercato di
argomentare quanto siano problematiche soprattutto laddove connotano una scarsa qualità del
tessuto commerciale o nei casi in cui si esercitino nello stesso negozio attività di diversa natura,
spesso associate a condizioni igieniche non allineate con i canoni occidentali. Si sarebbe osservato
che, in questi ultimi casi, le attività fanno problema “in sé”, ma anche per la capacità di trasformarsi
in punti di aggregazione esclusiva dei gruppi di immigrati che risultano così più visibili nello spazio
pubblico.
Infine, ci si sarebbe chiesti dove possano arrivare se non a forme più o meno repressive, politiche
basate su dati statistici e modi di osservare fortemente condizionati da percezioni stereotipate di
queste presenze commerciali. Sarebbe stato sottolineato un modo di guardare alla presenza
commerciale straniera come un problema – anche laddove, come a Padova, non sembrano al
momento presenti ipotesi “repressive” significative – per poi cercare di spostare l’attenzione
sull’immigrazione come risorsa, su quanto gli spazi commerciali siano dei catalizzatori per
quell’uso “intensivo” dello spazio pubblico da parte dei nuovi arrivati in più occasioni evocato
come una possibile risposta alla “crisi di urbanità” registrata nelle città contemporanee. Se “la città
è gente per strada” come sottolinea Jordi Borja (2003), “promessa ormai non più mantenuta di
relazione sociale” come osserva Jeanne Brody (2005), allora chi, più degli immigrati, oggi,
“produce città”?
A questo punto però è forse opportuno chiedersi se queste narrazioni dell’immigrazione come
risorsa urbana, costruite soprattutto negli ambiti accademici e dalle quali questo stesso contributo
non si ritiene certo immune, non rischino di trasformarsi in puri esercizi di retorica se chiamate in
causa solo nella descrizione di contesti problematici e/o deprivati, per poi essere in buona misura
ignorate, come spesso accade – e come potrebbe accadere, ad esempio, a Veronetta quando sarà
realizzato il progetto di recupero delle caserme – nel momento in cui quegli stessi contesti sono
soggetti a percorsi o anche solo ipotesi di riqualificazione.
In questo senso, il percorso che si vuole seguire nel prossimo paragrafo prova ad esplorare l’ipotesi
che queste “sconnessioni” tra ricerca e agende di policy non siano determinate solo da una serie di
assunzioni e visioni stereotipate dei problemi che informano il discorso pubblico e le politiche
13
stesse, ma anche da un modo di costruire il problema che è proprio della ricerca – degli studiosi del
territorio e delle sue forme di governo – e che, in modo più o meno consapevole, tende a riprodurre
quegli stessi stereotipi che spesso cerca di mettere in discussione.
3.2. Cambio di sguardo
“Alle volte l'antica pittura su tela, invecchiando si fa trasparente. Quando questo
accade è possibile vedere le linee originali di certi quadri: sotto un vestito di donna
trapelerà un albero, un bambino cede il proprio posto a un cane, una grossa barca
non naviga più sul mare aperto. Questo si chiama pentimento perché il pittore si è
'pentito', ha cambiato idea” (Lillian Hellman, 1973).
Gli ambiti urbani sono il principale “porto di entrata” dei migranti nelle città occidentali e il
dibattito sullo spazio urbano dell’immigrazione è sempre stato dominato dal tema della
concentrazione dei nuovi arrivati in alcune aree e in alcuni quartieri (Marcuse, Van Kempen, 2000).
Questo modo di descrivere la questione si riferisce ad un’ampia gamma di fenomeni ritenuti
problematici: un numero “rilevante” di stranieri in una certa area, un’incidenza elevata rispetto al
totale degli abitanti, insediamenti come le enclave etniche dove la presenza di una specifica etnia è
maggioritaria (Tosi, 2000). Secondo Tosi la dimensione spaziale è la dimensione maggiormente
connessa con la visibilità urbana dell’immigrazione e svolge un ruolo cruciale nel condizionare
l’intervento pubblico nei contesti dove sono presenti i nuovi arrivati. Nelle visioni più comuni i
quartieri caratterizzati dalla concentrazione etnica sono infatti “mondi a parte” all’interno dei quali
si creano delle barriere che impediscono l’interazione con il resto della società, rendendo
problematico qualunque percorso di integrazione. Per questi motivi, anche gli strumenti di governo
del territorio sono sempre stati caratterizzati da un approccio dominante finalizzato a “diluire” la
presenza immigrata attraverso l’introduzione di popolazioni di diverso background nei luoghi dove
la “concentrazione etnica” è ritenuta eccessiva, oppure attraverso forme più o meno esplicite di
dispersione dei nuovi arrivati nel più ampio contesto urbano (Yiftachel et al, 2001). In questa
direzione, è stato da più parti osservato come i negozi gestiti dagli immigrati siano tra i principali
vettori dell’immagine etnica di un quartiere, aumentandone la visibilità, la percezione di predominio
di ciò che è straniero su uno spazio urbano e, conseguentemente, determinando forme di intervento
finalizzate a diminuire la concentrazione (Grandi, 2008). Questa visibilità delle economie etniche le
rende dunque problematiche per chi si occupa di governo del territorio, anche laddove queste
abbiano tutte le caratteristiche per presentarsi come una risorsa.
14
Seppure un patrimonio ormai consistente di studi urbani abbia ormai evidenziato l’assenza nel
nostro paese di insediamenti assimilabili alle enclave etniche17 le modalità di intervento sui territori
caratterizzati da una presenza significativa o visibile di immigrati non si discostano in modo
sostanziale dal modello dominante finalizzato a ridurre la concentrazione – se non la percezione
della concentrazione (Briata, 2010).
Da almeno un ventennio, gran parte delle modalità di intervento incentrate su questa logica sono
riconducibili alla vasta gamma di iniziative promosse in numerose città occidentali al fine di
stimolare la “mescolanza economico sociale” (social mix) nelle aree svantaggiate e/o caratterizzate
da una componente etnica significativa18 (Musterd, Andersson, 2005).
Nelle retoriche di queste politiche, la prossimità spaziale di gruppi diversi rivestirebbe un ruolo
cruciale nello stimolare comportamenti “imitativi e virtuosi” nelle persone meno abbienti, immigrati
inclusi (Atkison, 2003). Anche per questo, alcuni autori hanno evidenziato come questo tipo di
iniziative siano sintomatiche un passaggio da un modello di welfare basato sulle “aspettative” ad
uno basato sulle “aspirazioni” che, nel caso dei gruppi meno abbienti, sono destinate ad aumentare
nel momento in cui si crea un contatto diretto – in questo caso una prossimità spaziale – con
persone di diverso background (Raco, 2009b).
Queste agende di policy sono state fortemente criticate dagli studiosi che ne hanno osservato i
principi e il funzionamento:
-
da un lato, emergono visioni critiche delle politiche volte a stimolare mix centrate sui principi
che le supportano, così come sui risultati poco convincenti che ottengono. In particolare, è stato
sottolineato come la prospettiva del welfare aspirazionale tenda a ridurre problemi come la
povertà o l’esclusione sociale a questioni di “patologia sociale”, sottovalutando aspetti
strutturali che non possono essere risolti nella dimensione locale (Raco, 2009b). Al tempo
stesso, è stato osservato come la prossimità spaziale di gruppi di diverso background creata
tramite operazioni di “ingegneria sociale”, non si traduca necessariamente in interazione,
“coesione” o “integrazione” (Cole, Goodchild, 2001).
Un nodo debole di questi studi è relativo al fatto che, pur criticando le politiche finalizzate a
stimolare mix, sembrano rimanere ancorati ad un’immagine negativa della “concentrazione
spaziale” che può condizionare il punto di vista della ricerca, non risultando utile ad esplorare
approcci innovativi;
17
Con riferimento a Milano si vedano, ad esempio, Farina et. al. (1997); Cologna (1999; 2003). Con riferimento a
Roma, Natale (2002). Altre città sono esaminate in Tosi (1998); Laino (2003); Lanzani, Vitali (2003); Colombo et. al.
(2006).
18
Questo approccio, estremamente diffuso, ha in parte condizionato anche le forme di intervento messe in atto in Italia,
seppure un dibattito “forte” su questo tema non sia ancora stato avviato nel nostro paese, né da parte delle
amministrazioni, né da parte del mondo accademico (cfr. Briata, 2011a).
15
-
una visione diversa emerge dalla letteratura che suggerisce di ri-considerare le potenzialità dei
luoghi caratterizzati dalla concentrazione etnica, sottolineando come, in un contesto dominato
dalla contrazione della capacità di intervento del welfare, azioni come quelle di social mixing
rischino di costringere gli immigrati e in generale i soggetti più fragili a spostarsi dai luoghi
dove hanno costruito network in grado di risolvere problemi concreti, sui quali non sempre la
mano pubblica è attualmente in grado di intervenire (Cattacin, 2006). Si tratta di visioni che
propongono di guardare a questi luoghi in una prospettiva meno condizionata dalla visione
stigmatizzata che si produce “all’esterno” e più attenta alle dinamiche “interne” dei territori.
Network all’interno dei quali, tra l’altro, le economie etniche svolgono spesso un ruolo cruciale
(Rindoks et al, 2006).
Come per il dibattito accademico sui vantaggi della presenza immigrata, anche in questo caso si
registra però una sconnessione tra le osservazioni critiche portate dall’accademia e le agende di
policy. In questo caso, un motivo di sconnessione può anche essere determinato dal fatto che gli
studi centrati sulle forme di organizzazione interna dei quartieri etnici non lasciano molto spazio
per comprendere se e come ci possa essere intervento da parte della mano pubblica in aree
comunque caratterizzate da degrado fisico e deprivazione economica e sociale.
In alcuni lavori recenti finalizzati anche a criticare la pervasività registrata in Gran Bretagna di
agende di policy centrate sulla promozione di social mix nelle aree problematiche, Raco (2009a) ha
osservato come tali agende siano spesso sostenute da “assunzioni” che riflettono e tendono a
riprodurre visioni convenzionali e socialmente accettate di alcune realtà. Tali assunzioni hanno una
connotazione al contempo descrittiva e prescrittiva e, secondo lo studioso, sarebbero finalizzate a
riprodurre costrutti ideologici ed epistemologici dominanti al fine di sostenere l’implementazione di
progetti e agende politiche di ampio respiro. Seguendo Bourdieu (2004), Raco sottolinea che le
agende di policy basate sulle assunzioni possono diventare estremamente vulnerabili nei momenti di
cambiamento, come, ad esempio, quelli che caratterizzano i periodi di recessione e crisi economica.
Eventi di questa portata, che caratterizzano l’attuale congiuntura economica, potrebbero dunque
determinare una maggiore capacità di mettere in discussione visioni della realtà socialmente
accettate e date per scontate, creando nuovi spazi di intervento politico e intellettuale.
Tenuto conto di queste suggestioni, si potrebbe affermare che le politiche territoriali in contesti
multietnici sono sostanzialmente basate sull’assunzione, socialmente accettata, della problematicità
della concentrazione. Il passo in più che l’esperienza di ricerca raccontata nelle pagine precedenti
vuole però introdurre è che tali assunzioni non abbiano condizionato solo il dibattito pubblico e le
agende di policy, ma anche il modo di guardare ai territori da parte dei ricercatori: tutte le
“distinzioni” per leggere l’immigrazione come risorsa e per individuare nelle diverse tipologie di
16
commercio etnico un servizio per i quartieri nel loro complesso, sono sostanzialmente messe al
lavoro non tanto per mettere in discussione la problematicità della concentrazione, ma per
dimostrare che, a conti fatti, in quei determinati luoghi la concentrazione non sussiste19. Il problema
è che questo modo di descrivere i territori che contrappone luoghi della concentrazione a luoghi –
usando le parole degli abitanti dell’area della stazione a Padova – “più normali”, alla fine, contiene
in sé anche una natura implicitamente prescrittiva: laddove la concentrazione dovesse esserci,
questa è un problema e gli unici strumenti di governo del territorio di cui attualmente disponiamo
che sembrano in grado di affrontare questo problema sono quelli finalizzati a creare social mix o a
innescare meccanismi di dispersione.
Come evidenziato dagli analisti delle politiche e dalla ricerca sociale, strumenti analitici e forme di
intervento sono strettamente interrelati (Bobbio, 1996; Crosta, 1998): le modalità di analisi e
costruzione di un problema si intrecciano inevitabilmente con gli strumenti a disposizione dei
decisori per affrontarli. In questo caso è quasi come se, nella veste di ricercatori, cercassimo di
costruire il problema in modo che non ci possa portare alle soluzioni “di cui disponiamo”.
In tal senso, l’osservazione di territori come Veronetta e Arcella lascia intravedere alcune aperture
sulle quali è forse possibile lavorare nella ricerca di nuovi percorsi di ricerca e azione. Ad esempio,
emerge nei quartieri messi sotto osservazione la difficoltà a riconoscersi “dall’interno” nelle
descrizioni che vengono fatte “all’esterno”. Queste difficoltà possono derivare dai motivi più vari:
da una convivenza multietnica de facto – sicuramente problematica e basata su diffidenze e
pregiudizi – ma che si traduce anche nel prendere le difese del panettiere musulmano da parte degli
abitanti dell’Arcella; da una lettura della concentrazione degli immigrati in una determinata area
come un’opportunità di sviluppo commerciale – si pensi alla proprietaria della confetteria di
Veronetta; dal disagio espresso da molti commercianti italiani di fronte all’immagine negativa di
questi luoghi costruita da attori e mezzi di comunicazione percepiti come “esterni” – un
atteggiamento che genera diffidenza e rende queste aree ancora meno attrattive, mettendo
ulteriormente a repentaglio la sopravvivenza degli esercizi di vicinato. “Normalità perduta” è anche
questo: essere descritti dall’esterno come un luogo “altro” rispetto alla città e, di conseguenza,
rischiare di diventare davvero – o ancora di più – un luogo altro. Questo modo di guardare e di
descrivere non riguarda solo il discorso pubblico o le politiche: riguarda anche la ricerca.
In questo senso, l’esperienza portata avanti a Padova nell’area della stazione è interessante perché
sembra proporre una restituzione di un quartiere che “all’esterno” è percepito come problematico
19
Da questo punto di vista, l’obiezione che potrei fare a me stessa è che non esiste un “indice assoluto” di
concentrazione dato che ciò che definisce la concentrazione, oltre alle percezioni, è sempre un rapporto “della parte con
il tutto”: del quartiere rispetto al resto della città, del quartiere con quanto avviene in altre realtà dominate dalla
presenza etnica in altre città, o all’estero.
17
basandosi su una descrizione “dall’interno” fatta di “voci”: di microstorie20 che raccontano di
problemi concreti e della capacità sviluppata o meno a livello locale di affrontarli; di resistenze da
parte di gruppi più o meno strutturati alle dinamiche in atto, ma anche di “tattiche” che rendono
possibile, nel quotidiano, forme di convivenza multietnica e multiculturale; di una certa
consapevolezza di quali problemi possano essere affrontati tramite forme di auto-organizzazione e
regolazione a livello locale e quali necessitano invece di un intervento sovralocale e/o guidato dalla
mano pubblica. Una maggiore comprensione di questi aspetti che, più che guardare
all’immigrazione come risorsa, guardano alle risorse dei quartieri multietnici, renderebbe forse
anche meno complesso definire un possibile ruolo della mano pubblica – provider, enabler,
mediatrice di conflitti, regolativo? – nelle diverse situazioni. Questo non significa certamente che
all’interno dei quartieri problematici si possano trovare tutte le risorse per affrontare i problemi, ma
che, forse, nel confronto tra le immagini “da dentro” e quelle “da fuori” e negli scarti che le possono
o meno caratterizzare possano essere esplorati nuovi percorsi di ricerca e azione.
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20
Il riferimento alle microstorie è riportato nella consapevolezza che, come ha sottolineato John Foot (2001) nei suoi
studi urbani sulle migrazioni, seppure le microstorie non sostituiscano la prospettiva storica generale, di questa storia
complessiva sono comunque parte e, anche per questo, il “quotidiano” e il “comune” possono essere in ogni caso messi
al lavoro per avanzare una spiegazione del generale.
18
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