REPORTAGE DALL`IRAN Le anime incomprese di Teheran La città

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REPORTAGE DALL`IRAN Le anime incomprese di Teheran La città
REPORTAGE DALL’IRAN
Le anime incomprese di Teheran
di Lorenzo Forlani
La città: una metropoli sotto Rey
Con i suoi 15 milioni di abitanti, Teheran è oggi più popolosa dell’intera Siria, dilaniata da una guerra senza
fine. Come ogni estate, l’afa viene trattenuta all’interno della città dalla catena montuosa degli Elborz, che
ostacola l’arrivo del vento salubre proveniente dal Mar Caspio, contribuendo a far salire in modo
allarmante il livello di polveri sottili nell’aria. Il caldo, così, risulta ancor più insopportabile quando si mischia
allo smog emanato dalle vecchie ma ancora diffuse automobili Peykam, oltre che dai fuoristrada sfavillanti
che circolano nelle aree più esclusive della città, come Farmanieh o Niyavaran.
Il frenetico traffico cittadino, anche durante questo mese di Ramadan, ci ricorda che in Iran – di cui Teheran
è un campione significativo – il consumo medio per automobile è secondo solo a quello degli Stati Uniti,
nonostante un servizio di metropolitana che sta diventando tentacolare: alle cinque linee oggi esistenti se
ne aggiungeranno a breve perlomeno altre due. D’altronde, prima di essere eletto rieletto per la terza volta
consecutiva due anni fa, il sindaco Mohammed Bagher Qalibaf aveva fatto una promessa ambiziosa: entro
il 2022, quella di Teheran sarà la seconda metropolitana più grande del mondo, dopo quella di New York,
per poi superarla entro il 2031, quando si prevede che sarà lunga circa 370 km. Perché Teheran continua a
crescere. E lo fa in più direzioni, trovando l’unico ostacolo nelle vette innevate a nord.
Alle orecchie di chi non ci è mai stato, la capitale dell’Iran ha la ingenerosa fama di una città anonima,
intollerabilmente caotica, con un cuore che pulsa al ritmo che le impone la sua immensa rete di arterie
stradali, e l’anima color cemento armato di alcuni suoi edifici. Una megalopoli ritrovatasi ad essere tale nel
giro di poco tempo: ad inizio del XX secolo, la sua area metropolitana non arrivava a contenere 300.000
persone; dopo la rivoluzione del 1978-79 e durante la cosiddetta “guerra imposta” con l’Iraq, il processo di
urbanizzazione in Iran ha subito una imponente accelerata, e naturalmente la capitale ha finito per
diventarne il principale recipiente.
Nei due mandati e mezzo del sindaco Mohammed Bagher Qalibaf, Teheran è cresciuta a ritmi “cinesi”:
anche chi non ama il sindaco, membro del Partito islamico conservatore, non può che arrendersi
all’evidenza. Dagli innumerevoli progetti edilizi completati, al potenziamento della metro – tra le più estese
al mondo, con la promessa del sindaco di renderla la prima del Globo per il 2031 – ad enormi ponti
avveniristici, costruiti a tempo di record. E’ il caso dell’ecosostenibile Tabiiat, che significa “natura”,
essendo una struttura in acciaio che collega due parchi, su progetto realizzato da una donna architetto
ventisettenne, Leila Araghian. Progetti che hanno migliorato di molto la qualità della vita degli iraniani e la
viabilità, contribuendo a dare una immagine più moderna di Teheran, a tratti futuristica, per quella che già
appare come la più cosmopolita e per certi versi occidentali delle capitali mediorientali.
E’ vero, Teheran non ha l’incommensurabile fascino architettonico di Isfahan o Yazd, e nemmeno la metà
della storia che possono vantare città come Shiraz o Hamadan. Deve la sua nascita come centro
commerciale di un qualche rilievo alle orde dei mongoli, che nel 1220 saccheggiarono la vicina e più grande
Rey, inducendo gli abitanti a spostarsi in questo villaggio immerso nel verde dei melograni. Secondo
l’orientalista russo Vladimir Minorsky, la parola Teheran significa proprio “ciò che si trova sotto Rey”, con
un riferimento anche alla possibile natura troglodita dei suoi abitanti attorno all’anno mille. Oggi Rey, pur
conservando tracce del passato, è stata inghiottita dalla stessa Teheran, ed è rimasta la fermata della
metropolitana di Shahr-e Rey a segnalarne la posizione.
Se si entra in città percorrendo la strada che parte dall’ aeroporto Internazionale Imam Khomeini, 30 km a
sud, bisogna attendere molto prima di incontrare qualcosa di storicamente evocativo. A volerla dire tutta,
finché non si passa accanto ai due mastodontici minareti del mausoleo dove riposano le spoglie del leader
della rivoluzione islamica, Ruhollah Khomeini, gli spunti di qualunque genere sono davvero pochi: sembra
di attraversare dei luoghi di transizione, in attesa di una identità, forse destinati ad allargare le immense
periferie della capitale iraniana.
E’ anche per colpa di questa sua nomea di metropoli impersonale e priva degli splendori architettonici
rinvenibili altrove in Iran, che Teheran sorprende continuamente il forestiero. Sorprende il suo verde, che
nelle cartoline non si vede mai e che gli edifici di 50 piani e più nascondono alla vista dall’alto; sorprende la
sua pulizia – mantenuta dalla perpetua presenza di spazzini ad ogni spartitraffico cittadino -, che raramente
si riscontra in una città densamente abitata e non eccessivamente ricca, se paragonata ad altre megalopoli
fuori dal Medioriente; sorprende, soprattutto, la sua antropologia urbana: una continua sfida ai clichès e
agli abbagli di un certo orientalismo.
Riconoscere Teheran
Attraversando Teheran, ovunque ci si trovi, è impossibile ignorare tre elementi che la rendono
immediatamente riconoscibile: il primo è ovviamente l’obbligo di hijab per le donne; il secondo è il gran
numero di sportelli bancari, con alcune banche che servono particolari gruppi professionali: è il caso della
Banca Sepah, dove ritirano gli stipendi le Guardie della rivoluzione; o quello della Banca Keshvarzi,
destinata allo stesso compito con chi lavora nel campo dell’agricoltura; o quello della Banca Melli, in cui
vengono pagati i salari degli impiegati statali.
Il terzo – che riguarda sia le donne che marginalmente gli uomini – è lo sconcertante numero di nasi rifatti,
una operazione che sta diventando una vera e propria mania: chi non può permetterselo, ma vuole
comunque dare l’idea di stare al “passo coi tempi”, va in giro con un cerotto sul naso, inducendo il prossimo
a creder che sia parte del club.
Un club che secondo Vahid – che lavora in una compagnia di trasporti turca ma che a causa delle sanzioni e
della crisi economica è costretto a vivere a casa dei genitori nella zona di Tajrish, assieme alla moglie
indiana e al figlio di tre mesi -, conta ormai una ragazza su tre a Teheran. E forse è una sottostima del
fenomeno. Le cifre non sono certe ma sopratutto camminando nelle aree a nord di Meydan e-Valiasr il
colpo d’occhio è evidente: si fatica a non vedere un naso rifatto per più di 10 secondi. E non sono solo le
cosiddette “palang” (che suona un po’ come “blondie” in inglese, ad indicare donne platealmente truccate
e dall’atteggiamento frivolo) a ritoccarsi: spesso si incontrano anche ragazze in chador, all’apparenza
“morigerate”, che però a ben guardare sotto il mantello nero nascondono talvolta tacchi a spillo, e mettono
in mostra un naso palesemente disarmonico rispetto al viso, e sempre “all’insù”.
Una storia di contraddizioni
Il suono dell’adhan (il richiamo alla preghiera proveniente dalle moschee) riecheggia con cadenza regolare
all’interno di lussuosi centri commerciali, in cui la gente sembra non curarsene. Poi, usciti dal Gandhi
shopping center, si prende la metro si passa davanti alla moschea Mosalla, o a quella vicina al Gran Bazar. E
le si vede colme di persone, di ogni ceto sociale.
Teheran è stata testimone di colpi di stato, di riforme, di rivoluzioni, bombardamenti, e ha gradualmente
cambiato pelle. Una città capace di commuoversi ancora oggi per l’anniversario della morte dell’ayatollah
Khomeini o durante una visita alla sua tomba, così come di piangere il decesso prematuro della giovane
popstar Morteza Pashaei, al cui funerale pochi mesi fa hanno spontaneamente partecipato migliaia di
persone. Due simboli diversi, popolari in modo trasversale: perché a Teheran c’è di tutto e il contrario di
tutto.
Così, capita di incontrare un tassista ultra settantenne – con l’ayat al Kursi (un verso della sura della Vacca,
una delle più celebri del Corano) in vista sul parabrezza – che ascolta compiaciuto le note di uno dei
melodici successi dello sfortunato cantautore Pashaei, che ci si aspetterebbe di sentire solo negli iPod di
adolescenti alla moda; oppure di imbattersi in una ragazza poco più di che ventenne, con le mani
curatissime, il trucco pesante in viso come se poi dovesse recarsi ad un appuntamento galante, che
nascosta dietro ad un chador, piange disperatamente davanti alla tomba del padre della Repubblica
islamica, all’interno del mausoleo a lui dedicato, poco distante dal cimitero dei martiri della guerra con
l’Iraq, il Behesht e-Zahra.
Non è un pianto normale il suo ma un pianto straziante, scomposto, che sembra scaturire da un dolore
improvviso, recente, difficile da lenire come è difficile accettare la morte improvvisa di un caro, o la fine di
un grande amore. Eppure, la ragazza probabilmente non era nemmeno nata quando Khomeini passò a
miglior vita. Ed è proprio di fronte allo sfarzoso mausoleo dell’Imam Khomeini che può capitar di venire
intercettati da un anziano mullah con il copricapo nero, quello che segnala la discendenza diretta dalla
famiglia del Profeta (gli altri lo indossano di colore bianco). Non per essere ammoniti, come forse ci si
aspetterebbe, bensì per essere oggetto della richiesta di farsi un paio di foto insieme. Una situazione
spiazzante, se si pensa alla narrazione dominante in Occidente, che tende a descrivere i mullah come schivi
e austeri, quando non ostili rispetto al contatto con un occidentale non musulmano.
Politica …
Nessuno dei perentori giudizi che normalmente ci vengono proposti dai media sembra rendere giustizia
all’articolata società iraniana. La letteratura giornalistica sull’Iran muove tendenzialmente da due poli
opposti – forse fuorviata dall’effettiva polarizzazione del tessuto sociale del Paese -, finendo per risultare
spesso incompleta, o faziosa. Non è del tutto soddisfacente la definizione che dipinge quello iraniano come
un popolo moderno, laico, occidentalizzato, che guarda sempre con invidia a Occidente, mentre è ostaggio
dell’autorità verticale di un regime dittatoriale dominato da chierici autoreferenziali, come se (una parte
della) società e Stato non fossero strettamente interconnesse.
E’ utile ricordare che, diversamente da molti dei Paesi della regione, in Iran vi sono organi elettivi e una
scena politica conflittuale e partecipata (pur con visibili deficit di democraticità), anche se è evidente la
progressione di un certo disincanto soprattutto da parte dei più giovani, bramosi di libertà individuali e
sempre meno interessati alla politica, o al suo miscuglio con la religione; e non è, d’altronde, esaustiva
nemmeno la generalizzazione opposta, che vorrebbe gli iraniani come dei fanatici reazionari, obnubilati
dalla religiosità, estremisti, che passano il proprio tempo a urlare “morte all’America”, a lapidare gli adulteri
e a pianificare la distruzione di Israele. La verità, come al solito, non solo sta nel mezzo ma tende ad essere,
in Iran, mutevole, difficile da afferrare a piene mani, come è difficile descrivere una società in continua
evoluzione demografica, culturale e politica.
Quello iraniano, in fondo, è un sistema politico caratterizzato in un certo senso da mobilità interna, in cui il
ricambio delle classi dirigenti è però una conseguenza della fedeltà e del consenso al vilayat e- faqih: la
divisione più netta si verifica infatti tra i cosiddetti “Khodi” – gli “interni”, letteralmente “dei nostri”, cioè i
cittadini che mediante il supporto al sistema usufruiscono di tutta una serie di vantaggi e benefici, impliciti
ed espliciti – e i “Gheir-e Khodi”, letteralmente “non dei nostri”, il cui destino nella società è di norma
speculare a quello dei primi. Il perpetuo rischio per questi ultimi – l’Iran ha una lunga storia di ingerenze
straniere alle spalle, che hanno cementificato un sentimento di paranoia ancora diffuso – è quello di essere
considerati spie al soldo di potenze occidentali.
Nessuno fa eccezione, e desta una certa impressione il fatto che tre degli ex presidenti dell’Iran –
Mohammad Khatami, Hashemi Rafsanjani e Mahmoud Ahmadinejad – in momenti e per motivi diversi,
non abbiano avuto il permesso di espatriare. Non esistono “i potenti” in eterno (forse Rafsanjani fa
eccezione), e lo status sociale può variare anche nell’arco di poco tempo. Per non menzionare il destino di
un ex primo ministro come Mir Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari in seguito alle proteste legate alle
elezioni del 2009.
Status sociale che per molto è cambiato improvvisamente dopo la rivoluzione. E’ il caso dei proprietari di
terreni a nord di Tajrish, un quartiere-villaggio che già esisteva prima che Teheran diventasse una
megalopoli. Queste oasi di tranquillità hanno creato solchi di ineguaglianza facendo le fortune di chi ha
deciso di vendere il proprio terreno. Chi vive in aree come Fereshteh, dove prezzi delle case superano quelli
di Beverly Hills, è come se vivesse in un altro paese, fatto di servizi esclusivi, comfort estremi, ampie licenze
sulla morale ordinaria e aria salubre.
Tajrish oggi non è l’area più esclusiva della città ma i suoi abitanti continuano a sentirsi una élite. Molti dei
suoi più anziani mostrano con orgoglio la propria carta d’identità, dove nello spazio riservato al “luogo di
nascita” non è scritto “Teheran” ma “Tajrish”, o “Shemiran”. Come a marcare una differenza.
… società …
Ciò che balza subito all’occhio a Teheran è l’esistenza di due realtà sociali, i cui contorno non sempre sono
facili da distinguere: una tradizionalista-conservatrice e l’altra modernista, e dalle tendenze laiche. Due
realtà che sembrano esser tanto propense a dialogare con il forestiero quanto a non dialogare tra di loro:
tanto vicine fisicamente, quanto lontane emotivamente.
Una “rottura” che si verifica anche all’interno degli stessi nuclei familiari, intrecciandosi con i conflitti
generazionali tipici di qualunque società, e vedendo padri e figli talvolta contrapposti dal punto di vista
politico.
E’ il caso, ad esempio, della famiglia Khazali: Mehdi, oftalmologo, direttore dell’Istituto Culturale Hayyan e
dissidente politico, è stato ripetutamente arrestato per aver “offeso” varie autorità della Repubblica
islamica, in particolare l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, ed è entrato più volte in sciopero della
fame in seguito alle sue condanne; suo padre, l’Ayatollah Abolghasem Khazali, è invece uno dei redattori
della Costituzione della Repubblica islamica e tuttora membro della potente Assemblea degli Esperti.
L’ayatollah Khazali è stato, al contrario del figlio, un ardente sostenitore dell’ex sindaco di Teheran, poi
divenuto presidente. Arrivò persino a sostenere che l’Imam Mahdi (il dodicesimo imam nell’escatologia
sciita, quello “nascosto”) ne aveva “approvato” la presidenza, suscitando ilarità nei numerosi critici
dell’ingegnere di Ardakan e alimentando nello stesso la convinzione di essere un “prescelto”. Pur avendo
avuto il suo principale mentore nel reazionario Ayatollah Mesbah- Yazdi, è forse anche per “merito”
dell’ayatollah Khazali se Ahmadinejad in quasi ogni suo discorso infilava ossessivamente l’Imam Mahdi.
… religione.
Pur parlando di una realtà in cui la religiosità ha un peso consistente – e all’interno di una regione che
conferma questa tendenza -, l’imposizione da parte dello Stato di alcuni aspetti della religione ha finito per
produrre forse un numero di agnostici superiore a qualunque altro paese circostante. Soprattutto tra gli
under 30, che costituiscono circa il 30% della popolazione nazionale.
Mohammad, venticinquenne ex studente di ingegneria aerospaziale alla Sharif University, che è stato
costretto a lasciare (trasferendosi nella meno prestigiosa Università di Kashan) per aver partecipato ai
movimenti di protesta del Movimento verde nel 2009, si definisce oggi religioso e praticante ma ci tiene a
dirmi che qualche anno fa si riteneva un “materialista-ateo”. Continua, tuttavia, a leggere Dostojevski e
Nietzsche, oltre al Corano.
Capita di scambiare facilmente due chiacchiere con persone devotissime ma stufe di un regime che impone
la religione – ricordandoci che spesso la correlazione tra religiosità e sostegno alla Repubblica islamica (un
regime “religioso”) non sussiste -, o di bere un thè con persone non troppo devote, ma idealmente fedeli
alla Repubblica islamica e alla sua natura “rivoluzionaria”; capita di imbattersi in un ex meccanico – prima
della rivoluzione impiegato in una fabbrica americana di elicotteri nei pressi di Isfahan – che arriva a
rimpiangere sottovoce lo Shah, o in albergatori e ristoratori con ritratti di Khamenei e Khomeini affissi
ovunque, come fossero poster di calciatori; capita, ad ogni angolo di questa immensa città, di veder
smentita ogni generalizzazione possibile.
Donne
Nei pressi di Meydan e-Darband, ragazze vestite alla moda portano malvolentieri il velo, spostandolo più
indietro possibile, sui capelli legati a “chignon”, e – scherzando tra di loro davanti alle vetrine di negozi di
abbigliamento – sembrano idealmente bearsi della recente sentenza di incostituzionalità della proposta
fatta da alcuni parlamentari ultra-conservatori, volta a conferire alla polizia maggiori poteri di vigilanza sulla
“morigeratezza” dei costumi.
Il presidente Hassan Rouhani, giovandosi della decisione degli organi giudiziari e intervenendo anche sul
popolare tema dei concerti (spesso banditi), ha recentemente usato parole che richiamano vagamente i
toni di Papa Bergoglio, rispetto alla limitazione del diritto delle autorità di interferire nella vita sociale dei
giovani, e delle donne in particolare.
L’opposizione che ha incontrato, soprattutto tra i suoi “colleghi” del “clero” sciita, è un buon indicatore
della trasversalità dei conflitti societari, per cui è fuorviante pensare che “ai preti si contrappongano i laici”:
esistono, in Iran, molti religiosi su posizioni che definiremmo “fondamentaliste” ma esistono altresì
mujtahid (come Rouhani, come l’ex presidente Khatami, come il defunto Montazeri, l’Ayatollah Dastgheib e
tanti altri) più flessibili e aperti di tanti “laici” – come Ahmadinejad, Mohsin Rezaei, Akbar Velayati o
l’attuale sindaco di Teheran Mohammad Qalibaf -, cioè non appartenenti al clero. Anche nelle hawza
(scuole teologiche) di Qom (ma ancor più in quelle irachene di Najaf), come forse è noto, esistono religiosi
che tuttora contestano dal punto di vista giuridico-dottrinale, la validità e l’opportunità del vilayat e-faqih,
l’originale (poiché senza precedenti nella storia e senza emuli nel mondo) forma di governo vigente in Iran.
D’altronde, passeggiando per qualunque area di Teheran, sono molte le donne di ogni età che indossano
spontaneamente il chador – quel lungo mantello nero che copre la testa ma non il viso, avvolgendo la
figura -, che ad ogni sguardo maschile che si posa su di loro, spostano come una tendina per coprire il
proprio sorriso, o la propria espressione incorreggibilmente pudica. Soprattutto le donne più anziane, per
tenere le mani libere, talvolta tengono il chador con la bocca, risultando alquanto buffe. Il chador non è
obbligatorio, tranne che all’interno dei luoghi di culto.
Indossano immancabilmente il chador le “consulenti islamiche” che si incontrano all’interno delle stazioni
della metropolitana. Sistemate su una sedia davanti a un tavolino, armate di Corano e di parlantina facile,
queste “timorate di Dio” dispensano consigli di ogni tipo alle donne che ne hanno bisogno, su ogni materia
possibile. Al tavolo accanto, con le stesse funzioni per l’altro sesso, staziona un mullah. Le persone che si
fermano per una chiacchierata con i “consulenti islamici” sono più di quelle che ci si aspetterebbe.
Toponomastica
Le vie della città, soprattutto nella zona settentrionale, hanno cambiato in buona parte nome dopo la
rivoluzione. Oltre ai nomi dei più famosi rivoluzionari, alcune strade hanno preso quelli di importanti figure
storiche, tutte appartenenti all’orbita che potremmo definire “terzomondista”, di cui – non solo attraverso i
rapporti con i paesi “socialisti” del Sudamerica o nel Movimento dei non allineati – l’Iran ha spesso preteso
di essere un rappresentante, seppur sui generis: tra le personalità più note ci sono il Mahatma Gandhi,
Patrice Lumumba, Muhammad Ali Jinnah, Simon Bolivar, Nelson Mandela e Iqbal Lahori. Non mancano vie
intitolate a personalità europee “rivoluzionarie”, come l’attivista politico nordirlandese Bobby Sands, o
particolarmente note in Iran, come l’orientalista francese Henri Corbin, uno dei massimi esperti mondiali di
islam sciita.
Parchi e interazioni
I parchi sono una risorsa vitale per Teheran: degli autentici polmoni, senza i quali la città d’estate
soffocherebbe. Polmoni anche per i giovani, che nei prati all’inglese all’ombra dei pini di Park e-Laleh
cercano un po’ di privacy con i propri partner, al riparo dall’occhio censore di zelanti pasdaran.
Tutti i parchi di Teheran sono attrezzatissimi: al loro interno non mancano mai campi da pallavolo, aree pic
nic, zone riparate dagli alberi in cui poter studiare senza cuocersi al sole, biliardini, tavoli da ping pong e
addirittura palestre, a cui non manca nessuno dei principali macchinari (certo un po’ usurati) per tenersi in
forma. Ovviamente è tutto gratuito, ed è probabile che il numero di abbonamenti nelle palestre private ne
abbia risentito.
A Teheran vi è un evidente spaccato delle conseguenze di una società in cui la libera interazione con l’altro
sesso è proibita: sono tanti i giovani che nei parchi paiono letteralmente annoiarsi quando non sono
impegnati in qualche sport, e che sembrano talvolta non attendere altro che la scusa per fare qualcosa di
diverso, come scambiare quattro chiacchiere con un occidentale; è forse per i medesimi motivi che in Iran,
dove il valore della famiglia è già di per sé centrale, si vedono centinaia di nuclei familiari consumare un
picnic sugli stessi prati, trasmettendo una sensazione di forte coesione sociale, di tradizione. Sono scene in
grado di far riflettere sul fatto che in Occidente siano sempre più rare.
Se si capita in uno dei prati cittadini al calar del sole – che segnala la fine del giorno di digiuno nel mese di
Ramadan -, si vedono centinaia di gruppi – di amici, di famiglie allargate – adagiati su grandi teli di stoffa,
intenti a colloquiare rumorosamente e a consumare pasti variegati e abbondanti, preparati a casa. Certo,
rispetto ad un tipico concerto occidentale all’aperto, manca evidentemente l’alcol, e qualcos’altro. Non la
musica, tuttavia, perché gli iraniani sono (anche) un popolo di lettori, artisti e musicisti. Nulla simboleggia
tutto ciò meglio del Forum degli artisti iraniani, situato proprio all’interno del Parco degli artisti (Park eHonar Mandan), e all’interno del quale si tengono ogni mese mostre di arte contemporanea e di fotografia.
E’ qui che, in primo luogo, non ha attecchito una bizzarra iniziativa presa due anni fa dal sindaco
Mohammed Qalibaf, e della quale Mahsa, una studentessa ventunenne della zona di Amir Abad, mi
racconta non riuscendo a trattenere le risate: in questo e in altri parchi il sindaco del Partito islamico
conservatore aveva fatto sistemare panchine diverse a seconda del sesso, per scongiurare la possibilità che
i giovani ignorassero ulteriormente la separazione tra i sessi negli spazi pubblici. Un provvedimento caduto
rapidamente nel vuoto: le coppiette hanno continuato a darsi appuntamento e a sedersi assieme sulle
panchine o direttamente sui prati, come sempre. Si è dunque ritenuto opportuno, non senza imbarazzi,
eliminare questa scomoda e inutile separazione, e le panchine sono tornate ad essere “miste”.
Stelle e strisce
Se dal Park e-Honar Mandan si esce, proseguendo dritti su Forsat street e svoltando a sinistra su Taleghani
Avenue, ci si trova a costeggiare i muri dell’ex ambasciata statunitense, pitturati con i celebri murales dai
toni marcatamente anti americani. I disegni non hanno bisogno nemmeno di essere descritti, tanto son
divenuti iconici della Repubblica islamica nata nel ’79.
All’interno di questa struttura, la Cia nel 1953 orchestrò il colpo di stato che defenestrò il governo eletto di
Mohammad Mossadegh e riportò al potere lo Shah Mohammed Reza Pahlavi. Ed è sempre qui dentro che
gli Stati Uniti presero le più importanti decisioni volte a mantenerlo al potere. Così, nel novembre del 1979,
dopo che lo Shah aveva già lasciato il paese, un gruppo di studenti guidato da personalità come Ebrahim
Asgharzadeh (oggi politico del partito Hambastegi) decise di assaltare l’ambasciata americana, nel timore
che un nuovo colpo di stato fosse imminente, e sequestrò per 444 giorni cinquantadue diplomatici
americani.
Il giudizio rispetto a questo episodio, che tende a unire iraniani di ogni convinzione politica, è assai
importante ai fini della comprensione della situazione attuale, che vede Iran e Occidente alla ricerca di
accordo sul programma nucleare di Teheran e pone alcuni problemi legati alla reciproca percezione. La
narrazione predominante in Occidente – influenzata dalle immagini di diplomatici indifesi, bendati e
dall’aria familiare, alla mercé di ragazzi orientali, barbuti e arrabbiati – tende a descrivere il sequestro come
un episodio di terrorismo, poiché gli studenti ignorarono il principio di inviolabilità delle sedi diplomatiche e
tennero prigionieri uomini disarmati.
Si tratta di una valutazione problematica, e in parte ingenerosa: in primo luogo perché, come detto, per un
popolo voglioso di riprendere in mano il proprio destino, era naturale rivolgere le attenzioni al luogo dove
per decenni si era impedito questo inevitabile processo, spesso facendo ricorso alla brutale repressione; e
in secondo luogo perché, viste le evidenti (seppur formalmente “legali”, poiché erano condivise dallo Shah,
che però nessuno aveva eletto) violazioni americane della sovranità iraniana – di cui il colpo di stato del
1953 ai danni dell’eletto Mossadegh era il principale esempio – contestare il mancato rispetto del diritto
diplomatico per un popolo vittima di tutti questi soprusi nel corso di decenni (e in un momento storico in
cui i colpi di stato di marca Cia erano divenuti pratica assai comune), equivale a biasimare un uomo per lo
schiaffo che è riuscito a dare, di sfuggita, al ladro che gli ha rubato in casa.
Col senno di poi – e anche non considerando il recente scandalo del Datagate, che ha confermato gli storici
sospetti circa le attività di spionaggio americano in numerosi paesi del mondo e non ultimo l’Iran – è
profondamente ingiusto continuare a trattare l’episodio slegandolo dal contesto storico e dalle sue
motivazioni, perché in questo modo si rischia di non capire gli stessi iraniani. Specie se si considera che
tutto quel che si verifico in quei 400 giorni non può essere certo imputato all’attuale regime in Iran ma ad
un gruppo di ragazzi idealisti (Khomeini era peraltro contrario alla presa di ostaggi ma fu ammansito
dall’Ayatollah Khoheinia, in contatto con gli studenti), che volevano riprendere in mano il proprio Paese e
temevano di essere nuovamente spazzati via da improvvise iniziative dei servizi segreti americani, che
agivano all’interno dell’ambasciata. Le guardie che sorvegliano l’entrata del “Covo dello spionaggio
americano” (così lo chiamano) – oggi, a differenza di qualche tempo fa – tradiscono una certa soddisfazione
quando gli si chiede il permesso di fotografare i graffiti.
Militare
Il servizio di leva – obbligatorio – può diventare un incubo per i ragazzi di Teheran. Dura due anni e può
capitare di essere assegnati alle province sud orientali del Sistan e Balucestan, dove operano gruppi
qaedisti che sovente sequestrano o uccidono guardie inesperte nell’ambito della guerra al governo
iraniano. Ai giovani capita di rischiare la vita anche in modo “urbano”: è il caso di chi in quei due anni ha la
sventura di fare il vigile sulle strade caotiche e inquinate di Teheran, dove le malattie polmonari sono
diffusissime.
Gran Bazar
C’è un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato, l’unico posto in cui si potrebbe pensare di essere negli
anni ’80, con la rivoluzione ancora sulla cresta dell’onda e un regime e una società che si consolidavano
attraverso la guerra con l’Iraq: questo luogo è il Gran Bazar. E’ qui che si trova il regno dei bazarì, motori
commerciali del paese e spesso anche i garanti di un consenso essenziale (talvolta strumentale, talvolta
sincero) al regime; aghi della bilancia politica e termometri economici della città. I loro sguardi, i loro
indumenti, la loro gestualità, il loro modo di rivolgersi alla clientela, sono gli stessi di sempre, gli stessi di 35
anni fa.
Freedonm is not free
Alla fine di una angusta traversa nei pressi della via intitolata al celebre poeta Ferdowsi – alle spalle di
Meydan e- Imam Khomeini – si trova invece il museo Ebrat. Ex prigione della famigerata Savak – la polizia
segreta dello Shah -, il museo oggi tenta di riprodurre le brutalità un tempo consumatesi al suo interno, con
torture di ogni genere. Lo fa servendosi ovviamente di consistenti dosi di retorica, e sfruttando il potere
della fisiognomica: i manichini in cera degli agenti del Comitato Anti Sabotaggio dello Shah hanno tutti uno
sguardo perfido, diabolico. Numerose personalità politiche e religiose – oggi gravitanti attorno ai centri di
potere – sono state imprigionate e torturate qui. Ci sono proprio tutti: dagli Ayatollah Montazeri, Taleghani
o Beheshti, all’ex presidente e uomo d’affari Hashemi Rafsanjani, passando per il sociologo, il cui pensiero
in parte ispirò la rivoluzione, Ali Shariati, fino ad arrivare all’attuale Guida Suprema, Ali Seyyed Khamene’i.
Sulle pareti dei corridoi che conducono alle celle sono invece sistemate le foto di comuni cittadini, uomini e
donne, tutti invariabilmente passati di qui come detenuti politici. Sulle foto di coloro che qui dentro hanno
perso la vita, è affisso un tulipano rosso. Il signor Kadrit, un ex prigioniero che funge da guida all’interno
dell’ex carcere, si ferma solennemente quando si arriva all’altezza della foto segnaletica che lo ritrae da
giovane carcerato, e – chiedendo anche lui di esser fotografato – si sistema di profilo, assumendo la stessa
espressione di 50 anni fa. Con un pizzico di orgoglio in più, a dire il vero: d’altronde, lui è ancora qui.
Alla fine del corridoio, su un muro antistante la sala in cui è affisso un organigramma dei torturatori della
Savak, fa capolino un pannello elettrico, come quelli che segnalano le uscite di emergenza. Nel pannello,
però, non c’è scritto “Exit”, bensì, in inglese e in farsi: “Freedom is not free”, la libertà non è gratuita. Suona
tanto come un sinistro monito alle irrequiete e insofferenti generazioni attuali – vogliose di maggiori libertà
e pluralismo -, quanto come un promemoria di quanto caro sia stato il prezzo da pagare per molti che
hanno condotto con successo quella che rimane l’unica rivoluzione popolare dai tempi di quella francese.
Non c’è da dubitare che al museo intendano la frase in quest’ultimo senso.
Una rivoluzione che in certi frangenti sembra essere ancora viva, attaccata alle pareti e leggibile negli occhi
di alcune donne e uomini, ma che per lunghi tratti della permanenza a Teheran si ha l’impressione sia finita
da un pezzo, sepolta assieme ai milioni di morti della guerra con l’Iraq: “martiri”, shahid, li chiamano, e i
loro visi, immortalati in gigantografie tra i viali cittadini, o pitturati sui muri dei palazzi come graffiti,
sembrano voler ricordare questa lunga fase di transizione post-rivoluzionaria, evocando funesti ricordi ma
al tempo stesso rafforzando l’orgoglio nazionale, l’autopercezione di irriducibilità.
Allo stesso modo in cui si ha l’impressione che un più rapido cambiamento in senso democratico – per una
popolazione mediamente giovane, e che già 62 anni fa, in modo incruento, aveva scelto la democrazia,
mentre in buona parte dell’Europa si entrava o si usciva da dittature anche più autoreferenziali e assolutiste
– non solo sia possibile ma forse inevitabile, poiché connaturato ad una società che si tende a descrivere
come statica ma che in realtà è assai dinamica, matura, consapevole e ancora in potere di influenzare le sue
strutture portanti, con il peso della demografia. Liberare gli iraniani dalla morsa ingiusta e pretestuosa delle
sanzioni, è il primo passo – necessario più di quanto non creda chi invece è convinto che le sanzioni
danneggino i “potenti” – in questa direzione, utile a dare serenità a una società stremata. Un passo che,
inaugurando una nuova stagione di cooperazione basata su un rapporto paritario, può fare solo
l’Occidente.
E così, magari, le anime di Teheran torneranno a dialogare tra loro.