La tutela del contraente debole nei rapporti tra imprese

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La tutela del contraente debole nei rapporti tra imprese
La tutela
del contraente debole
nei rapporti tra imprese
TRENTO, 25 gennaio 2007
GIUNTA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO - 2007
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Copyright:
Tutti i diritti riservati
Giunta della Provincia Autonoma di Trento, 2007
Centro Documentazione Europea
Coordinamento redazionale: Dott. Marco Zenatti
Stampato in proprio
Centro duplicazioni della Provincia Autonoma di Trento
Editore: PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
La TUTELA
del contraente debole nei rapporti tra imprese :
Trento, 25 gennaio 2007. – [Trento] : Provincia autonoma di Trento.
Giunta, 2007. – 83 p. ; 21 cm. – (Quaderni del CDE ; 25)
Scritti di vari. - Relazioni presentate al Seminario
1. Imprese - Tutela giuridica - Congressi - Trento - 2007
346.02
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Dott. Diego Loner
Dirigente Generale Dipartimento
Programmazione, Ricerca ed Innovazione
Provincia Autonoma di Trento
Prof.ssa Daria de Pretis
Professore Ordinario di Diritto Amministrativo
Vice Preside della Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Prof. Gian Antonio Benacchio
Professore Ordinario di Diritto Privato Comparato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Prof.ssa Teresa Pasquino
Professore Associato di Istituzioni di Diritto Privato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Prof. Roberto Caso
Professore Associato di Diritto Privato Comparato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Dott.ssa Avv. Chiara Medici
Dottore di Ricerca in Diritto Privato Comparato
Università degli Studi di Trento
Avvocato del Foro di Trento
Dott. Giuseppe Colangelo
LUISS Roma
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Dott. Diego Loner
Dirigente Generale Dipartimento
Programmazione, Ricerca ed Innovazione
Provincia Autonoma di Trento
Il tema di questo seminario è prettamente tecnico-giuridico ed
investendo la materia civilistica poco si presterebbe, a prima vista, ad un
commento da parte di chi partecipa alla gestione della cosa pubblica.
In realtà anche nella tematica della tutela del contraente debole possiamo
scorgere in senso più generale la tutela del cittadino, in questo caso nello
svolgimento della libera iniziativa di impresa o, più semplicemente, di
un’attività che attiene alla cura dei propri privati interessi.
E’ esperienza comune di ognuno di noi la stipula di un contratto di
assicurazione, l’acquisto di un’automobile o quello di un’abitazione.
Ebbene i rapporti contrattuali alla base di questi acquisti di beni e servizi
quasi mai si svolgono su una base di parità tra i contraenti, in pratica la
sola libertà di chi acquista è limitata alla sfera del consenso. L’uso del
contratto di adesione è in fondo una conseguenza della produzione su
vasta scala, oggi addirittura globale, di beni e servizi e appare difficile
negarne quantomeno l’inevitabilità. Ciò nonostante il libero mercato
privo di regole crea un’economia che produce vantaggi solo per pochi
mentre è compito precipuo della politica, almeno come è intesa in
Europa, di contribuire ad un’equa distribuzione della ricchezza che passa
anche attraverso la par condicio tra i soggetti che acquistano e vendono
sul mercato.
Vi è dunque una necessità della tutela del cittadino contraente come vi
è una necessità di tutela del cittadino utente dei pubblici servizi e ancora
del cittadino nei suoi rapporti con la Pubblica Amministrazione.
Anche qui il vecchio modello autoritativo e unilaterale attraverso il
quale il pubblico potere si rapportava al cittadino si è gradualmente
trasformato nel corso degli anni in un modello concordato, negoziato. La
legge sul procedimento amministrativo prevede accordi in sostituzione
di provvedimenti. Detto con un esempio: “invece di espropriarti acquisto
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il tuo terreno concordando il prezzo”. Questo modo di procedere oltre
ad essere più democratico produce effetti positivi tangibili quali la
diminuzione del contenzioso.
Anche l’Unione Europea, a partire dalla strategia di Lisbona passando
dall’Agenda sociale europea, lungo una sorta di fil rouge, ha esplorato
e posto regole a tutela di vari soggetti o categorie che, per ragioni
diverse, sono in qualche misura poste in un ruolo subalterno rispetto
agli altri soggetti della comunità con cui interagiscono dalla parità di
genere alla riduzione delle ineguaglianze sino alle pari opportunità. Ed
infatti il 2007 è stato dichiarato Anno europeo delle pari opportunità per
tutti proponendo tre finalità da perseguire nello sviluppo della società
europea:
- rendere i cittadini consapevoli dei loro diritti a non essere
discriminati;
- promuovere eguali opportunità per tutti nell’accesso al lavoro,
all’istruzione e alla salute;
- valorizzare le diversità.
Il presupposto di queste azioni é che crescita economica e coesione
sociale si rafforzano a vicenda interagendo tra loro.
La questione in realtà affronta per singoli casi in maniera puntuale
uno degli aspetti che potremmo considerare fondanti del concetto di
democrazia nelle sue diverse aggettivazioni:
- democrazia politica intesa come diritto di espressione delle
minoranze;
- democrazia economica che tende a porre regole in grado di garantire
la libera espressione e il gioco economico delle parti, anche di quelle
più deboli, rispetto ad una concezione economica che immaginava
una capacità regolatrice autonoma del modello di sviluppo nella
cosiddetta mano invisibile (in verità sempre meno invisibile e spesso
sempre meno regolatrice);
- ancora democrazia economica che sempre più tende a coinvolgere
in processi di programmazione strategica e quindi in funzioni fino
ad ora di carattere squisitamente pubblico sempre più larghe fasce
della società civile fino al singolo cittadino che attraverso processi
di programmazione dal basso assume un ruolo di soggetto attivo
capace di esprimere proposte che possono poi divenire scelte
strategiche di un territorio.
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ed infine democrazia giuridica che nasce dal bisogno di garantire
gli interessi generali contro quella che è stata definita l’ideologia
dello stato formale. Essa trae origine dal bisogno di una giustizia
sostanziale per il superamento di un modello che potremmo
definire di “eguaglianza formale e ineguaglianza sostanziale” (non
vi è peggior disuguaglianza che trattare in maniera eguale soggetti
diversi) e che nel tempo si è sviluppata anche sul piano contrattuale
ad esempio in difesa dell’imprenditore subalterno anche per
corrispondere a modelli economici in cui insieme alla grande impresa
possa convivere un sistema a volte atomizzato e nei casi più virtuosi
di rete, di una pluralità di piccole e medie imprese la cui permanenza
diviene fondamentale per l’efficace funzionamento della stessa
economia di mercato [pena dirigersi in breve tempo verso forme più
spinte e non auspicate di capitale monopolista].
In questa direzione, si è mosso il Consiglio Europeo di Lisbona del
marzo 2000 che ha posto all’attenzione l’esigenza di una radicale
trasformazione dell’economia europea dinanzi alla svolta epocale
risultante dalla globalizzazione indicando nell’integrazione dei mercati
e nella responsabilità sociale delle imprese in materia di buone prassi
una base imprescindibile per lo sviluppo.
Nella materia che oggi qui si dibatte ci sono forse allo stato attuale meno
tutele, non c’è ancora una normativa organica. Ed allora ben vengano
questi studi e confronti, necessari a fornire al legislatore quelle proposte
da trasformare in norme affinché il cittadino, sia nella sua sfera pubblica
che in quella privata possa agire in condizioni il più possibile paritarie.
Tenendo ben presente che richiamarci all’eguaglianza dei diritti ed
adottare leggi per garantirli non è ancora abbastanza per garantire la
prassi delle eguali opportunità se tutto questo non è accompagnato da
un mutamento nella mentalità e nei comportamenti.
Con queste brevi considerazioni introduttive porto i saluti della Provincia
Autonoma di Trento che con l’Università è promotrice nell’ambito del
Centro di Documentazione Europea, di questo interessante seminario
e in particolare i saluti dell’Assessore Salvatori che è stato trattenuto da
imprevisti impegni istituzionali ed auguro agli autorevoli relatori e a tutti
i partecipanti buon lavoro per la mattinata di oggi.
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Prof.ssa Daria de Pretis
Professore Ordinario di Diritto Amministrativo
Vice Preside della Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Buongiorno. Porgo, come Vice Preside della Facoltà di Giurisprudenza,
il saluto del Preside - che purtroppo è assente e mi ha pregata di
intervenire in sua sostituzione - e di tutta la Facoltà. Per incarico del suo
Direttore porgo anche il saluto del Dipartimento di Scienze giuridiche, il
quale è coinvolto in primissima istanza in questa interessante iniziativa
che riguarda la tutela del contraente debole nei rapporti d’impresa.
Si tratta di un tema tradizionale che nell’incontro di oggi viene tuttavia
calato dentro ad una prospettiva meno tradizionale, cioè la prospettiva
del rapporto d’impresa, e viene quindi considerato da un angolo visuale
nel quale viene in evidenza, primariamente, il valore del mercato e della
concorrenza. Vi è quindi da risolvere, dentro a questo contesto, lo iato
profondo che si determina fra la concorrenza, da un lato, e l’esigenza di
proteggere, anche in questo ambito, il contraente più debole.
Si tratta quindi una prospettiva particolarmente interessante, nella quale
verranno in evidenza oggi questioni importanti e nuove. Il convegno
costituisce infatti l’approdo di una ricerca cofinanziata dal Miur e
dall’Università di Trento, condotta sotto la responsabilità scientifica del
collega professor Gian Antonio Benacchio ed operativamente effettuata,
sotto la sua direzione, dalla dottoressa Chiara Medici.
Come forse qualcuno di voi già sa, vi sono stati dei problemi logistici,
derivati dai problemi meteorologici di ieri, che hanno impedito la
partenza degli aerei da Roma, con la conseguenza che i relatori romani
che avrebbero dovuto essere con noi, con grande dispiacere loro e
ovviamente anche nostro, non sono riusciti ad essere qui. Tuttavia la
Facoltà di Trento, che ormai non è più così giovane, ha molte forze e
con queste forze credo che il nostro incontro potrà essere condotto
comunque fruttuosamente in porto, con i relatori presenti.
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Concludo, ringraziando la Provincia Autonoma di Trento che supporta
l’iniziativa odierna e tutti i colleghi che hanno contribuito alla sua
realizzazione, in particolar modo Gian Antonio Benacchio e Chiara
Medici, e auguro a tutti un proficuo e buon lavoro.
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Prof. Gian Antonio Benacchio
Professore Ordinario di Diritto Privato Comparato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
Ringrazio il dott. Loner per queste sue parole introduttive, parole
particolarmente significative con le quali egli ha manifestato tutta
l’attenzione e l’interesse che la Pubblica Amministrazione dedica al tema
di questo seminario.
In effetti, parlare di tutela dell’imprenditore debole non vuol dire parlare
solamente di una situazione di “debolezza contrattuale” nei rapporti
tra due imprenditori, situazione che costituisce sicuramente l’ipotesi
più frequente di sudditanza nel mondo imprenditoriale, ma vuol dire
anche parlare di “debolezza contrattuale” nei confronti di altre persone
o soggetti al di fuori del mondo produttivo come, ad esempio, nei
confronti della Pubblica Amministrazione la quale, dovendo tutelare
interessi pubblici e collettivi, è obbligata ad assumere atteggiamenti o
a pretendere determinate condizioni contrattuali che, a volte, possono
mettere in difficoltà la controparte, l’imprenditore, il quale di fronte alla
prospettiva “prendere o lasciare”, è costretto ad accettare, suo malgrado,
le condizioni proposte.
Queste ed altre considerazioni che emergeranno nel corso della
mattinata, sono state alla base dell’idea, nata due anni fa, di svolgere una
ricerca intitolata “La tutela del contraente debole nel diritto comunitario
e nazionale, con particolare riguardo agli strumenti di riequilibrio delle
posizioni contrattuali nei rapporti tra professionisti”, proprio allo scopo di
individuare eventuali strumenti giuridici che possano rimediare ad una
eccessiva sudditanza o inferiorità di una parte nei confronti dell’altra e di
riequilibrare, per quanto possibile, il sinallagma contrattuale.
Grazie al contributo economico del MIUR e al Dipartimento di Scienze
giuridiche dell’Università di Trento, è stato possibile svolgere questo
importante studio, che è stato condotto principalmente da Chiara
Medici, dottoressa di ricerca e assegnista presso il nostro Dipartimento.
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Al presente seminario, dedicato alla presentazione dei risultati della
suddetta ricerca, abbiamo invitato al tavolo dei relatori alcuni docenti
e ricercatori universitari che si dedicano da tempo allo studio di questo
tema, in modo da poter confrontare e discutere i risultati con persone
altamente competenti e qualificate.
Prima di dare la parola ai relatori, volevo sottolineare qualche aspetto
del tema che abbiamo affrontato e in particolare volevo spiegare
il richiamo, contenuto nello stesso titolo della ricerca, al diritto
comunitario. Tale richiamo si giustifica per il fatto che all’esigenza di
una tutela dell’imprenditore debole si è dimostrata particolarmente
sensibile la Comunità Europea; anche se non possiamo dire che tale
esigenza di tutela abbia avuto la sua origine storica nella Comunità,
tuttavia l’impulso e l’iniziativa comunitaria sono stati fondamentali per
lo sviluppo del tema e per la sua evoluzione giuridica.
Penso, in particolare, all’art. 82 del Trattato, articolo nel quale, allo scopo
di garantire il libero gioco della concorrenza sul mercato europeo, viene
vietato e represso “l’abuso di posizione dominante” sul mercato. L’impresa
che, approfittando della sua situazione di dominanza sul mercato, che
di per sé non costituisce alcun illecito, tuttavia ne abusa, cioè ne trae
vantaggi che non derivano esclusivamente da una maggiore o migliore
capacità organizzativa imprenditoriale, viene sanzionata dal diritto
comunitario che reagisce a tale comportamento vietandolo, sancendo la
nullità di eventuali contratti conclusi dall’impresa, comminando sanzioni
pecuniarie.
Penso, inoltre, al fatto che la Comunità Europea si è sempre occupata,
fin dagli anni ’70 del secolo scorso, del contratto di franchising. Essendo
infatti un contratto che, per sua stessa natura, si presta facilmente a
dare vita a situazioni di abuso e di prevaricazione dell’impresa leader nei
confronti del piccolo commerciante o negoziante, la CE ha dettato una
serie di regole molto precise in materia. Tali regole sono poi state alla
base della recente legge italiana sul franchising (l. 6 maggio 2004, n. 129),
che ha utilizzato come modello giuridico, oltre che altri atti in materia a
carattere internazionale come le convenzioni, anche le numerose norme
contenute nei regolamenti, cosiddetti di “esenzione per categoria”,
emanati dalla Commissione europea.
Ricordo, infine, la Direttiva sui ritardi nei pagamenti, n. 2000/35 CE, del
29 giugno 2000, che impone agli Stati di adoperarsi affinché le imprese,
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che propongono pagamenti dilazionati, non ne approfittino imponendo
alla controparte di accettare termini di adempimento eccessivamente
lunghi che potrebbero metterla in difficoltà laddove dovesse subire le
conseguenze della mancanza di liquidità.
Da parte sua il legislatore italiano aveva iniziato ad occuparsi del
tema del contraente debole già nel 1998, con la famosa legge sulla
subfornitura (l. 18 giugno 1998, n. 192), una legge importante e che oggi
sarà sicuramente evocata ed esaminata dai relatori, con tutti gli aspetti
non solo positivi ma anche negativi che essa presenta.
Ricordo poi, sempre a livello nazionale, la citata legge sul franchising, del
2004, ma anche la normativa sui ritardi nei pagamenti (d.lgs. 9 ottobre
2002, n. 231), che ha attuato la citata direttiva del 2001.
In questa materia non abbiamo però soltanto interventi di carattere
normativo, siano essi nazionali che comunitari, ma abbiamo anche
alcune decisioni giurisprudenziali, in particolare della Corte di giustizia,
particolarmente importanti o perché hanno offerto una interpretazione
di alcune norme comunitarie in chiave di tutela dell’imprenditore debole,
o perché si sono dovute misurare con situazioni non espressamente
regolate dalle norme.
Mi limito a ricordare solo una di queste sentenze, la n. 453/99 del 20
settembre 2001 (caso Courage).
La questione riguardava il contratto di vendita e distribuzione stipulato
tra un produttore e un rivenditore di birra che la commercializzava
attraverso una catena di pub e locali pubblici di proprietà del produttore
e dati in locazione al rivenditore stesso che li gestiva direttamente. Nel
contratto veniva determinato sia il prezzo dell’affitto dei locali, sia il
prezzo di acquisto della birra, prezzo vincolato per un certo periodo di
tempo.
Sennonché, dopo alcuni mesi, il gestore dei locali si rese conto che il
prezzo di acquisto della birra era molto più elevato rispetto al prezzo
praticato agli altri rivenditori dal medesimo produttore. Di conseguenza
egli era costretto a praticare un prezzo al pubblico troppo elevato per
essere sufficientemente remunerativo, con l’ulteriore conseguenza di
una diminuita capacità concorrenziale nei confronti dei suoi colleghi
titolari di analoghi locali.
Il giudice inglese, al quale il commerciante si rivolse per chiedere sia
il risarcimento del danno al produttore di birra, sia l’annullamento del
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contratto dal momento che esso violava l’art. 81 del trattato CE sul divieto
di accordi restrittivi della concorrenza, si trovò in grossa difficoltà perché
anche in Inghilterra (come del resto in Italia) vige il principio generale in
base al quale chi stipula un contratto nullo per violazione di una legge
non può poi lamentarsi e chiedere allo stesso contraente il risarcimento
dei danni.
Date queste incertezze, il giudice inglese decise di sospendere il
procedimento e di rivolgersi alla Corte di giustizia per chiedere se
il principio vigente in Inghilterra fosse conforme al trattato CE. La
risposta della Corte di giustizia fu netta e precisa, in quanto affermò che,
almeno per quanto riguarda l’ambito della tutela della concorrenza,
quel principio non avrebbe potuto trovare applicazione. In altre parole,
un’impresa, parte di un accordo che viola la concorrenza, sia che tale
accordo ricada nel divieto dell’art. 81 (cartelli tra imprese) sia che ricada
nell’art. 82 (abuso di posizione dominante), può sempre chiedere alla
controparte il risarcimento dei danni, anche se ha stipulato il contratto
con la consapevolezza della sua contrarietà alle norme comunitarie sulla
concorrenza.
Secondo la Corte di giustizia tale soluzione permetterebbe di dare
maggiore efficacia alle norme sulla concorrenza nel senso che, se non
fosse ammissibile il risarcimento del danno a favore della stessa parte
che ha concluso il contratto, la funzione deterrente del risarcimento del
danno verrebbe meno o verrebbe alquanto limitata.
A dire il vero la sentenza non aveva avuto per obiettivo quello di tutelare
l’imprenditore debole, bensì quello di assicurare il rispetto delle regole
della concorrenza e rendere più efficiente il sistema. Ma è chiaro che,
indirettamente, sulla base di quel principio formulato dalla Corte, ne
risulta tutelato anche l’imprenditore debole: a seguito della decisione
Courage, infatti, qualunque imprenditore che stipuli un contratto che
viola la concorrenza, e in particolare gli articoli 81 oppure 82 del trattato,
potrà chiedere non solo l’annullamento del contratto ma anche il
risarcimento del danno se dimostra che la controparte ha approfittato
della sua maggiore forza contrattuale.
Ciò significa, allora, che insieme all’espresso divieto di concludere contratti
con i quali si “abusa” della propria posizione dominante sul mercato e
alle conseguenti sanzioni di natura pecuniaria, possono coesistere anche
altri sistemi per tutelare la parte debole al di la dell’intervento legislativo
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diretto, intervento che non sempre si dimostra efficace. Pensiamo ad
esempio, alla legge italiana sulla subfornitura la quale afferma che se
il contratto non rispetta determinate condizioni, è nullo. Ma si tratta
davvero di un modello efficiente? Siamo certi che il soggetto debole,
dopo avere stipulato un contratto contenente clausole in contrasto
con la legge sulla subfornitura si rivolgerà alla magistratura citando in
giudizio l’impresa? Siamo certi che questo sistema può funzionare in un
mercato nel quale, se mi rivolgo alla magistratura, non solo non riuscirò
più a stipulare contratti con quella stessa impresa ma corro il rischio di
subire quella che si potrebbe definire una specie di “sanzione sociale” da
parte delle altre imprese che appartengono alla stesso settore produttivo
dell’impresa che io ho denunciato?
Quindi non sempre l’intervento legislativo è auspicabile; a volte
l’intervento legislativo, quando è troppo invasivo, rischia addirittura
di essere controproducente e, talvolta, anche dannoso. Ad esempio, è
proprio di due settimane fa una sentenza della Corte di giustizia la quale,
nel campo della tutela del consumatore inteso come contraente debole,
afferma per la prima volta il principio in base al quale una clausola che è
da considerare abusiva, ai sensi della direttiva 93/13, deve essere rilevata
d’ufficio dal giudice, anche se nessuna delle parti, e quindi lo stesso
consumatore, abbia sollevato la questione.
A mio parere questa soluzione fa sorgere forti perplessità perché il
consumatore, anche se parte debole, può avere mille motivi per non
vedersi annullato il contratto, e mantenerlo invece in vigore nonostante
l’esistenza di una clausola a lui sfavorevole e quindi potenzialmente
invalida. Fatto sta che questa è la soluzione che ha dettato la Corte di
giustizia e che sarà vincolante per tutti i giudici italiani ed europei i quali,
di fronte ad una clausola abusiva in un contratto tra un imprenditore
e un consumatore, non potranno più non rilevare d’ufficio tale nullità,
anche se la parte interessata non l’ha fatta valere.
Uno dei problemi che oggi potrebbe emergere dalle relazioni, è
proprio quello che riguarda il seguente dilemma: fino a che punto
bisogna spingersi per tutelare la parte più debole? Fino a che punto
è da considerare debole una parte? Fino a che punto lo Stato può o
deve intervenire per riequilibrare la posizione contrattuale tra due
imprenditori?
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Non condivido la giustificazione anti-interventista che qualcuno
propone, secondo me in modo un po’ anacronistico, fondata sulla
considerazione che il contratto è pur sempre espressione di un libero
accodo tra le parti e che bisogna salvaguardare il principio della libertà
contrattuale. Questo è vero fino a un certo punto perché non si può
negare che talvolta, in realtà, tale volontà se non è proprio viziata, cioè
affetta da errore o violenza, quanto meno è una volontà pesantemente
condizionata dalla forza dell’altra parte o dalla necessità di stipulare un
contratto per evitare problemi maggiori alla propria azienda (necessità
di far fronte ad impegni economici con altre controparti, necessità di
avere a disposizione liquidità per pagare il personale ecc.). Quindi, se
non proprio viziata, la volontà può essere fortemente condizionata.
A mio avviso si dovrebbe, invece, ricercare e valorizzare alcuni rimedi che,
pur salvaguardando la libertà contrattuale, possano non tanto favorire
un riequilibrio contrattuale quanto disincentivare un imprenditore ad
abusare della maggiore forza contrattuale o a violare le regole della
concorrenza, limitando al tempo stesso l’intervento autoritativo statale.
Come abbiamo accennato sopra, non sempre i rimedi più adatti sono
quelli che attribuiscono ad una norma la funzione sanzionatoria, ma ci
potrebbero essere altri sistemi per i quali varrebbe la pena di dedicare
qualche riflessione.
Per esempio, oltre alla soluzione suggerita dal citato caso Courage, si
potrebbe approfondire anche l’ipotesi che sia un cittadino, anziché uno
degli imprenditori coinvolti nell’accordo anticoncorrenziale, a rivolgersi
al giudice per chiedere i danni conseguenza dell’accordo medesimo,
lesivo della concorrenza, facendo così emergere e sanzionare tale
comportamento. Infatti, molto spesso l’imprenditore debole, costretto
a subire le conseguenze economiche della sua limitata od inferiore
capacità contrattuale e quindi costretto a stipulare un contratto a
condizioni poco remunerative, tenderà a recuperare tale maggior onere
economico riversandolo sul contraente finale, aumentando dunque il
prezzo del prodotto o del servizio. Se al cittadino viene concesso il diritto
di agire, nei confronti delle imprese che hanno partecipato all’accordo
lesivo della concorrenza, per chiedere il risarcimento del danno che egli
ha subito, potrebbe questo costituire un ulteriore strumento volto a
disincentivare sia accordi fraudolenti sia accordi che comportano l’abuso
di una più forte posizione contrattuale?
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Ma a questo punto mi fermo, chiudo la mia presentazione del seminario
e lascio la parola alla professoressa Pasquino che si è prestata a
coordinare la discussione della giornata, augurando un buon lavoro a
tutti i partecipanti.
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Prof.ssa Teresa Pasquino
Professore Associato di Istituzioni di Diritto Privato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
INTRODUZIONE AL CONVEGNO
LA TUTELA DEL CONTRAENTE DEBOLE
NEI RAPPORTI TRA IMPRESE
Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per l’opportunità che mi
viene data di coordinarne i lavori e mi compiaccio per la sicura rilevanza
dell’iniziativa.
Per affrontare compiutamente il tema di questo incontro, appare utile
prendere le mosse dall’indagine volta a rinvenire nel nostro sistema del
diritto generale dei contratti una nozione di parte contraente debole.
E’ agevole, al riguardo, rilevare come, prima dell’introduzione nel nostro
sistema del diritto dei contratti dei consumatori, né nelle norme dedicate
al contratto in generale, contenute nel Codice civile, né in quelle, di
volta in volta, contemplate nelle leggi speciali fosse possibile trovare
traccia della locuzione parte contraente debole : tutt’altro, il concetto di
parte del contratto è stato sempre tenuto scevro da qualsiasi connotato
soggettivo, assumendo, invece, esclusivo rilievo il riferimento alla parte
del contratto come centro di imputazione degli interessi perseguiti.
Secondo una impostazione tradizionale, le parti, in quanto centri di
imputazione di interessi concreti, in ossequio al principio dell’autonomia
contrattuale sancito nell’art. 1322 c.c., sono gli unici artefici dell’assetto
che il regolamento contrattuale deve raggiungere per il perseguimento
del risultato economico-sociale che esse si sono prefissate, a prescindere
da qualsiasi considerazione circa la giustizia o l’equità dello scambio,
con i soli limiti rappresentati dal perseguimento di interessi meritevoli di
tutela secondo l’ordinamento giuridico ed entro i margini della lesione
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ultra dimidium, la quale darebbe luogo alla rescissione del contratto.
Neppure nell’ambito della disciplina dedicata alle Condizioni generali di
contratto all’interno del Codice civile si è avuta attenzione e si è posto
il problema di fornire tutela ad una parte contraente debole; tutt’altro,
nell’ambito della contrattazione di massa, con gli artt. 1341 e 1342 c.c. si
è inteso piuttosto dare seguito al bisogno di assicurare l’uniformità del
contenuto del contratto, in considerazione delle difficoltà di instaurare
trattative con tutti i possibili contraenti e dell’esigenza di semplificare
l’organizzazione e la gestione delle imprese. Il che equivale a dire che si è
voluto tenere in considerazione piuttosto la tutela del contraente forte.
Prova ne è il rimedio, di carattere meramente formale, apprestato
nell’interesse dell’aderente e consistente nella declaratoria della
inefficacia e/o nullità delle clausole non conosciute o non conoscibili e
di quelle vessatorie in mancanza di esplicita approvazione per iscritto;
maggior prova, è l’abuso che di tale tutela meramente formale hanno
fatto proprio i contraenti forti.
Questi brevi riferimenti per ribadire che nel nostro sistema, per poter
considerare la rilevanza del concetto di parte contraente debole, si è
dovuto attendere il recepimento della normativa comunitaria emanata
a tutela del consumatore; peraltro, con la dovuta precisazione che né il
diritto comunitario in materia di tutela del consumatore né la relativa
legislazione di attuazione si sono spinti fino al punto di dare ingresso
e rilevanza esplicita al concetto di parte contraente debole, optando,
in senso più o meno consapevolmente contrario, per una nozione
di contraente debole esclusivamente circoscritta e quasi riservata al
consumatore, soggetto persona fisica che agisca per scopi del tutto
estranei allo svolgimento della sua attività.
Da qui la questione, che si è immediatamente posta in dottrina ma che si
è autorevolmente affrontata anche in giurisprudenza, della possibilità di
estendere tale nozione e, dunque, la particolare tutela ad essa ricollegata,
anche a soggetti dell’ordinamento diversi dai consumatori.
Il dibattito sul punto è ancora oggi nel vivo della discussione.
Dal canto suo, la giurisprudenza, a qualsiasi livello, appare attestata su
posizioni rigide ed opera una interpretazione delle norme nel senso di
escluderne una interpretazione estensiva. E, tuttavia, non senza qualche
contraddizione : come si può rinvenire, infatti, nella sentenza della Corte di
giustizia europea del 22 novembre 2001 (C-541/99 e C-542/99), laddove,
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dopo aver espressamente escluso che un soggetto diverso da una
persona fisica non può essere considerato consumatore, in parte motiva,
riconosce testualmente che “la legislazione è finalizzata a proteggere la
parte contraente più debole”. Analogamente, qualche riserva è possibile
avanzare con riguardo alla sentenza n. 469 del 22 novembre 2002 con
cui la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità
della questione di legittimità dell’allora art. 1469 bis c.c. (ora art. 33 del D.
Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), ritenendo che la nozione di consumatore,
riservata esclusivamente alla persona fisica e non anche alle piccole
imprese ed a quelle artigiane, non fosse in contrasto con gli artt. 3, 35 e
41 della Costituzione, ma valutando ragionevole la scelta restrittiva del
legislatore sulla base della mancanza della necessaria competenza per
negoziare : il che può essere comune anche ad un soggetto diverso dalla
persona fisica.
In buona sostanza, pur rinvenendo la ratio obiettiva della legislazione
consumeristica nella mancanza della competenza per negoziare, il che
si traduce in uno squilibrio di diritti e di obblighi in seno al contratto, la
giurisprudenza omette di compiere l’ulteriore passaggio che imporrebbe
l’art. 12 delle Disp. sulla legge in generale, il quale, dinanzi alla identità
di ratio, obbliga il giudice a ricorrere all’applicazione analogica della
disciplina esistente.
Sarebbe, allora, più utile ed opportuno - al fine di rinvenire anche
in soggetti diversi dalle persone fisiche la parte contraente debole spostarsi dall’ambito soggettivo a quello obiettivo, avendo maggiore
riguardo al profilo funzionale dell’operazione contrattuale, in modo tale
da consentire un tipo di valutazione delle norme di tutela riservata ai
consumatori alla stregua della disciplina dell’atto di consumo nonché
come norme ordinamentali dei cc.dd. mercati finali, vale a dire, come
disciplina volta a restituire trasparenza ed equilibrio all’interno delle
relazioni contrattuali espresse da quei mercati.
Una tale impostazione potrebbe condurre l’interprete ad una più agevole
interpretazione estensiva della disciplina dei contratti dei consumatori
anche al sistema dei contratti tra imprese, posto che con riguardo a tali
rapporti contrattuali entrano in giuoco non solo asimmetrie informative
ma anche altre forme di squilibrio di potere, che non è solo squilibrio
sinallagmatico, disparità di diritti e di obblighi, ma anche e soprattutto
disparità di potere economico .
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Soccorre all’assenza di tale forma di attività ermeneutica una normativa
specialistica di settore con cui il sistema ha visto colmare talune sue
lacune ma che non ha mancato di aprire nuovi dibattiti : ad essi è dedicata
l’apertura dei nostri lavori, sicché, ringrazio tutti dell’attenzione che mi
avete riservata e cedo volentieri la parola ai relatori qui convenuti per gli
approfondimenti del tema che oggi affrontiamo.
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Prof. Roberto Caso
Professore Associato di Diritto Privato Comparato
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
LUCI ED OMBRE DELLA LEGGE SULL’ABUSO
DI DIPENDENZA
ECONOMICA E SULLA SUBFORNITURA INDUSTRIALE
1. Introduzione
Ieri cercavo una frase che racchiudesse il senso della legge sull’abuso
di dipendenza economica e sulla subfornitura industriale e l’ho trovata
– non me ne vergogno – in uno dei più celebri fumetti di Stan Lee: “da un
grande potere derivano grandi responsabilità”1. Cosa c’entra Spider-man
con le relazioni contrattuali della subfornitura industriale? Probabilmente nulla, ma rimaneggiando quel facile motto possiamo forse ritrovare le
ragioni che hanno innescato il processo normativo esitato nell’emanazione della legge 18 giugno 1998, n. 192, recante “disciplina della subfornitura nelle attività produttive”. “Da un abuso di potere negoziale devono
derivare – anche nei rapporti tra imprese – responsabilità contrattuali o
extracontrattuali”. Si tratta di uno slogan che, per il suo inciso: “anche nei
rapporti tra imprese”, sarebbe apparso scandaloso fino a pochi anni fa.
Perché scandaloso? La risposta a tale quesito riecheggiava in alcune parole degli autorevoli relatori che mi hanno preceduto.
Il sistema del nostro codice civile e più in generale sistema tradizionale del nostro diritto privato non conosceva strumenti pe1
La frase chiude il primo episodio del numero 1 della serie dei fumetti di Spider-man
ed è ripresa nel film di Sam Raimi che ne costituisce la trasposizione cinematografica.
La didascalia, nella versione italiana, così recita: “così, una magra, silenziosa figura si
perde nella notte, conscia, infine, che da un grande potere derivano grandi responsabilità!”.
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netranti di tutela dell’impresa “debole” sul piano contrattuale.
Se l’approccio tradizionale era quello corretto, la legge sull’abuso di dipendenza economica e sulla subfornitura industriale – o meglio, sulle
relazioni contrattuali di subfornitura industriale – deve essere giudicata
come un salto nel buio. Se, invece, l’approccio tradizionale si caratterizzava per una (grave) lacuna, allora si può convenire che la medesima
legge – di là dalle evidenti imperfezioni rinvenibili nella sua struttura e
nella tecnica di redazione delle norme – punta nella direzione corretta.
Personalmente mi schiero con forza a favore della seconda posizione.
Per provarne i motivi, ritengo utile ripercorrere le tappe che hanno condotto ad un intervento legislativo sulla disparità di potere contrattuale
nelle relazioni tra imprese, intervento che ha dato l’abbrivio a quella che
oramai appare (anche su scala europea) una tendenza inarrestabile. Solo
questo esercizio retrospettivo può rendere l’idea di come sia stato possibile un improvviso balzo in avanti (non un salto nel buio) su un terreno
così delicato qual è il diritto dei contratti tra imprese. Un terreno che tradizionalmente è riconosciuto essere quello di massima elezione del brocardo codicistico in base al quale “il contratto ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 del codice civile). Guai, insomma, a metter mani nell’assetto
giuridico ed economico disegnato in conseguenza del ruvido, ma sano,
confronto negoziale tra le imprese parti dell’accordo e della relazione.
La storia delle vicende che hanno condotto all’approvazione della legge n. 192 del 1998 (e delle sue successive modifiche) è
una storia in (gran) parte italiana, ma in parte anche europea.
Italiana infatti era la spinta che premeva per la normazione delle relazioni tra imprese con differente potere contrattuale. Italiana è la conclusione. Come molte storie di casa nostra, essa non ha – almeno per ora – un
lieto fine. Se l’intento della legge era quello di dare tutela all’impresa
“debole”, occorre constatare che – dopo quasi dieci anni dall’approvazione della legge e pur nell’assenza di affidanti verifiche empiriche a
largo raggio – l’impatto sembra modesto, per non dire assolutamente
deludente. Un indice di questa impressione proviene dagli esiti delle
poche pronunce giurisprudenziali basate sulla legge n. 192 del 1998.
Ma anche una storia europea, se è vero, come è vero, che la spinta a
legiferare operava parallelamente a livello comunitario ed avrebbe portato all’emanazione della direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000, relativa “alla
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lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Cercherò di dare ordine alla mia narrazione ed al mio ragionamento.
Prenderò le mosse dal grido di dolore che si levava dalle associazioni
delle piccole e medie imprese italiane, le quali denunciavano il problema dell’abuso di potere contrattuale nelle relazioni di subfornitura industriale (paragrafo 2). Dimostrerò poi che, se correttamente formulato,
il problema dell’abuso di potere contrattuale nelle relazioni tra imprese trova un solido fondamento nell’analisi economica (paragrafo 3). Se,
tuttavia, si può registrare un diffuso consenso sul fondamento teorico
del problema dell’abuso di potere contrattuale (o meglio, dell’abuso di
dipendenza economica), le posizioni degli economisti e dei giuristi (o dei
giureconomisti) sulle soluzioni del problema sono numerose e assai differenziate. Proverò quindi a spiegare come le imperfezioni nell’impianto
e nella formulazione delle norme derivino per un verso dalle difficoltà
teoriche alle quali si è accennato da ultimo, e per l’altro dai limiti intrinseci dell’attuale meccanismo di produzione delle leggi (paragrafo 4). Mi
soffermerò (paragrafo 5), prima di chiudere con alcune considerazioni
conclusive (paragrafo 6), su quella che a me appare l’esatta interpretazione della legge e sulle ragioni (e sulle differenti interpretazioni) che
hanno condotto ad una sostanziale disapplicazione della stessa.
2.
Il problema dell’abuso di potere contrattuale nelle relazioni
di subfornitura industriale
A partire dai primi anni ’80 del secolo scorso inizia a levarsi il grido di
dolore delle associazioni delle piccole (micro) e medie imprese italiane,
quelle piccole e medie imprese che costituiscono il nerbo del sistema
produttivo italiano ed in particolare dei nostri gloriosi distretti industriali. Il grido di dolore è una richiesta di intervento giuridico sui contratti
di subfornitura industriale. In buona sostanza, si chiede allo Stato – “al
braccio violento della legge” – di sanzionare l’abuso di potere contrattuale che si assume perpetrato dal “committente” in danno del “subfornitore”, (presunta) parte debole del contratto.
La richiesta di intervento giuridico scontava una lampante semplificazione. Chiunque abbia frequentato le pagine degli economisti sa che il
medesimo fenomeno si presenta assai complesso e frastagliato.
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In estrema sintesi, la subfornitura industriale è quella relazione contrattuale che costituisce l’anello di congiunzione tra imprese a appartenenti
a differenti stadi del processo di produzione manifatturiera2. Il prefisso
“sub” ha poco o nulla a che fare con l’istituto giuridico del “sub-contratto”3. Il “committente” predispone le specifiche tecniche, sulla base delle quali il “subfornitore” realizza, talvolta grazie alla propria tecnologia
e capacità di progettazione, prodotti o servizi destinati ad inserirsi nel
processo produttivo del committente. Nel gergo della prassi e nel lessico degli economisti il prefisso “sub” vuole evocare il fatto che l’impresa
subfornitrice si colloca non sul mercato dei prodotti finiti, ma su quello
(inferiore) dei prodotti intermedi4.
Dunque è già la parola “subfornitura” a segnalare la particolarità di un
mercato – quello dei prodotti intermedi, appunto – il quale può presentare una struttura piramidale fatta di tanti gradini, cioè di tanti stadi del
processo produttivo. Da questa osservazione discende una serie di conseguenze le quali svelano la semplificazione della formula “subfornitore
= parte debole della relazione”. Infatti, nella struttura a strati tipica dei
mercati della subfornitura, un’impresa può rivestire contemporaneamente il ruolo del committente (nei confronti del partner contrattuale
collocato sullo stadio inferiore del processo produttivo) ed il ruolo di
subfornitore (nei confronti del partner contrattuale collocato sullo stadio superiore del processo produttivo). Peraltro, il livello dello stadio del
processo produttivo influisce – si avrà modo di chiarirlo più avanti – sul
potere contrattuale dell’impresa.
Inoltre, gli economisti propongono numerose classificazioni le quali
sono accumunate dall’intenzione di mostrare il carattere proteiforme
della subfornitura. Ad esempio, la distinzione tra “subfornitura di capacità” e “subfornitura di specialità”.
2
3
4
Sulle relazioni contrattuali di subfornitura industriale nella prospettiva dell’analisi
economica del diritto v. R. CASO, Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale
- Modelli economici e regole giuridiche, Trento, 2000, ristampa digitale, Trento, 2006,
scaricabile all’URL: http://www.jus.unitn.it/users/caso/pubblicazioni/subfornitura/
download.asp
L’equivoco terminologico fu denunciato per tempo da R. PARDOLESI, Subfornitura industriale e diritto: un rapporto difficile, in L’artigianato nell’economia e sul territorio, Analisi
delle tendenze evolutive, GOBBI U. cur., I, Roma, s.d., ma 1985, 133.
V. CASO, Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale - Modelli economici e regole giuridiche, cit., 46.
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Tirando le somme di questa rapidissima incursione nell’analisi economica del fenomeno, si può dire che la subfornitura industriale copre un
ventaglio di relazioni che va dalla relazione di alto profilo, governata da
documenti scritti e nella quale può essere addirittura il subfornitore a
dettare la “legge” del rapporto, alla relazione totalmente deformalizzata
nella quale il potere del committente si manifesta a partire dalla negazione di un contratto scritto. In mezzo a questi due antipodi c’è la realtà
complessa e frastagliata dei mille volti della subfornitura industriale.
Ciò però non significa che il grido di dolore fosse scollato da una porzione estesa ed importante della realtà della subfornitura. Per quella
porzione del fenomeno effettivamente caratterizzata dalla disparità di
potere contrattuale, la richiesta di intervento giuridico coglieva nel segno e poteva poggiare – come mi accingo a dimostrare nel prossimo
paragrafo – su solide basi teoriche.
3.
Le basi teoriche di un intervento giuridico sull’abuso di potere contrattuale nelle relazioni tra imprese
Il differenziale di potere negoziale è l’anima del contratto. In altre parole,
in ogni contratto c’è la parte “debole” e quella “forte”. Il problema sorge
solo quando la disparità di potere mina il corretto funzionamento del
contratto (e del mercato) e l’allocazione efficiente delle risorse. Ne sono
prova le relazioni verticali tra imprese, cioè le relazioni tra imprese che si
collocano su differenti stadi del processo di produzione e distribuzione.
D’ora in poi farò riferimento alle relazioni di subfornitura intese nel significato definito dal procedente paragrafo. Tuttavia, il discorso può essere
esteso, con le necessarie puntualizzazioni, ad altra tipologia di relazioni
verticali come i contratti di distribuzione (ad esempio, il franchising).
Tra imprese industriali collocate su differenti livelli del processo produttivo si instaurano sovente relazioni con disparità di potere contrattuale.
Gli economisti, per la verità, parlano di potere di mercato (inteso in un
senso diverso dall’accezione tradizionale che identifica il potere di mercato con quello monopolistico) pervasivo o di dipendenza5. È ovvio che
ciascun concetto è lo specchio dell’altro: il potere esiste perché c’è la
5
V. B. KLEIN, R. CRAWFORD, A. ALCHIAN, Vertical Integration, Appropriable Rents, and the Competitive Contracting Process, 21 J. Law & Econ. 297 (1978).
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dipendenza e viceversa. I fattori che conducono alla dipendenza ed ai
comportamenti opportunistici che su di essa si basano sono molteplici.
Se ne possono evidenziare i più rilevanti con qualche esempio.
Il subfornitore “A” vuole instaurare una relazione contrattuale con il
committente “B”. Per raggiungere lo scopo può essere opportuno (cioè,
efficiente) che “A” collochi il proprio impianto produttivo nelle vicinanze
di “B”, unico committente nella zona per il tipo di produzione oggetto
dell’accordo. In altra ipotesi, può essere indispensabile per il raggiungimento dell’accordo che “A” acquisti un sofisticato macchinario e assuma
operai specializzati in modo da poter effettuare la produzione di una
componente che risponda alle specifiche di “B”. Una volta concluso l’accordo “A” si trova “incastrato” (c.d. effetto di lock-in) nella relazione con
“B”, poiché ha effettuato investimenti specifici o idiosincratici (cioè non
riconvertibili). Se “B” ha potere contrattuale, cioè dispone almeno potenzialmente di subfornitori alternativi e non è perciò a sua volta dipendente da “A”, troverà attraente ricattare “A” e spuntare un vantaggio economico rinegoziando i termini dell’accordo iniziale (nel caso più banale, il
prezzo dei prodotti di “A”). In altri termini, il ricatto (hold-up) spiana la
strada all’appropriazione della parte di surplus generata dall’affare (in
termini più precisi, delle quasi-rendite) che spetterebbe a controparte.
Il subfornitore, infatti, pur di non veder sfumare l’intero valore dell’investimento effettuato in vista della prosecuzione della relazione, accetterà
di cedere parte del proprio guadagno atteso. Ciò rappresenta una prima forma di comportamento opportunistico. Ma quest’ultimo può assumere anche sembianze diverse. In un diverso scenario economico, il
committente “B” può giudicare non appetibili le risorse (appropriabili) di
“A” e più conveniente spostarsi su un’altra relazione di subfornitura. In
questo caso, “B” semplicemente interromperà (senza preavviso) la relazione con “A”. Gli esempi potrebbero essere resi in forma numerica, ma
la sostanza del ragionamento non cambierebbe.
Si noti che entrambe le ipotesi di comportamento opportunistico rappresentano per “A” un costo. Il costo è rappresentato da quella parte di
investimenti specifici che, per ragioni di tempo, non sono stati ancora
ammortizzati. La dipendenza economica è quindi strettamente legata
alla specificità dell’investimento. Più in chiaro: la presenza di investimenti specifici basta a radicare una situazione di dipendenza economica.
A questo punto occorre sottolineare un altro passaggio cruciale dell’ana- 26 -
lisi del concetto di dipendenza. Esiste una relazione tra grado di specificità degli investimenti e durata (attesa) della relazione contrattuale. Più
aumenta il grado di specificità più cresce la durata attesa della relazione
contrattuale6. Il paradosso è che in molti casi esiste anche la relazione
inversa, nel senso che il prolungamento della relazione è di per sé causa
della crescita di investimenti specifici. Si pensi agli investimenti in termini di capitale umano ed in particolare all’apprendimento in corso d’opera o allo sviluppo di linguaggi specializzati.
Il fatto che la relazione duri da tempo o la circostanza che le parti abbiano programmato un rapporto di medio o lungo periodo può essere
quindi una spia della presenza di investimenti specifici e di dipendenza.
Investimenti specifici e durata (pregressa o programmata) della relazione sono gli ingredienti di base della dipendenza economica.
Un ulteriore e distinto (anche se connesso) elemento utile a valutare una
situazione di dipendenza è quello dei costi di commutazione o di riconversione (switching costs) sopportati (o potenzialmente sopportabili)
dall’impresa che, a seguito del comportamento opportunistico di controparte, si sposti (o intenda spostarsi) su un’altra relazione contrattuale7. Essi comprendono – oltre ai costi di riconversione degli investimenti specifici relativi alla precedente relazione – i costi della ricerca di un
partner alternativo, i costi di negoziazione in vista della nuova relazione,
etc.
Tuttavia, la realtà è molto più complessa e variegata. Lo dimostra l’analisi
delle relazioni di subfornitura industriale. Anche l’asimmetria informativa (riguardo, ad esempio, al know-how tecnologico o all’andamento
del mercato finale) può essere un elemento utile a comprovare uno
stato di dipendenza economica. Un altro indice di dipendenza di un’impresa subfornitrice può essere rappresentato dalla concentrazione del
proprio fatturato verso pochi committenti o, nel caso limite, di un solo
committente (c.d. monocommitenza). Ancora. Un ulteriore elemento
utile al riconoscimento di una situazione di dipendenza scaturisce dall’individuazione del livello del processo produttivo sul quale si colloca la
6
7
V. O.E. WILLIAMSON, Transaction Cost Economics: The Governance of Contractual Relations,
22 J. Law & Econ. 233 (1979).
Sulla nozione di switching costs V. P. KLEMPERER, Competition when consumers have
switching costs: an overview with applications to industrial organization, macroeconomics and international trade, 62 Review of Economic Studies 515 (1995).
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relazione di subfornitura. In linea di massima, le relazioni collocate sullo
stadio produttivo più lontano dal prodotto finito vedono i subfornitori
in una posizione di minore potere contrattuale, per le relazioni collocate
sullo stadio produttivo più vicino al prodotto finito è vero il contrario8.
Torniamo ora al concetto di comportamento opportunistico. Una parte
consistente dell’analisi economica sostiene che le condotte predatorie
sopra descritte non si limitano spostare ricchezza (cioè, a determinare
effetti redistributivi) dall’impresa che subisce il comportamento opportunistico a quella che lo mette in atto, ma lanciano altresì segnali poco
rassicuranti al resto del mercato. In altri termini, tali condotte compromettono il buon funzionamento (e l’efficienza) del mercato concorrenziale, poiché disincentivano gli investimenti ottimali ed i comportamenti
cooperativi (e dunque costituiscono, dal punto di vista giuridico, un abuso, cioè un illecito). Più in generale, si può affermare che gli spostamenti
di ricchezza determinati dai comportamenti opportunistici si muovono
fuori dal fisiologico funzionamento del mercato, anzi rappresentano
un’ipotesi evidente – in quanto agli stessi spostamenti non corrisponde
mai il pagamento di un prezzo – di fallimento del mercato (market failure). Se questo è il quadro (semplificato oltre ogni dire) teorico di base9, è
ora utile chiedersi quale può essere lo scenario contrattuale nel quale si
riflettono situazioni di dipendenza economica e condotte abusive.L’impresa con potere di mercato (o, se si preferisce, con potere contrattuale)
dispone principalmente di due tattiche abusive.
Nella prima tipologia, essa può decidere di tradurre per iscritto (cioè di
formalizzare in un contratto) il suo maggior potere, imponendo clausole vessatorie (o, per dirla con l’art. 9 l. 192/98, “condizioni ingiustificatamente gravose”). Queste ultime assumeranno solitamente i seguenti
contenuti:
a) potere unilaterale di modifica del contratto;
b) recesso senza obbligo di preavviso;
c) ribaltamento senza corrispettivo di determinati costi su controparte
(l’esempio paradigmatico nel campo della subfornitura è rappresentato dalla dilatazione esasperata dei termini di pagamento). In alternativa,
8
9
Sul punto v. CASO, Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale - Modelli economici e regole giuridiche, cit., 54 ss.
Per approfondimenti v. A. NICITA, V. SCOPPA, Economia dei contratti, Roma, 2005, 195 ss.
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la parte con (maggior) potere contrattuale può decidere di far leva su
“un’incompletezza contrattuale volontaria”10, evitando di formalizzare
un impegno di lungo periodo e lasciando alle vie di fatto l’attuazione
delle condotte abusive: ad esempio, mancato rinnovo del contratto (per
dirla con l’art. 9 l. 192/98, “interruzione arbitraria delle relazione commerciali”), o ritardo di pagamento. Questa, dunque, è la galleria degli
orrori contrattuali e non (nel senso che alcune condotte si collocano
fuori del tracciato del contratto, inteso nel senso giuridico del termine,
e sconfinano nel terreno extracontrattuale). Fermiamoci un attimo. Occorre rilevare che sui punti appena messi in evidenza si registra un’ampia (anche se non unanime) convergenza di vedute. In altri termini, le
teorie dell’hold-up, della dipendenza economica e dei comportamenti
opportunistici sono pane quotidiano dell’analisi economica (in particolare, dell’analisi dei costi di transazione) che poggia le sue fondamenta
sui lavori pioneristici del premio Nobel Ronald Coase11. In altri termini,
il problema dipendenza economica nei contratti tra imprese oramai
è stato messo a fuoco e metabolizzato nei suoi lineamenti essenziali.
Il versante sul quale si segnala una notevole disparità di vedute è invece quello della soluzione del problema. Si discute se sia
opportuno un intervento giuridico statale (cioè basato sulla legge e sui suoi meccanismi di applicazione). Anche chi ritiene opportuno un intervento giuridico statale discute su come disegnarlo12.
Sul primo fronte di discussione si può rilevare quanto segue. Sebbene si
possa convenire sulle ragioni di fondo che conducono alla condanna del
centralismo della legge assumendo come erronea la comune presupposizione in base alla quale il sistema delle corti statali può agire senza costi e con piena informazione. Non si può abbracciare la conclusione che
vede sempre nelle norme sociali e negli effetti di reputazione (in buona
sostanza, nel mercato stesso) la soluzione al fallimento di mercato innescato dai comportamenti opportunistici basati sulla dipendenza econo10 Nel testo volutamente si forza la nozione di incompletezza contrattuale. Su tale nozione e sulle implicazioni in materia di diritto dei contratti v. G. BELLANTUONO, I contratti
incompleti nel diritto e nell’economia, PADOVA, 2000.
11 Il riferimento è in particolare a R. H. COASE, The Nature of the Firm, 4 Economica (n.s.)
386 (1937).
12 Per approfondimenti v. CASO, Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale Mmodelli economici e regole giuridiche, cit., 69 ss.
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mica. Ad esempio, è possibile riscontrare condotte opportunistiche per
sino nei contesti imprenditoriali che tradizionalmente sono caratterizzati da un elevato tasso di coesione sociale e di comportamenti cooperativi
(come i gruppi di subfornitura giapponesi ed i distretti industriali italiani).
Sul secondo fronte di discussione occorre osservare che l’intervento giuridico rischia di essere poco efficace, se non si tengono
a mente (almeno) i seguenti dati di fatto.
Il principale ostacolo ad una regolamentazione (in particolare, quella di
taglio privatistico) è rappresentato dalla scarsa propensione da parte di
chi subisce l’abuso ad affrontare a viso aperto (cioè davanti ad un tribunale) la controparte, poiché un tale gesto rappresenterebbe la chiusura
definitiva di future prospettive d’affari con quel (pur inaffidabile) partner.
Inoltre, se è in qualche modo possibile definire l’abuso di potere contrattuale, è assai più difficile riconoscerlo e provarlo nei fatti. Infatti, un’ampia fascia di relazioni non si traduce – anche per
i comportamenti opportunistici evidenziati – in contratti scritti.
L’indicazione di massima, che si può trarre dall’analisi economica, è
quela di conferire al decisore istituzionale la concreta possibilità di intervenire sulla relazione contrattuale e, nel contempo, di evitare l’introduzione di regole che creino rendite di posizione, i cui effetti indotti
sarebbero, inevitabilmente, perversi e controproducenti per le stesse imprese potenzialmente vittime degli abusi. D’altra parte, il rischio
di innalzamento dei costi di transazione – intesi in senso lato, ovvero
come comprensivi dei costi per amministrare le controversie –, che
una tale politica reca con sé, si giustifica con l’obiettivo primario di
rendere (per tutte le imprese) effettivamente praticabile il mercato.
Tradurre sul piano giuridico queste indicazioni si presenta un’impresa
nient’affatto agevole. Da un lato, il ventaglio delle alternative istituzionali è ampio (diritto della concorrenza o diritto privato, disciplina settoriale
o a compasso allargato, clausole generali o di dettaglio, etc.). Dall’altro,
se anche si convenisse sull’univocità delle indicazioni provenienti dall’analisi economica, occorre rassegnarsi al fatto che l’attuale processo di
produzione delle regole legislative obbedisce più alla logica dell’acquisizione di risultati anche modesti e compromissori, che all’edificazione di
sistemi coerenti.
- 30 -
4.
Il processo di produzione delle norme sulle relazioni contrattuali tra imprese: il caso della subfornitura industriale
Dalla seconda metà degli anni ‘80 negli uffici delle associazioni di categoria
delle piccole e medie imprese italiane si comincia ad organizzare un’intesa
azione di pressione sugli organi comunitari e sul legislatore italiano per la
predisposizione di misure normative di intervento sui problemi connessi
alla disparità di potere nella relazioni contrattuali di subfornitura industriale.
Il problema della disparità di potere contrattuale tra imprese committenti e subfornitrici inizia ad affiorare dalle pieghe della comunicazione della Commissione Ce del 30 agosto 1989 sullo “sviluppo della subfornitura
nella Comunità”. Nella comunicazione del 1989 il problema dei termini
di pagamento rientrava nell’agenda delle politiche in materia di subfornitura13. Successivamente, intervento sui termini di pagamento e politica sulla subfornitura hanno seguito evoluzioni diverse14. L’intervento sui
termini di pagamento ha imboccato un sentiero normativo sfociato, prima, nella raccomandazione del 12 maggio 1995 sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali, e poi, nella proposta di direttiva relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali presentata dalla commissione il 23 aprile 1998, destinata a diventare la direttiva 35/2000/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, attuata in Italia con il d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 23.
Le iniziative di taglio giuridico sulla subfornitura si sono, invece, limitate alla predisposizione, sull’esempio della soft law francese, di guide
13 Nella comunicazione si legge che “il ruolo degli organi comunitari è, da un lato, di
vigilare a che, nel quadro del diritto interno, sia creato un contesto giuridico ed economico favorevole alla subfornitura, soprattutto per quanto riguarda il suo sviluppo
transnazionale. D’altro lato, è necessario contribuire al miglioramento dell’informazione e della comunicazione fra committenti e subfornitori di varie regioni della Comunità, come anche alla promozione della subfornitura e dei rapporti di partenariato, affinché il potenziale offerto dal grande mercato sia sfruttato al meglio”. Tra le
azioni propugnate nel documento figurano il coordinamento della subfornitura con
le politiche comunitarie in materia di certificazione della qualità e di termini di pagamento, il miglioramento dell’informazione e della comunicazione tra committenti e
subfornitori, e la promozione di rapporti di partenariato.
14 Lo snodo si intravede nella risoluzione del parlamento europeo sulle comunicazioni della commissione al consiglio “Verso un mercato europeo della subfornitura” e
“Partecipazione delle PMI agli appalti pubblici nella comunità” del 21 aprile 1993 in
G.U.C.E. C 150 del 31 maggio 1993.
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pratiche sugli aspetti e sui regimi giuridici della subfornitura industriale
e al patrocinio delle “Linee direttrici per la partnership di subfornitura
industriale”, una sorta di codice deontologico, approntato dall’UNICE (Union of Industrial and Employers’ Confederations of Europe), l’organizzazione europea delle imprese industriali di più grandi dimensioni.
Lo snodo è assai rilevante. Esso, infatti, è il sintomo del fatto che gli organi comunitari hanno maturato l’intenzione di non intervenire normativamente sulla subfornitura, preferendo, da una parte, allargare il proprio
spettro d’azione a tutti i contratti d’imprese, e, limitandosi, dall’altra, a
prendere in considerazione il solo profilo di abuso di potere contrattuale
ritenuto rilevante: i ritardi sui termini di pagamento15. La limitazione dell’intervento ai termini di pagamento conferma la reticenza comunitaria
– da imputare anche all’azione delle lobbies rappresentative delle imprese più grandi – ad affrontare organicamente il tema della disparità di
potere contrattuale tra imprese. D’altro canto, rispetto alla subfornitura,
questa scelta istituzionale è anche il risultato della presa d’atto della natura oggettivamente proteiforme di un fenomeno – quello della subfornitura appunto – che varia a seconda del settore, dell’area geografica e
delle modalità di organizzazione del sistema produttivo di riferimento,
che evolve rapidamente, e che nella sua accezione più allargata annovera anche rapporti nei quali i subfornitori possono essere imprese con
un potere economico e contrattuale superiore a quello di controparte.
È con questa azione di pressione degli organi comunitari che deve
essere messa in relazione la comparsa nel corso della XII legislatura delle prime proposte di legge sulla regolamentazione delle relazio
ni contrattuali di subfornitura16. Inizia così il tormentato iter legisla15 Desta perplessità la linea di pensiero che tenta di accreditare la prassi sui termini di
pagamento come l’origine sola ed esclusiva di tutti i mali. In proposito, è stato efficacemente rilevato che “non è affatto scontato che una disciplina più rigorosa [sui
termini di pagamento] sortisca l’effetto sperato. Il malvezzo è frutto evidente di una
disparità di forza contrattuale, che, sin qui, il mercato non è riuscito a correggere. Il
proverbiale tratto di penna del legislatore varrà a propiziare un ambiente giuridico
più congruo; ma rimane esposto al pericolo di fungere da mero fiore all’occhiello fino
a quando non saranno erose le condizioni strutturali che rendono possibili i lamentati abusi […]”.Sono parole di R. PARDOLESI, Subfornitura industriale e Comunità europea, in
F. POCAR (cur.), Contratti di subfornitura, qualità e responsabilità, Milano, 1993, 31, 44.
16 Fra le prime iniziative legislative della XII legislatura, vi è il disegno di legge n. 932,
“Disciplina dei rapporti tra grandi imprese e subfornitori”, di iniziativa dei senatori
Tapparo. Va menzionato poi il d.d.l., il n. 1143, “Disciplina della subfornitura industriale”, di iniziativa dei senatori Baldelli. A queste iniziative senatoriali fanno eco le propo-
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tivo che, nella successiva legislatura17, porterà, nonostante l’aspra
opposizione delle organizzazioni rappresentative delle imprese di
grandi dimensioni18, all’approvazione della legge 18 giugno 1998,
n. 192 sulla disciplina della subfornitura nelle attività produttive.
Sebbene le iniziative legislative (e l’azione comunitaria) siano state oggetto di un duro scontro politico, di cui i quotidiani hanno dato
spesso notizia, esse sono rimaste (pressoché) sconosciute al dibattito teorico, tanto sul fronte economico, che su quello giuridico.
La circostanza non sorprende più di tanto.
Sempre più spesso, la macchina legislativa si muove secondo dinamiche
assolutamente svincolate dalla teoria (e nei rari casi in cui alcuni segnali
della dottrina vengono captati, essi finiscono per essere distorti dal gioco politico). Gli effetti deleteri di questi difetti di comunicazione sono poi
amplificati dalle particolari difficoltà che il dialogo tra economisti e giuristi incontra – almeno rispetto a determinate materie – nel nostro paese.
Sta di fatto che alla fine dei lavori parlamentari la legge ha assunto una struttura anfibia.
Benché si intraveda l’influenza delle politiche comunitarie sui termini di pagamento e del modello franco-tedesco dell’abuso di di
‘pendenza economica19, la legge italiana in molte soluzioni persegue una propria traiettoria.
Le maggiori peculiarità – rispetto alla via franco-tedesca ed a quella europea – sono costituite dalla caratterizzazione settoriale e dalla natura
ste di legge n. 1759 d’iniziativa del deputato Gori e n. 1667 di iniziativa dei deputati
Porta ed altri. L’articolato assume un volto simile a quello che poi è diventato legge
con l’unificazione dei disegni di legge n. 932 e 1143.
17 E’ il testo unificato dei d.d.l. 637 e 644-A, proposto con il titolo “Disciplina della subfornitura nelle attività produttive” dalla X commissione permanente (industria commercio, turismo), relatore Micele, che concluderà l’iter parlamentare.
18 Per una ricostruzione - pur sempre di parte, ma ricca di riferimenti - dell’intera vicenda legislativa si può leggere il pamphlet approntato da uno dei senatori promotori
della legge (G. TAPPARO, La subfornitura. Una legge tra lobbies e peones, Firenze, 2000).
19 Sui modelli tedesco e francese dell’abuso di dipendenza economica v. PARDOLESI, Subfornitura industriale e Comunità europea, in F. POCAR (cur.), Contratti di subfornitura,
qualità e responsabilità, cit., 35; CASO, Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale: modelli economici e regole giuridiche, cit., 100 ss., 154 ss.; M. R. MAUGERI, Abuso di
dipendenza economica e autonomia privata, Milano, 2003, 23 ss.; G. COLANGELO, L’abuso
di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti – Un’analisi economica e comparata, Torino, 2004, 113.
- 33 -
privatistica della normativa. Tali peculiarità si spiegano principalmente con due motivi strettamente attinenti al legal process.
Il primo è dovuto alla circostanza che i gruppi di pressione rappresentativi di piccole imprese industriali e artigiane, le quali svolgono prevalentemente attività di subfornitura, si sono dimostrati in Italia tanto
dinamici da portare a casa una regolamentazione dedicata (almeno di
facciata) al loro settore. L’interventismo ha potuto far leva sul fatto che
la prassi della subfornitura italiana sembra, in base ai – pur frammentari
– rilievi empirici a disposizione e nel confronto con altri contesti stranieri,
maggiormente esposta ad abusi di potere contrattuale.
Il secondo è dovuto ad un delicato passaggio dell’iter terminale della legge che ha condotto ad espungere la norma sull’abuso di dipendenza economica dal tessuto antitrust, cui era destinata nella formulazione iniziale. Come si è sopra rilevato, ciò discende principalmente dal fatto che l’intenzione originaria era quella di inserire nel
tessuto della legge n. 287 del 1990 lo strumento dell’abuso di dipendenza economica ricalcato sui modelli francese e tedesco. Nell’ultima fase del processo di legiferazione è stato espunto, sulla scia di un
parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato20, il rife20 Nella segnalazione del 10 febbraio 1998 l’autorità garante ha ritenuta impropria la
collocazione dell’abuso di dipendenza economica nella disciplina antitrust rilevando che “le norme antitrust sono disposizioni generali dirette a tutelare il processo
concorrenziale in relazione all’assetto del mercato. Inoltre, le norme nazionali sulla
concorrenza hanno un preciso riferimento nell’ordinamento dell’Unione Europea. La
stessa formulazione delle disposizioni sostanziali della legge n. 287/90 riflette quasi
letteralmente le corrispondenti norme comunitarie; per di più l’articolo 1, comma
4, della legge n. 287/90 vincola l’interpretazione delle disposizioni sostanziali della
medesima legge ai principi elaborati in sede comunitaria. Viceversa, la norma dell’articolo 9 contenuta nella proposta di legge costituisce una regola specifica inerente
alla disciplina dei rapporti contrattuali tra le parti, con finalità che possono prescindere dall’impatto di tali rapporti sull’operare dei meccanismi concorrenziali. Inoltre,
essa non ha alcun riscontro nell’ordinamento comunitario e affonda invece le radici
nella tematica dell’equilibrio contrattuale e più precisamente nella valutazione del
rapporto negoziale tra le parti. Le patologie di questo rapporto trovano rimedio nel
divieto, e conseguente invalidità, di clausole vessatorie (come previsto dalle norme
della proposta di legge) e nelle garanzie stabilite a favore della parte più debole.
La loro disciplina pertanto va inquadrata nell’ambito delle norme civilistiche relative
alle obbligazioni e ai contratti. Al riguardo l’Autorità segnala che le commissioni arbitrali presso le Camere di Commercio previste dall’articolo 10 della proposta di legge
in esame (nei limiti in cui non integrino gli estremi di un arbitrato obbligatorio vietato dalla prevalente giurisprudenza della Corte Costituzionale), e il giudice ordinario
appaiono adeguati a garantire, anche per la loro diffusione sul territorio, una efficace
tutela del corretto equilibrio dei rapporti contrattuali tra le parti per quanto attie-
- 34 -
ne alle fattispecie di esclusiva rilevanza civilistica. Infatti, qualora i comportamenti
d’impresa che integrano l’abuso di dipendenza economica fossero posti in essere
da un’impresa in posizione dominante sul mercato, l’articolo 3 della legge n. 287/90,
unitamente all’articolo 86 del Trattato di Roma, già consente all’Autorità di intervenire efficacemente a salvaguardia delle imprese più deboli e dell’intero processo
concorrenziale. Al riguardo è disponibile un’ampia casistica di decisioni dell’Autorità
dalla quale si ricava che il rifiuto di contrarre, l’imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente gravose o discriminatorie già rientrano nell’ambito di applicazione della legge n. 287/90. Ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 287/90, l’Autorità auspica che la figura dell’abuso di dipendenza economica, prevista dall’articolo 9 della
proposta di legge n. 3509, non venga collocata all’interno della legge n. 287/90”. Una
precedente segnalazione a firma di Giuliano Amato - emessa durante la XII legislatura in margine all’art. 10 del d.d.l. risultante dall’unificazione di due precedenti disegni di legge (AS n. 932 e AS n. 1143), che inseriva l’abuso di dipendenza economica
nell’art. 3 della legge n. 287 del 1990 come specificazione di quello di abuso dominante - affermava invece che “la necessità di prevedere dei rapporti contrattuali di
subfornitura improntati a correttezza ed efficienza, che produce certamente effetti
positivi per la concorrenzialità dei mercati, non può essere risolta dilatando in modo
innaturale la nozione di abuso di posizione dominante. Quest’ultima fattispecie, che
è costruita riprendendo quasi letteralmente l’art. 86 del Trattato di Roma, vieta comportamenti abusivi posti in essere da soggetti i quali godono di un potere di mercato
tale da potere ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in
questione e avere la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei
confronti dei loro concorrenti, dei loro clienti e, in ultima analisi, dei consumatori.
Peraltro, appare opportuno porre in evidenza che l’art. 3 della legge n. 287/90, che
vieta l’abuso di posizione dominante, già contempla la possibilità di intervenire nei
confronti di un’impresa la quale, benché non dotata di una posizione dominante nella vendita dei propri prodotti, tuttavia detenga una posizione dominante dal lato
della domanda nei confronti dei propri fornitori, in assenza di alternative economicamente significative per questi ultimi. E’ evidente dunque che rapporti di subfornitura
non equi, laddove imposti a soggetti che non godono di possibilità economiche di
scelta alternativa, possono ricadere, attraverso un’appropriata e contestualizzata definizione del mercato rilevante, nella fattispecie dell’abuso di posizione dominante.
Diverso è il caso in cui la non equità si verifichi nell’ambito di rapporti contrattuali di
scambio bilaterale nei quali, pur in presenza di uno squilibrio tra le parti, che definisca ad esempio delle posizioni di dominanza relativa, non sia possibile identificare
nella parte abusante una posizione dominante secondo il canone sopra descritto.
Quindi, ove si ritenga che una normativa che garantisca in senso più ampio una maggiore equità nei rapporti contrattuali di subfornitura -stabilendo principi generali di
correttezza, senza con ciò ledere l’autonomia contrattuale delle parti- rappresenti un
ulteriore elemento costitutivo di un efficiente funzionamento del mercato, occorrerà
identificare, come peraltro avvenuto in altri paesi comunitari, una specifica e distinta
fattispecie che corrisponda a propri canoni ermeneutici. In base alle argomentazioni
fin qui espresse, non appare al contrario condivisibile né da un punto di vista logico, né tantomeno da un punto di vista strettamente giuridico, l’unificazione in una
medesima fattispecie di divieti rispondenti a presupposti e caratteristiche tra loro
differenti”.
- 35 -
rimento alla legge antitrust, di modo che l’applicazione abuso di dipendenza economica era demandata nel 1998 al giudice ordinario.
Ma dopo tre anni la l. 5 marzo 2001, n.57 recante “disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati” ha novellato l’art. 9 della l. n.
192 del 1998, tornando a conferire anche [!] all’antitrust la competenza
in materia di abuso di dipendenza economica21. Tuttavia, un inciso del
nuovo comma 3-bis dell’art. 9 – quello che fa riferimento alla “rilevanza
per la tutela della concorrenza e del mercato” – si presta ad interpretazioni che mirano a restringere i margini di manovra dell’autorità garante
della concorrenza e del mercato, svuotando di significato il nuovo intervento normativo22.
21 La nuova formulazione dell’art. 9 della legge n. 192 del 1998 così recita:
“1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice.
Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di
determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di
diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della
reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella
imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie,
nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza
economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni.
3-bis. Ferma restando l’eventuale applicazione dell’articolo 3 della legge 10 ottobre
1990, n. 287, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi
che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni
previste dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell’impresa
o delle imprese che abbiano commesso detto abuso”.
22 Per una critica al modo di ragionare a cui si accenna nel testo v. COLANGELO, L’abuso di
dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti – Un’analisi
economica e comparata, 94 ss.
- 36 -
5.
I risultati: la legge sull’abuso di dipendenza economica e
sulla subornitura industriale
L’art. 1 definisce (o dovrebbe definire) la subfornitura23. L’intenzione originaria era forse la costruzione di una nuova tipologia contrattuale. Ma nel risultato finale la legge detta esclusivamente (o
quasi) norme imperative, rinunciando a fornire anche una disciplina esaustiva – cioè comprensiva di tutte le necessarie norme dispositive – del contratto di subfornitura. Essa, quindi, innesca un processo di tipizzazione a metà, che non sembra in grado di migliorare lo stato di incertezza nel quale è costretta a muoversi la prassi.
La natura imperativa delle norme, poi, drammatizza il problema dell’effettiva portata dell’art. 1. Un’interpretazione estensiva espone le norme
più penetranti a censure di incostituzionalità (almeno sotto il principio
di razionalità dell’art. 3 Cost.). D’altra parte, un’interpretazione restrittiva vanifica – è quello che si è in concreto verificato – gli intenti del legislatore.
Tuttavia, occorre rilevare che l’art. 9 si pone oltre il tracciato dell’art. 1 dispiegando i suoi effetti su un ambito di applicazione allargato (ciò è tanto più vero oggi, a seguito della nuova formulazione introdotta dall’art. 11 della l. n. 57 del 2001, che riconosce
la doppia competenza del giudice ordinario e dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato)24.
23 Il testo dell’art.1 (definizione) è il seguente:
“1. Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto
di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime
forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o
servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito
dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso,
in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o
prototipi forniti dall’impresa committente.
2. Sono esclusi dalla definizione di cui al comma 1 i contratti aventi ad oggetto la
fornitura di materie prime, di servizi di pubblica utilità e di beni strumentali non riconducibili ad attrezzature”.
24 Per un’interpretazione differente da quella accolta nel testo v. A. MUSSO, La subfornitura, in F. GALGANO (cur.), Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Libro quarto:
Obbligazioni, Titolo II Dei singoli contratti – Supplemento Legge 18 giugno 1998, n. 192,
Bologna-Roma, 2003, 484 ss.
- 37 -
Il comma 1, nel porre il divieto di abuso e nel definire lo stato di dipendenza economica, indica i soggetti destinatari della norma con espressioni
tanto generiche, quali impresa cliente e fornitrice, da essere in grado di
ricomprendere (per lo meno) entità imprenditoriali operanti nei settori
della produzione manifatturiera e della distribuzione. Il comma 2 delinea, invece, una definizione descrittiva dell’abuso, fondata su un elenco
esemplificativo di fattispecie come il rifiuto di vendere o comprare, l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie e l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
Occorre non farsi condizionare dalla lettura sequenziale delle norme, in quanto la struttura della legge è – come già evidenziato – frutto di accidenti. Malgrado appaia solo all’art. 9, la prima e più importante norma è l’abuso di dipendenza economica. Da questa quindi occorre prendere le mosse. Insomma, bisogna leggere la normativa al rovescio partendo dall’art. 9.
Il giudizio sull’applicabilità della norma si deve fondare (soprattutto) sulla valutazione della sussistenza di una situazione di dipendenza
economica oltre che, ovviamente, di una condotta abusiva.
La dipendenza economica è un concetto lato ma non indeterminato. È vero che il parametro della “mancanza di alternative” nella lettera della norma lascia spazio ad altri criteri valutativi: “la dipendenza
economica è valutata tenendo conto anche [!] della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”. Ma è altresì incontestabile che tali criteri sono
individuati dall’analisi economica (e dall’esperienza applicativa dei
modelli di ispirazione). Se così è, la norma dell’art. 9 deve essere interpretata come una disciplina dell’abuso di potere contrattuale nelle relazioni contrattuali tra imprese fondata sul presupposto della
dipendenza economica e circostanziata, nel comma 2, da una – pur
breve – elencazione esemplificativa di condotte di abuso.
La norma, per la determinazione dello stato di dipendenza e della sussistenza dell’abuso, consente (e chiede) al giudice di guardare, di là dall’eventuale contratto, alle caratteristiche delle imprese, alle condizioni di mercato dell’impresa, e all’intero dispiegarsi
della relazione (e non solo al singolo contratto).
Questa impostazione influisce sull’interpretazione delle altre norme
che compongono la legge n. 192 del 1998.
- 38 -
Tali norme, infatti, devono essere lette come una specificazione della
disciplina dell’abuso di dipendenza economica rispetto ai peculiari problemi posti dalle relazioni di subfornitura industriale così come definite
dal criterio dell’attinenza alla produzione manifatturiera ricavabile – se
pur con fatica – dall’art. 1. D’altra parte, alcune di esse non sono poste a
tutela della sola impresa subfornitrice ma sono formulate – come l’abuso
di dipendenza economica – in termini di applicabilità bilaterale o, addirittura di tutela degli interessi dell’impresa committente.
In questa prospettiva, le nullità comminate dall’art. 2, dall’art. 3 e dall’art. 6,
non sono altro che specificazioni della nullità disposta dal terzo comma dell’art. 9 rispetto a quella tipologia di abusi che si traduce in clausole“vessatorie”, ovvero nell’imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose.
Ma questo tipo di interpretazione è passata sotto silenzio. Le poche (nell’ordine della quindicina) controversie finite più o meno fortuitamente
davanti al giudice ordinario si sono perse nel pantano degli art. 1 e 925.
Le istanze di tutela sono state (a torto o a ragione) rigettate. Insomma,
come accade in molte storie italiane, nessun lieto fine.
6.
Conclusioni
Qualcuno ha detto (e non si tratta di Spider-man) che “ci vuole
del caos dentro di sé per generare stelle danzanti”.
Forse anche dal caos della legislazione in materia di abuso di dipendenza economica e di subfornitura industriale si può trarre qualcosa
di buono.
Il problema dell’abuso di dipendenza economica è un problema reale in gran parte frutto dell’evoluzione (relativamente) recente della struttura dei mercati. Non sorprende il fatto che il nostro sistema
tradizionale del diritto dei contratti non preveda strumenti penetranti per sanzionare l’abuso di dipendenza economica.
L’art. 9 della l. n. 192 del 1998 colma una lacuna del nostro ordinamento, ma soffre, riguardo alla competenza del giudice ordinario, del limite di essere una norma difficilmente attivabile dalla parte che subisce
25 V. da ultimo Trib. Bari 13 luglio 2006, in Foro it., 2006, I, 2934, con nota di richiami, ivi
riferimenti.
- 39 -
l’abuso, in quanto quest’ultima è anche il soggetto che ha maggiore interesse alla pacifica prosecuzione della relazione commerciale. Tuttavia,
la norma può essere utilizzata per “chiudere i conti” alla fine della relazione, quando la prospettiva del prolungamento degli affari è destinata
a sfumare. In questo senso, essa chiede al giudice di guardare, di là dal
contratto (eventuale), alle caratteristiche delle imprese, alle condizioni
di mercato, e all’intero dispiegarsi della relazione (e non solo al singolo contratto). Questo allargamento di orizzonte, benché non sia facile
da gestire, può costituire un arricchimento per il diritto dei contratti, i
cui effetti andranno misurati sul medio o lungo periodo.
Considerazioni simili e speculari valgono per le resistenze che l’abuso
di dipendenza economica incontra sul piano dell’antitrust. L’elaborazione del concetto di abuso di dipendenza economica, come distinto
dall’abuso di posizione dominante, è ancora troppo recente. Ma la forza
dell’idea che vede nel potere di mercato un fenomeno pervasivo non va
sottovalutata. Il corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale
dipende indubbiamente dagli ingranaggi di base e cioè dalle relazioni
contrattuali. Gli effetti sistemici dell’andamento della relazione contrattuale non possono essere trascurati, se è vero, come è vero, che una delle
maggiori acquisizioni del metodo interdisciplinare dell’analisi economica del diritto sta proprio nel richiamare l’attenzione sui segnali (incentivi)
che un microfenomeno come una relazione contrattuale invia agli attori
del macrofenomeno (il mercato).
- 40 -
SLIDES
Prof. Roberto Caso
Da un grande potere …
… derivano grandi responsabilità
- 41 -
Cioè
• Da un abuso di un grande potere
negoziale devono derivare responsabilità
contrattuali o extracontrattuali … anche se
si tratta di rapporti tra imprese!
Una storia appassionante … senza
un lieto fine
Una storia (in parte) italiana
• Appassionante perché riguarda un problema
complesso e rilevante (risolvibile solo con
l’analisi interdisciplinare), ma anche perché dà
un’idea di come un problema complesso e
rilevante venga affrontato nel nostro sistema
giuridico
• Senza lieto fine perché il problema complesso e
rilevante rimane in gran parte irrisolto
- 42 -
L’ordine del ragionamento
•
•
•
•
•
1 - Il problema
2 - Le basi teoriche (cenni)
3 - Il processo di produzione delle regole giuridiche
4 - I risultati: luci ed ombre
5 - Conclusioni
1- Un grido di dolore
• Aiutateci!
• Un grido di dolore che si leva da una frangia del
frastagliato mondo della subfornitura industriale
(associazioni di categoria delle PMI)
• Il problema: l’abuso di potere contrattuale perpetrato
dalla parte contrattualmente più forte (chi è costui?)
• Allarme incomprensibile nell’epoca dell’ascesa del
consumerismo? Che senso ha l’abuso di potere nei
contratti tra imprese che dovrebbero rappresentare la
parte più sofisticata e sana del mercato? Che senso ha
parlarne oggi in un momento storico in cui i problemi
delle PMI sembrano essere ben altri?
• Eppure …
- 43 -
Un mondo frastagliato
• Subfornitura industriale (un rapporto che rappresenta il nerbo
della produzione post-fordista)
• Definizione economica: la relazione che costituisce l’anello di
congiunzione tra imprese appartenti a diversi stadi di un ciclo di
produzione manifatturiera, e che ha ad oggetto una produzione
dedicata (cioè basata su specifiche tecniche) di beni o servizi
a) Subfornitura di alto profilo: il subfornitore produce un bene
altamente
qualificato (ad es. produttore di batterie per auto) o pressoché
unico (ad es. innovativo sistema frenante)
b) Subfornitura di basso profilo: il subfornitore produce un bene
(ad es.
bulloni per ruote) o offre un servizio meno qualificato (ad es.
lavorazione routinaria su tessuto), compete con più subfornitori
e fronteggia un unico committente
• In mezzo a questi antipodi un ventaglio di situazioni sfumate
• Occorre poi avere a mente la natura piramidale di molti mercati
di subfornitura: committente – subfornitore/committente - subfornitore
Il fenomeno della subfornitura: la
disintegrazione del processo produttivo
Impresa di I livello
Committente
Venditore al consumo
Impresa di II livello
Subfornitrice
Committente
III L S
III L S
II L S C
III L S
- 44 -
II L S C
III L S
III L S
Relazioni pericolose
• Investimenti specifici (cioè non
riconvertibili in altre relazioni)
• Mancanza di un affaccio sul mercato dei
prodotti finali
• Informalità (mancanza di un contratto
scritto; o contratti scritti minimalisti): un
vantaggio quando tutto va bene, un incubo
quando il mercato entra in crisi
La galleria degli orrori contrattuali…e non
• Due tattiche per mettere in atto il lato (più) oscuro della
forza (contrattuale):
1) mancanza di formalizzazione dell’impegno contrattuale,
incompletezza contrattuale opportunistica e vie di fatto
(minccia di interruzione delle relazioni; riufiuto di
contrarre; ritardi di pagamento, etc.);
2) imposizione di clausole vessatorie
• Possibili tipologie di clausole vessatorie:
a) potere unilaterale di modifica del contratto;
b) recesso senza congruo preavviso;
c) ribaltamento su controparte di costi e rischi (ad es.
dilazioni “eccessive” di pagamento)
- 45 -
“Autotutela economico/contrattuale”
e norme sociali
1) diversificazione della clientela
2) formalizzazione di clausole di protezione
(ad es. programmazione degli ordinativi,
lungo termine di preavviso per il recesso)
3) acquisizione di potere tecnologico
4) norme sociali ed effetto di reputazione:
l’esempio dei distretti industriali; i gruppi di
subfornitura giapponesi
2 - Le basi della teoria economica: costi di
transazione e hold up
• Il grido di dolore non è (solo) una
rivendicazione corporativa ma il segnale di
un problema reale conosciuto nella teoria
economica (quasi sconosciuto in quella
giuridica)
• R. Coase (1937)
• B. Klein, R. Crawford, A. Alchian (1978)
• O. Williamson (1979)
- 46 -
I risultati della teoria economica
• Il potere di mercato è pervasivo; laddove si necessita di
investimenti specifici nasce il rischio dell’hold up (ricatto)
• E’ importante guardare non al contratto ma alla relazione
contrattuale
• E’ importante guardare al potere di entrambe le parti
della relazione
• Non basta analizzare il contratto scritto (può non
esistere) ma al contesto della relazione: investimenti
specifici (nella subfornitura: stadio del processo
produttivo, capacità tecnologica delle parti etc.)
• Non riguarda solo la subfornitura, ma anche i contratti di
distribuzione
Dipendenza economica
Mancanza di alternative sul mercato
significa valutare:
• Gli investimenti specifici di entrambe le
parti della relazione
- 47 -
Hold-up
• Minaccia di interruzione della relazione
contrattuale finalizzata all’appropriazione senza
contropartita della parte di ricchezza generata
dall’affare che spetterebbe a controparte in base
ai termini impliciti o espliciti della medesima
relazione
• Effetti redistributivi, ma anche di diminuzione
dell’efficienza del mercato (un segnale
disincentivante al resto del mercato)
3 - Insufficienza dell’autotutela e
difficoltà dell’intervento giuridico
• La fatica dell’ovvio: anche i committenti
giapponesi sono capaci di ‘odiare’ i propri
subfornitori (Subcontracting Act del 1956)
• Le difficoltà di un intervento giuridico: i risultati
economici non sono immediatamente spendibili
sul piano giudico; il timore dell’interruzione della
relazione e la difficoltà di far emergere l’abuso;
gli effetti collaterali della sindacabilità
dell’equilibrio originario del contratto da parte del
giudice o di un’autorità statale
- 48 -
I due fronti della battaglia delle
associazioni PMI
• Il fronte europeo: subfornitura e termini di
pagamento e poi solo termini di
pagamento (dalla raccomandazione sui
ritardi nei termini di pagamento del 1995
alla direttiva 2000/35 sui ritardi di
pagamento attuata con dlgs. 231/2002)
• Il fronte italiano: subfornitura, forma del
contratto, termini di pagamento, abuso di
dipendenza, etc. (l. 192 del 1998)
Il processo legislativo: le dinamiche
• Teoria filtrata dalle rivendicazioni di parte
• Circolazione e deformazione di modelli
normativi stranieri
• Associazioni PMI v. Confindustria
(spaventata soprattutto dalla forma scritta
e dai termini massimi di pagamento)
- 49 -
Il processo legislativo: le tappe più
significative
• Primo evento: rimaneggiamento della definizione
sufornitura (in prossimità dell’approvazione della l.
192/1998)
• Secondo evento: rifiuto dell’antitrust di gestire la norma
sull’abuso di dipendenza economica (segnalazione del
10 febbraio 1998); la norma finisce nel diritto privato
• Terzo evento: la norma dell’abuso di dipendenza
economica “torna” a far parte anche nell’antitrust (art. 11
l. 57/2001)
• Quarto evento: subentra una regolamentazione generale
dei termini di pagamento tra imprese (d.lgs. 231/2002)
4 - Il risultato normativo
L. 192 del 1998:
• Si è puntato sulle norme imperative (alcune
simmetriche, altre a favore del solo subfornitore)
• Art. 1: la (in)definizione
• Norme antibuso specifiche: art. 2, 3, 5, 6
• Norma antiabuso generale: art. 9
• Norma processuale: art. 10
• Altre norme: art. 4, 7, 8 e 11
- 50 -
Art. 1
• 1. Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna
a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su
prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente
medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi
destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati
nell’ambito dell’attivita’ economica del committente o nella
produzione di un bene complesso, in conformita’ a progetti
esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o
prototipi forniti dall’impresa committente.
• 2. Sono esclusi dalla definizione di cui al comma 1 i contratti
aventi ad oggetto la fornitura di materie prime, di servizi di
pubblica utilita’ e di beni strumentali non riconducibili ad
attrezzature.
Art. 9 comma 1 e 2
• 1. E’ vietato l’abuso da parte di una o piu’ imprese dello
stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o
nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera
dipendenza economica la situazione in cui un impresa sia in
grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra
impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La
dipendenza economica e’ valutata tenendo conto anche della
reale possibilita’ per la parte che abbia subito l’abuso di reperire
sul mercato alternative soddisfacenti.
• 2. L’abuso puo’ anche consistere nel rifiuto di vendere o nel
rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione
arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
- 51 -
Art. 9 comma 1 e 2
• 3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza
economica e’ nullo. Il giudice ordinario competente conosce
delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese
quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni.
• 3-bis. Ferma restando l’eventuale applicazione dell’articolo
3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorita’ garante della
concorrenza e del mercato puo’, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della
concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a
seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei
confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso
detto abuso.
Il risultato giurisprudenziale
Legge 192/1998:
• Un numero di controversie < 15
• Quasi tutte riguardano l’abuso di dipendenza
economica
• Esito sfavorevole a chi invocava il rimedio contro
l’abuso
• Inefficacia delle norme specifiche sulla
subfornitura? (esistono solo indagini empiriche
parziali sullo stato di attuazione della legge)
- 52 -
5 - Una possibile rilettura della legge
192/1998
• Leggere la legge al rovescio partendo dall’art. 9
• La norma più rilevante è quella sull’abuso di
dipendenza economica; vale per tutti i contratti
tra imprese
• Le altre (probabilmente destinate alla
disapplicazione) riguardano l’abuso di
dipendenza economica nell’ambito della
subfornitura (industriale) come definita dall’art.1
Ma il problema di fondo rimane: chi muove il
braccio (più o meno) violento della legge?
• Sul piano privatistico stenta a decollare per
varie ragioni:
a) può essere intesa solo come “chiusura del
conto”
b) si presta ad un uso malizioso o strategico
c) non è ancora metabolizzata dalla mentalità del
giudice (il sistema giuridico è ancora troppo
agganciato alla tradizione)
• Al momento la norma sull’abuso di dipendenza
economica è disapplicata sul piano antitrust
- 53 -
Roberto Caso
• E-mail: [email protected]
• Web-page:
http://www.jus.unitn.it/user/home.asp?cod=roberto.caso
• Abuso di potere contrattuale e subfornitura
industriale, Trento, 2000, Ristampa digitale
2006, liberamente scaricabile all’URL:
http://www.jus.unitn.it/users/caso/pubblicazioni/sub
fornitura/download.asp
- 54 -
Dott.ssa Avv. Chiara Medici
Dottore di Ricerca in Diritto Privato Comparato
Università degli Studi di Trento
Avvocato del Foro di Trento
L’IMPRENDITORE “SUBALTERNO” QUALE NUOVA CATEGORIA
DI CONTRAENTE DA TUTELARE
- I PRIMI INTERVENTI LEGISLATIVI Ringrazio i relatori che mi hanno preceduta, in particolare coloro che hanno
ricordato come l’incontro di oggi sia stato organizzato nell’ambito di uno
studio promosso dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università
di Trento in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione dell’Università
e della Ricerca, volta all’analisi del fenomeno del disequilibrio di potere
contrattuale nei rapporti d’impresa e alla ricerca dei più idonei strumenti
di tutela 1.
Causa i già ricordati impedimenti per alcuni relatori a presenziare
all’incontro odierno mi vedrò costretta, su delega degli assenti e per
ragioni di coesione logica e completezza delle tematiche trattate, a
lambire in taluni passaggi argomenti che fuoriescono da quello in
origine assegnatomi incentrato sul primo intervento normativo a tutela
dell’imprenditore debole (id est legge sulla subfornitura industriale),
non senza aver preliminarmente operato un breve excursus relativo al
dibattito sviluppatosi circa la necessità di dotare anche l’imprenditore
‘debole’ di un apposito apparato rimediale.
Seguendo tale percorso espositivo sia consentito sin da subito anticipare
come in tema di tutela dell’imprenditore che versa in situazioni di
1
La ricerca ha condotto all’elaborazione dell’opera monografica, a cui ci si permette
di rinviare per ulteriori approfondimenti, C. Medici, La tutela del contraente debole
nei rapporti d’impresa, di prossima pubblicazione presso il Dipartimento di Scienze
Giuridiche dell’Università di Trento.
- 55 -
sudditanza al cospetto del proprio partner commerciale, il nostro
ordinamento, sulle tracce di quello comunitario e di alcuni Stati membri
tradizionalmente sensibili a tale problematica (quale l’ordinamento
francese e i sistemi anglosassoni), si stia avviando verso una <<svolta
epocale>> parificabile, per l’impatto sulla disciplina del contratto, al
cambiamento di prospettiva apportato dalla normativa consumeristica.
Un nuovo soggetto, diverso da quelli tradizionalmente qualificati
contraenti deboli (leggasi, a titolo esemplificativo, consumatore nei
contratti conclusi tra professionista e consumatore; conduttore nei
contratti di locazione; agente di commercio nei contratti di agenzia)
emerge ora come necessitario di tutela: l’imprenditore che, in presenza
di particolari condizioni, si trova in uno stato di patologica sudditanza
nei confronti dell’altro contraente (situazione che ha dato il via ad una
variegata terminologia in uso tra la dottrina che si occupa del settore,
quale <<imprenditore subalterno>>; imprenditore <<dipendente>>,
imprenditore <<dimezzato>>, imprenditore <<satellite>>…).
Nel dibattito attuale pare, pertanto, ormai superata l’impostazione di
coloro che negavano l’esigenza di tutelare l’imprenditore ‘vessato’ dalla
propria controparte contrattuale in forza della considerazione che si era
in presenza di un operatore abituale del mercato e perciò stesso non
necessitario di quelle attenzioni protezionistiche riservate, invece, al
consumatore, in quanto avulso dal mondo degli scambi commerciali,
nella negoziazione con un professionista. Tale visione restrittiva è stata
ben presto disattesa nel momento stesso in cui si è dovuto dar conto di
taluni schemi contrattuali tra imprenditori particolarmente invalsi nella
prassi commerciale i quali mostrano come spesso nei rapporti tra imprese
si registri tutt’altra situazione caratterizzata da situazioni di dipendenza
di un contraente nei confronti dell’altro. Il fenomeno si registra con
maggior nitore (ma non solo) laddove, per esigenze di produzione o di
commercio, colui che esercita un’attività di impresa deve ‘incardinarsi’e
sottostare alle scelte gestionali ed economiche della propria controparte
contrattuale la quale, di conseguenza, arriva a detenere un vantaggio
in termini di potere sia durante la predisposizione dell’accordo sia nella
fase di esecuzione.
Tra gli esempi più emblematici -- non a caso tra i primi ad essere
regolamentati a livello legislativo -- vi è il contratto di subfornitura che
- 56 -
ricorre, per definizione normativa (art. 1 Legge n. 192/1998) qualora
un imprenditore si impegni a effettuare per conto di un’ impresa
committente <<lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime
forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa
prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere
utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella
produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi,
conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti
dall’impresa committente>>.
E’ facilmente percepibile come tale fenomeno di decentramento
produttivo crei una situazione di ‘subalternità’ con conseguente aumento
di distorsive situazioni di dipendenza a danno del piccolo imprenditore;
come già ricordato con taglio giuseconomico dal Prof. Caso, le situazioni
di sudditanza che possono generarsi in tale tipo contrattuale sono
molteplici ed in particolare ricorrono qualora, effettuati gli investimenti
necessari per soddisfare le richieste dell’impresa committente, l’impresa
subfornitrice sia legata a tale rapporto almeno fintantoché non è in
grado di ammortizzare interamente i costi sostenuti.
Tale schema contrattuale così come ora descritto non rappresenta
tuttavia l’unica ipotesi caratterizzata da una stretta interdipendenza
nell’attività economica di due imprese foriera di patologie situazioni
di ‘dipendenza’: il mondo del commercio ci consegna altre tipologie di
rapporti parimenti idonei a generare un pervasivo potere di controllo e
gestione di un’impresa su un’altra, questa volta nella successiva fase di
distribuzione del bene o servizio. Il caso più significativo è rappresentato
dal contratto di franchising mediante il quale un imprenditore partecipa
alla catena distributiva gestita dal proprio partner contrattuale e, verso il
pagamento di una fee di ingresso e/o successive royalties, gli è concesso
usufruire del know-how, marchio insegne e, in generale, dell’esperienza
acquisita dal titolare della catena distributiva. Anche in questo caso
si crea un evidente rapporto di dipendenza che lega un imprenditore
(l’affiliato) all’imprenditore capo della catena distributiva, vincolando il
primo alle scelte gestionali e imprenditoriali dettate dal secondo, sicché
sarà l’imprenditore capo che determinerà lo standard qualitativo del
negozio che l’affiliato dovrà aprire e, in ultima istanza, a determinare la
propria politica gestionale (imponendo, se a mo’ d’esempio pensiamo
- 57 -
alla commercializzazione di beni di lusso, di locare l’immobile adibito
alla vendita in una zona prestigiosa, nonché standard di arredo e
livello professionale dei dipendenti adeguato alla tipologia di bene e
del rispettivo marchio …). Ovvia conseguenza: la libertà d’impresa ne
viene irrimediabilmente limitata se non, nei casi più estremi, addirittura
annullata.
Al di là delle figure contrattuali tipizzate (quali subfornitura e
franchising), il fenomeno del disequilibrio di potere contrattuale involge
più in generale tutti i rapporti commerciali caratterizzati da uno stretto
grado di integrazione tra le attività delle imprese coinvolte (la prassi
ci consegna numerosi esempi in tal senso: tra questi valga per tutti
ricordare la fornitura di capi d’abbigliamento dal distributore all’ingrosso
al negoziante (2); o, ancora, il recente caso sottoposto al vaglio delle corti
e su cui si tornerà tra breve, della ditta di call-center che conclude un
contratto di allacciamento delle linee telefoniche con un noto gestore
di telefonia (3), in entrambi i casi la fruizione del servizio o la fornitura del
bene divengono necessari per la prosecuzione dell’attività commerciale
sicché viene a crearsi un patologico rapporto di forza a favore di uno dei
due imprenditori che può unilateralmente dettare condizioni vessatorie
sotto la minaccia dell’interruzione del rapporto).
Preso pertanto atto dell’esistenza di un fenomeno di dipendenza tra
imprese diviene rilevante verificare se e in quale misura l’ordinamento
abbia reagito. Operando tale passaggio è, in ogni caso, opportuno
sin da ora precisare (ma lo si ribadirà anche più appresso) che tali
imposizioni gestionali, essendo un elemento fisiologico a talune
tipologie di accordi commerciali, non possono essere di per sé repressi;
l’intervento da parte dell’ordinamento dovrà, invece, essere riservato ad
ogni comportamento abusivo volto ad arrecare un indebito vantaggio
a favore della parte dotata di maggior potere contrattuale. Rientra,
infatti, tra i poteri dell’imprenditore che gestisce una rete produttiva e/o
distributiva imprimere una propria politica economica di cui egli diviene
responsabile. Peraltro basti pensare che nel modello del franchising
l’attrattiva per i giovani imprenditori risiede proprio nell’intraprendere
un’attività avendo alle spalle una società più solida e più forte che
2
3
Trib. Bari, 6 maggio 2002, in Danno e Resp. 2002, 765, con nota di B. Tassone.
Trib. Trieste, ordinanza del 20 luglio 2006, in Foro it., 2006, con nota G. Colangelo
- 58 -
mette a disposizione al neoimprenditore tutta la sua esperienza e la sua
capacità di affrontare il mercato, oltre a prodotti o servizi e a un marchio
in genere già conosciuti. E’ connaturale, pertanto, al tipo di rapporto che
al titolare della catena distributiva sia attribuito il potere di determinare
unilateralmente la politica commerciale a cui si dovranno attenere i
singoli affiliati.
Ciò precisato, giungendo ad analizzare le soluzioni proposte per
individuare le forme rimediali a tutela dell’imprenditore subalterno, va
ricordato in prima battuta come si sia cercato, con non poche forzature,
di estendere la disciplina consumeristica anche ai rapporti d’impresa. A
tal proposito vale, per lo spazio che qui ci occupa, solo accennare come
in tema di tutela del consumatore su impulso della politica comunitaria
il nostro legislatore -- ispirato dall’idea di proteggere quel contraente
per definizione dotato di una minor capacità sia di reperire informazioni
per quel determinato affare, sia di negoziare in maniera paritaria con il
professionista -- abbia predisposto un apposito apparato normativo al
fine di riequilibrare le posizioni di svantaggio del contraente più debole
incidendo direttamente sul contenuto dell’accordo. Si pensi, a titolo
esemplificativo, alla disciplina sulle clausole vessatorie che prevedono
l’espunzione dal contratto- mediante la dichiarazione di inefficacia
-- di quelle singole pattuizioni particolarmente inique a danno del
consumatore; all’imposizione di obblighi informativi a carico del
professionista al fine di far raggiungere al consumatore un certo grado
di consapevolezza sull’operazione che va a contrattare; ed ancora alla
possibilità di recedere dal contratto sciogliendo il vincolo a mero titolo di
ripensamento. Si tratta, come è palese, di interventi che, al fine di tutelare
il contraente ritenuto più debole, apportano rilevanti deroghe alla
disciplina generale del contratto improntato sul principio dell’autonomia
privata in base al quale l’accordo fa legge tra le parti senza possibilità di
modifiche salvo mutuo assenso, tant’è che in dottrina si è cominciato a
distinguere tra <<primo contratto>> retto dalla disciplina codicistica e
<<secondo contratto>>, riferito alla disciplina speciale posta a tutela del
consumatore.
I tentativi di estendere analogicamente al professionista (rectius piccole
imprese e imprese artigiane) le disposizioni, per brevi cenni richiamate,
poste a tutela del consumatore, sono crollati dinnanzi alla nota pronuncia
- 59 -
della Corte Costituzionale4, già menzionata nella relazione della Prof.
Pasquino, che in maniera granitica, uniformandosi all’orientamento della
Corte di Giustizia 5, ha escluso l’illegittimità costituzionale della disciplina
consumeristica nella parte in cui non equipara il piccolo imprenditore al
consumatore. In forza del rilievo che le situazioni di squilibrio all’interno
della contrattazione tra professionisti non sono equiparabili alla
situazione di squilibrio ingenerata tra consumatore e professionista, la
soluzione accolta dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario
risulta pertanto del tutto conforme a quel principio cardine nel nostro
ordinamento, ricordato già dal Dottor Loner, secondo il quale situazioni
diseguali non possano essere trattate in maniera paritaria.
Peraltro, per il discorso che qui ci occupa, dall’iter motivazionale delle
citate pronunce, un ulteriore passaggio pare significativo: se è vero
che l’autorità giudiziaria ha negato l’estensione all’imprenditore
‘subalterno’ della disciplina dettata a tutela del consumatore, dall’altro
si è riconosciuta la necessità di apprestare, anche per l’imprenditore che
versa in stato di debolezza, una forma di rimedio da ricercare, in ogni
caso, in disposizioni ad hoc e non trasfuse dalla disciplina consumistica.
A queste linee guida ha dato seguito il legislatore con una serie di
interventi che gradualmente stanno implementando il corpo normativo
dedicato alla tutela dell’imprenditore debole, tra cui vanno sicuramente
annoverate le disposizioni di settore intervenute a disciplinare i rapporti
di subfornitura (legge n. 192/1998) 6 e di franchising (legge n. 129/2004)
7
entrambe finalizzate, più che a tipizzare gli elementi caratterizzanti i
citati contratti, a regolamentare forme di tutela a favore, rispettivamente,
del subfornitore e dell’affiliato identificati come prototipi di ‘contraente
debole’. In maniera più trasversale (riferendosi ad ogni tipologia di
transazione commerciale, anche conclusa dall’imprenditore con enti
pubblici e, in generale a ogni professionista nell’esercizio della sua
attività) si pone, inoltre, il D.Lgs. n. 231/2002, volto a reprimere i ritardi
4
5
Si tratta della celebre sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2002, n.
469, in Foro it., 2003, I, 332, con note A. Palmieri.
Corte giustizia Comunità europee, 22 novembre 2001, n. 541/99, 542/99, in Foro it.,
2001, IV, 501.
6
Legge 18 giugno 1998, n. 192, Pubblicata nelle Gazzetta Ufficiale n. 143 del
22 giugno 1998.
7
Legge 6 maggio 2004, n. 129, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 24 maggio
2004.
- 60 -
nei pagamenti che possono danneggiare, in particolare, le piccole e
medie imprese incapaci più di altre a far fronte, per un lasso di tempo
considerevole, alla mancanza del corrispettivo dovuto dal proprio
partner commerciale.
Nel perseguire tali finalità protezionistiche il legislatore ha spesso
ritenuto preminenti gli interessi dell’imprenditore ‘subalterno’ rispetto
alla conservazione dei principi generali del contratto dettati dal codice
civile. La dimostrazione di tale assunto si rinviene già nel primo intervento
legislativo disciplinante il contratto di subfornitura. La citata normativa
ha, innanzitutto, posto un’eccezione al principio della libertà di forma
che permea il diritto dei contratti: utilizzando una tecnica legislativa
ormai nota (si pensi, a mo’ d’esempio, che tale strumento è stato
previsto nella disciplina sulle locazioni e, più di recente, nella normativa
bancaria a tutela dei clienti) l’art. 2 l. 192/1998, al fine di garantire una
maggiore trasparenza dell’accordo (e, di conseguenza una maggior
consapevolezza per il subfornitore che spesso si trova a sottoscrivere
clausole unilateralmente predisposte dal committente), ha imposto la
forma scritta del contratto a pena di nullità. La stessa forma viene richiesta
anche qualora le parti, senza predisporre un formale contratto regolino il
rapporto sulla base di semplici ordinativi (art. 2, 2° comma, c.c.).
Con l’analoga finalità di agevolare una maggior consapevolezza del
contenuto dell’accordo, si è posto il successivo articolato laddove, in
deroga alla libera determinazione delle parti, viene richiesta l’indicazione,
all’interno del regolamento contrattuale, degli elementi essenziali
dell’operazione economica dettata dalle parti, in particolare riferiti al
prezzo dei beni o servizi oggetto dello scambio, ai requisiti degli stessi,
ai termini e alle modalità della consegna 8.
8
Art. 3 Legge 192/98, con particolare riguardo ai primi due commi che recitano come segue: <<Il contratto deve fissare i termini di pagamento della
subfornitura, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione, e
deve precisare, altresì, gli eventuali sconti in caso di pagamento anticipato
rispetto alla consegna.>> Mentre il 2° comma dello stesso articolo prevede
che: << Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non
può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione. Tuttavia, può
essere fissato un diverso termine, non eccedente i novanta giorni, in accordi
nazionali per settori e comparti specifici, sottoscritti presso il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato da tutti i soggetti competenti
- 61 -
Oltre a tipologie di rimedi di carattere formale sono stati altresì
introdotti rimedi di natura sostanziale che incidono ora sul contenuto
dell’accordo ora sui canoni comportamentali in fase di esecuzione del
contratto. Tra gli accordi palesemente iniqui va ricordata la pattuizione
che consente di dilazionare eccessivamente i termini di pagamento
creando per l’impresa creditrice degli squilibri economici che possono
compromettere l’attività e l’esistenza commerciale della stessa impresa.
Per contrastare tale fenomeno la legge sulla subfornitura ha previsto che
i pagamenti debbano avvenire entro un termine fissato in 60 giorni con
possibilità di proroga di ulteriori 30 giorni qualora nella contrattazione
partecipino i rappresentanti delle categorie commerciali coinvolte. E’
dunque il legislatore che, intervenendo sul contenuto dell’accordo,
impone i termini entro i quali deve essere effettuata la corresponsione
del prezzo col fine di garantire al subfornitore, nel momento in cui
esegue la propria prestazione, di ricevere, nel minore tempo possibile, il
pronto pagamento. Al fine di concretizzare tale forma di tutela è prevista
una sanzione particolarmente onerosa per il contraente inadempiente:
la violazione del termine dettato dalla legge origina interessi (senza la
necessità di una formale messa in mora) particolarmente elevati pari
a 5 punti percentuali in più rispetto al normale tasso di interesse. Non
solo, qualora il ritardo ecceda i 30 giorni oltre agli interessi moratori
viene imposta la corresponsione di una penale pari al 5% dell’importo in
relazione al quale il ritardo si è riferito.
Un pari atteggiamento di sfavore viene riservato a quegli accordi che
conferiscono al contraente dotato di maggior forza contrattuale la
possibilità di modificare unilateralmente e a suo esclusivo vantaggio,
durante la vita del rapporto, le condizioni precedentemente concordate.
E’, infatti, percepibile come in tal caso si possa creare una situazione
capestro per il piccolo imprenditore che, posto dinnanzi all’alternativa tra
per settore presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro in
rappresentanza dei subfornitori e dei committenti. Può altresì essere fissato
un diverso termine, in ogni caso non eccedente i novanta giorni, in accordi
riferiti al territorio di competenza della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura presso la quale detti accordi sono sottoscritti dalle
rappresentanze locali dei medesimi soggetti di cui al secondo periodo. Gli
accordi di cui al presente comma devono contenere anche apposite clausole per garantire e migliorare i processi di innovazione tecnologica, di formazione professionale e di integrazione produttiva>>.
- 62 -
subire l’interruzione del rapporto contrattuale (spesso unica o principale
fonte della sua attività commerciale, senza possibilità di poter reperire
nell’immediato alternative soddisfacenti sul mercato) o accettare
nuove condizioni modificative in senso peggiorativo, è costretto ad
optare per quest’ultima soluzione. Per contrastare tale fenomeno
l’art. 6 l. 192/98 ha previsto la nullità del patto mediante il quale viene
concessa alla parte dominante il rapporto la facoltà di <<modificare
unilateralmente una o più clausole del contratto di subfornitura>> (art.
6, 1° comma, l. 192/98) facendo salvi unicamente gli accordi contrattuali
che <<consentano al committente di precisare, con preavviso ed entro
termini e limiti contrattualmente prefissati, la quantità da produrre ed
i tempi di esecuzione della fornitura>>. In tal modo il legislatore pare
aver dato il giusto riconoscimento a quell’esigenza, di cui si accennava
in premessa, di non svilire, nel desiderio di tutelare ‘a tutti i costi’
l’imprenditore ‘subalterno’, le caratteristiche proprie di tali schemi
contrattuali: per quel che attiene il contratto di subfornitura, oggetto
delle attuali osservazioni, sarà infatti l’impresa committente ad avere
una visione completa del prodotto finale e del suo impatto sul mercato,
ne consegue che al committente deve essere riconosciuto il potere di
dirigere la politica commerciale determinata dal mercato (e, dunque, da
condizioni esterne spesso non controllabili e non prevedibili nella fase di
stipula del contratto) con una elasticità tale da poter correggere, anche
nel corso del rapporto, le proprie scelte gestionali. In tema di modifiche di
condizioni di mercato intervenute durante la vita del rapporto è, in ogni
caso riconosciuta una forma di tutela per il subfornitore laddove l’art. 3,
5° comma, dispone che qualora le modifiche comportino incrementi dei
costi, il subfornitore avrà diritto ad un adeguamento del prezzo anche se
non esplicitamente previsto dal contratto>>.
Parimenti colpito dalla sanzione della nullità è il patto mediante il quale
si concede il diritto di recesso da esercitarsi senza un congruo preavviso
(art. 6, 2° comma, c.c.). Si tratta di una norma che cerca di rimediare ad
uno dei problemi più avvertiti nell’ambito dei rapporti tra imprese ovvero
l’interruzione immediata e arbitraria della relazione commerciale con
grave pregiudizio economico in particolare per l’imprenditore satellite
che, in previsione della durata del rapporto, abbia effettuato degli
investimenti specifici (talvolta imposti dalla stessa parte dominante)
senza avere il tempo di una loro riconversione in un’altra relazione
- 63 -
commerciale. Anche in questo caso l’esigenza alla stabilità del rapporto
deve essere contemperata con il principio che vieta l’esistenza di vincoli
contrattuali perenni; nel mediare tale interesse si è ritenuta valida la
clausola di recesso purché preveda un <<congruo preavviso>>, idonea
a consentire l’ammortamento degli investimenti ‘specifici’, ovvero
quelli sostenuti in vista dell’esecuzione del contratto. Nella difficoltà di
determinare in concreto quando il preavviso può ritenersi ‘congruo’,
valgano come utili parametri la tipologia di relazione , il comportamento
delle parti nonché gli usi commerciali.
E’ bene sottolineare come in entrambi i casi presi a riferimento si ritiene
che la nullità comminata rientri nella categoria della c.d. <<nullità
relativa>> con evidente vocazione protettiva in quanto posta a tutela di
una sola delle parti del contratto (id est il subfornitore). Inoltre, con una
soluzione che molto ricorda la sanzione dell’inefficacia delle clausole
vessatorie nei contratti conclusi tra professionista e consumatore, pur
nel silenzio della legge si ritiene che, in deroga alla disciplina di cui al
primo comma dell’art. 1419 c.c., sia stata inserita una sorta di nullità
parziaria inidonea ad inficiare l’intero contratto. In tal modo anche
l’imprenditore ‘subalterno’ che, come sopra considerato, ha spesso
interesse alla prosecuzione del rapporto, può ottenere un rimedio
altamente satisfattivo: il perdurare del vincolo contrattuale espunto
dagli accordi iniqui.
Accanto a tali ipotesi ‘tipiche’ di iniquità dell’accordo (tra le quali si è citato
lo jus variandi e la clausola di recesso senza preavviso), la legge 192/98
introduce una norma di carattere generale che vieta ogni comportamento
o accordo derivante da uno sfruttamento abusivo dello stato di
<<dipendenza economica>> in cui versa l’imprenditore ‘subalterno’
foriero di squilibrio tra le posizioni dei contraenti. Con portata più ampia,
rispetto ai precedenti articolati, l’art. 9 della legge n. 192/98 individua tra
le condotte che possono originare situazioni di abuso, in generale, <<…
le imposizioni di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose
o discriminatorie>>; <<il rifiuto di vendere o il rifiuto di comprate>>
nonché <<l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto>> 9.
9
Tra i primi commentatori della normativa v. R. Caso e R. Pardolesi., La nuova
disciplina del contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio
o prodromo di tempi migliori?, in Riv. dir. privato, 1998, 712
- 64 -
Non è certo questa la sede per ripercorrere le diverse tappe applicative
dell’istituto del divieto di abuso di dipendenza economica; valga solo ricordare
che se in origine il suo ambito di applicazione era delimitato alle sole ipotesi
di arbitraria interruzione delle relazioni contrattuali, oggi le corti estendono
il suo campo di operatività anche al controllo sul contenuto dell’accordo 10.
Il modificato stato dell’arte si deve al già ricordato caso sottoposto al vaglio
del Tribunale di Trieste che ha colpito con la nullità per divieto di abuso
di dipendenza economica, l’accordo con cui un’impresa di call center si è
impegnata nei confronti di un noto gestore di telefonia ad accettare i prezzi
imposti dalla controparte senza nessuna possibilità di negoziare gli stessi o
di sindacarne la congruità. In altri termini l’abuso di dipendenza economica
è stato ravvisato in uno squilibrio presente nella fase ‘genetica del vincolo
contrattuale’ valutato anche alla luce dell’intero regolamento contrattuale
che, nel caso di specie, imponeva un ulteriore aggravio per l’impresa cliente
, non solo attraverso l’inserzione di una clausola solve et repete in base alla
quale si condizionava l’allacciamento delle linee all’accettazione preventiva
delle condizioni di fornitura, ma altresì mediante una clausola di esclusiva
volta ad impedire all’impresa di call center di rivolgersi ad altri gestori. Si assiste
in tal modo ad un accoglimento nelle aule giudiziarie dell’idoneità dell’art.
9 l. 192/98 a ‘immolarsi’ come strumento di controllo sulle clausole inique
anche nella cd. contrattazione business to business, intervento che peraltro
già da tempo il legislatore ha affidato altresì alla Camera di Commercio
alla quale, a seguito della legge di riordino del 1993 è stata demandata, in
aggiunta alla tradizionale funzione arbitrale e conciliativa, il compito di un
intervento più pregnante sul contenuto dei contratti d’impresa sia mediante
la predisposizione di contratti – tipo sia mediante un controllo sulle clausole
inique riferiti alla più generale categoria di contratti d’impresa.
Oltre all’estensione delle ipotesi indicate (si noti solo a titolo
esemplificativo) nella nozione di <<abuso di dipendenza economica>>,
l’art. 9 della legge n. 192/98 merita una particolare menzione almeno per
altri due ordini di ragioni.
In primis sotto il profilo dei rimedi, anche a seguito della modifica
dell’art. 9 avvenuta con l’emanazione dell’art. 11 della l. n. 57/2001
10 Sulle più recenti applicazioni giurisprudenziale del divieto di abuso di dipendenza
economica v. C. Medici, Il controllo sul contenuto economico dello scambio: una recente
applicazione giurisprudenziale del divieto di abuso di dipendenza economica, in Riv. Cirtica dir. Privato, 2006, 681 ss.
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(meglio conosciuta per aver esteso la competenza anche all’Autorità
Garante delle Concorrenza e del Mercato qualora l’abuso di dipendenza
economica incida sulla concorrenza e sul mercato, ferma restando
l’eventuale applicazione dell’art. 3 l. n. 287/1990), oltre alla sanzione della
nullità –a cui si rimanda a quanto sopra precisato-- è stato formalizzato
il rimedio inibitorio nonché quello risarcitorio. La portata del pieno
riconoscimento legislativo della tutela inibitoria è facilmente percepibile:
in tal modo oltre a poter ottenere un ordine di cessazione dell’ attività
giudicata abusiva, si può arrivare a concepire, estremizzando, forme
di ordini volti al raggiungimento di specifici obiettivi (rispettivamente
inibitoria negativa e inibitoria positiva; in quest’ultimo caso la questione
più rilevante si incentra sul riconoscimento della possibilità per il giudice
di disporre un vero e proprio obbligo a contrarre).
Il secondo rilievo che rende l’abuso di dipendenza economica centrale
nell’ambito della tutela dell’imprenditore debole attiene alla sua
(ormai prevalentemente riconosciuta sia a livello dottrinale sia a livello
giurisprudenziale 11) vocazione a carattere espansivo nel senso che
tale istituto è destinato a trovare applicazione ad ogni tipo di relazione
tra imprese caratterizzate da situazioni di ‘sudditanza’ di un partner
commerciale al cospetto dell’altro. Il riconoscimento di una simile
estensione riveste un evidente risvolto pratico non solo per quei rapporti
di impresa privi di una specifica regolamentazione (si pensi a titolo
esemplificativo ai rapporti di fornitura, di concessione di vendita…), ma
rileva anche per un altro schema contrattuale tipizzato caratterizzato
dalla presenza di asimmetria di potere contrattuale tra i due contraenti:
il contratto di franchising. Se, infatti, è vero, come precedentemente
osservato, che anche tale rapporto ha ricevuto un riconoscimento
normativo, è parimenti innegabile che gli interventi protezionistici
predisposti dal legislatore si risolvono principalmente nella fase delle
trattative e della conclusione del contratto. Per il poco tempo che mi è
concesso, mi sia permesso solo ricordare come la legge n. 129/2004 e
successive modifiche contiene un articolato particolarmente dettagliato
11 Cfr. Trib. Catania, 5 gennaio 2004, in Danno e resp., 2004, 426, con nota A. Palmieri;
Trib. Bari, 22 ottobre 2004, in Foro it., 2005, I, 1604; T. Bari, 06 maggio 2002, in Foro it.,
2002, I, 2178, con nota A. Palmieri- C. Osti e in Danno e resp., 2002, 765, con nota B.
Tassone. In senso difforme v. Trib. Taranto, 22 dicembre 2003, in Danno e resp., 2004,
424, con nota A. Palmieri e Trib. Bari, 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, 3208, con nota
A. Palmieri.
- 66 -
per quel che riguarda i doveri di informativa a carico dell’affiliante riferiti
alla tipologia di affare e al concreto andamento dell’attività commerciale
della catena distributiva a cui l’aspirante affiliante intende associarsi;
in altri termini, tutte le informazioni che riguardano le caratteristiche
della catena distributiva, devono essere comunicate anche all’affiliato
(in particolare si rinvia agli artt. 4 e 6 della citata legge) 12. La stessa
imposizione del canone di buona fede, a ben vedere, viene riferito alla
fase di conclusione del contratto in quanto inserita all’art. 6 rubricato
12 Art. 4.(Obblighi dell’affiliante)1. Almeno trenta giorni prima della sottoscri-
zione di un contratto di affiliazione commerciale l’affiliante deve consegnare all’aspirante affiliato copia completa del contratto da sottoscrivere,
corredato dei seguenti allegati, ad eccezione di quelli per i quali sussistano
obiettive e specifiche esigenze di riservatezza, che comunque dovranno essere citati nel contratto:a) principali dati relativi all’affiliante, tra cui ragione e
capitale sociale e, previa richiesta dell’aspirante affiliato, copia del suo bilancio degli ultimi tre anni o dalla data di inizio della sua attività, qualora esso
sia avvenuto da meno di tre anni; b) l’indicazione dei marchi utilizzati nel
sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa all’affiliante dal terzo, che abbia eventualmente la proprietà
degli stessi, o la documentazione comprovante l’uso concreto del marchio;
c) una sintetica illustrazione degli elementi caratterizzanti l’attività oggetto
dell’affiliazione commerciale; d) una lista degli affiliati al momento operanti nel sistema e dei punti vendita diretti dell’affiliante; e) l’indicazione della
variazione, anno per anno, del numero degli affiliati con relativa ubicazione
negli ultimi tre anni o dalla data di inizio dell’attività dell’affiliante, qualora
esso sia avvenuto da meno di tre anni; f) la descrizione sintetica degli eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali, promossi nei confronti dell’affiliante
e che si siano conclusi negli ultimi tre anni, relativamente al sistema di affiliazione commerciale in esame, sia da affiliati sia da terzi privati o da pubbliche
autorità, nel rispetto delle vigenti norme sulla privacy.
Art. 6 (Obblighi precontrattuali di comportamento). L’affiliante deve tenere, in
qualsiasi momento, nei confronti dell’aspirante affiliato, un comportamento
ispirato a lealtà, correttezza e buona fede e deve tempestivamente fornire,
all’aspirante affiliato, ogni dato e informazione che lo stesso ritenga necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto di affiliazione commerciale, a meno che non si tratti di informazioni oggettivamente riservate o la
cui divulgazione costituirebbe violazione di diritti di terzi. L’affiliante deve
motivare all’aspirante affiliato l’eventuale mancata comunicazione delle informazioni e dei dati dallo stesso richiesti. L’aspirante affiliato deve tenere
in qualsiasi momento, nei confronti dell’affiliante, un comportamento improntato a lealtà, correttezza e buona fede e deve fornire, tempestivamente ed in modo esatto e completo, all’affiliante ogni informazione e dato la
cui conoscenza risulti necessaria o opportuna ai fini della stipulazione del
contratto di affiliazione commerciale, anche se non espressamente richiesti
dall’affiliante.
- 67 -
<<obblighi precontrattuali di comportamento>> e non a quella della sua
esecuzione.
Per quel che attiene i rimedi predisposti nel momento della conclusione
del contratto, sulle orme della legge in tema di subfornitura viene
prescritta, a pena di nullità, la forma scritta, nonché imposto un
contenuto minimo del contratto (art. 3, 4 comma) 13. In tale fase le tutele
a favore dell’affiliato vengono, infine, amplificate dalla disposizione che
prescrive la consegna del contratto almeno trenta giorni prima la stipula
dello stesso. Se certo la disposizione non può essere equiparata al diritto
di ripensamento che caratterizza la disciplina consumeristica, è pur
vero che si tratta di una norma di carattere speciale volta a consentire
a colui che intende immettersi sul mercato di ponderare l’iniziativa
commerciale che vuole intraprendere e di operare gli opportuni controlli
sulla convenienza dell’operazione economica.
Al contrario, in riferimento alla successiva fase di esecuzione del
contratto, salvo la previsione che impone una durata minima di tre
anni del rapporto commerciale (e ciò con l’immutato intento di favorire
l’ammortamento degli investimenti specifici) il legislatore rimane
silente; a colmare tale lacuna soccorre all’operatore del diritto, come
prima ricordato, l’applicazione della disciplina del divieto di abuso
di dipendenza economica con la possibilità di avvalersi del relativo
ventaglio rimediale, di cui si è discusso.
Giunti alle battute conclusive possiamo affermare, senza timore di essere
smentiti, che la qualità di imprenditore non garantisce più l’immunità
da vessazioni contrattuali. Acquisita tale consapevolezza il nostro ordinamento
ha predisposto delle forme rimediali che, se in origine erano riferite solo a
talune figure di imprenditore ‘subalterno’ (v. subfornitore, affiliato), arrivano
13 L’art. 3, 4° comma, recita testualmente: << Il contratto deve inoltre espres-
samente indicare: a) l’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese
di ingresso che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività; b) le
modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato; c) l’ambito di
eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione
a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante; d) la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato; e) le eventuali modalità di
riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato; f) le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e
commerciale, progettazione ed allestimento, formazione; g) le condizioni di
rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso.
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oggi ad indicare in maniera più trasversali su tutti i rapporti tra imprese. Ciò è
vero non solo considerando l’applicazione ‘a compasso allargato’ del divieto
di abuso di dipendenza economica a tutti i rapporti business to business, ma
altresì prendendo a riferimento il D.Lgs. n. 231/2002 relativo alla lotta contro
i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali mediante il quale è
stata traslata dal più delimitato schema contrattuale di subfornitura ad ogni
tipologia di transazione tra imprenditori gli interventi sanzionatori e correttivi
verso la deprecabile prassi di dilatare eccessivamente i termini di pagamento.
In particolare il citato decreto non solo dichiara nulli quegli accordi relativi al
termine di pagamento e alla fissazione degli interessi dovuti in caso di ritardo
che, secondo i parametri indicati dall’art. 7 del citato decreto, si traducono
in un indebito vantaggio a favore della parte avente maggiore potere
contrattuale, fomentando il disequilibrio delle posizioni contrattuali 14, ma
autorizza l’autorità giudiziaria a riscrivere l’accordo riconducendolo ad equità
sia in riferimento alla data di pagamento, sia per quel che attiene il calcolo
degli interessi dovuti in caso di ritardato pagamento.
La strada da percorrere è ancora lunga ma già si possono intravedere gli
albori di una nuova categoria contrattuale ritagliata attorno alla figura
dell’imprenditore debole tale da creare una tipologia di contratto che,
aggiungendosi a quella relativa ai contratti disciplinati dal codice civile e a
quella riferita ai contratti conclusi tra consumatore e professionista, è stata
catalogata come <<terzo contratto>> 15.
14 Si è già avuto modo di osservare in un precedente contributo a cui ci si permette di
rinviare per una più approfondita analisi (C. Medici, Ritardi nei pagamenti e clausole
in deroga: protezione oltre il segno?, in Danno e Resp. 2005, 8-9, 893 ss.) come le previsioni legislative di cui agli artt. 4 e 5 --che rispettivamente fissano in 30 giorni (salvo
casi eccezionali) il termine di pagamento e il saggio degli interessi in caso di ritardo
in e’ determinato in misura pari al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione
di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre
in questione, maggiorato di sette punti percentuali – possano essere derogate dalle
parti purché non si traducano in accordi <<gravemente iniqui>>, da valutarsi secondo i parametri di cui all’art. 7 del citato decreto. Ai sensi di tale disposizione, infatti,
<<L’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, e’ nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce
o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonche’ ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo
in danno del creditore>>.
15 La paternità del termine è da attribuire a R. Pardolesi.
- 69 -
Dott. Giuseppe Colangelo
LUISS Roma
L’ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA
1. Il rapporto tra autonomia negoziale e regolazione del mercato è
da tempo al centro di un fervido dibattito per via di alcuni interventi
legislativi che segnano l’affermarsi di un nuovo paradigma contrattuale,
destinato a sfidare i tabù storici del diritto civile e a scardinare le
tradizionali ripartizioni giuridiche.
Negli ultimi anni si sono andati profilando a livello legislativo e
giurisprudenziale diversi interventi che, per quanto eterogenei, sembrano
segnare un tendenziale spostamento dalle concezioni soggettivistiche
del contratto, basate sul dogma della volontà, a quelle oggettivistiche,
fondate invece sulla congruità dello scambio: un richiamo al riequilibrio
sostanziale all’interno del contratto, che suona come una reazione alle
“suggestioni della dommatica della volontà” ed alle tradizionali riserve
espresse contro l’intervento del giudice nella “cittadella dell’autonomia
privata”1. E’ possibile, così, scorgere delle affinità elettive tra l’abuso
di dipendenza economica, le norme sui contratti del consumatore, i
principi dell’Unidroit per i contratti commerciali internazionali, i principi
dello European Contract Law, la disciplina sui termini di pagamento
e la recente legge sull’affiliazione commerciale: espressioni quali
“significativo squilibrio”, “eccessivo squilibrio”, “gross disparity”, “grave
iniquità”, segnalano un’attenzione crescente intorno alla tematica del
contratto ‘giusto’ e delimitano un terreno di comune condivisione che
1
L’espressione è tratta da una pronuncia della Cassazione sul tema della riducibilità
d’ufficio della penale manifestamente eccessiva (sez. I, 24 settembre 1999, n. 10511,
in Foro it., 2000, I, 1929, successivamente smentita da Cass., sez. III, 27 ottobre 2000, n.
14172, in Giust. civ., 2001, I, 105), la quale parla espressamente di “tramonto del mito
ottocentesco della onnipotenza della volontà e del dogma della intangibilità delle
convenzioni”.
- 70 -
muove dal superamento di un sistema fondato sull’unità del contraente
ed evolve in favore di uno che realizzi una selezione degli interessi di
volta in volta ritenuti rilevanti.
Stiamo, in definitiva, assistendo all’affermarsi di un nuovo paradigma
contrattuale, che sfida i tabù storici del diritto civile e che sembra voler
delineare un contratto la cui forza di legge viene progressivamente
attenuata, il cui contenuto economico è sempre più assoggettato a
controlli e il cui regime subisce una crescente commistione fra regole
di validità e regole di comportamento2: un modello che trascende
la tipizzazione delle parti contraenti per trovare il proprio humus
nell’asimmetria del potere contrattuale.
La figura dell’abuso di dipendenza economica incarna meglio di
ogni altri la nuova frontiera. Attraverso la previsione di una forma di
posizione dominante relativa, l’istituto estende lo spettro del potere
economico sottoposto alla lente antitrust, includendo nella sua
nozione non più necessariamente l’egemonia assoluta sul mercato,
ma anche un dominio relativo ad uno specifico rapporto giuridico:
le regole antitrust sono chiamate, quindi, ad operare nello spazio
dell’equilibrio economico e giuridico delle relazioni contrattuali, come
strumenti incidenti direttamente sull’autonomia contrattuale delle parti.
Eppure, a sette anni dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, l’abuso
di dipendenza economica continua ad essere vittima di un destino avverso.
Partorita nel contesto della disciplina della subfornitura, le ambiguità
emerse relativamente al corretto inquadramento della disciplina
continuano tutt’ora ad accompagnare e scandire la sorte dell’istituto.
E’ noto come originariamente i disegni di legge presentati nel corso
della XII e XIII legislatura proponessero di inserire il nuovo istituto
nell’ambito della normativa a tutela della concorrenza di cui alla legge
n. 287/90, attraverso l’estensione del campo di applicazione della
2
V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv.,
2001, 769, 786: “il dato unificante dei contratti le cui discipline definiscono il nuovo
paradigma contrattuale non può identificarsi, riduttivamente, in una rigida categorizzazione socio-economica delle parti contraenti; bensì va cercato in un elemento
più generale. E’ l’elemento che una volta si sarebbe definito come <<debolezza>> di
una parte rispetto all’altra, e che in linguaggio più moderno può oggi denominarsi
come asimmetria di potere contrattuale”.
- 71 -
figura dell’abuso di posizione dominante: il temporaneo approdo
civilistico si deve alla veemente reazione dell’Autorità Garante (AGCM),
la quale ha ostinatamente inquadrato la tematica nell’ambito della
contrapposizione netta fra norme a tutela della concorrenza e norme a
tutela dei soggetti più deboli fra i partecipanti al mercato, segnalando
il diverso profilo teleologico tra le norme antitrust, dirette a tutelare il
processo concorrenziale in relazione all’assetto del mercato, e la regola
della dipendenza economica, inerente alla disciplina dei rapporti
contrattuali tra le parti e, quindi, con finalità che possono prescindere
dall’impatto di tali rapporti sull’operare dei meccanismi concorrenziali3.
Ne è scaturita una diatriba poco avvincente, il cui unico risultato è stato
quello di soffocare alla nascita il nuovo istituto, relegandolo in un articolo
della legge sulla subfornitura e prestando così il fianco ad interpretazioni
ancor più restrittive. Per quanto, infatti, quasi unanimemente si sia
ritenuto che la portata del precetto vada ben oltre la specifica tipologia
del contratto di subfornitura4, non sono mancate voci fuori dal coro, le
quali, come vedremo, hanno trovato terreno fertile in alcune pronunce
giurisprudenziali5.
Il risultato del tortuoso iter legislativo non può, quindi, sorprendere: l’art.
9 della legge n. 192/98 è rimasto sostanzialmente inattuato: tanto da
costringere il legislatore a ritornare sui suoi passi aggiungendo, con l’art.
11 della legge n. 57/01, un comma che assegna all’AGCM una specifica
competenza in materia. A confermare la vocazione antitrust della
fattispecie, peraltro, è inaspettatamente giunto in soccorso il recente
Regolamento n. 1/03 sulla modernizzazione del diritto comunitario
antitrust, il quale lascia intravedere come le ragioni per il riconoscimento
della dipendenza economica abbiano fatto breccia persino a Bruxelles:
nel considerando n. 8 si può, infatti, scorgere l’alba di un nuovo corso,
3
Segnalazioni AS046 del 20 giugno 1995, in Boll. n. 23/1995, e AS121 dell’11 febbraio
1998, in Boll. n. 5/98.
4
La letteratura in materia è davvero sterminata: per un riepilogo delle varie
posizioni in materia sia consentito rinviare a G. COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti, Torino
2004.
5
Il riferimento è a R. RINALDI – F.R. TURITTO, in AA.VV., La nuova disciplina del contratto di
subfornitura nella legge n. 192 del 1998 (a cura di P. Sposato e M. Coccia), Torino, 1999,
121, e ad A. MUSSO, La subfornitura, Bologna, 2003, 466-549.
- 72 -
laddove si afferma che “non dovrebbe essere fatto ostacolo, ai sensi del
presente regolamento, all’adozione e all’applicazione da parte degli Stati
membri, nei rispettivi territori, di leggi nazionali sulla concorrenza più
severe che vietano o sanzionano un comportamento unilaterale delle
imprese. Tali leggi nazionali più severe possono prevedere disposizioni
che vietano o sanzionano un comportamento illecito nei confronti di
imprese economicamente dipendenti”6.
2. Non vi è dubbio che la dipendenza economica estenda lo spettro
del potere economico sottoposto alla lente antitrust e che, per questa
via, le regole di concorrenza si trasformino in strumenti incidenti
direttamente sull’autonomia contrattuale delle parti ed operanti nello
spazio dell’equilibrio economico e giuridico dei rapporti contrattuali7.
Tuttavia il solco concettuale tra potere di mercato e potere contrattuale
è meno profondo di quanto si possa pensare. Il mercato non è altro che
un insieme di relazioni contrattuali e la disparità nel potere contrattuale
è frutto delle imperfezioni del mercato: l’approfittamento dello squilibrio
contrattuale è, in questo senso, la conseguenza dell’incapacità del
mercato di fornire ai soggetti deboli alternative adeguate per sottrarsi
alla situazione di dipendenza8.
Insomma, è innegabile che la dipendenza economica si collochi a mezza
via tra il diritto dei contratti e quello della concorrenza, presentando una
doppia anima -quella tipica dell’antitrust combinata con uno dei principi
cardine del diritto dei contratti, espresso dalla clausola generale di
buona fede, costantemente evocata in tema di equilibrio contrattuale-,
6
7
8
Regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del trattato, in G.U.C.E.
2003, L 1/1.
C. OSTI – R. PARDOLESI, Il problema della dipendenza economica, in Atti del convegno ITA,
7 ottobre 1998: o si considera la fattispecie della dipendenza economica introdotta
dall’art. 9 della legge 192/98 come “un contributo atto a scardinare l’intero nostro sistema di diritto civile, restio all’idea di entrare nella puntuale regolazione dei rapporti
economici tra singoli”, oppure “si vede nella norma in questione un caso di abuso di
posizione dominante relativa”.
R. CASO – R. PARDOLESI, La nuova disciplina del contratto di subfornitura (industriale):
scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori, in Riv. dir. priv., 1998, 712., 733:
“è vero che l’economia incisa è quella della parte contrattualmente debole; ma non è
men vero che l’abuso di dipendenza economica tende a stravolgere le condizioni che
rendono possibile una concorrenza effettiva”.
- 73 -
e che, quindi, “entrambe le traiettorie, assunte singolarmente, si rivelano
inadeguate a fornire una chiave interpretativa completa”: è altresì vero
che la corsa verso il magma della buona fede è obbligata solo “per chi
non intenda puntare dritto al cuore del nodo economico della vicenda
e cimentarsi così in una ricostruzione nei termini stringenti del modello
analitico di law & economics”9. E’ proprio l’analisi economica delle
relazioni contrattuali tra imprese –l’economia dei costi di transazione,
in particolare- ad essere progressivamente riuscita a dimostrare che
i confini tra di potere di mercato e potere contrattuale non sono così
nitidi come vorrebbero le partizioni giuridiche; pertanto, è alla luce
di un’analisi giuseconomica che è opportuno valutare fin dove può
spingersi un intervento di repressione dell’abuso di potere contrattuale,
e se è più corretto intervenire dal versante antitrust, da quello del
diritto dei contratti o, come si delinea nel nostro ordinamento, in modo
congiunto.
Le caratteristiche salienti della dipendenza economica sono
sommariamente da rintracciarsi nella specificità del bene (asset
specificity), nelle carenze informative e nell’incompletezza del
contratto, in quanto abbiano l’effetto di imprigionare uno dei contraenti
nell’accordo negoziale esponendolo così al rischio di comportamenti
opportunistici della controparte. Essa si colloca nell’alveo del tipico
problema di hold-up, sviluppandosi in quelle ipotesi in cui, a causa della
difficoltà di reperire sul mercato alternative soddisfacenti, l’elasticità
della domanda o dell’offerta di una parte accusa una decisa contrazione
a seguito della stipulazione del contratto e per effetto della condizione
di specificità del rapporto economico instauratosi tra le parti: il soggetto
‘imprigionato’ nel contratto, inchiodato alla sua scelta per la carenza
di sostituti, è evidentemente esposto al rischio di estorsione da parte
dell’altro contraente che, tramite la minaccia di porre fine al rapporto,
ha l’opportunità di ottenere una modificazione dei termini dell’accordo
originario a proprio favore. Il lock-in si verifica appunto quando, a seguito
della stipulazione del contratto e degli investimenti specifici (relationalspecific investments) sostenuti nell’ottica della sua esecuzione, una
9
Le citazioni sono tutte di F. MACARIO, Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia
privata nella subfornitura, in AA.VV., Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia
privata, Napoli, 2002, 156, 161.
- 74 -
delle parti finisce per essere vincolata al rapporto commerciale nel senso
che la prematura interruzione del contratto comporterebbe per essa la
perdita di gran parte degli investimenti effettuati10.
L’immagine di un contraente privo di alternative soddisfacenti e, per
questo, esposto all’abuso di controparte si profila in modo paradigmatico
nel franchising, dove il franchisee, a fronte dei capitali investiti (senza
possibilità di riconversione) per poter esercitare l’attività commerciale,
verte in una situazione di endemica debolezza che presenta tutte
le caratteristiche della dipendenza economica11. Non è un caso che,
proprio al fine di tutelare il contraente debole, il legislatore abbia deciso
di intervenire con una normativa ad hoc per l’affiliazione commerciale
(legge 6 maggio 2004, n. 129), anche a costo di risolvere positivamente
la discussa questione della sua tipicità legale ed ignorare l’esistenza di
un istituto già presente (quello della dipendenza economica, appunto).
La legge 129/2004 prende, infatti, le mosse dalla necessità di un intervento
correttivo teso a rieliquibrare la disparità di potere contrattuale che
si manifesta nella fase successiva alla stipulazione del contratto: è in
quest’ottica - ovvero con l’obiettivo di neutralizzare i rischi di hold up
monopolistico – che, ad esempio, va interpretato l’inserimento di una
recovery-period rule che assicuri una vita minima al rapporto, affinché
l’affiliato possa recuperare gli investimenti sostenuti. Peccato che, al
termine della lettura dei nove articoli di cui si compone la legge, non
sia dato capire quale sia la linea discretiva che consenta di riconoscere
un’autonomia ed un’individualità ad una tipologia contrattuale - quale
appunto quella del franchising - che risulta, all’indomani del battesimo
legislativo, non più definita di quanto lo risultasse ieri, quando la si poteva
assumere assistita, al più, dalla sola tipicità sociale. Bastava applicare un
istituto già presente nel nostro ordinamento. La dipendenza economica,
infatti, collocandosi nel solco interpretativo tracciato dall’affermazione
del ruolo centrale svolto dalla buona fede nella gestione dei rapporti,
10 Diffusamente sul punto C. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004, 243-261.
11 R. PARDOLESI, I contratti di distribuzione, Napoli, 1979, 323: “per comune ammissione,
l’idea di un contraente inchiodato alla sua scelta dalla carenza di sostituti e perciò
esposto all’altrui leverage monopolistico trova riscontro paradigmatico proprio nel
franchisee che abbia impegnato capitali senza possibilità di riconversione: la necessità di ammortizzare gli investimenti lo renderà più che mai reattivo allo spettro del
recesso unilaterale (o mancato rinnovo) del produttore”.
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sembra corrispondere pienamente all’identikit del rimedio che
affannosamente il legislatore stava cercando, ovvero una clausola
generale di abuso di potere contrattuale nelle relazioni negoziali tra
imprese.
3. La sfiducia generale che circonda l’istituto in esame,
emblematicamente testimoniata dall’ostracismo dell’Acgm (nonostante
la modifica intervenuta nel 2001, ad oggi non risulta nemmeno un
provvedimento in materia), trova una chiara ricaduta nelle pronunce
giurisprudenziali.
Ci sono voluti quattro anni per assistere al battesimo giurisprudenziale
della disciplina12. Non che di ‘esordi mancati’ si sia avvertita l’assenza13:
basti pensare al decreto del Tribunale di Taranto, che aveva dichiarato
inapplicabile la legge 192/98 ai contratti conclusi prima della sua
entrata in vigore14; alle ordinanze dei Tribunali di Torino e Taranto circa
i presupposti per poter beneficiare della tutela monitoria di cui all’art.
315; nonché, infine, al provvedimento del Tribunale di Udine in tema di
tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 1016.
La pronuncia Milly Boutique c. Marina Babini è valsa a far tirare un respiro
di sollievo a quanti –noi compresi- temevano che questo “figlio negletto”
fosse stato messo anzitempo nel dimenticatoio17: stante la ‘latitanza’
dell’AGCM, ne è scaturito un tentativo apprezzabile già per il fatto di
per essersi addentrato in un terreno inesplorato, anche se non può
essere sottaciuta l’esigenza che l’abuso di dipendenza economica venga
identificato in base a criteri più rigorosi. Il giudice Agostinacchio, nel
giustificare l’applicazione dell’art. 9 della legge sulla subfornitura ad una
semplice ipotesi di contratto di compravendita, sgombra subito il campo
da possibili dubbi: l’abuso di dipendenza economica, “come è agevole
12 Trib. Bari, ordinanza 6 maggio 2002, in Foro it., 2002, I, 2183.
13 L’espressione è di M. GRANIERI, Subfornitura industriale: l’esordio (mancato) di una disciplina, in Foro it., 1999, I, 2077.
14 Trib. Taranto, 22 marzo 1999, in Foro it., 1999, II, 2077.
15 Trib. Torino, 19 marzo 1999, e Trib. Taranto, 28 settembre e 13 ottobre 1999, in Foro it.,
2000, I, 624.
16 Trib. Udine, 27 aprile 2001, in Foro it., 2001, I, 2677.
17 R. PARDOLESI, Il contratto e il diritto della concorrenza, relazione al convegno “Il contratto
e le Autorità indipendenti”, tenutosi presso l’Università degli studi di Brescia, 22-23
novembre 2002.
- 76 -
rilevare dalla semplice lettura del testo, ha un ambito di applicazione
che si estende a tutti i contratti tra imprese … in particolare, per quanto
riguarda i soggetti destinatari del divieto di abuso di dipendenza
economica, la norma ha un campo di applicazione notevolmente più
ampio rispetto a quello delimitato dall’art. 1, comprendendo ogni realtà
imprenditoriale in grado di condizionare in maniera incisiva il rapporto
con altra impresa (cliente o fornitrice)”.
Meno di sessanta giorni dopo, l’ordinanza viene appellata ed annullata
con la motivazione che l’abuso di dipendenza economica si applica
soltanto ai contratti di subfornitura18. Come se non bastasse, a stretto giro
di posta, in altrettante ipotesi di interruzione del rapporto contrattuale il
tribunale di Roma ha per ben tre volte respinto l’applicazione dell’abuso
di dipendenza economica: prima ne ha negato l’esistenza perché non
era stato previamente esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione,
con ciò confermando implicitamente che la fattispecie della dipendenza
economica vive soltanto nell’ambito dei rapporti di subfornitura19;
poi ne ha bocciato l’invocazione, in ragione sia della labilità del fumus
bonis iuris sia dell’irrilevanza del periculum in mora, laddove la chiusura
dell’attività dell’impresa sia ascrivibile alla condotta della medesima che,
con il proprio reiterato inadempimento, abbia indotto il committente
alla disdetta dei contratti in corso di esecuzione20; infine ha rifiutato di
rinnovare il contratto, sostenendo che attraverso la tutela cautelare
atipica non si può alterare la struttura dei rapporti sostanziali discendenti
dal contratto e che non vi era corrispondenza fra quanto ottenibile e
quanto richiesto in sede di provvedimento d’urgenza21.
La situazione non migliora persino laddove si riconosca uno spazio di
applicazione per la dipendenza economica. Il Tribunale di Taranto è stato
recentemente chiamato da un affiliato ad intervenire in via d’urgenza per
sospendere l’efficacia della disdetta del contratto di franchising intimata
da controparte22: il franchisor avrebbe violato la tutela dell’affidamento
riposto nella prosecuzione del rapporto contrattuale. Secondo il
18
19
20
21
22
Trib. Bari, ord. 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, 3209.
Trib. Roma, ord. 20 maggio 2002, in Foro it., ult. cit..
Trib. Roma, ord. 16 agosto 2002, ivi.
Trib. Roma, ord. 12 settembre 2002, ivi.
Trib. Taranto, ord. 17 settembre 2003, in Danno e resp., 2004, 1, 65, con nota di G. COLANGELO.
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tribunale la fattispecie rientrava nell’alveo della dipendenza economica
in quanto –udite, udite- “non può, anzitutto, dubitarsi che si versi
nell’ipotesi di contratto di subfornitura”: ennesima dimostrazione della
perdurante inclinazione di certa giurisprudenza a limitare drasticamente
l’ambito di applicazione dell’istituto, a dispetto del diverso avviso della
dottrina pressoché unanime e della modifica legislativa del 2001. Nel
caso di specie, peraltro, paradossalmente il richiamo alla disciplina
sulla subfornitura avviene non per escludere dalla scena la dipendenza
economica, ma per affermarne l’applicabilità, a prezzo d’imbarcarsi nella
disavventura concettuale di qualificare il franchising come un contratto
di subfornitura.
Se possibile, ancora più preoccupante è l’analisi condotta riguardo
allo stato di dipendenza economica. Lungi dal valutare in concreto gli
investimenti specifici sostenuti, i costi di commutazione e la disponibilità
di alternative soddisfacenti, l’attenzione del giudice si è appuntata
principalmente sulla dimensione delle imprese coinvolte, tanto da
dedurre lo squilibrio di diritti ed obblighi dalla mera stima all’ingrosso
delle rispettive posizioni sostanziali: “considerazioni alla portata del
volgo e dell’inclito inducono a ritenere sussistente, fra le odierne parti,
uno squilibrio di diritti ed obblighi talmente evidente, da consentire
all’interprete di limitare l’analisi al dato oggettivo delle rispettive posizioni
sostanziali (con riferimento alle quali suonerebbe offesa all’intelligenza
del lettore rammentare la natura multinazionale [della società resistente]
e quella, strettamente locale, della ricorrente)”. Quanto dire, a un di
presso, che il puro riscontro della differenza dimensionale attiva la
catena di pre-giudizi, nel senso letterale del termine, che conduce al
riscontro della differenza leva contrattuale e del conseguente imbalance
nella disciplina negoziale.
Piuttosto che seguire il rigoroso percorso metodologico postulato
dall’analisi economica della relazione contrattuale in esame, il tribunale
ha ritenuto che tarare il peso dei due contendenti bastasse a giustificare
una manipolazione virtuosa della bilancia in favore del più debole. Che
Davide possa sconfiggere Golia non è scoperta di oggi: convince assai
meno l’idea di un attivismo giudiziale che, in nome di un obiettivo
certamente nobile, deponga ogni serio tentativo di vagliare i presupposti
del suo intervento.
- 78 -
A poco vale rilevare che il provvedimento è stato di lì a poco revocato
dal tribunale in composizione collegiale23: basta leggere le motivazioni
per rendersi conto che c’è poco da esultare. Sebbene i giudici non
nascondano il loro stupore nel rilevare come “benché nessuna delle parti
avesse dubitato della riconducibilità del rapporto contrattuale fra di loro
instauratosi alla tipologia del contratto di franchising, [il primo giudice]
lo ha qualificato come rapporto di subfornitura”, una volta riportata la
fattispecie nella sua corretta qualificazione giuridica, il collegio tuttavia
parte dal medesimo presupposto del giudice precedente: pur “non
ignora[ndo] certo le ampie convergenze registratesi in dottrina in ordine
alla portata generale dell’istituto”, i giudici si accodano all’infelice filone
giurisprudenziale che si ostina a ritenere la disciplina della dipendenza
economica invocabile solo in presenza di un rapporto di subfornitura.
Più confortanti le notizie che giungono dal provvedimento con il
quale il Tribunale di Roma si è pronunciato sulla applicabilità dell’art.
9 della legge 192/98 al rapporto di concessione di distribuzione di
autoveicoli, non esitando a sottolineare come quest’ultimo, per quanto
inserita nella normativa sulla subfornitura, sia “di portata più ampia,
essendo operante in tutti i contratti tra imprese”24. Ancor più decisa
la posizione espressa in un successivo provvedimento del Tribunale
di Catania, il quale ha liquidato con un inequivocabile non sequitur il
filone giurisprudenziale che, arroccato su un’interpretazione restrittiva,
“afferma apoditticamente che l’articolo 9 si applichi solo ai contratti di
subfornitura”25: la dipendenza economica è un “istituto, quindi, che a
buon diritto, nel solco interpretativo tracciato dall’affermazione dello
centrale ruolo svolto dalla buona fede nella gestione dei rapporti speciali,
precontrattuali e contrattuali, si inserisce quale <<clausola generale di
abuso di potere contrattuale delle relazioni negoziale tra imprese>>”.
Si segnalano, inoltre, due decisioni del Tribunale di Bari26. Come già
avvenuto in altre circostanze, la trattazione della materia si svolge a
livello di cognizione sommaria, di per sé incompatibile con le sofisticate
elaborazioni che l’istituto richiede all’interprete.
23
24
25
26
Trib. Taranto, ord. 21 dicembre 2003, in Foro it., 2004, I, 262.
Trib. Roma, ord. 5 novembre 2003, in Foro it., 2003, I, 3440.
Trib. Catania, ord. 5 gennaio 2004, in Foro it., 2004, I, 262.
Trib. Bari, 22 ottobre 2004 e 17 gennaio 2005, in Foro it. 2005, I, 1603.
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Nella pronuncia più recente, superato ogni dubbio sulla qualificazione
del rapporto in termini di subfornitura e sull’applicabilità della disciplina
prevista dalla legge 192/98, il tribunale reputa, pur in assenza di
un’analisi dei specific-relation investments, lo stato di dipendenza
economica come incontrovertibile, stante la durata decennale del
rapporto di fornitura quasi esclusiva che lega la ricorrente all’impresa
committente. Da notare come i giudici rilevino la mancanza di un unico
contratto di subfornitura: il rapporto si è instaurato in virtù di distinte
proposte contrattuali, rappresentate dagli ordini di volta in volta inviati
dal committente e seguiti dall’accettazione della ricorrente per fatti
concludenti. Mancando la forma scritta -requisito essenziale, richiesto a
pena di nullità dall’art. 2 della legge 192/98-, “non è configurabile recesso
dal rapporto e, conseguentemente, inadempimento contrattuale,
suscettibile di valutazione secondo i criteri degli art. 1218 e 1453 c.c.”; per
le stesse ragioni non può contestarsi nemmeno l’abuso di dipendenza
economica consistente nell’imposizione di condizioni contrattuali
ingiustificatamente gravose, dal momento che difetta il rapporto
contrattuale nell’ambito del quale valutare l’iniquità delle condizioni,
non avendo le parti instaurato un rapporto contrattuale duraturo, bensì
rapporti ripetuti, esauritisi di volta in volta con l’esecuzione dei singoli
ordini (ma, allora, perché non valersi delle stesse argomentazioni per
escludere del tutto lo stato di dipendenza economica e respingere in
nuce anche l’addebito dell’interruzione ingiustificata del rapporto?).
Nella seconda pronuncia, invece, le sollecitazioni provengono, ancora
una volta, dai rapporti di franchising: l’affiliato lamenta l’illegittimità del
mancato rinnovo del contratto, sostenendo che la durata della relazione
commerciale (sei anni) e l’ammontare degli investimenti sostenuti (quasi
un milione di euro) hanno in lui generato un giustificato affidamento
sulla prosecuzione del rapporto e che la sua interruzione è tale da
arrecargli un grave pregiudizio per via del mancato ammortamento
degli investimenti.
Sebbene l’istituto della dipendenza economica abbia portata generale
il giudice ritiene che non si applichi al caso di specie: “bisogna, infatti,
distinguere fra l’ipotesi di recesso illegittimo dal rapporto contrattuale
in corso di esecuzione e quella di interruzione arbitraria delle relazioni
commerciali”. Solo in quest’ultimo caso opererebbe l’abuso di
dipendenza economica, laddove la prima ipotesi sarebbe regolata
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dai rimedi generali previsti per l’inadempimento contrattuale. In altre
parole, la comunicazione del mancato rinnovo (pattiziamente consentita
e avvenuta entro sei mesi dalla scadenza) dev’essere esaminata alla
stregua di un abuso del diritto, ossia di una violazione dell’obbligo di
buona fede nell’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 1375 c.c.: in tal
senso, sarà necessario valutare se la suddetta condotta abbia assunto in
concreto “connotati del tutto imprevisti ed arbitrari … tali da contrastare
con la ragionevole aspettativa di chi, in base al comportamento della
controparte, faccia affidamento sulla prosecuzione del rapporto”. C’è il
sospetto, però, che il discrimen appena tracciato tra abuso del diritto e
dipendenza economica non abbia ragion d’esistere e finisca per limitare
di molto lo spazio di applicazione di quest’ultima. Come si legge in un
passaggio della decisione, “il presupposto di applicabilità dell’art. 9 l.
192/1998 è la liceità dello scioglimento del rapporto contrattuale dal
punto di vista delle regole legali e negoziali del rapporto medesimo”:
appunto, trattasi dello stesso presupposto per l’applicazione dell’abuso
del diritto ed esattamente della condotta contestata nel nostro caso
al franchisor, reo, secondo l’accusa, di aver tenuto un comportamento
conforme alla previsione negoziale ma nondimeno sanzionabile in
quanto arbitrario.
Il giudice evidenzia come, al fine di valutare il pregiudizio subito,
sia doveroso sindacare la specificità degli investimenti sostenuti: “il
complesso degli investimenti dovrebbe essere sottoposto ad una
indagine di merito, nel senso dell’attribuzione di rilevanza ai fini della
presente controversia esclusivamente a quei costi non scindibili dal
rapporto di affiliazione”. Il recoupment riguarda, infatti, esclusivamente
i costi irrecuperabili, perché legati ad utilizzazioni non suscettibili
di sfruttamento alternativo (e non l’insieme delle somme spese in
ragione del rapporto commerciale). Solo a seguito di una corretta
quantificazione di tali costi è possibile decidere se la durata del contratto
sia stata sufficiente a garantire l’ammortamento: “considerando l’epoca
degli investimenti e quella di naturale scadenza del contratto appare
rispettato il periodo minimo sufficiente (non inferiore a tre anni) per
l’ammortamento dell’investimento”.
Altrettanto interessante è l’ultima pronuncia in ordine di tempo di cui si
ha conoscenza in materia e relativa, per la prima volta, all’applicazione
della fattispecie della dipendenza economica nel caso di imposizione di
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condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose e, dunque, al di fuori
delle ipotesi di disdetta o mancato rinnovo del rapporto contrattuale27.
Un’impresa, esercente attività di call-center e cliente di un importante
operatore telefonico nazionale, chiede il trasloco nella nuova sede
(situata a breve distanza) del flusso di linee telefoniche: in base agli
accordi contrattuali in corso, essa è tenuta a rivolgersi esclusivamente
alla società fornitrice e ad accettare i prezzi da quest’ultima proposti per
i lavori ed i materiali, senza alcuna possibilità di negoziare gli stessi o
di sindacarne la congruità. In ossequio ad una clausola solve et repete,
solo dopo aver accettato preventivamente le condizioni della fornitura
verrà eseguito l’allacciamento delle linee. Al termine di reiterate
richieste di intervento e dinanzi a quella che le appare una richiesta
economicamente irragionevole (anche perché avanzata senza alcuna
specificazione dei costi quantificati), l’impresa di call-center chiede
un provvedimento d’urgenza che imponga all’operatore telefonico di
effettuare il trasloco dei flussi di linea secondo le condizioni tecniche ed
economiche necessarie, facendo salvo il diritto a sindacarne in seguito
la congruità.
Il giudice triestino non ha dubbi ad inquadrare il rapporto tra il fornitore
di servizi di telefonia e colui rende servizi di call-center nella previsione
della legge 192/98, “norma ormai avviata ad essere estesa dagli interpreti
ben oltre i limiti inizialmente pensati”. L’impresa di call-center non ha
altra scelta se non quella di accettare qualsiasi prezzo gli venga richiesto
dal fornitore, ancorché gravemente sperequato, senza alcuna possibilità
di ridurre ad equità il contenuto della prestazione: dunque, è vittima di
un abuso (che, a seconda dei casi, può essere di posizione dominante
o di dipendenza economica) perpetrato attraverso l’imposizione di
condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose ed è impossibilitata
a reperire sul mercato alternative soddisfacenti vuoi per un elemento
strutturale (il mercato in questione è oligopolistico e la contrattazione
di settore è pressoché uniforme: una volta scelto il partner commerciale,
il cliente dovrà comunque fare i conti con un gestore telefonico che
risulterà contrattualmente più forte di lui), vuoi per la sua situazione
contingente (come pensare che, nel corso del trasloco dei locali, il cliente
27 Trib. Trieste, ord. 20 settembre 2006, in Foro it. 2006, I, 3513.
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possa attivare un nuovo rapporto con un altro operatore, mutando le
proprie strategie organizzative ed esponendosi ad una duplicazione dei
costi transazionali?).
Secondo il giudice, il comportamento intransigente del fornitore –come
si legge nel testo dell’ordinanza, “per fare salvo il diritto della controparte
sarebbe bastato un minimo sacrificio delle proprie prerogative”- è da
considerarsi sia potenzialmente illecito sia contrario ai canoni di buona
fede, in quanto determina una illegittima situazione di asimmetria che
non può essere sanata e ricondotta a normalità mediante le normali
statuizioni sulla patologia e la responsabilità contrattuale.
Se, per quanto concerne il fumus boni iuris, la situazione è riconducibile
alla previsione del divieto di abuso di dipendenza economica, il
periculum in mora è da rintracciarsi nell’illegittima compromissione della
libertà contrattuale di uno dei contraenti e, dunque, occorre intervenire
per rimediare ad una ipotesi di strutturale soggezione di una parte
debole rispetto a chi ha predeterminato unilateralmente il contenuto
del negozio. Insomma “la deriva asimmetrica alla quale è abbandonato
il rapporto, per fatto del contraente forte, è un disvalore in sé”: non rileva
l’eventuale e futuro risarcimento, ma piuttosto la privazione di qualsiasi
spazio di tutela del contraente debole all’interno del contratto e nel
rapporto (“qui ed ora non è tanto in discussione la reale quantificazione
del valore della prestazione che sarà effettuata dal ‘monopolista’, quanto
la stessa possibilità che tale quantificazione sia oggetto di trattative,
venga discussa e liberamente pattuita”). Sulla base delle suddette
argomentazioni, viene accolta la richiesta dell’impresa esercente attività
di call-center ad ottenere immediatamente il trasloco dei flussi di
linea, facendo salva la possibilità di contestare successivamente i costi
unilateralmente determinati dal gestore telefonico.
Non è molto, ma è abbastanza per coltivare la speranza che la vicenda
dell’applicazione della disciplina della dipendenza economica non
si consumi in una repentina parabola dagli esordi mancati a quelli
effimeri.
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COLLANA “QUADERNI DEL CDE”
La collana raccoglie i contributi presentati dai relatori ai seminari organizzati dal Centro
di Documentazione Europea
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25.
La tutela delle minoranze etnico-linguistiche in relazione alla rappresentanza politica: un’analisi comparata
Le professioni turistiche nell’ottica comunitaria
Euro: una sfida per la pubblica amministrazione
L’accesso ai documenti amministrativi nella prospettiva comunitaria
Cooperative, associazioni e mutue nelle normative e nelle politiche della comunità
europea
Accesso alle fonti informative comunitarie
Opportunità di cofinanziamento comunitario nel settore dell’ambiente
Documento elettronico e firma digitale
Gioventù - il programma Europeo per l’educazione non formale e la mobilità internazionale
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Programma comunitario “Cultura 2000”
Disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato
Il sistema degli aiuti di Stato nella politica di concorrenza dell’Unione Europea
La produzione della normativa comunitaria
Il nuovo Programma Quadro dell’Unione Europea per la ricerca
La concorrenza nei servizi pubblici di trasporto
Il Libro Bianco sulla Governance Europea: nuove prospettive comunitarie dell’autonomia trentina
L’Unione Europea e la “questione regionale”. Quali orientamenti nella Convenzione
per una Costituzione europea?
Le politiche europee in materia di cooperazione con i paesi terzi: processi, prospettive, opportunità
Il futuro dell’Unione europea dopo il V allargamento
Gli strumenti tematici all’interno delle politiche europee di cooperazione con i
paesi terzi
Via Claudia Augusta. Sulle tracce degli imperatori
Gare d’appalto: come redigere un’offerta e gestire un contratto di finanziamento
della Commissione europea
L’energia costa?... Risparmiare si può
La tutela del contraente debole nei rapporti tra imprese
Le pubblicazioni sono disponibili su Internet al seguente indirizzo:
http://www.cde.provincia.tn.it, oppure si possono richiedere a:
Provincia Autonoma di Trento,
Centro di Documentazione Europea, via Romagnosi, 9
38100 Trento, tel. 0461/495087-88, fax 0461/495095, mailto: [email protected]
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Finito di stampare nel mese di agosto dell’anno 2007
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