REPORTAGE DALL`IRAN Le anime incomprese di Teheran La città
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REPORTAGE DALL`IRAN Le anime incomprese di Teheran La città
REPORTAGE DALL’IRAN Le anime incomprese di Teheran di Lorenzo Forlani La città: una metropoli sotto Rey Con i suoi 15 milioni di abitanti, Teheran è oggi più popolosa dell’intera Siria, dilaniata da una guerra senza fine. Come ogni estate, l’afa viene trattenuta all’interno della città dalla catena montuosa degli Elborz, che ostacola l’arrivo del vento salubre proveniente dal Mar Caspio, contribuendo a far salire in modo allarmante il livello di polveri sottili nell’aria. Il caldo, così, risulta ancor più insopportabile quando si mischia allo smog emanato dalle vecchie ma ancora diffuse automobili Peykam, oltre che dai fuoristrada sfavillanti che circolano nelle aree più esclusive della città, come Farmanieh o Niyavaran. Il frenetico traffico cittadino, anche durante questo mese di Ramadan, ci ricorda che in Iran – di cui Teheran è un campione significativo – il consumo medio per automobile è secondo solo a quello degli Stati Uniti, nonostante un servizio di metropolitana che sta diventando tentacolare: alle cinque linee oggi esistenti se ne aggiungeranno a breve perlomeno altre due. D’altronde, prima di essere eletto rieletto per la terza volta consecutiva due anni fa, il sindaco Mohammed Bagher Qalibaf aveva fatto una promessa ambiziosa: entro il 2022, quella di Teheran sarà la seconda metropolitana più grande del mondo, dopo quella di New York, per poi superarla entro il 2031, quando si prevede che sarà lunga circa 370 km. Perché Teheran continua a crescere. E lo fa in più direzioni, trovando l’unico ostacolo nelle vette innevate a nord. Alle orecchie di chi non ci è mai stato, la capitale dell’Iran ha la ingenerosa fama di una città anonima, intollerabilmente caotica, con un cuore che pulsa al ritmo che le impone la sua immensa rete di arterie stradali, e l’anima color cemento armato di alcuni suoi edifici. Una megalopoli ritrovatasi ad essere tale nel giro di poco tempo: ad inizio del XX secolo, la sua area metropolitana non arrivava a contenere 300.000 persone; dopo la rivoluzione del 1978-79 e durante la cosiddetta “guerra imposta” con l’Iraq, il processo di urbanizzazione in Iran ha subito una imponente accelerata, e naturalmente la capitale ha finito per diventarne il principale recipiente. Nei due mandati e mezzo del sindaco Mohammed Bagher Qalibaf, Teheran è cresciuta a ritmi “cinesi”: anche chi non ama il sindaco, membro del Partito islamico conservatore, non può che arrendersi all’evidenza. Dagli innumerevoli progetti edilizi completati, al potenziamento della metro – tra le più estese al mondo, con la promessa del sindaco di renderla la prima del Globo per il 2031 – ad enormi ponti avveniristici, costruiti a tempo di record. E’ il caso dell’ecosostenibile Tabiiat, che significa “natura”, essendo una struttura in acciaio che collega due parchi, su progetto realizzato da una donna architetto ventisettenne, Leila Araghian. Progetti che hanno migliorato di molto la qualità della vita degli iraniani e la viabilità, contribuendo a dare una immagine più moderna di Teheran, a tratti futuristica, per quella che già appare come la più cosmopolita e per certi versi occidentali delle capitali mediorientali. E’ vero, Teheran non ha l’incommensurabile fascino architettonico di Isfahan o Yazd, e nemmeno la metà della storia che possono vantare città come Shiraz o Hamadan. Deve la sua nascita come centro commerciale di un qualche rilievo alle orde dei mongoli, che nel 1220 saccheggiarono la vicina e più grande Rey, inducendo gli abitanti a spostarsi in questo villaggio immerso nel verde dei melograni. Secondo l’orientalista russo Vladimir Minorsky, la parola Teheran significa proprio “ciò che si trova sotto Rey”, con un riferimento anche alla possibile natura troglodita dei suoi abitanti attorno all’anno mille. Oggi Rey, pur conservando tracce del passato, è stata inghiottita dalla stessa Teheran, ed è rimasta la fermata della metropolitana di Shahr-e Rey a segnalarne la posizione. Se si entra in città percorrendo la strada che parte dall’ aeroporto Internazionale Imam Khomeini, 30 km a sud, bisogna attendere molto prima di incontrare qualcosa di storicamente evocativo. A volerla dire tutta, finché non si passa accanto ai due mastodontici minareti del mausoleo dove riposano le spoglie del leader della rivoluzione islamica, Ruhollah Khomeini, gli spunti di qualunque genere sono davvero pochi: sembra di attraversare dei luoghi di transizione, in attesa di una identità, forse destinati ad allargare le immense periferie della capitale iraniana. E’ anche per colpa di questa sua nomea di metropoli impersonale e priva degli splendori architettonici rinvenibili altrove in Iran, che Teheran sorprende continuamente il forestiero. Sorprende il suo verde, che nelle cartoline non si vede mai e che gli edifici di 50 piani e più nascondono alla vista dall’alto; sorprende la sua pulizia – mantenuta dalla perpetua presenza di spazzini ad ogni spartitraffico cittadino -, che raramente si riscontra in una città densamente abitata e non eccessivamente ricca, se paragonata ad altre megalopoli fuori dal Medioriente; sorprende, soprattutto, la sua antropologia urbana: una continua sfida ai clichès e agli abbagli di un certo orientalismo. Riconoscere Teheran Attraversando Teheran, ovunque ci si trovi, è impossibile ignorare tre elementi che la rendono immediatamente riconoscibile: il primo è ovviamente l’obbligo di hijab per le donne; il secondo è il gran numero di sportelli bancari, con alcune banche che servono particolari gruppi professionali: è il caso della Banca Sepah, dove ritirano gli stipendi le Guardie della rivoluzione; o quello della Banca Keshvarzi, destinata allo stesso compito con chi lavora nel campo dell’agricoltura; o quello della Banca Melli, in cui vengono pagati i salari degli impiegati statali. Il terzo – che riguarda sia le donne che marginalmente gli uomini – è lo sconcertante numero di nasi rifatti, una operazione che sta diventando una vera e propria mania: chi non può permetterselo, ma vuole comunque dare l’idea di stare al “passo coi tempi”, va in giro con un cerotto sul naso, inducendo il prossimo a creder che sia parte del club. Un club che secondo Vahid – che lavora in una compagnia di trasporti turca ma che a causa delle sanzioni e della crisi economica è costretto a vivere a casa dei genitori nella zona di Tajrish, assieme alla moglie indiana e al figlio di tre mesi -, conta ormai una ragazza su tre a Teheran. E forse è una sottostima del fenomeno. Le cifre non sono certe ma sopratutto camminando nelle aree a nord di Meydan e-Valiasr il colpo d’occhio è evidente: si fatica a non vedere un naso rifatto per più di 10 secondi. E non sono solo le cosiddette “palang” (che suona un po’ come “blondie” in inglese, ad indicare donne platealmente truccate e dall’atteggiamento frivolo) a ritoccarsi: spesso si incontrano anche ragazze in chador, all’apparenza “morigerate”, che però a ben guardare sotto il mantello nero nascondono talvolta tacchi a spillo, e mettono in mostra un naso palesemente disarmonico rispetto al viso, e sempre “all’insù”. Una storia di contraddizioni Il suono dell’adhan (il richiamo alla preghiera proveniente dalle moschee) riecheggia con cadenza regolare all’interno di lussuosi centri commerciali, in cui la gente sembra non curarsene. Poi, usciti dal Gandhi shopping center, si prende la metro si passa davanti alla moschea Mosalla, o a quella vicina al Gran Bazar. E le si vede colme di persone, di ogni ceto sociale. Teheran è stata testimone di colpi di stato, di riforme, di rivoluzioni, bombardamenti, e ha gradualmente cambiato pelle. Una città capace di commuoversi ancora oggi per l’anniversario della morte dell’ayatollah Khomeini o durante una visita alla sua tomba, così come di piangere il decesso prematuro della giovane popstar Morteza Pashaei, al cui funerale pochi mesi fa hanno spontaneamente partecipato migliaia di persone. Due simboli diversi, popolari in modo trasversale: perché a Teheran c’è di tutto e il contrario di tutto. Così, capita di incontrare un tassista ultra settantenne – con l’ayat al Kursi (un verso della sura della Vacca, una delle più celebri del Corano) in vista sul parabrezza – che ascolta compiaciuto le note di uno dei melodici successi dello sfortunato cantautore Pashaei, che ci si aspetterebbe di sentire solo negli iPod di adolescenti alla moda; oppure di imbattersi in una ragazza poco più di che ventenne, con le mani curatissime, il trucco pesante in viso come se poi dovesse recarsi ad un appuntamento galante, che nascosta dietro ad un chador, piange disperatamente davanti alla tomba del padre della Repubblica islamica, all’interno del mausoleo a lui dedicato, poco distante dal cimitero dei martiri della guerra con l’Iraq, il Behesht e-Zahra. Non è un pianto normale il suo ma un pianto straziante, scomposto, che sembra scaturire da un dolore improvviso, recente, difficile da lenire come è difficile accettare la morte improvvisa di un caro, o la fine di un grande amore. Eppure, la ragazza probabilmente non era nemmeno nata quando Khomeini passò a miglior vita. Ed è proprio di fronte allo sfarzoso mausoleo dell’Imam Khomeini che può capitar di venire intercettati da un anziano mullah con il copricapo nero, quello che segnala la discendenza diretta dalla famiglia del Profeta (gli altri lo indossano di colore bianco). Non per essere ammoniti, come forse ci si aspetterebbe, bensì per essere oggetto della richiesta di farsi un paio di foto insieme. Una situazione spiazzante, se si pensa alla narrazione dominante in Occidente, che tende a descrivere i mullah come schivi e austeri, quando non ostili rispetto al contatto con un occidentale non musulmano. Politica … Nessuno dei perentori giudizi che normalmente ci vengono proposti dai media sembra rendere giustizia all’articolata società iraniana. La letteratura giornalistica sull’Iran muove tendenzialmente da due poli opposti – forse fuorviata dall’effettiva polarizzazione del tessuto sociale del Paese -, finendo per risultare spesso incompleta, o faziosa. Non è del tutto soddisfacente la definizione che dipinge quello iraniano come un popolo moderno, laico, occidentalizzato, che guarda sempre con invidia a Occidente, mentre è ostaggio dell’autorità verticale di un regime dittatoriale dominato da chierici autoreferenziali, come se (una parte della) società e Stato non fossero strettamente interconnesse. E’ utile ricordare che, diversamente da molti dei Paesi della regione, in Iran vi sono organi elettivi e una scena politica conflittuale e partecipata (pur con visibili deficit di democraticità), anche se è evidente la progressione di un certo disincanto soprattutto da parte dei più giovani, bramosi di libertà individuali e sempre meno interessati alla politica, o al suo miscuglio con la religione; e non è, d’altronde, esaustiva nemmeno la generalizzazione opposta, che vorrebbe gli iraniani come dei fanatici reazionari, obnubilati dalla religiosità, estremisti, che passano il proprio tempo a urlare “morte all’America”, a lapidare gli adulteri e a pianificare la distruzione di Israele. La verità, come al solito, non solo sta nel mezzo ma tende ad essere, in Iran, mutevole, difficile da afferrare a piene mani, come è difficile descrivere una società in continua evoluzione demografica, culturale e politica. Quello iraniano, in fondo, è un sistema politico caratterizzato in un certo senso da mobilità interna, in cui il ricambio delle classi dirigenti è però una conseguenza della fedeltà e del consenso al vilayat e- faqih: la divisione più netta si verifica infatti tra i cosiddetti “Khodi” – gli “interni”, letteralmente “dei nostri”, cioè i cittadini che mediante il supporto al sistema usufruiscono di tutta una serie di vantaggi e benefici, impliciti ed espliciti – e i “Gheir-e Khodi”, letteralmente “non dei nostri”, il cui destino nella società è di norma speculare a quello dei primi. Il perpetuo rischio per questi ultimi – l’Iran ha una lunga storia di ingerenze straniere alle spalle, che hanno cementificato un sentimento di paranoia ancora diffuso – è quello di essere considerati spie al soldo di potenze occidentali. Nessuno fa eccezione, e desta una certa impressione il fatto che tre degli ex presidenti dell’Iran – Mohammad Khatami, Hashemi Rafsanjani e Mahmoud Ahmadinejad – in momenti e per motivi diversi, non abbiano avuto il permesso di espatriare. Non esistono “i potenti” in eterno (forse Rafsanjani fa eccezione), e lo status sociale può variare anche nell’arco di poco tempo. Per non menzionare il destino di un ex primo ministro come Mir Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari in seguito alle proteste legate alle elezioni del 2009. Status sociale che per molto è cambiato improvvisamente dopo la rivoluzione. E’ il caso dei proprietari di terreni a nord di Tajrish, un quartiere-villaggio che già esisteva prima che Teheran diventasse una megalopoli. Queste oasi di tranquillità hanno creato solchi di ineguaglianza facendo le fortune di chi ha deciso di vendere il proprio terreno. Chi vive in aree come Fereshteh, dove prezzi delle case superano quelli di Beverly Hills, è come se vivesse in un altro paese, fatto di servizi esclusivi, comfort estremi, ampie licenze sulla morale ordinaria e aria salubre. Tajrish oggi non è l’area più esclusiva della città ma i suoi abitanti continuano a sentirsi una élite. Molti dei suoi più anziani mostrano con orgoglio la propria carta d’identità, dove nello spazio riservato al “luogo di nascita” non è scritto “Teheran” ma “Tajrish”, o “Shemiran”. Come a marcare una differenza. … società … Ciò che balza subito all’occhio a Teheran è l’esistenza di due realtà sociali, i cui contorno non sempre sono facili da distinguere: una tradizionalista-conservatrice e l’altra modernista, e dalle tendenze laiche. Due realtà che sembrano esser tanto propense a dialogare con il forestiero quanto a non dialogare tra di loro: tanto vicine fisicamente, quanto lontane emotivamente. Una “rottura” che si verifica anche all’interno degli stessi nuclei familiari, intrecciandosi con i conflitti generazionali tipici di qualunque società, e vedendo padri e figli talvolta contrapposti dal punto di vista politico. E’ il caso, ad esempio, della famiglia Khazali: Mehdi, oftalmologo, direttore dell’Istituto Culturale Hayyan e dissidente politico, è stato ripetutamente arrestato per aver “offeso” varie autorità della Repubblica islamica, in particolare l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, ed è entrato più volte in sciopero della fame in seguito alle sue condanne; suo padre, l’Ayatollah Abolghasem Khazali, è invece uno dei redattori della Costituzione della Repubblica islamica e tuttora membro della potente Assemblea degli Esperti. L’ayatollah Khazali è stato, al contrario del figlio, un ardente sostenitore dell’ex sindaco di Teheran, poi divenuto presidente. Arrivò persino a sostenere che l’Imam Mahdi (il dodicesimo imam nell’escatologia sciita, quello “nascosto”) ne aveva “approvato” la presidenza, suscitando ilarità nei numerosi critici dell’ingegnere di Ardakan e alimentando nello stesso la convinzione di essere un “prescelto”. Pur avendo avuto il suo principale mentore nel reazionario Ayatollah Mesbah- Yazdi, è forse anche per “merito” dell’ayatollah Khazali se Ahmadinejad in quasi ogni suo discorso infilava ossessivamente l’Imam Mahdi. … religione. Pur parlando di una realtà in cui la religiosità ha un peso consistente – e all’interno di una regione che conferma questa tendenza -, l’imposizione da parte dello Stato di alcuni aspetti della religione ha finito per produrre forse un numero di agnostici superiore a qualunque altro paese circostante. Soprattutto tra gli under 30, che costituiscono circa il 30% della popolazione nazionale. Mohammad, venticinquenne ex studente di ingegneria aerospaziale alla Sharif University, che è stato costretto a lasciare (trasferendosi nella meno prestigiosa Università di Kashan) per aver partecipato ai movimenti di protesta del Movimento verde nel 2009, si definisce oggi religioso e praticante ma ci tiene a dirmi che qualche anno fa si riteneva un “materialista-ateo”. Continua, tuttavia, a leggere Dostojevski e Nietzsche, oltre al Corano. Capita di scambiare facilmente due chiacchiere con persone devotissime ma stufe di un regime che impone la religione – ricordandoci che spesso la correlazione tra religiosità e sostegno alla Repubblica islamica (un regime “religioso”) non sussiste -, o di bere un thè con persone non troppo devote, ma idealmente fedeli alla Repubblica islamica e alla sua natura “rivoluzionaria”; capita di imbattersi in un ex meccanico – prima della rivoluzione impiegato in una fabbrica americana di elicotteri nei pressi di Isfahan – che arriva a rimpiangere sottovoce lo Shah, o in albergatori e ristoratori con ritratti di Khamenei e Khomeini affissi ovunque, come fossero poster di calciatori; capita, ad ogni angolo di questa immensa città, di veder smentita ogni generalizzazione possibile. Donne Nei pressi di Meydan e-Darband, ragazze vestite alla moda portano malvolentieri il velo, spostandolo più indietro possibile, sui capelli legati a “chignon”, e – scherzando tra di loro davanti alle vetrine di negozi di abbigliamento – sembrano idealmente bearsi della recente sentenza di incostituzionalità della proposta fatta da alcuni parlamentari ultra-conservatori, volta a conferire alla polizia maggiori poteri di vigilanza sulla “morigeratezza” dei costumi. Il presidente Hassan Rouhani, giovandosi della decisione degli organi giudiziari e intervenendo anche sul popolare tema dei concerti (spesso banditi), ha recentemente usato parole che richiamano vagamente i toni di Papa Bergoglio, rispetto alla limitazione del diritto delle autorità di interferire nella vita sociale dei giovani, e delle donne in particolare. L’opposizione che ha incontrato, soprattutto tra i suoi “colleghi” del “clero” sciita, è un buon indicatore della trasversalità dei conflitti societari, per cui è fuorviante pensare che “ai preti si contrappongano i laici”: esistono, in Iran, molti religiosi su posizioni che definiremmo “fondamentaliste” ma esistono altresì mujtahid (come Rouhani, come l’ex presidente Khatami, come il defunto Montazeri, l’Ayatollah Dastgheib e tanti altri) più flessibili e aperti di tanti “laici” – come Ahmadinejad, Mohsin Rezaei, Akbar Velayati o l’attuale sindaco di Teheran Mohammad Qalibaf -, cioè non appartenenti al clero. Anche nelle hawza (scuole teologiche) di Qom (ma ancor più in quelle irachene di Najaf), come forse è noto, esistono religiosi che tuttora contestano dal punto di vista giuridico-dottrinale, la validità e l’opportunità del vilayat e-faqih, l’originale (poiché senza precedenti nella storia e senza emuli nel mondo) forma di governo vigente in Iran. D’altronde, passeggiando per qualunque area di Teheran, sono molte le donne di ogni età che indossano spontaneamente il chador – quel lungo mantello nero che copre la testa ma non il viso, avvolgendo la figura -, che ad ogni sguardo maschile che si posa su di loro, spostano come una tendina per coprire il proprio sorriso, o la propria espressione incorreggibilmente pudica. Soprattutto le donne più anziane, per tenere le mani libere, talvolta tengono il chador con la bocca, risultando alquanto buffe. Il chador non è obbligatorio, tranne che all’interno dei luoghi di culto. Indossano immancabilmente il chador le “consulenti islamiche” che si incontrano all’interno delle stazioni della metropolitana. Sistemate su una sedia davanti a un tavolino, armate di Corano e di parlantina facile, queste “timorate di Dio” dispensano consigli di ogni tipo alle donne che ne hanno bisogno, su ogni materia possibile. Al tavolo accanto, con le stesse funzioni per l’altro sesso, staziona un mullah. Le persone che si fermano per una chiacchierata con i “consulenti islamici” sono più di quelle che ci si aspetterebbe. Toponomastica Le vie della città, soprattutto nella zona settentrionale, hanno cambiato in buona parte nome dopo la rivoluzione. Oltre ai nomi dei più famosi rivoluzionari, alcune strade hanno preso quelli di importanti figure storiche, tutte appartenenti all’orbita che potremmo definire “terzomondista”, di cui – non solo attraverso i rapporti con i paesi “socialisti” del Sudamerica o nel Movimento dei non allineati – l’Iran ha spesso preteso di essere un rappresentante, seppur sui generis: tra le personalità più note ci sono il Mahatma Gandhi, Patrice Lumumba, Muhammad Ali Jinnah, Simon Bolivar, Nelson Mandela e Iqbal Lahori. Non mancano vie intitolate a personalità europee “rivoluzionarie”, come l’attivista politico nordirlandese Bobby Sands, o particolarmente note in Iran, come l’orientalista francese Henri Corbin, uno dei massimi esperti mondiali di islam sciita. Parchi e interazioni I parchi sono una risorsa vitale per Teheran: degli autentici polmoni, senza i quali la città d’estate soffocherebbe. Polmoni anche per i giovani, che nei prati all’inglese all’ombra dei pini di Park e-Laleh cercano un po’ di privacy con i propri partner, al riparo dall’occhio censore di zelanti pasdaran. Tutti i parchi di Teheran sono attrezzatissimi: al loro interno non mancano mai campi da pallavolo, aree pic nic, zone riparate dagli alberi in cui poter studiare senza cuocersi al sole, biliardini, tavoli da ping pong e addirittura palestre, a cui non manca nessuno dei principali macchinari (certo un po’ usurati) per tenersi in forma. Ovviamente è tutto gratuito, ed è probabile che il numero di abbonamenti nelle palestre private ne abbia risentito. A Teheran vi è un evidente spaccato delle conseguenze di una società in cui la libera interazione con l’altro sesso è proibita: sono tanti i giovani che nei parchi paiono letteralmente annoiarsi quando non sono impegnati in qualche sport, e che sembrano talvolta non attendere altro che la scusa per fare qualcosa di diverso, come scambiare quattro chiacchiere con un occidentale; è forse per i medesimi motivi che in Iran, dove il valore della famiglia è già di per sé centrale, si vedono centinaia di nuclei familiari consumare un picnic sugli stessi prati, trasmettendo una sensazione di forte coesione sociale, di tradizione. Sono scene in grado di far riflettere sul fatto che in Occidente siano sempre più rare. Se si capita in uno dei prati cittadini al calar del sole – che segnala la fine del giorno di digiuno nel mese di Ramadan -, si vedono centinaia di gruppi – di amici, di famiglie allargate – adagiati su grandi teli di stoffa, intenti a colloquiare rumorosamente e a consumare pasti variegati e abbondanti, preparati a casa. Certo, rispetto ad un tipico concerto occidentale all’aperto, manca evidentemente l’alcol, e qualcos’altro. Non la musica, tuttavia, perché gli iraniani sono (anche) un popolo di lettori, artisti e musicisti. Nulla simboleggia tutto ciò meglio del Forum degli artisti iraniani, situato proprio all’interno del Parco degli artisti (Park eHonar Mandan), e all’interno del quale si tengono ogni mese mostre di arte contemporanea e di fotografia. E’ qui che, in primo luogo, non ha attecchito una bizzarra iniziativa presa due anni fa dal sindaco Mohammed Qalibaf, e della quale Mahsa, una studentessa ventunenne della zona di Amir Abad, mi racconta non riuscendo a trattenere le risate: in questo e in altri parchi il sindaco del Partito islamico conservatore aveva fatto sistemare panchine diverse a seconda del sesso, per scongiurare la possibilità che i giovani ignorassero ulteriormente la separazione tra i sessi negli spazi pubblici. Un provvedimento caduto rapidamente nel vuoto: le coppiette hanno continuato a darsi appuntamento e a sedersi assieme sulle panchine o direttamente sui prati, come sempre. Si è dunque ritenuto opportuno, non senza imbarazzi, eliminare questa scomoda e inutile separazione, e le panchine sono tornate ad essere “miste”. Stelle e strisce Se dal Park e-Honar Mandan si esce, proseguendo dritti su Forsat street e svoltando a sinistra su Taleghani Avenue, ci si trova a costeggiare i muri dell’ex ambasciata statunitense, pitturati con i celebri murales dai toni marcatamente anti americani. I disegni non hanno bisogno nemmeno di essere descritti, tanto son divenuti iconici della Repubblica islamica nata nel ’79. All’interno di questa struttura, la Cia nel 1953 orchestrò il colpo di stato che defenestrò il governo eletto di Mohammad Mossadegh e riportò al potere lo Shah Mohammed Reza Pahlavi. Ed è sempre qui dentro che gli Stati Uniti presero le più importanti decisioni volte a mantenerlo al potere. Così, nel novembre del 1979, dopo che lo Shah aveva già lasciato il paese, un gruppo di studenti guidato da personalità come Ebrahim Asgharzadeh (oggi politico del partito Hambastegi) decise di assaltare l’ambasciata americana, nel timore che un nuovo colpo di stato fosse imminente, e sequestrò per 444 giorni cinquantadue diplomatici americani. Il giudizio rispetto a questo episodio, che tende a unire iraniani di ogni convinzione politica, è assai importante ai fini della comprensione della situazione attuale, che vede Iran e Occidente alla ricerca di accordo sul programma nucleare di Teheran e pone alcuni problemi legati alla reciproca percezione. La narrazione predominante in Occidente – influenzata dalle immagini di diplomatici indifesi, bendati e dall’aria familiare, alla mercé di ragazzi orientali, barbuti e arrabbiati – tende a descrivere il sequestro come un episodio di terrorismo, poiché gli studenti ignorarono il principio di inviolabilità delle sedi diplomatiche e tennero prigionieri uomini disarmati. Si tratta di una valutazione problematica, e in parte ingenerosa: in primo luogo perché, come detto, per un popolo voglioso di riprendere in mano il proprio destino, era naturale rivolgere le attenzioni al luogo dove per decenni si era impedito questo inevitabile processo, spesso facendo ricorso alla brutale repressione; e in secondo luogo perché, viste le evidenti (seppur formalmente “legali”, poiché erano condivise dallo Shah, che però nessuno aveva eletto) violazioni americane della sovranità iraniana – di cui il colpo di stato del 1953 ai danni dell’eletto Mossadegh era il principale esempio – contestare il mancato rispetto del diritto diplomatico per un popolo vittima di tutti questi soprusi nel corso di decenni (e in un momento storico in cui i colpi di stato di marca Cia erano divenuti pratica assai comune), equivale a biasimare un uomo per lo schiaffo che è riuscito a dare, di sfuggita, al ladro che gli ha rubato in casa. Col senno di poi – e anche non considerando il recente scandalo del Datagate, che ha confermato gli storici sospetti circa le attività di spionaggio americano in numerosi paesi del mondo e non ultimo l’Iran – è profondamente ingiusto continuare a trattare l’episodio slegandolo dal contesto storico e dalle sue motivazioni, perché in questo modo si rischia di non capire gli stessi iraniani. Specie se si considera che tutto quel che si verifico in quei 400 giorni non può essere certo imputato all’attuale regime in Iran ma ad un gruppo di ragazzi idealisti (Khomeini era peraltro contrario alla presa di ostaggi ma fu ammansito dall’Ayatollah Khoheinia, in contatto con gli studenti), che volevano riprendere in mano il proprio Paese e temevano di essere nuovamente spazzati via da improvvise iniziative dei servizi segreti americani, che agivano all’interno dell’ambasciata. Le guardie che sorvegliano l’entrata del “Covo dello spionaggio americano” (così lo chiamano) – oggi, a differenza di qualche tempo fa – tradiscono una certa soddisfazione quando gli si chiede il permesso di fotografare i graffiti. Militare Il servizio di leva – obbligatorio – può diventare un incubo per i ragazzi di Teheran. Dura due anni e può capitare di essere assegnati alle province sud orientali del Sistan e Balucestan, dove operano gruppi qaedisti che sovente sequestrano o uccidono guardie inesperte nell’ambito della guerra al governo iraniano. Ai giovani capita di rischiare la vita anche in modo “urbano”: è il caso di chi in quei due anni ha la sventura di fare il vigile sulle strade caotiche e inquinate di Teheran, dove le malattie polmonari sono diffusissime. Gran Bazar C’è un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato, l’unico posto in cui si potrebbe pensare di essere negli anni ’80, con la rivoluzione ancora sulla cresta dell’onda e un regime e una società che si consolidavano attraverso la guerra con l’Iraq: questo luogo è il Gran Bazar. E’ qui che si trova il regno dei bazarì, motori commerciali del paese e spesso anche i garanti di un consenso essenziale (talvolta strumentale, talvolta sincero) al regime; aghi della bilancia politica e termometri economici della città. I loro sguardi, i loro indumenti, la loro gestualità, il loro modo di rivolgersi alla clientela, sono gli stessi di sempre, gli stessi di 35 anni fa. Freedonm is not free Alla fine di una angusta traversa nei pressi della via intitolata al celebre poeta Ferdowsi – alle spalle di Meydan e- Imam Khomeini – si trova invece il museo Ebrat. Ex prigione della famigerata Savak – la polizia segreta dello Shah -, il museo oggi tenta di riprodurre le brutalità un tempo consumatesi al suo interno, con torture di ogni genere. Lo fa servendosi ovviamente di consistenti dosi di retorica, e sfruttando il potere della fisiognomica: i manichini in cera degli agenti del Comitato Anti Sabotaggio dello Shah hanno tutti uno sguardo perfido, diabolico. Numerose personalità politiche e religiose – oggi gravitanti attorno ai centri di potere – sono state imprigionate e torturate qui. Ci sono proprio tutti: dagli Ayatollah Montazeri, Taleghani o Beheshti, all’ex presidente e uomo d’affari Hashemi Rafsanjani, passando per il sociologo, il cui pensiero in parte ispirò la rivoluzione, Ali Shariati, fino ad arrivare all’attuale Guida Suprema, Ali Seyyed Khamene’i. Sulle pareti dei corridoi che conducono alle celle sono invece sistemate le foto di comuni cittadini, uomini e donne, tutti invariabilmente passati di qui come detenuti politici. Sulle foto di coloro che qui dentro hanno perso la vita, è affisso un tulipano rosso. Il signor Kadrit, un ex prigioniero che funge da guida all’interno dell’ex carcere, si ferma solennemente quando si arriva all’altezza della foto segnaletica che lo ritrae da giovane carcerato, e – chiedendo anche lui di esser fotografato – si sistema di profilo, assumendo la stessa espressione di 50 anni fa. Con un pizzico di orgoglio in più, a dire il vero: d’altronde, lui è ancora qui. Alla fine del corridoio, su un muro antistante la sala in cui è affisso un organigramma dei torturatori della Savak, fa capolino un pannello elettrico, come quelli che segnalano le uscite di emergenza. Nel pannello, però, non c’è scritto “Exit”, bensì, in inglese e in farsi: “Freedom is not free”, la libertà non è gratuita. Suona tanto come un sinistro monito alle irrequiete e insofferenti generazioni attuali – vogliose di maggiori libertà e pluralismo -, quanto come un promemoria di quanto caro sia stato il prezzo da pagare per molti che hanno condotto con successo quella che rimane l’unica rivoluzione popolare dai tempi di quella francese. Non c’è da dubitare che al museo intendano la frase in quest’ultimo senso. Una rivoluzione che in certi frangenti sembra essere ancora viva, attaccata alle pareti e leggibile negli occhi di alcune donne e uomini, ma che per lunghi tratti della permanenza a Teheran si ha l’impressione sia finita da un pezzo, sepolta assieme ai milioni di morti della guerra con l’Iraq: “martiri”, shahid, li chiamano, e i loro visi, immortalati in gigantografie tra i viali cittadini, o pitturati sui muri dei palazzi come graffiti, sembrano voler ricordare questa lunga fase di transizione post-rivoluzionaria, evocando funesti ricordi ma al tempo stesso rafforzando l’orgoglio nazionale, l’autopercezione di irriducibilità. Allo stesso modo in cui si ha l’impressione che un più rapido cambiamento in senso democratico – per una popolazione mediamente giovane, e che già 62 anni fa, in modo incruento, aveva scelto la democrazia, mentre in buona parte dell’Europa si entrava o si usciva da dittature anche più autoreferenziali e assolutiste – non solo sia possibile ma forse inevitabile, poiché connaturato ad una società che si tende a descrivere come statica ma che in realtà è assai dinamica, matura, consapevole e ancora in potere di influenzare le sue strutture portanti, con il peso della demografia. Liberare gli iraniani dalla morsa ingiusta e pretestuosa delle sanzioni, è il primo passo – necessario più di quanto non creda chi invece è convinto che le sanzioni danneggino i “potenti” – in questa direzione, utile a dare serenità a una società stremata. Un passo che, inaugurando una nuova stagione di cooperazione basata su un rapporto paritario, può fare solo l’Occidente. E così, magari, le anime di Teheran torneranno a dialogare tra loro.