PREFAZIONE Molti libri si ispirano a un`unica idea essenziale

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PREFAZIONE Molti libri si ispirano a un`unica idea essenziale
PREFAZIONE
Molti libri si ispirano a un’unica idea essenziale. Questo libro si
ispira a due idee.
Secondo la prima, il capitalismo non è una forma monolitica
di organizzazione economica, ma assume invece molte forme, che
differiscono sostanzialmente sotto il profilo delle implicazioni per
la crescita economica e per l’eliminazione della povertà. L’assunto
implicito su cui si fonda l’idea di un capitalismo omogeneo, ossia
l’idea che tutte le economie capitalistiche siano fondamentalmente uguali, è in parte un riflesso della mentalità che era comune
nell’epoca della guerra fredda, durante la quale due superpotenze,
che rappresentavano due grandi ideologie, lottavano per conquistare i cuori e le menti dei popoli del mondo. Su di un fronte si
schieravano i paesi come gli Stati Uniti, le cui economie si fondavano sulla proprietà privata, ai quali si contrapponevano le società
comuniste o socialiste, le cui economie poggiavano su fondamenta
sostanzialmente diverse. Sembrava che fosse questa distinzione a
dividere i due sistemi economici, senza dare troppo peso alla possibilità che il capitalismo non fosse interamente riducibile a quella
elementare distinzione.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 parve dimostrare che il
capitalismo (e la forma democratica di governo) avevano vinto e che
il comunismo era sconfitto. Molti studiosi americani celebrarono
questo fatto, e uno di essi giunse persino a suggerire che eravamo
ormai giunti alla «fine della storia». Gli attacchi terroristici dell’11
settembre 2001 scossero quella illusione, almeno per quanto con-
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capitalismo buono capitalismo cattivo
cerne le forme di governo. Ma ancor prima di quel tragico giorno,
una serie di sviluppi economici ci costrinsero a mettere in discussione l’idea che esistesse una sola forma di capitalismo operante.
Il più importante di questi sviluppi si verificò negli Stati Uniti negli anni Novanta, e fu la notevole ripresa della crescita della
produttività e dell’innovazione, resa in gran parte possibile dalla
comparsa di nuove imprese innovative, anziché dalle gigantesche
imprese consolidate che in precedenza avevano dominato il panorama economico degli Stati Uniti. Qualcosa di nuovo si profilava
all’orizzonte, qualcosa che per uno di noi era abbastanza importante
da meritare un’etichetta speciale, quella di «capitalismo imprenditoriale», un tipo di capitalismo in cui il ruolo centrale viene svolto
da imprenditori che continuano a fornire idee radicali che superano la prova del mercato. Questa forma apparentemente nuova
di capitalismo differiva dalle sue controparti esistenti in altri paesi,
specie in Giappone e nell’Europa continentale, dove l’imprenditorialità radicale era assai poco presente e dove l’economia era dominata da una combinazione, da un lato, di grandi imprese – spesso i
«campioni nazionali» scelti e sostenuti dai governi – e, dall’altro, di
negozietti o di piccole aziende a conduzione familiare.
Rifacendoci a questa semplice idea, ci rendemmo conto che in
altri paesi il capitalismo assumeva altre forme. In alcuni di essi lo
stato sembrava «dirigere il traffico», donde la nostra definizione di
«capitalismo diretto dallo stato», una forma di organizzazione economica che a molti sembrava – e a molti sembra ancora – la chiave
per far compiere ai paesi meno sviluppati il gran salto verso la crescita. Può darsi che anche in altri paesi lo stato giocasse un ruolo,
ma i leader dei governi e le ristrette élite che li sostenevano (o li
temevano) non sembravano curarsi tanto della crescita quanto di
appropriarsi dei guadagni dell’economia. Le economie erano capitalistiche nel senso che la proprietà privata era consentita, ancorché
fortemente concentrata nelle mani di pochi. Sembrava dunque che
a queste economie si addicesse meglio la definizione di «oligarchie».
In sostanza, questo libro riguarda questi quattro diversi tipi di
capitalismo – imprenditoriale, caratterizzato dalle grandi imprese,
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diretto dallo stato e oligarchico – nonché il modo in cui ciascuno
di essi influisce sulla crescita. Pensiamo che queste distinzioni siano importanti non soltanto per il loro valore descrittivo, ma anche
per le loro implicazioni normative. Discende da qui l’esplicito riferimento del titolo alle forme «buone» e «cattive» di capitalismo.
È chiaro, consideriamo alcune forme di capitalismo meritevoli di
venire promosse, mentre riteniamo che altre costituiscano invece
sistemi da rifiutare ed eliminare. Le politiche che consigliamo verso
la fine del libro mirano ad entrambi questi obiettivi.
Una seconda idea, o tesi, è alla base degli argomenti esposti nelle
pagine che seguono. I lettori saranno scusati se, dalla succinta esposizione delle diverse forme di capitalismo, saltassero direttamente
alla conclusione che soltanto la prima – «il capitalismo imprenditoriale», che ha proiettato l’economia degli Stati Uniti verso un tasso
di crescita più alto dalla fine degli anni Novanta del Novecento in
poi, e che sembra attecchire in altre parti di mondo, quali l’Irlanda, Israele, il Regno Unito, l’India e la Cina, per citarne soltanto
alcune – sia l’unica forma di «buon capitalismo». Ma, come uno di
noi (Baumol) ha elaborato oltre dieci anni fa, ci vuole un mix di
imprese innovative e di grandi imprese consolidate per fare un’economia veramente valida. Una piccola schiera di imprenditori può
annunciare le «ultime grandi novità», ma poche – forse nessuna – di
queste verranno immesse nel mercato, se i nuovi prodotti, servizi,
o metodi produttivi non saranno raffinati fino al punto in cui sarà
possibile venderli nel mercato a prezzi accessibili a un gran numero
di persone o di imprese. E questa è l’idea fondamentale che ci ha
portato alla conclusione che la forma migliore di «buon capitalismo» sia una miscela di «imprenditorialità» e di «grandi imprese»,
benché il mix preciso vari da un paese all’altro, in funzione della
combinazione di caratteristiche culturali e storiche che, speriamo,
altri contribuiranno a chiarire nei prossimi anni.
Dalle idee suddette non sarebbe nato un libro senza il grande
aiuto ricevuto da altre fonti. Qui citiamo innanzitutto la Kauffman Foundation, la fondazione leader mondiale per l’impulso che
dà alla comprensione e all’incoraggiamento dell’imprenditorialità.
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capitalismo buono capitalismo cattivo
Tutti e tre gli autori hanno beneficiato enormemente del privilegio
di essere attivamente impegnati nella gestione di questa fondazione (due di noi sono funzionari, il terzo è un consulente speciale),
e di avere avuto l’opportunità di discutere molte idee esposte in
questo libro con i nostri colleghi, non soltanto con quelli interni
alla fondazione (con i quali abbiamo avuto innumerevoli, proficue conversazioni) ma anche con i tanti membri della comunità
accademica che beneficiano di sovvenzioni della fondazione. Poiché abbiamo avuto il privilegio di poter destinare una parte delle
risorse della fondazione al compito di far progredire la ricerca economica sulla natura, le cause, le conseguenze e le politiche relative
all’imprenditorialità, in particolare, negli ultimi tre anni abbiamo
potuto ottenere una visione della situazione mondiale dell’imprenditorialità che non sarebbe stato possibile conseguire, se ciascuno
di noi avesse proceduto per proprio conto. Siamo stati ispirati dalla ricerca svolta dagli studiosi sostenuti dalla fondazione, nonché
da molti altri professionisti che hanno lavorato in campi affini.
Questo libro non avrebbe visto la luce senza il loro contributo.
Il lavoro di Baumol, in particolare, è stato molto agevolato dal
Berkley Center for Entrepreneurial Studies della New York University – della quale egli è direttore accademico – una delle organizzazioni accademiche sostenute generosamente dalla Kauffman
Foundation.
Inoltre questo libro non avrebbe potuto vedere la luce senza
l’esemplare assistenza ricevuta, su vari fronti, da altri collaboratori ai quali dobbiamo ringraziamenti e gratitudine. Una squadra di
ricercatori eccezionali – E.J. Reedy, Marisa Porzig, Dane Stangler
e Mark Dollard – ci ha aiutato in vari punti del nostro cammino,
reperendo informazioni essenziali e suggerendo idee chiave. Uno
speciale ringraziamento deve andare ad altre due persone: Alyse
Freilich, che non solo ha contribuito all’attività di ricerca, ma ha
anche redatto in maniera superba l’appendice di questo libro, che
spiega le tante difficoltà relative ai dati, che complicano il compito
di studiare l’imprenditorialità; e Lesa Mitchell, un altro funzionario della fondazione, il cui lavoro pionieristico dedicato a capire
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e contribuire a modificare (per il meglio) la commercializzazione
delle innovazioni generate dalla ricerca universitaria, prima o poi
riceverà il meritato riconoscimento universale.
Siamo grati anche a Glory Olson della fondazione, a Sue Anna
Batey Blackman (da molto tempo collega di Baumol) e a Eliza
Childs della Yale University Press per l’aiuto editoriale ricevuto.
Abbiamo un grande debito di riconoscenza con i nostri editori della Press, Michael O’Malley e Steve Colca, i quali ci hanno spinto a
scrivere questo libro dopo averne letto soltanto uno scarno abbozzo
(che, visto retrospettivamente, assomigliava molto poco al prodotto
finito). Non è nostro ma di Melody Dillinger il merito della copertina del libro, che troviamo eccezionale. Infine, siamo grati per i
commenti e i contributi ricevuti su alcune parti del libro, durante
la sua graduale evoluzione, da Zoltan Acs, Edmund Phelps, Robert
Strom e Michael Song.
Speriamo che i nostri lettori condividano l’eccitazione intellettuale che abbiamo provato lavorando insieme e sviluppando le idee
presentate nelle pagine seguenti. Come sanno altri coautori, è raro
che due coautori di un libro lo portino a termine insieme e rimangano amici. Questo libro riflette una comunanza eccezionale di tre
individui, ciascuno dei quali ha contribuito alla sua realizzazione
con apporti di diversa natura; mano a mano che l’iniziativa comune progrediva, l’amicizia fra i tre autori si rinsaldava. Ciascuno di
noi è grato agli altri per essere riusciti a portare a termine insieme
questo progetto.