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IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XII NUMERO 73
DOPPIA SFIDA AFGHANA
Gino Strada si sente scaricato
dal governo e minaccia di parlare
per “far saltare il banco”
Roma. L’unica cosa certa è che il decreto
di rifinanziamento delle missioni italiane
all’estero verrà approvato oggi in Senato.
Quanto al resto, dalla meccanica del voto
alla consistenza delle diverse strategie politiche, tutto è ancora impregiudicato. Il
centrosinistra arriva all’appuntamento sospeso tra l’autosufficienza che non ha
(escludendo i senatori a vita), l’inclinazione
a resuscitare le maggioranze variabili e
l’incubo di una crisi che può sempre riaprirsi ed essere letale. Centrale, nel confronto parlamentare, è la missione a Kabul:
carica di senso politico e di rischi per i nostri soldati, almeno quanto densa di inquietudine si preannuncia la campagna di fuoco primaverile dei talebani. Sicché, sollecitata anche dall’appello all’unità del presidente Giorgio Napolitano,
la maggioranza pare intenzionata a non forzare: cercherà di far passare anche
un ordine del giorno dell’opposizione che prescriva
l’obbligo di proteggere presto e meglio i nostri soldati. L’importante, pensano
Romano Prodi e i suoi collaboratori, è che il testo G. NAPOLITANO
non riformuli il senso della
missione e non allarghi lo spettro delle regole d’ingaggio. Perché la sinistra estrema
non accetterebbe mai.
L’opposizione ieri si presentava lacerata
tra la richiesta d’irrobustire la presenza militare a Kabul, la minaccia di un’astensione
(che equivale al voto contrario), la comune
coerenza atlantica e forse la tentazione d’immaginare nuove maggioranze. La Lega di
Umberto Bossi ha condotto Silvio Berlusconi sulla ridotta più dura, e meno produttiva,
dell’astensione. Ma in via ufficiosa si sa che
il Carroccio, di fronte all’approvazione di un
proprio odg, potrebbe scegliere una via intermedia, abbandonando l’aula al momento
di votare il decreto. E appare passabile, per
esempio, il testo di Roberto Calderoli che
“impegna il governo a promuovere tutte le
iniziative finalizzate a garantire la sicurezza
del nostro personale militare e civile presente sul territorio afghano”. Un’eventuale
distensione, in nottata o questa mattina,
consentirebbe al Cav. di lavorare a un atto
parlamentare condiviso per rafforzare la
nostra presenza a Kabul. In modo da non
far mancare il sostegno al decreto. Alleanza nazionale non sarebbe contraria. Dipende dalla volontà dialogante dell’Unione. Il
centrosinistra mantiene una certa accortezza difensiva, dal momento che ogni slittamento di troppo può generare inconvenienti definitivi.
(“Rimediatori” segue nell’inserto II)
Kabul. Gino Strada è preoccupato dai
“danni collaterali” provocati dalla liberazione di Daniele Mastrogiacomo, ma soprattutto è arrabbiato con il governo italiano, che
prova a sganciarsi dalla vicenda. Dopo che
il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema,
ha parlato di un ruolo marginalissimo dell’esecutivo – che avrebbe semplicemente “passato un foglietto con sei nomi da un’organizzazione umanitaria al governo afghano”– il
chirurgo ha minacciato: “Martedì votano il
rifinanziamento della missione in Afghanistan, ma se il governo non si muove per Rahmatullah ci penso io a parlare e a fare saltare il banco”. Teresa, moglie di Strada e presidente di Emergency, ha scritto una lettera
aperta durissima sul sito di Peacereporter,
costola informatica dell’ong italiana: “Rahmatullah torturato: il governo italiano agisca”. Rahmatullah Hanefi è il capo del personale dell’ospedale di Emergency di Laskhargah, dove Mastrogiacomo è stato portato subito dopo la liberazione. Proprio lui ha
parlato più volte con il mullah Dadullah, il
capo talebano che gestiva il sequestro, ed è
andato nel profondo sud della provincia di
Helmand a realizzare materialmente lo
scambio. L’Nds (National defence services),
i servizi segreti afghani, lo ha arrestato il
giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo
e Strada si è subito appellato al governo italiano per farlo rilasciare.
La prima avvisaglia di una presa di distanze è arrivata con la decisione del presidente del Consiglio, Romano Prodi, convinto dai suoi consiglieri, di non telefonare immediatamente al capo di stato afghano, Hamid Karzai, che già aveva fatto un enorme
favore agli italiani mollando i cinque talebani (forse di più) per fare pressioni sul caso
Hanefi. Inoltre c’erano ancora di mezzo le
festività di Nowroz, il capodanno afghano, e
Karzai voleva stare in pace. Lo stesso Strada
ha confessato, senza stupore, che dopo la liberazione di Mastrogiacomo anche le telefonate a Repubblica per chiamare Ezio Mauro non sono più le stesse. Prima, con l’inviato ancora in mano ai talebani, la segretaria
lo passava al direttore in un battibaleno.
Adesso lo fa attendere o richiamare.
Nulla di grave se non fosse per il fatto
che Strada comincia a lamentarsi anche
del ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e in uno dei suoi scatti di rabbia ha minacciato: “Martedì votano il rifinanziamento della missione in Afghanistan, ma se il
governo non si muove per Rahmatullah ci
penso io a parlare e a fare saltare il banco”.
Fra le righe di un’intervista al Corriere della Sera si leggevano segnali poco pacifici
verso il governo. L’unico rappresentante italiano che sembra salvarsi dalle ire di Strada è l’ambasciatore a Kabul, Ettore Sequi,
in effetti il primo a confermare che Hanefi
si trovava nella mani dei servizi afghani.
Strada, però, lo ha coinvolto troppo parlando in pubblico del suo lavoro con i funzionari afghani per il rilascio dei talebani e anche della rivelazione che “c’è un cono americano” sopra la residenza di Emergency a
Kabul per monitorare tutto quello che il
chirurgo fa e dice. Il rischio è che la chiamata in causa di Sequi imbarazzi l’ambasciata,
che difficilmente farà una campagna contro
il governo Karzai, come vorrebbe Strada,
per liberare a tutti i costi l’afghano di Emergency.
(“L’ira di Emergency” segue nell’inserto II)
I talebani puntano verso il settore
debole, il nostro. Ecco perché
il generale Satta chiede più forze
Kabul. Più uomini e più elicotteri, perché
“il territorio è vastissimo”. Il generale paracadutista Antonio Satta, con le spalle coperte dal ministero della Difesa, ha spiegato al
Corriere che la composizione del contingente italiano va rivista alla svelta. La pressione esercitata sui talebani da sud e da ovest
sta facendo salire rapidamente le loro colonne verso la zona italiana, nelle province
di Farah e Ghor. Il governo, che in un primo
tempo ha cercato di attribuire soltanto agli
spagnoli il compito di presidiare i confini
pericolosi tra Helmand e Farah, ha ammesso che nell’area operano anche i nostri militari. Fatto innegabile, dopo il ferimento di
un incursore e l’attentato di domenica contro una pattuglia, a Farah. L’aumento della
pressione nel settore italiano era prevedibile, perché i ribelli contano sulla scarsa presenza di soldati. A Farah ci sono un centinaio di uomini delle forze speciali italiane e
una compagnia di fanteria del 151° reggimento – che ha appena dato il cambio agli
spagnoli – poche centinaia di afghani di
scarsa efficienza e un pugno di forze speciali americane. Nella vicina Ghor le forze alleate sono ancora meno: 300 militari e forze
afghane appena simboliche.
Roma e Madrid – per non destabilizzare
le rispettive maggioranze di governo – hanno rifiutato di inviare rinforzi, lasciando che
il settore ovest restasse il più sguarnito dell’Afghanistan, con appena 2.000 militari alleati per coprire un’area grande come il
nord Italia. Basti pensare che nel tranquillo
nord sono in 4.000, nella sola Kabul 5.000 e a
est e a sud sono oltre 15.000. Per questo l’invio di rinforzi rischia di giungere in ritardo.
I velivoli teleguidati promessi dal ministro
Arturo Parisi al vertice Nato di Siviglia sarebbero utili ora per controllare i movimenti talebani verso Farah e Ghor, ma giungeranno (forse) a Herat soltanto a fine aprile.
Per disporre di forze di pronto impiego il generale Satta dovrebbe disporre almeno di
altre tre compagnie di fanteria e una di mortai da 120 millimetri, che completerebbero i
ranghi del 151° reggimento “Sassari”. Un importante contributo ai compiti di sorveglianza e attacco potrebbero fornirlo gli elicotteri da combattimento Mangusta della brigata
aeromobile “Friuli”. Mezzi già usati in Iraq,
perfetti per queste operazioni, ma non ancora inviati per ragioni politiche.
Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
MARTEDÌ 27 MARZO 2007 - € 1
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
L’appello di Napolitano spinge
Prodi al dialogo ma (per ora) non fa
retrocedere il Cav. dall’astensione
Il giorno del giudizio
quotidiano
Ho trascorso un lungo
weekend a Herat. E
dunque ho solo
l’imbarazzo della
scelta nel firmare
le molte cartoline che mi
porto dietro. Non quelle patinate: la moschea blu, i cinOCCHIAIE
DA
HERAT -
DI
TONI CAPUOZZO
que minareti sopravvissuti alla trentina
che facevano della città una Manhattan
asiatica, risparmiata da attoniti invasori.
Piuttosto i furgoncini cabinati con tela
rossa, sui quali è ricamato un cuore, che
scorrazzano allegri in città. O il pozzo d’acqua nel villaggio hazara, con una piccola
targa che ricorda che il piccolo impianto
è un dono del comune di Resuttano, in Sicilia, e dunque un paese che sa bene il valore dell’acqua. O la scuola femminile nel
cui cortile le ragazze velate di nero sembravano uno stormo di rondini. O l’inaugurazione dell’anno scolastico, e l’aspetto
furbo e pacioso di Ismail Khan, il signore
di Herat, seduto in prima fila. O l’aspetto
di Babele ordinata di Camp Arena, dove i
militari italiani sono affiancati da spagnoli e sloveni. Gente in gamba, che fa un
buon lavoro, ed è molto cordiale: gli unici
che mi hanno scansato accuratamente sono quelli dei corpi speciali, Col Moschin e
Comsubin, quelli che pattugliano la provincia di Farah, come a ricordarmi che la
nostra è una missione che ha un braccio
legato dietro la schiena, e fa tutto quello
che si deve fare, ma deve mostrarti una sola mano, fatta di aiuti e offerta di sicurezza. Ma la cartolina che preferisco è la prima, nel giorno di festa dell’arrivo. I prati
accanto al fiume color caffelatte, e il picnic disordinato di centinaia di famiglie:
un manifesto di spensieratezza, una pasquetta afghana che ha strappato un sorriso di nostalgia perfino ai ragazzi del San
Marco che mi scortavano.
La Giornata
* * *
In Italia
* * *
Nel mondo
OGGI IN SENATO IL VOTO SU KABUL.
FORZA ITALIA E LEGA SI ASTERRANNO.
Ieri si è tenuto un vertice tra Silvio Berlusconi e alcuni leader del Carroccio, in serata i due partiti hanno ufficializzato l’astensione sulle missioni italiane all’estero. Nel
pomeriggio era intervenuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, auspicando “cooperazione” tra centrosinistra e centrodestra. Il segretario dell’Italia di Mezzo, Marco Follini, è stato ricevuto dall’ambasciatore americano Ronald
Spogli. Dal Brasile il premier Romano Prodi si è chiesto come può l’opposizione permettersi di votare contro, quando alla Camera si era espressa a favore. L’Udc voterà
il decreto di rifinanziamento.
Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, è stato contestato all’Università La
Sapienza di Roma da alcuni studenti di sinistra. Slogan contro le scelte di politica
estera del governo (articolo a pagina due).
COLPITA L’AMBASCIATA AMERICANA
IN IRAQ. CONTATTI COI GUERRIGLIERI
sunniti per contrastare al Qaida. Ieri la sede diplomatica statunitense di Baghdad è
stata attaccata con colpi di mortaio. Non ci
sono state vittime. Al New York Times, l’ambasciatore di Washington in Iraq Khalilzad
ha detto che esistono contatti con le fazioni
della guerriglia sunnita per convicerle a
partecipare alla campagna contro al Qaida.
Khalilzad è al termine della sua missione:
diventerà ambasciatore all’Onu.
Ieri è iniziato il dibattito al Senato americano sul provvedimento che fissa entro il
31 marzo 2008 il ritiro delle truppe dall’Iraq.
* * *
Monsignor Bagnasco attacca i Dico e annuncia la nota vincolante per i parlamentari cattolici elaborata dai vescovi. Il neopresidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha detto che il ddl è “pericoloso sul piano sociale
ed educativo. La nostra non è invadenza di
campo perché l’unione tra uomo e donna è
un disegno del Creatore”.
* * *
Tentato suicidio di Danilo Coppola. L’immobiliarista Danilo Coppola si è tagliato le
vene venerdì scorso nel carcere di Regina
Coeli, dov’è detenuto dal 1° marzo. E’ stato
soccorso dai medici ed è sopravvissuto. E’
accusato di associazione a delinquere, bancarotta, falso in atto pubblico e aggiotaggio.
* * *
Chiesta la condanna sul caso Sme per Berlusconi. Il processo d’appello è partito dopo
la bocciatura della legge Pecorella da parte della Corte costituzionale. Il leader di FI
è accusato di corruzione, la procura ha chiesto una pena di cinque anni di reclusione,
la parte civile, cioè il governo italiano, un risarcimento danni di 1,1 milioni di euro.
* * *
Accordo tra Enel e Acciona per l’opa su
Endesa. L’intesa è soggetta alla condizione
che E.On non acquisisca oltre il cinquanta
per cento del capitale di Endesa.
E.On ha annunciato un’azione legale
contro Enel per bloccare la scalata.
* * *
Borsa di Milano. Mibtel -0,97 per cento.
Ieri il cda di Fastweb ha approvato l’opa
di Swisscom.
* * *
E’ morto Beniamino Andreatta. Economista, tra i fondatori del Pp e dell’Ulivo.
* * *
Olmert favorevole a un vertice con arabi
moderati. Lo ha detto ieri il premier israeliano durante la visita del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. I membri della Lega araba hanno firmato ieri a Riad il
documento che sarà presentato nel summit
di domani. Il ministro degli Esteri saudita
ha detto di essere aperto a modifiche del
testo per renderlo “compatibile” con i cambiamenti recenti.
Ieri ad Amman, Rice ha incontrato re Abdallah e il rais palestinese, Abu Mazen. In serata è tornata a Gerusalemme per una cena
con Olmert (articolo a pagina quattro).
* * *
L’Iran riprende i pagamenti alla Russia
per la costruzione della centrale nucleare
di Bushehr. Lo ha reso noto ieri l’Agenzia
russa per l’energia atomica. Per Teheran è
la prima rata versata del 2007.
Il presidente russo Putin e il collega cinese Hu Jintao hanno detto che il problema del
nucleare iraniano può essere risolto “solo
con azioni pacifiche”, ma hanno chiesto a
Teheran di rispettare le richieste dell’Onu.
* * *
In Ulster governo d’unità dall’8 maggio. Il
reverendo protestante Ian Paisley e Gerry
Adams, del Sinn Fein, si sono incontrati a
Belfast. E’ la prima volta che i due leader
siedono allo stesso tavolo. L’8 maggio inizierà l’attività del governo biconfessionale.
Per il premier inglese Blair è stata “una
giornata importante per l’Irlanda del nord”.
* * *
In Yemen due morti in un attentato sciita.
Una madrassa sunnita è stata assalita dal
gruppo sciita Gioventù credente. Almeno
due le vittime, un francese e un inglese.
* * *
Per il Kosovo l’“indipendenza vigilata” è
l’unica soluzione che garantisce la sua stabilità. Lo ha detto ieri all’Onu l’inviato speciale per la regione, Martti Ahtisaari.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21,00
A ciascuno il suo ricatto iraniano
Teheran agita lo spettro delle “spie”
inglesi arrestate e ostenta
spregiudicatezza coi nemici all’Onu
I due miliardi di buone ragioni
dei francesi della Total per
non indispettire gli amici ayatollah
Roma. Per Teheran la “crisi degli ostaggi”
con la Gran Bretagna rappresenta molto più
che un semplice ricatto per ottenere il rilascio dei pasdaran e dei funzionari iraniani
fermati in Iraq. E’ vero che il ministro degli
Esteri iracheno, Hushyr Zebari, aveva assicurato alla controparte iraniana, Manoucher Mouttaki, che i sabotatori inviati da
Teheran sarebbero stati rilasciati entro
Nowroz, il capodanno iraniano – festeggiato
la scorsa settimana – e non è accaduto. Ma la
tempistica degli eventi – le imbarcazioni sono state intercettate alla vigilia del voto sulle sanzioni – letta alla luce della bellicosa
retorica dell’ayatollah Khamenei e dei suoi
generali non può non essere considerata come un atto di sfida nel confronto sul nucleare. Con la risoluzione 1.747 Cina e Russia
hanno acconsentito ad allargare lo spettro
delle sanzioni. Mosca ha imposto una “pausa” al completamento della centrale di Bushehr. La presenza americana nel Golfo Persico è stata potenziata e Riad guida in funzione anti-iraniana la politica di contenimento del fronte sunnita. Teheran avverte
anche il rischio che il braccio di ferro sul
nucleare non sia che un sintomo di una crisi più profonda. Le tattiche dilatorie utilizzate per dividere il Consiglio di sicurezza
hanno solo allungato i tempi. Il dialogo fra il
negoziatore nucleare Ali Larijani e il capo
della diplomazia europea, Javier Solana, non
ha prodotto risultati e l’ayatollah Khamenei
nel suo recente messaggio di Nowruz ha tratteggiato per gli interlocutori regionali e internazionali la linea rossa della politica estera iraniana: “Chi causa dolore all’Iran dovrà
pagare un prezzo”. Isolata, Teheran, provoca.
Annuncia la sospensione parziale della sua
collaborazione con l’Agenzia atomica, ribadisce che non fermerà i progetti nucleari, fa
trapelare la notizia della “confessione” dei
membri della pattuglia britannica e ventila
l’ipotesi di un processo con inquietanti conseguenze. L’Iran alza i toni perché ha bisogno di nuove carte da giocare. Sul fronte interno Teheran si presenta come vittima dell’intelligence anglo-americana, un argomento che trova terreno fertile nell’opinione
pubblica iraniana. All’esterno segnala che le
nuove sanzioni saranno considerate come
azioni nemiche e gli stati che le hanno determinate giudicati di conseguenza.
Bruxelles. Proprio mentre il Consiglio di
sicurezza dell’Onu stava per votare il rafforzamento delle sanzioni contro il programma
nucleare iraniano, la settimana scorsa a Parigi l’amministratore delegato di Total, Christophe de Margerie, finiva in carcere per
uno scandalo di corruzione legato all’Iran. Il
gigante petrolifero francese avrebbe versato, dal 1997 al 2003, 60 milioni di dollari a
una società di consulenza, che serviva da copertura per pagare intermediari e corrompere funzionari della Repubblica islamica,
al fine di ottenere un contratto da due miliardi di dollari per sfruttare il giacimento
di gas off-shore di South Pars. Secondo un
dirigente di Total interrogato dalla giustizia
francese, il beneficiario della commissione
occulta sarebbe il figlio dell’ex presidente
Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che ha
smentito le accuse. Ma i giudici di Parigi disporrebbero della testimonianza di un dirigente della compagnia petrolifera russa Statoil – partner di Total nel contratto South
Pars – che evoca l’esistenza di un sistema di
corruzione organizzato attorno a una fondazione presieduta dal figlio di Rafsanjani.
Total era già finita sotto inchiesta nel 2005
per “corruzione attiva e traffico di influenza” nello scandalo iracheno oil for food. Se
“quello che è buono per Total è buono per
la Francia” – come dicono a Parigi – lo scandalo potrebbe spiegare la prudenza francese nell’imporre sanzioni alla Repubblica
islamica. Tanto più che, come in oil for food,
anche il contratto con l’Iran ha un risvolto
politico: lo sfruttamento di South Pars era
stato inizialmente negoziato dalle compagnie americane e solo il veto della Casa
Bianca ha permesso ai francesi di sfruttare
l’enorme giacimento off-shore. La decisione
di Total è stata presa “con l’avallo delle più
alte autorità dello stato”, ha detto a Libération un uomo vicino al dossier. Se Hezbollah
in Libano e Hamas nei territori palestinesi
minacciano gli interessi arabi, petrolio e gas
sono la leva nei confronti dell’Europa, presente in Iran con l’italiana Eni e la spagnola
Repsol. “Il mondo ha tanto bisogno del petrolio iraniano quanto l’Iran ha bisogno del
resto del mondo”, ha detto il predecessore
di Margerie, Thierry Desmarest, nel novembre 2006 al Monde, spiegando le esitazioni
della Francia alle sanzioni contro l’Iran.
MANO PESANTE
Genitori non conformisti
prendono a sani ceffoni un po’
di ragazzini che se li meritano
D
ue bei ceffoni, di quelli di una volta con la mano aperta, che lasciano un lungo pizzicore sulla guancia e il
giusto tempo per pensare. Ceffoni così
non se ne danno praticamente più,
purtroppo, perché si rischia, in ordine
crescente di sventura: la pubblica riprovazione, la denuncia, i servizi sociali, l’analisi. Ma un genitore anticonformista, padre di una bambina di dodici
anni, se ne è allegramente infischiato
e ha riempito di schiaffi cinque
sbruffoni delle medie: prima li ha fatti
scendere dalle biciclette (la moglie era
con lui, e con il senso forte della famiglia unita ne ha buttato uno per terra
aprendogli la portiera dell’auto addosso), poi le ha date volentieri anche a un
papà accorso al primo squillo di
cellulare del figlio lamentoso e
terrorizzato. I ragazzi ovviamente stanno bene, subito dimessi
dal pronto soccorso pediatrico, hanno un po’ di sani
giorni di prognosi e certo
d’ora in poi eviteranno di
chiudersi in un magazzino
buio di sabato pomeriggio con una dodicenne,
compagna di classe di alcuni di loro, per filmare
con il cellulare una scena
triste di sesso orale e fare girare il video per tutta la scuola media
(sette maschi addosso a una femmina).
La ragazzina piange e dice che l’hanno
costretta, loro ridono e dicono che era
consenziente, “un rito di iniziazione
per farsi accettare nel gruppo”. Il preside è molto sollevato perché il filmino
è stato girato fuori dalla scuola, i genitori della bambina hanno preso un avvocato e ovviamente credono alla versione della violenza, i ragazzi si sentono molto sicuri perché solo uno di loro
ha più di quattordici anni, e comunque
il vero protagonista del video ne ha tredici. “Un altro episodio di bullismo”,
sui giornali un mese fa, le solite risatine, e la colpa come sempre è della
playstation. Un sacco di storie identiche a questa sono finite così, con la vergogna e con il dialogo (“era solo un gioco, non c’era nulla di male, lo fanno tutti”, hanno detto orgogliosi i ragazzi, che
però avevano paura a tornare a casa da
soli, terrore di quel padre infuriato che
all’uscita da scuola osava prenderli a
male parole e mettere in discussione
la loro adolescente onnipotenza), invece stavolta è cambiato tutto: è finita a
ceffoni, finalmente.
Respiro di normalità
Ceffoni non al preside che vieta i
cellulari in classe, non ai professori
che danno brutti voti, ma preziosi, rarissimi ceffoni ai figli che fanno casini.
Il padre con la mano pesante è finito in
caserma dai carabinieri, i genitori degli schiaffeggiati forse lo quereleranno
per lesioni, ma almeno per un attimo si
è respirata un po’ di normalità: famiglia robusta che sicuramente non avrà
fatto mancare alla figlia sventata la
giusta dose di sberle, prima di difenderla dalla ferocia brufolosa di un
branchetto di maschi ghignanti. Se poi
la dodicenne fosse stata molto consenziente, molto d’accordo con l’idea orrenda di un rito iniziatico per entrare
nel gruppo fico della scuola, non importa, gli schiaffi sono stati comunque
perfetti: perché la seconda media è ancora libera dai video di Fabrizio Corona e dalle inchieste di Woodcock, quindi anche le sciocchine di dodici anni
hanno diritto a un po’ di privacy.
Fiaccole per la sicurezza
Per Moratti non bastano
500 poliziotti, serve una
nuova cultura dei doveri
Il sindaco di Milano incassa la presenza
di Berlusconi, di molti colleghi
e fa un discorso valoriale da leader
Penati: “Lavoriamo insieme”
Milano. Ieri Letizia Moratti alla manifestazione per la sicurezza ha incassato la presenza di Silvio Berlusconi, di parecchi sindaci,
tra cui quelli di Trieste e Palermo, e quella
di decine di migliaia di cittadini. Con lo slogan “Proteggere Milano”, la fiaccolata aveva
l’obiettivo “tecnico di ottenere dal governo
cinquecento agenti in più. In realtà il sindaco di Milano ha fatto un discorso valoriale,
da leader politico. Ha parlato di necessità di
una svolta culturale “dopo troppi anni di lassismo e permissivismo” e “di sguardi girati
dall’altra parte”. Di un’insicurezza che “è figlia dell’involuzione culturale durata decenni”, in cui contavano di più le garanzie di chi
delinque che quelle dei cittadini. Ha
proposto una cultura dei diritti, ma anche dei doveri. Ha chiesto ai suoi concittadini di “non essere più sudditi”.
Parole molto più convincenti per i
milanesi che non gli scontati appelli contro il degrado delle periferie proposti dalla sinistra, che
aveva accusato la fiaccolata
di dividere più che unire.
“La sicurezza non può essere strumentalizzata”,
dice Onorio Rosati, segretario della Camera del
lavoro di Milano, alla fine di
una contromanifestazione stracca, in
cui “almeno millecinquecento persone chiamate in piazza da centocinquanta comitati di
quartiere”, così battono le agenzie, hanno
formato una catena umana tra la prefettura
e il comune. La scarsa riuscita è anche una
spia dei dubbi strategici della sinistra di
fronte all’offensiva di Letizia Moratti. Pierfrancesco Majorino, segretario cittadino dei
Ds, pure presente al corteo, aveva preferito
spendere diversamente le energie politiche
della sua base, sostenendo nello scorso
weekend la distribuzione nelle strade (centomila copie) di una lettera aperta in cui si
spiegavano le critiche alla Moratti. Majorino
le ribadisce al Foglio: “La nostra valutazione
è fortemente negativa sul suo comportamento. E’ scandaloso che dal sindaco e da una
parte politica che governa da quindici anni
vengano scaricati sul governo i problemi,
mentre poi l’amministrazione taglia le risorse alla sicurezza”. La sinistra, prosegue, “non
trascura il tema della sicurezza, ma va affrontato senza la demagogia”. La questione è
però politica. Sulla sicurezza resta difficile
trovare l’equilibrio tra chi teme soprattutto
la drammatizzazione (“più che un un’emergenza sicurezza c’è un disagio sociale” dice
il ministro della Solidarietà sociale Paolo
Ferrero) e chi invece teme soprattutto di perdere consensi nei ceti popolari e nelle periferie. Non a caso l’Unione a Milano ha provato anche a schierare un ex prefetto, Bruno
Ferrante, ma ha ugualmente perso. Così i
trenta punti proposti nella “lettera” diessina
si sono sintetizzati in dieci punti presentati
domenica dall’Unione. Ma alcuni, come il
rafforzamento delle forze dell’ordine, il risanamento dei campi nomadi, il coordinamento tra istituzioni sono in pratica le stesse ricette proposte dalla Cdl, tanto che il vicesindaco di An, Riccardo De Corato, ha avuto
buon gioco a riconoscere la comunanza di intenti. Ma allora, perché due manifestazioni?
Il presidente della provincia, Filippo Penati, ieri era a Cuba per promuovere la candidatura di Milano per l’Expo 2015, – obiettivo
comune con il sindaco – ha affidato il suo
punto di vista a uno scarno comunicato, in
cui però chiama per nome le “attività criminali diffuse sul territorio come lo spaccio, le
rapine che creano nei cittadini il maggior allarme”. E conclude con un “da martedì si ritorni a lavorare insieme”.
Un episodio ha riacceso la fiducia di Sebastiano Messina nella
grandezza della chiesa
alla vigilia di questa
benedetta nota dei vescovi sui Dico. E l’episodio è questo. Sembra che un chierichetto, salito sul pulpito
durante una messa alla Madonna di Pietraquaria di Avezzano, abbia detto al secondo
chierichetto: “Ti amo”; di fronte a che il sacerdote avrebbe commentato: “Non c’è nulla di straordinario a dire ‘ti amo’ a una persona dello stesso sesso. Dio infatti è amore”. E grazie al cielo, ha ragionato Messina,
perché non credo che quello stesso sacerdote avrebbe detto così se avesse prima
consultato la Binetti, o Ruini, o addirittura
il Papa, su come la pensano sui Dico. E questa volta conveniamo con lui. E’ possibile.
E’ possibile che quel sacerdote avrebbe
usato parole diverse. Di più, è probabile.
Però restiamo fermi ai Dico. Non potrà
Messina non convenire con noi su una faccenda scontata: “Ti amo”, avrebbe detto il
primo chierichetto all’altro. Questo la stampa quantomeno ha scritto: “Ti amo”, “Ti
amo”, soltanto “Ti amo”. “Ti amo”, ok? Mica: “Ti amo, poi t’inculo e poi ti sposo”.