la bomba di allah - Misteri d`Italia
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la bomba di allah - Misteri d`Italia
“Stati canaglia” L’Iran La questione nucleare LA BOMBA DI ALLAH di Gianni Perrelli Dalla strada che fende il deserto degli scorpioni velenosi si intravedono una mezza dozzina di anonime palazzine. Un complesso che si staglia nella cornice di montagne innevate: cartolina turistica dell'Iran centrale che non evoca alcuna tensione. Ma bastano un paio di curve incassate fra i canyon per precipitare in uno scenario di guerra. Postazioni di difesa antiaerea. Un muro di terra argillosa su cui svettano piazzole per l'artiglieria. Massicce cancellate dietro il varco d'accesso. Sullo sfondo, batterie missilistiche. La teocrazia sciita di Teheran ha trasformato in una fortezza la centrale nucleare di Natanz, a circa 300 chilometri dalla capitale. Nei bunker sotterranei, secondo i dossier dell'Aiea (l'Associazione internazionale dell'energia atomica), gli scienziati starebbero arricchendo l'uranio per costruire forse ordigni nucleari. Un disegno, questo, negato dal governo ultraradicale di Mahmoud Ahmadinejad in quanto contrario ai principi dell'Islam. Quegli esperimenti è la tesi ufficiale, servono solo per sviluppare elettricità a uso civile. «Se insistono nel cercare una soluzione non pacifica», ammonisce Ali Larijani, il capo del programma nucleare iraniano, «non so dove si possa arrivare». Ma l'accentuarsi degli indizi, che potrebbe provocare le sanzioni dell'Onu ha messo il mondo in allarme. È una spy story che ha inizio alla fine degli anni Ottanta. Quando il fisico Abdul Qadeer Khan, padre della bomba atomica pachistana, prima di licenziarsi dalla ditta olandese per la quale lavorava, immette sul mercato clandestino i disegni delle nuove centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. Nel '95 l'Aiea ne scopre 500 ancora imballate a Natanz. In un'altra ispezione, nel 2004, in altri macchinari, vengono rilevate anche tracce di arricchimento di uranio (comprato probabilmente in Africa) che secondo gli iraniani sarebbe stato opera di precedenti proprietari. La scoperta riattizza il fuoco fra il governo di Teheran, che continua ad aderire al trattato di non proliferazione nucleare, ma è deciso ad andare dritto per la sua strada, e i due storici nemici: gli Stati Uniti, presenti in armi in quasi tutta l'area circostante, che continuano a piazzare l'Iran in cima alla lista degli Stati canaglia, e Israele, timoroso di finire nel mirino di un regime che lo vorrebbe cancellare dalla carta geografica. La Russia, interessata a riassumere in Medio Oriente un ruolo di grande potenza, si sta proponendo come mediatore. Darà una mano a completare l'altra centrale di Bushehr che, insieme al centro di tecnologia nucleare di Isfahan e alla fabbrica di acqua pesante di Arak, completa il quadrilatero atomico iraniano. Studierà insieme con Teheran il modo di arricchire l'uranio a fini non militari. Per evitare l'isolamento, gli ayatollah, guardati con sospetto dopo il crollo del riformismo anche dall'Europa, sembrano orientati a ingoiare fino in fondo la tutela del Cremlino. Se non chiariranno meglio le loro intenzioni, Natanz rischia però di diventare il teatro di un'apocalisse prossima ventura. Fonti di intelligence escludono un'invasione dell'Iran. Gli Usa, impelagati nella guerra senza fine dell'Iraq, non avrebbero né le energie, né i mezzi per un'altra avventura bellica. Ma sulla scrivania di George Bush ci sarebbero già i piani elaborati dal suo vice Dick Cheney per distruggere la fonte del nuovo incubo atomico con una raffica di bombardamenti mirati. E Ariel Sharon, secondo indiscrezioni trapelate da Mosca, prima di entrare in coma avrebbe fissato per il 28 marzo, data delle elezioni israeliane, il giorno di un possibile blitz aereo contro la centrale di Natanz. Le ricognizioni satellitari hanno ricostruito la mappa dell'impianto che si divide in tre aree: un grande edificio amministrativo, sei palazzine che ospitano una fabbrica dismessa per il progetto pilota e, a 18 metri sotto terra, protette da spessissime mura, le tre strutture di 770 metri quadri di più recente costruzione in cui si arricchirebbe l'uranio. Per distruggerle, gli Usa dovrebbero impiegare i bombardieri B2, in grado di volare senza rifornimento dal Missouri e di sganciare le bombe "bunker-busting", le uniche capaci di penetrare in profondità. Ma i rischi, con la scontata perdita di vite civili, potrebbero essere superiori ai vantaggi. S'infiammerebbe tutto il Medio Oriente. L'Iran, dotato di missili da crociera con un raggio di 2.500 chilometri, non esiterebbe a lanciarli per ritorsione contro Israele. «Ogni attentato riceverebbe una risposta immediata», ha chiarito fuori dai denti il ministro della Difesa Mostafà Mohammad Najar. La psicosi dell'apocalisse si avverte paradossalmente più a Teheran che nelle zone dove potrebbe concentrarsi l'aggressione. Natanz è una cittadina montana nota prima della controversia nucleare solo per la produzione estiva delle pere. Nelle altre stagioni dell'anno giace in letargo. Le guide turistiche la descrivono come più tranquilla di un cimitero di campagna. Nell'unico ristorante si preferisce discutere di calcio. Gli avventori neanche sanno bene dove sia esattamente la centrale (a 35 chilometri). Isfahan, perla della civiltà persiana, è più preoccupata per la crisi del turismo causata dalla defezione degli occidentali. La percezione del pericolo non ha comunque scalfito la retorica nazionalista. «La spada di Damocle delle sanzioni ha solo il potere di irritare gli iraniani», ha. sentenziato lo stesso leader riformista Saeed Hajsarian. È la stessa tesi cavalcata dal cinquantenne Ahmadinejad che, appoggiandosi sul consenso delle classi più disagiate (il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà), coltiva il progetto di riportare la rivoluzione islamica alla purezza delle radici khomeiniste, al motto "giustizia e spiritualità". Segue le indicazioni del suo guru personale, l'ayatollah ultraconservatore Mesbah Jazdi (soprannominato "il Coccodrillo"): un'alleanza che sarebbe guardata con fastidio dalla Guida Suprema Seyyed Ali Khamenei, a cui spetta comunque l'ultima parola sulle direttive politiche. In contrasto sia con l'elite economica guidata dall'ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani (clamorosamente sconfitto alle ultime elezioni presidenziali), che con i monopoli di Stato gestiti dai clerici settantenni, che con le flebili lamentazioni del gruppo riformista ridimensionato dopo l'eclisse di Mohammed Khatami a un ruolo di pura testimonianza. Una linea talmente radicale da spingerlo a non perdere occasione per inveire contro l'Occidente (minacce contro Israele, manifestazioni di piazza contro le vignette danesi e l'attentato di Samarra, padrinaggio di Hamas), elevandolo ad alfiere del conflitto di civiltà. Pur essendo il primo presidente senza turbante, Ahmadinejad continua a essere messo alla berlina per il suo stile spartano, ritenuto poco consono alla dignità di un leader. Nei blog, un fenomeno esploso da un paio d'anni che ha portato il farsi al terzo posto in classifica (dopo l'inglese e il cinese) nell'hit parade delle lingue più usate in Rete, impazzano le barzellette sulla sua giacchetta striminzita da merceria (ribattezzata "Ahmad" e diventata un oggetto di culto fra i poveri), sull'utilitaria Peykan con cui continua a muoversi, sul rifiuto di usare l'aereo presidenziale, sull'appartamento piccolo borghese in cui continua a risiedere. Sotto tiro è anche l'eccesso di conservatorismo religioso che quand'era sindaco di Teheran lo aveva spinto a separare perfino negli ascensori gli uomini dalle donne. «Pettinandosi divide anche i pidocchi», lo canzona la storiella più gettonata: «I maschi a destra, le femmine a sinistra». Dopo i primi mesi di governo, Ahmadinejad si è reso conto di non poter mantenere le promesse con la sola miscela di oltranzismo e populismo. L'economia cresce del 5-6 per cento. Il petrolio e il gas sono appetiti soprattutto dalla Cina. Il sistema è troppo dipendente dall'energia. La gestione delle risorse troppo corrotta e centralizzata. I capitali tendono a emigrare a Dubai, dove sono registrate 10 mila società iraniane. I giovani non trovano sbocco sul mercato del lavoro. Impotente di fronte ai problemi di ardua soluzione, il presidente ha spostato l'accento sull'orgoglio nazionalista, l'arma da sempre vincente per tenere in pugno un paese così sfaccettato. Almeno sul nucleare Ahmadinejad ha in effetti dalla sua l'intero Iran. Lo appoggiano i leader dei diritti civili come gli uomini d'affari, i benestanti dei quartieri Nord di Teheran come i contadini delle tribù più remote, i commercianti del bazar come gli studenti che scalpitano perché aspirerebbero a vivere apertamente all'occidentale. «Il programma risale agli anni Settanta, quando c'era ancora lo scià», dice il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi: «A quei tempi aveva l'appoggio degli Usa». «Tutta l'economia ne trarrebbe gran giovamento: è vero che abbiamo il petrolio, ma scarseggiano le raffinerie», precisa il manager Behdad Najafi. «Fra trent'anni forse saremo in cento milioni e avremo sempre maggior bisogno di energia. Ma sarebbe controproducente mettersi il mondo contro. L'unica soluzione è quella di entrare in società coi Paesi europei: noi mettiamo i soldi, loro la tecnologia. Parte della produzione potrebbe essere venduta agli Stati limitofi, con vantaggi per tutti», spiega il costruttore Mehdi Ahmadi. Nelle università, dove dopo la dura repressione del 2003 si è restii a uscire allo scoperto, l'ala controllata dai "basiji", le sentinelle civili della rivoluzione islamica, giudica equa perfino la costruzione della bomba. «Perché India, Pakistan e Israele sì e noi no?». Di contro il nucleo duro dei disillusi, la fazione che ritiene il sistema irriformabile, auspica sotto sotto addirittura un attacco americano, come elettrochoc per rianimare la dissidenza. La massa approva l'uso civile, ma prende le distanze dalla politica, più interessata alla cauta modernizzazione della quotidianità, un fenomeno che il governo, bisognoso più che mai di consenso, avversa ormai in maniera blanda. Ahmadinejad ha messo ufficialmente al bando la musica e i film occidentali, che entrano però in casa attraverso i canali satellitari su cui anche i "basiji" chiudono un occhio. Internet, pur ostacolato dai filtri sui siti politici e su quelli porno, è l'altra grande autostrada per sfuggire alla tirannia del clericalismo. E poi la vita fluisce nei parchi all'aperto, dove gli innamorati tubano senza più alcun timore e gli spacciatori vendono l'oppio agli sbandati. Nelle feste private il disc jockey più richiesto è una ragazza, Mariam d.j. Nella ripulsa della politica lo spazio più frequentato è quello della cultura. Negli ultimi due anni è raddoppiato il numero dei romanzieri (per lo più donne). E anche se è stato visto da pochissimi "carbonari", nei blog fa clamore il successo riportato al Festival di Berlino dal film "Offside". La pellicola, diretta e prodotta da Jafar Panahi, narra le peripezie di giovani tifose che cercano invano di entrare allo stadio per una partita della Nazionale di calcio, sfidando il divieto che impedisce alle donne di assistere alle esibizioni sportive maschili. Un argomento spinoso, che forse non sfuggirà alle maglie della censura, ma che ha già rilanciato in tutto il paese il dibattito sulle chiusure medievali della teocrazia. A conferma del crescente distacco tra la società civile che marcia veloce e un sistema politico rivolto al futuro sul tema del nucleare. Ma ancora troppo lento nel gestire le spinte della laicizzazione. Fonte: L’Espresso, 9 marzo 2006