5 6 • rassegna n. 13 luglio 2002

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5 6 • rassegna n. 13 luglio 2002
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CUNEO, LA CITTÀ
DOVE SI VUOLE TORNARE
DI
MARCO BOSONETTO
“L’amore per una città può scattare proprio al momento
del commiato. Allora ci assale un istante di angoscia
e di disorientamento, ci stampiamo nella retina la città
casa per casa, ci ripetiamo che sarà lì ad accoglierci in
qualsiasi momento e capiamo di essercene innamorati
all’ultimo sguardo”.
Marco Bosonetto, giovane affermato scrittore, e Oliver Migliore
sono autori, rispettivamente per i testi e le fotografie, del volume
“Cuneo strade facce monumenti e cieli della città triangolare”
(Blu Edizioni, 2001). Nessuno più di chi si è allontanato avverte
il fascino di Cuneo e ne prova nostalgia. Rassegna ha chiesto
a Marco Bosonetto di raccontare la “sua” città.
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Una delle tante intuizioni illuminanti di
Charles Baudelaire sulla vita moderna è l’idea
di “amore all’ultimo sguardo”. Il poeta francese
si riferisce a fugaci scontri d’occhi tra particelle
di folle metropolitane, quando l’ultimo sguardo
spesso è anche il primo. Ma proviamo ad applicare questa suggestione all’incontro fra persone
e città. Quando le città si chiamano Roma,
Venezia, Firenze... il colpo di fulmine è pressoché la norma. Nel caso di centri più piccoli,
con un patrimonio storico e artistico meno
sontuoso, invece, l’amore può scattare proprio
“all’ultimo sguardo”, al momento del commiato.
Può scattare, per esempio, quando carichiamo
in macchina le ultime suppellettili, qualche
pianta delicata che abbiamo preferito non
affidare al camion dei traslocatori, chiudiamo
definitivamente una casa e lasciamo la città
dove siamo nati per un’altra neanche troppo
distante, ma sentendoci già un pochino emigranti. Se la città è Cuneo, imbocchiamo quasi
sicuramente un ponte altissimo e, anche se non
ci voltiamo, sappiamo a memoria il profilo che
si staglia alle nostre spalle e all’improvviso ci
viene il sospetto che i campanili che spuntano
oltre i tetti, cui s’aggiunge l’incomprensibile
faro piantato davanti alla stazione, siano in
realtà alberi da veliero, che la città triangolare
possa decidere mentre non ci siamo di issare le
vele e abbandonare il suo ancoraggio tra Gesso
e Stura, al riparo delle scogliere alpine della
Bisalta, dell’Argentera, del Monviso, per navigare chissà dove. Allora ci assale un istante
di angoscia e di disorientamento, fermiamo la
macchina appena passato il ponte, ci stampiamo
sulla retina la nostra città casa per casa, ci
ripetiamo che sarà lì ad accoglierci in qualsiasi
momento e capiamo di essercene innamorati
“all’ultimo sguardo”. Dopodiché ripartiamo con
l’impressione che persino le piante che abbiamo
preferito non affidare al camion dei traslocatori
ci rimproverino: “E aprire gli occhi prima?”
A nostra discolpa va detto che Cuneo ama la
dissimulazione, non si mette in mostra, si fa
scoprire pian piano. Persino l’immensa piazza
Galimberti sembra fatta più per accogliere
il cielo e lasciar
apparire le montagne a sudovest,
per schiudere la
città al paesaggio,
che non per imporre
la propria monumentalità. Pensare
che il sindaco Carlo
Brunet la voleva
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ancora più grande, dopo essere già riuscito a
farla “sforare” rispetto al progetto originale
approfittando della costruzione del tribunale
(quinto fabbricato della piazza in ordine di
tempo, inaugurato nel 1866), il quale crebbe
“seppure in armonia coi palazzi precedenti, più
lungo, e più elevato; tale da rendere inevitabile,
per inesorabili leggi di simmetria, la costruzione
sullo stesso lato di un terzo palazzo, per modo
che quello di Giustizia risultasse non più
d’angolo, ma centrale” (Camillo Fresia, Vecchia
Cuneo. Miscellanea cronistorica, Bertello, Cuneo
1943). In piazza Galimberti si è nel cuore della
città, circondati da eleganti arcate ottocentesche, eppure esposti al vento, al sole, all’aria
salmastra che a volte sembra di sentir spirare
dalla Costa Azzurra o a quella gelida delle
creste innevate. Inoltre, ogni martedì, come se
fosse sempre Carnevale, la piazza si traveste
da bazar, si trasforma in tendopoli di commercianti, dilaga verso la punta del Cuneo
tracimando in via Roma, antica sede del mercato prima che Napoleone facesse abbattere le
mura consentendo alla città di espandersi verso
sud. Ogni martedì gli austeri palazzi piemontesi
si librano su una distesa di tendoni variopinti e
sul viavai degli scambi, sui traffici di chi approda a Cuneo dalla campagna per vendere le
patate dell’orto o dall’Asia per smerciare
giocattoli di plastica made in China.
In piazza Galimberti si è inoltre nel cuore della
storia recente non solo cuneese, ma italiana.
È dal balcone della casa di famiglia affacciata
sull’allora piazza Vittorio Emanuele II che il 26
luglio 1943 Duccio Galimberti, figlio del senatore del regno Tancredi Galimberti, liberale
convertito al fascismo, lanciò il primo appello
pubblico all’insurrezione contro la dittatura e
i suoi alleati tedeschi, anticipando di un mese
e mezzo l’Armistizio con gli anglo-americani.
L’appello di Galimberti segnò l’inizio di uno dei
momenti più drammatici ma anche più esaltanti
nella storia della città e delle sue vallate, culminato con la cacciata dei nazi-fascisti il 28 aprile
1945, dopo tre giorni di cruenta battaglia,
e con la medaglia d’oro per la Resistenza.
A lato:
Cuneo, vedute
del Municipio
e di via Roma con
il campanile di città.
Sotto:
James Basire,
Cuneo, incisione
su rame tratta da
Atlas to Accompany
Rapin’s History of
England di Paul
de Rapin-Thoyras,
Londra 1784
(Cuneo, collezione
privata).
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La piazza funge anche da spartiacque nella
storia architettonica della città: semplificando,
a sud il Novecento e a nord tutto il resto, dalla
fondazione (1198) al 1801, anno in cui terminò
l’abbattimento delle mura. Della città medievale
sopravvivono il tracciato viario a scacchiera
sghemba e monconi sparsi (torri, colonne,
archetti, incisioni, capitelli...), oltre a vestigia
imponenti come la chiesa conventuale di San
Francesco, ora annessa al Museo Civico, mentre
l’aspetto d’insieme dell’edilizia sia civile sia
religiosa del centro storico è essenzialmente
barocco. Via Roma collega piazza Galimberti
con la punta del Cuneo e sembra la Main Street
di un villaggio del West, con tutte le principali
istituzioni cittadine allineate una dietro l’altra:
il Duomo, il Municipio con l’antistante Torre
Civica del 1317, il Vescovado e la Prefettura,
senza dimenticare alcuni
pregevoli restauri, come
quelli della sede della Banca
Regionale Europea e di
Palazzo Lovera (trasformato
in hotel), e un piccolo scempio come il centro commerciale Upim. I portici nani di
via Roma richiamano, in
mancanza della cinta
muraria, l’epoca in cui
Cuneo era una città-fortezza
destinata ad attutire l’urto
degli eserciti che scavalcavano le Alpi per invadere
il Ducato di Savoia.
Destino non troppo allegro,
visto che alla carducciana
“possente e paziente” toccò
sopportare almeno nove
assedi, durati alcuni pochi
giorni e altri mesi interi:
allora i portici diventavano
camminamenti protetti e si
riempivano di soldati e
masserizie. La fama dell’imprendibilità della piazzaforte
sabauda arrivava sotto forma
leggendaria fino in Spagna,
come sappiamo da Giuseppe
Baretti, economo delle
fortificazioni nel 1743-44,
che, scrivendo ai fratelli da
Talavera de la Reina il 1°
ottobre 1760, racconta di
aver incontrato un “bugiardo
caporale, che pretendeva di
essere stato all’assedio di
Cuneo [...].
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A sentir colui, la città di Cuneo nel tempo di
quell’assedio [1744] non aveva quelle mura di
fascinate che aveva, e non era una città come è di
fatto, ma sibbene un castello con sette muri che
l’intorniavano come sette cerchi, sicché, preso il
primo, non s’era fatta che la settima parte della
bisogna dagli assediatori spagnuoli. All’altre sei
mura ti voglio! aquel maldito castillo es sin duda
mas grande y mas fuerte del tan nombrado
Castillo de Milan. Il buon caporale ebbe a far
piangere i suoi camerati e me, descrivendo i gran
patimenti che aveva sofferti in quell’assedio
insieme coll’Infante don Filippo. Basta dire che
le bombe cascavano nel campo spagnuolo del
castillo, del exercito savoyano, y de muchas otras
partes; y despues los pobres soldados no tenian
que comer, si no la nieve de aquellas malditas
sierras che llaman los Apeninos.
Potete pensare, fratelli, con che gusto ascoltavo
tutto quello strano avviluppamento di bugie
fatto dalla pazza e veloce fantasia del señor
Capo squadra, il quale mi credeva un Milorde
ingles, e che non si sarebbe mai sognato di
parlar con uno che passò due anni e più sulle
fortificazioni di Cuneo. Non si può dire sino a
qual segno vada l’attività d’un soldato quando
comincia a snocciolar bugie! Trovai il carattere
di colui così bello e così comico, che non giudicai a proposito di guastarlo, come avrei fatto
se gli avessi anche leggermente accennata
la conoscenza che ho di Cuneo, o datogli il
menomo indizio d’incredulità, facendo qualche
critico commento alle sue poetiche descrizioni”
(Giuseppe Baretti, Scritti, a cura di Ettore
Bonora, Einaudi, Torino 1976).
Volendo trarre da queste righe un suggerimento
sulla ragion d’essere dei cuneesi nel grande
schema dell’universo (in realtà Giuseppe Baretti
era torinese, ma pazienza), potremmo dire che
la loro missione consiste nel ridimensionare i
millantatori, seppure al prezzo di sminuire un
po’ se stessi, di farlo con discrezione, stando
attenti a non infierire, e di trovarsi dove il
millantatore meno se lo aspetta, per esempio
a Talavera de la Reina quando un caporale ha
voglia di sbruffoneggiare sulle proprie imprese
guerresche. Tra i miei amici delle superiori, c’è
chi sta svolgendo questo importante incarico a
New York, chi a Santo Domingo, chi a
Bruxelles, chi a Kishinev (Moldavia), chi a
Zhanjiang (Cina meridionale) e chi si è spinto
addirittura fino a Piacenza, come il sottoscritto.
Se a trascinarci altrove è stato anche il desiderio di evadere da una realtà per certi versi
periferica che ci divertiamo a prendere in giro
fra noi (via e-mail, viste le distanze), è altrettanto vero che preferiamo che gli estranei si
astengano dal parlar male della nostra città.
E lo preferiamo con la cocciutaggine del
Bartleby melvilliano, capace di forgiare il suo
“prefirirei di no” in corazza esistenziale.
Se un newyorchese osa criticare gli alberi del
viale degli Angeli (può sembrare improbabile,
ma capita), proviamo l’impulso irresistibile a
coprire di cemento il Central Park; se un parigino contesta l’ineleganza oltremodo fallica del
faro della stazione, ci viene subito voglia di
smontare la Tour Eiffel bullone per bullone;
se dei torinesi si ostinano a chiamare il viadotto
Soleri “Ponte dei suicidi”, immaginiamo
immediatamente di trasformare la loro piazza
Vittorio Veneto in un parcheggio (dimenticavo,
l’hanno già fatto da soli). Quanto agli aneddoti
sulla presunta dabbenaggine dei cuneesi, ormai
non più così proverbiale come nel 1920,
Sopra, dall’alto:
la Chiesa di
Sant’Ambrogio;
il campanile del
Duomo.
A sinistra:
il campanile di città
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quando trovava spazio addirittura su un
vocabolario italiano-tedesco (Cuneo = Schilda,
la supposta patria dei tontoloni germanici),
alcuni dimostrano esattamente il contrario,
vale a dire che la città triangolare ospita menti
superiori. Dopo l’acquisizione da parte del
Comune dell’ex collegio dei gesuiti, nel 1775,
per farne la nuova sede del Municipio, la giunta
si sarebbe accorta che tutte le finestre della
facciata erano murate, forse per favorire lo
studio e la meditazione; per sopperire alla
mancanza di luce, il sindaco avrebbe ordinato
ai suoi collaboratori di precipitarsi in strada a
riempire di sole dei sacchi belli spessi, per
correre subito dopo all’interno a liberare i raggi
catturati squarciando le tenebre del palazzo.
Se anche fosse vera, una storia del genere non
farebbe che aumentare la mia ammirazione per
gli illustri amministratori settecenteschi, capaci
di superare d’un balzo gli ostacoli del senso
comune e dell’ovvietà.
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Un altro aneddoto famoso, invece, dipinge le
autorità cittadine come nient’affatto politicamente corrette. In occasione di una visita del
re, infatti, il Comune avrebbe segregato nelle
cantine di via Roma i gozzuti, a quanto pare
piuttosto numerosi in città, sostituendoli con
folle festanti di forestieri di bella presenza
arruolati appositamente perché il sovrano si
convincesse che i cuneesi erano tutti splendidi.
Anche in questa occasione, tuttavia, i cuneesi
autentici restarono fedeli alla loro missione
anti-millanteria, strillando dal sottosuolo la
loro protesta e rovinando così il progetto di
eugenetica casereccia delle autorità.
Un boicottaggio simile, volontario o casuale,
sarebbe riuscito anche al coniatore della
medaglia commemorativa della visita di
Mussolini nel 1939: su una facciata c’era scritto “Il Duce ci guida” e sull’altra “La Madonna
ci protegga”. È molto raro che un cuneese si
vanti di qualcosa, se non delle nevicate della
A sinistra:
veduta di corso
Nizza.
Sotto: piazza
Galimberti,
il mercato del
martedì.
sua infanzia. È come fra pescatori, quando le
trote catturate nel weekend crescono nel ricordo fino a diventare squali balena. Sarà la
malinconia di qualche inverno con le montagne
spelacchiate, ma quando i cuneesi s’incontrano
in primavera e fanno il bilancio della stagione
trascorsa, c’è sempre qualcuno che dice:
“Quand’ero piccolo io nevicava così tanto che
per tutto l’inverno la gente andava al lavoro
con gli sci da fondo, anche sotto i portici”.
Allora l’interlocutore ribatte: “Quand’ero piccolo io nevicava così tanto che i portici sparivano
e si usciva di casa saltando giù dai balconi”.
Poi un passante rilancia: “Quand’ero piccolo
io nevicava così tanto che eravamo eschimesi
e io mi chiamavo Girauduk, che vuol dire
Colui-che-ha-gli-occhi-del-colore-delle-pelli-difoca-appena-conciate”. Infine un secondo
intruso sbaraglia il campo: “Quand’ero piccolo
io nevicava così tanto che andavamo tutti in
letargo, ci mettevamo a letto il ventun settembre con una scorta di castagne sotto il cuscino
e ci alzavamo il ventun marzo”. Esagerazioni
a parte, è vero che nulla scatena la nostalgia
dell’esule cuneese quanto una stitica nevicata
di pianura, a 50 metri sul livello del mare, dove
gli automobilisti si fanno prendere dal panico
al primo fiocco, e i bambini sono costretti a
radunare la neve di interi rioni per costruire un
pupazzo alto come un paracarro e magro come
una scultura di Giacometti.
L’esule cuneese cammina per le strade imbiancate da una nevicata sottile come una spruzzata
di zucchero a velo su una torta e rimpiange il
tunnel candido del viale degli Angeli, il rombo
ovattato degli spazzaneve, la cadenza letargica
che acquista la vita della città triangolare
innevata, le imprecazioni dei vicini costretti
a un’ora di lavoro con la pala per liberare la
macchina. La neve trasforma Cuneo in un
angolo di Scandinavia, popolato di gente
infagottata come Babbo Natale, che si lamenta
per i disagi del traffico ma in realtà è contenta
che la natura imponga un ritmo diverso
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La Bisalta e il nuovo
palazzo degli uffici
finanziari;
veduta del centro
storico.
all’esistenza almeno per qualche giorno.
Sul selciato e sui ciottoli del centro storico
i fiocchi si fermano subito, ed è sufficiente una
serata di neve, e magari qualche bicchiere di
vino buono, per trasformare il ritorno a casa
dopo una festa tra amici in un’impresa degna
di Reinhold Messner. Fare a palle di neve alla
uscita del teatro è un divertimento da cui si astengono soltanto le signore più eleganti, ma si vede
che vorrebbero gettarsi nella mischia pure loro.
Visto che il mestiere di scribacchino mi permette di prendermi un giorno di libertà senza
chiedere il permesso a nessuno, se non al mio
conto in banca, non esito neppure un istante
quando mia madre mi telefona per annunciarmi
una nevicata: salgo sul primo treno e dopo sole
tre ore e mezzo di viaggio (per 250 chilometri)
sono a Cuneo (Scandinavia). Anche i monumenti visti mille volte, imbiancati, rivelano
qualcosa di nuovo. Le betulle del chiostro di
San Francesco si mimetizzano una volta tanto
col giardino e con le lapidi provenienti dal vicino insediamento romano di Pedona (oggi Borgo
San Dalmazzo) allineate lungo pareti del portico; i pinnacoli in laterizio della facciata sembrano paonazzi di freddo. Dal fusto dell’edera
del cortile della Biblioteca Civica (ospite del
secentesco Palazzo Audifreddi dal 1930) sbocciano migliaia di fiori di ghiaccio, e i libri
rabbrividiscono sugli scaffali protetti dalle
vetrate che chiudono le arcate del pianterreno.
La fabbrica di Santa Croce, simile a una lumaca
giallastra, fa pensare a qualche chiesa ortodossa
russa ricolma delle salmodie dei popi.
Il barocco discreto di Sant’Ambrogio ricorda
una montagna di gelato al pistacchio ricoperta
di panna. I caratteri ebraici del fregio della
Sinagoga lasciano immaginare le leggende sugli
inverni tiepidi di Giaffa che forse circolavano
nel ghetto durante i mesi di gelo cuneese.
Se la saudade dell’esule brasiliano si alimenta
del ricordo di spiagge cocenti, di fanciulle
discinte dalla pelle color cannella, di guardaroba in cui i pantaloni lunghi sono già un capo
invernale, la saudade dell’esule cuneese, invece,
è dominata da memorie di frescura, anche
d’estate. Quando verso metà giugno l’aria della
Pianura Padana comincia ad addensarsi come
una scodella di gelatina, l’esule cuneese ripensa
ai cieli tersi che si stendono come cupole cobalto sulle Alpi Marittime, ancora chiazzate sulle
creste dall’ultima neve, ai sei chilometri di
portici che consentono di percorrere la spina
dorsale della città (via Roma, piazza Galimberti,
corso Nizza e ritorno) al riparo dell’ombra.
Nel 2001, il Consiglio Comunale ha approvato
all’unanimità un curioso regolamento che
prevede tra l’altro il divieto di pennicchella sui
prati cittadini. Ma chi è in grado di resistere al
richiamo della siesta quando la tarda primavera
gonfia di foglie fruscianti gli alberi del Parco
della Resistenza (per gli aborigeni “la
Montagnola”) e la brezza della Valle Gesso
s’insinua nei sogni di chi si appisola sdraiato su
questo lembo dell’altopiano cuneese affacciato
su un torrente dispettoso che a ogni piena
rosicchia un pezzo di pista ciclabile o di green
del golf club? Stento a credere che qualche
vigile avrà mai il cuore di multare i dormienti
della Montagnola. Il parco è dominato dai
prismi metallici del Monumento alla Resistenza
ideato dallo scultore Mastroianni, inaugurato
nel 1969 e “spiegato” dall’allora Presidente
della Camera dei Deputati Sandro Pertini come
“un pezzo della Bisalta [...] fermato nel bronzo,
la Bisalta [...] animata dalla volontà di lotta dei
partigiani” (lettera a Remo Quaranta del 24
settembre 1969, conservata presso l’Istituto
Storico della Resistenza di Cuneo).
Nel 1998, le celebrazioni dell’ottocentenario
della fondazione del libero comune, nato per
iniziativa di alcuni sudditi del Marchese di
Saluzzo stanchi delle vessazioni feudali (secondo la leggenda a scatenare la rivolta sarebbe
stata la pretesa di esercitare lo ius primae noctis
da parte del signorotto di Caraglio), hanno
offerto l’occasione per la scopertura di nuovi
monumenti. Il più innocuo, presso la rotonda
di piazza Torino, è la raffigurazione antropomorfica e neoclassica del torrente Gesso e del
fiume Stura, le cui acque confluiscono a pochi
chilometri dal vertice del Cuneo.
Il più enigmatico è Il grande silenzio bianco,
presso la spalla del viadotto Soleri, sulla sinistra
idrografica dello Stura: un sigaro? un missile?
un raviolo? appoggiato su un monticello di
ciottoli. Il più bello, a mio sindacabile giudizio,
è La curva di Peano di Dario Ghibaudo, un
ellissoide di pietra inciso da una sorta di greca
infinita che rappresenta una delle intuizioni del
grande matematico cuneese Giuseppe Peano
(nato nella frazione Spinetta nel 1858 e morto
a Torino nel 1932). La pastiglia gigante di
Ghibaudo è piantata di taglio nell’erba in cima
alla salita delle Giuseppine, a pochi passi da
rondò Garibaldi. Nel tratto del viale degli
Angeli compreso fra il rondò e il Parco della
Resistenza si concentrano gli esempi più illustri
di architettura Liberty spuntati a Cuneo a cavallo fra XIX e XX secolo. Palazzine animate da
forme curve, torrette e decorazioni floreali,
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testimonianze di una borghesia desiderosa
di “goder meglio della civiltà, abbellendo con
il profumo dell’arte”, come scriveva nel 1902
sulla “Sentinella delle Alpi” Marcello Soleri,
uno dei protagonisti della stagione gloriosa
del liberalismo italiano, quando la Provincia
Granda offriva personale politico di prim’ordine
al governo dello Stato, primo fra tutti il
“Deputato di Dronero” Giovanni Giolitti.
A proposito di personaggi che hanno dato lustro
alla città, come dimenticare la scrittrice Carolina
Invernizio, giunta a Cuneo assieme al marito
nel 1914 per rimanervi fino alla morte avvenuta
nel 1916. Nel 1914 Carolina Invernizio aveva
già all’attivo un centinaio di volumi pubblicati.
La sua sterminata produzione, che finì anche
sul grande schermo (La sepolta viva fu un
trionfo), si può sintetizzare in alcuni titoli:
Il bacio di una morta, La vendetta di una
pazza, Idillio tragico, Odio di donna, Pallida
bruna, Peccatrice moderna, Romanzi del peccato, della perdizione e del delitto, I misteri delle
cantine, I misteri delle soffitte, L’orfana del
ghetto, L’orfanella di Collegno, Trovatella di
Milano, La cieca di Vanchiglia.
Di segno completamente opposto il marchio
lasciato nella letteratura italiana contemporanea
da Lalla Romano, nata in Valle Stura ed emigrata prima a Torino e poi a Milano, dopo avere
trascorso la giovinezza a Cuneo, presente, in
maniera consistente o di sfuggita, in molte della
sue opere, capaci di trasfigurare elementi
autobiografici in riflessioni universali, con una
misura e una lucidità dolenti, senza sentimentalismi. Il Museo Civico ha ospitato una sua
mostra di pittura nel 2000, inaugurata alla
presenza della scrittrice ultranovantenne pochi
mesi prima della scomparsa.
Vive tuttora a Cuneo, invece, Nuto Revelli,
autore che ha fatto della testimonianza civile
e della memoria la cifra del suo impegno letterario. Dalla memoria della cultura contadina
in via d’estinzione de Il mondo dei vinti o de
L’anello forte (dedicato alla centralità della
donna) a quella della campagna di Russia di
Mai tardi o della Resistenza ne Il prete buono
e altri. L’esempio di Nuto Revelli suona come
un’ingiunzione alla responsabilità per qualsiasi
aspirante intellettuale, un richiamo contro il
narcisismo e l’evasività. La crescita progressiva
del polo universitario cuneese forse consentirà
in futuro a molti giovani di seguire l’esempio di
Revelli e di rimanere nella città triangolare
senza correre il rischio di innamorarsene
soltanto “all’ultimo sguardo”.
“Cuneo, strade facce monumenti e cieli
della città triangolare”.
2001, € 35,12
Blu Edizioni
12016 Peveragno CN, via Vittorio Veneto 87
www.bluedizioni.it
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Sopra:
veduta generale
della città
A destra:
il viadotto Soleri,
sullo sfondo delle
Alpi Marittime.
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