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IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XII NUMERO 73 DOPPIA SFIDA AFGHANA Gino Strada si sente scaricato dal governo e minaccia di parlare per “far saltare il banco” Roma. L’unica cosa certa è che il decreto di rifinanziamento delle missioni italiane all’estero verrà approvato oggi in Senato. Quanto al resto, dalla meccanica del voto alla consistenza delle diverse strategie politiche, tutto è ancora impregiudicato. Il centrosinistra arriva all’appuntamento sospeso tra l’autosufficienza che non ha (escludendo i senatori a vita), l’inclinazione a resuscitare le maggioranze variabili e l’incubo di una crisi che può sempre riaprirsi ed essere letale. Centrale, nel confronto parlamentare, è la missione a Kabul: carica di senso politico e di rischi per i nostri soldati, almeno quanto densa di inquietudine si preannuncia la campagna di fuoco primaverile dei talebani. Sicché, sollecitata anche dall’appello all’unità del presidente Giorgio Napolitano, la maggioranza pare intenzionata a non forzare: cercherà di far passare anche un ordine del giorno dell’opposizione che prescriva l’obbligo di proteggere presto e meglio i nostri soldati. L’importante, pensano Romano Prodi e i suoi collaboratori, è che il testo G. NAPOLITANO non riformuli il senso della missione e non allarghi lo spettro delle regole d’ingaggio. Perché la sinistra estrema non accetterebbe mai. L’opposizione ieri si presentava lacerata tra la richiesta d’irrobustire la presenza militare a Kabul, la minaccia di un’astensione (che equivale al voto contrario), la comune coerenza atlantica e forse la tentazione d’immaginare nuove maggioranze. La Lega di Umberto Bossi ha condotto Silvio Berlusconi sulla ridotta più dura, e meno produttiva, dell’astensione. Ma in via ufficiosa si sa che il Carroccio, di fronte all’approvazione di un proprio odg, potrebbe scegliere una via intermedia, abbandonando l’aula al momento di votare il decreto. E appare passabile, per esempio, il testo di Roberto Calderoli che “impegna il governo a promuovere tutte le iniziative finalizzate a garantire la sicurezza del nostro personale militare e civile presente sul territorio afghano”. Un’eventuale distensione, in nottata o questa mattina, consentirebbe al Cav. di lavorare a un atto parlamentare condiviso per rafforzare la nostra presenza a Kabul. In modo da non far mancare il sostegno al decreto. Alleanza nazionale non sarebbe contraria. Dipende dalla volontà dialogante dell’Unione. Il centrosinistra mantiene una certa accortezza difensiva, dal momento che ogni slittamento di troppo può generare inconvenienti definitivi. (“Rimediatori” segue nell’inserto II) Kabul. Gino Strada è preoccupato dai “danni collaterali” provocati dalla liberazione di Daniele Mastrogiacomo, ma soprattutto è arrabbiato con il governo italiano, che prova a sganciarsi dalla vicenda. Dopo che il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha parlato di un ruolo marginalissimo dell’esecutivo – che avrebbe semplicemente “passato un foglietto con sei nomi da un’organizzazione umanitaria al governo afghano”– il chirurgo ha minacciato: “Martedì votano il rifinanziamento della missione in Afghanistan, ma se il governo non si muove per Rahmatullah ci penso io a parlare e a fare saltare il banco”. Teresa, moglie di Strada e presidente di Emergency, ha scritto una lettera aperta durissima sul sito di Peacereporter, costola informatica dell’ong italiana: “Rahmatullah torturato: il governo italiano agisca”. Rahmatullah Hanefi è il capo del personale dell’ospedale di Emergency di Laskhargah, dove Mastrogiacomo è stato portato subito dopo la liberazione. Proprio lui ha parlato più volte con il mullah Dadullah, il capo talebano che gestiva il sequestro, ed è andato nel profondo sud della provincia di Helmand a realizzare materialmente lo scambio. L’Nds (National defence services), i servizi segreti afghani, lo ha arrestato il giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo e Strada si è subito appellato al governo italiano per farlo rilasciare. La prima avvisaglia di una presa di distanze è arrivata con la decisione del presidente del Consiglio, Romano Prodi, convinto dai suoi consiglieri, di non telefonare immediatamente al capo di stato afghano, Hamid Karzai, che già aveva fatto un enorme favore agli italiani mollando i cinque talebani (forse di più) per fare pressioni sul caso Hanefi. Inoltre c’erano ancora di mezzo le festività di Nowroz, il capodanno afghano, e Karzai voleva stare in pace. Lo stesso Strada ha confessato, senza stupore, che dopo la liberazione di Mastrogiacomo anche le telefonate a Repubblica per chiamare Ezio Mauro non sono più le stesse. Prima, con l’inviato ancora in mano ai talebani, la segretaria lo passava al direttore in un battibaleno. Adesso lo fa attendere o richiamare. Nulla di grave se non fosse per il fatto che Strada comincia a lamentarsi anche del ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e in uno dei suoi scatti di rabbia ha minacciato: “Martedì votano il rifinanziamento della missione in Afghanistan, ma se il governo non si muove per Rahmatullah ci penso io a parlare e a fare saltare il banco”. Fra le righe di un’intervista al Corriere della Sera si leggevano segnali poco pacifici verso il governo. L’unico rappresentante italiano che sembra salvarsi dalle ire di Strada è l’ambasciatore a Kabul, Ettore Sequi, in effetti il primo a confermare che Hanefi si trovava nella mani dei servizi afghani. Strada, però, lo ha coinvolto troppo parlando in pubblico del suo lavoro con i funzionari afghani per il rilascio dei talebani e anche della rivelazione che “c’è un cono americano” sopra la residenza di Emergency a Kabul per monitorare tutto quello che il chirurgo fa e dice. Il rischio è che la chiamata in causa di Sequi imbarazzi l’ambasciata, che difficilmente farà una campagna contro il governo Karzai, come vorrebbe Strada, per liberare a tutti i costi l’afghano di Emergency. (“L’ira di Emergency” segue nell’inserto II) I talebani puntano verso il settore debole, il nostro. Ecco perché il generale Satta chiede più forze Kabul. Più uomini e più elicotteri, perché “il territorio è vastissimo”. Il generale paracadutista Antonio Satta, con le spalle coperte dal ministero della Difesa, ha spiegato al Corriere che la composizione del contingente italiano va rivista alla svelta. La pressione esercitata sui talebani da sud e da ovest sta facendo salire rapidamente le loro colonne verso la zona italiana, nelle province di Farah e Ghor. Il governo, che in un primo tempo ha cercato di attribuire soltanto agli spagnoli il compito di presidiare i confini pericolosi tra Helmand e Farah, ha ammesso che nell’area operano anche i nostri militari. Fatto innegabile, dopo il ferimento di un incursore e l’attentato di domenica contro una pattuglia, a Farah. L’aumento della pressione nel settore italiano era prevedibile, perché i ribelli contano sulla scarsa presenza di soldati. A Farah ci sono un centinaio di uomini delle forze speciali italiane e una compagnia di fanteria del 151° reggimento – che ha appena dato il cambio agli spagnoli – poche centinaia di afghani di scarsa efficienza e un pugno di forze speciali americane. Nella vicina Ghor le forze alleate sono ancora meno: 300 militari e forze afghane appena simboliche. Roma e Madrid – per non destabilizzare le rispettive maggioranze di governo – hanno rifiutato di inviare rinforzi, lasciando che il settore ovest restasse il più sguarnito dell’Afghanistan, con appena 2.000 militari alleati per coprire un’area grande come il nord Italia. Basti pensare che nel tranquillo nord sono in 4.000, nella sola Kabul 5.000 e a est e a sud sono oltre 15.000. Per questo l’invio di rinforzi rischia di giungere in ritardo. I velivoli teleguidati promessi dal ministro Arturo Parisi al vertice Nato di Siviglia sarebbero utili ora per controllare i movimenti talebani verso Farah e Ghor, ma giungeranno (forse) a Herat soltanto a fine aprile. Per disporre di forze di pronto impiego il generale Satta dovrebbe disporre almeno di altre tre compagnie di fanteria e una di mortai da 120 millimetri, che completerebbero i ranghi del 151° reggimento “Sassari”. Un importante contributo ai compiti di sorveglianza e attacco potrebbero fornirlo gli elicotteri da combattimento Mangusta della brigata aeromobile “Friuli”. Mezzi già usati in Iraq, perfetti per queste operazioni, ma non ancora inviati per ragioni politiche. Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO MARTEDÌ 27 MARZO 2007 - € 1 DIRETTORE GIULIANO FERRARA L’appello di Napolitano spinge Prodi al dialogo ma (per ora) non fa retrocedere il Cav. dall’astensione Il giorno del giudizio quotidiano Ho trascorso un lungo weekend a Herat. E dunque ho solo l’imbarazzo della scelta nel firmare le molte cartoline che mi porto dietro. Non quelle patinate: la moschea blu, i cinOCCHIAIE DA HERAT - DI TONI CAPUOZZO que minareti sopravvissuti alla trentina che facevano della città una Manhattan asiatica, risparmiata da attoniti invasori. Piuttosto i furgoncini cabinati con tela rossa, sui quali è ricamato un cuore, che scorrazzano allegri in città. O il pozzo d’acqua nel villaggio hazara, con una piccola targa che ricorda che il piccolo impianto è un dono del comune di Resuttano, in Sicilia, e dunque un paese che sa bene il valore dell’acqua. O la scuola femminile nel cui cortile le ragazze velate di nero sembravano uno stormo di rondini. O l’inaugurazione dell’anno scolastico, e l’aspetto furbo e pacioso di Ismail Khan, il signore di Herat, seduto in prima fila. O l’aspetto di Babele ordinata di Camp Arena, dove i militari italiani sono affiancati da spagnoli e sloveni. Gente in gamba, che fa un buon lavoro, ed è molto cordiale: gli unici che mi hanno scansato accuratamente sono quelli dei corpi speciali, Col Moschin e Comsubin, quelli che pattugliano la provincia di Farah, come a ricordarmi che la nostra è una missione che ha un braccio legato dietro la schiena, e fa tutto quello che si deve fare, ma deve mostrarti una sola mano, fatta di aiuti e offerta di sicurezza. Ma la cartolina che preferisco è la prima, nel giorno di festa dell’arrivo. I prati accanto al fiume color caffelatte, e il picnic disordinato di centinaia di famiglie: un manifesto di spensieratezza, una pasquetta afghana che ha strappato un sorriso di nostalgia perfino ai ragazzi del San Marco che mi scortavano. La Giornata * * * In Italia * * * Nel mondo OGGI IN SENATO IL VOTO SU KABUL. FORZA ITALIA E LEGA SI ASTERRANNO. Ieri si è tenuto un vertice tra Silvio Berlusconi e alcuni leader del Carroccio, in serata i due partiti hanno ufficializzato l’astensione sulle missioni italiane all’estero. Nel pomeriggio era intervenuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, auspicando “cooperazione” tra centrosinistra e centrodestra. Il segretario dell’Italia di Mezzo, Marco Follini, è stato ricevuto dall’ambasciatore americano Ronald Spogli. Dal Brasile il premier Romano Prodi si è chiesto come può l’opposizione permettersi di votare contro, quando alla Camera si era espressa a favore. L’Udc voterà il decreto di rifinanziamento. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, è stato contestato all’Università La Sapienza di Roma da alcuni studenti di sinistra. Slogan contro le scelte di politica estera del governo (articolo a pagina due). COLPITA L’AMBASCIATA AMERICANA IN IRAQ. CONTATTI COI GUERRIGLIERI sunniti per contrastare al Qaida. Ieri la sede diplomatica statunitense di Baghdad è stata attaccata con colpi di mortaio. Non ci sono state vittime. Al New York Times, l’ambasciatore di Washington in Iraq Khalilzad ha detto che esistono contatti con le fazioni della guerriglia sunnita per convicerle a partecipare alla campagna contro al Qaida. Khalilzad è al termine della sua missione: diventerà ambasciatore all’Onu. Ieri è iniziato il dibattito al Senato americano sul provvedimento che fissa entro il 31 marzo 2008 il ritiro delle truppe dall’Iraq. * * * Monsignor Bagnasco attacca i Dico e annuncia la nota vincolante per i parlamentari cattolici elaborata dai vescovi. Il neopresidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha detto che il ddl è “pericoloso sul piano sociale ed educativo. La nostra non è invadenza di campo perché l’unione tra uomo e donna è un disegno del Creatore”. * * * Tentato suicidio di Danilo Coppola. L’immobiliarista Danilo Coppola si è tagliato le vene venerdì scorso nel carcere di Regina Coeli, dov’è detenuto dal 1° marzo. E’ stato soccorso dai medici ed è sopravvissuto. E’ accusato di associazione a delinquere, bancarotta, falso in atto pubblico e aggiotaggio. * * * Chiesta la condanna sul caso Sme per Berlusconi. Il processo d’appello è partito dopo la bocciatura della legge Pecorella da parte della Corte costituzionale. Il leader di FI è accusato di corruzione, la procura ha chiesto una pena di cinque anni di reclusione, la parte civile, cioè il governo italiano, un risarcimento danni di 1,1 milioni di euro. * * * Accordo tra Enel e Acciona per l’opa su Endesa. L’intesa è soggetta alla condizione che E.On non acquisisca oltre il cinquanta per cento del capitale di Endesa. E.On ha annunciato un’azione legale contro Enel per bloccare la scalata. * * * Borsa di Milano. Mibtel -0,97 per cento. Ieri il cda di Fastweb ha approvato l’opa di Swisscom. * * * E’ morto Beniamino Andreatta. Economista, tra i fondatori del Pp e dell’Ulivo. * * * Olmert favorevole a un vertice con arabi moderati. Lo ha detto ieri il premier israeliano durante la visita del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. I membri della Lega araba hanno firmato ieri a Riad il documento che sarà presentato nel summit di domani. Il ministro degli Esteri saudita ha detto di essere aperto a modifiche del testo per renderlo “compatibile” con i cambiamenti recenti. Ieri ad Amman, Rice ha incontrato re Abdallah e il rais palestinese, Abu Mazen. In serata è tornata a Gerusalemme per una cena con Olmert (articolo a pagina quattro). * * * L’Iran riprende i pagamenti alla Russia per la costruzione della centrale nucleare di Bushehr. Lo ha reso noto ieri l’Agenzia russa per l’energia atomica. Per Teheran è la prima rata versata del 2007. Il presidente russo Putin e il collega cinese Hu Jintao hanno detto che il problema del nucleare iraniano può essere risolto “solo con azioni pacifiche”, ma hanno chiesto a Teheran di rispettare le richieste dell’Onu. * * * In Ulster governo d’unità dall’8 maggio. Il reverendo protestante Ian Paisley e Gerry Adams, del Sinn Fein, si sono incontrati a Belfast. E’ la prima volta che i due leader siedono allo stesso tavolo. L’8 maggio inizierà l’attività del governo biconfessionale. Per il premier inglese Blair è stata “una giornata importante per l’Irlanda del nord”. * * * In Yemen due morti in un attentato sciita. Una madrassa sunnita è stata assalita dal gruppo sciita Gioventù credente. Almeno due le vittime, un francese e un inglese. * * * Per il Kosovo l’“indipendenza vigilata” è l’unica soluzione che garantisce la sua stabilità. Lo ha detto ieri all’Onu l’inviato speciale per la regione, Martti Ahtisaari. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21,00 A ciascuno il suo ricatto iraniano Teheran agita lo spettro delle “spie” inglesi arrestate e ostenta spregiudicatezza coi nemici all’Onu I due miliardi di buone ragioni dei francesi della Total per non indispettire gli amici ayatollah Roma. Per Teheran la “crisi degli ostaggi” con la Gran Bretagna rappresenta molto più che un semplice ricatto per ottenere il rilascio dei pasdaran e dei funzionari iraniani fermati in Iraq. E’ vero che il ministro degli Esteri iracheno, Hushyr Zebari, aveva assicurato alla controparte iraniana, Manoucher Mouttaki, che i sabotatori inviati da Teheran sarebbero stati rilasciati entro Nowroz, il capodanno iraniano – festeggiato la scorsa settimana – e non è accaduto. Ma la tempistica degli eventi – le imbarcazioni sono state intercettate alla vigilia del voto sulle sanzioni – letta alla luce della bellicosa retorica dell’ayatollah Khamenei e dei suoi generali non può non essere considerata come un atto di sfida nel confronto sul nucleare. Con la risoluzione 1.747 Cina e Russia hanno acconsentito ad allargare lo spettro delle sanzioni. Mosca ha imposto una “pausa” al completamento della centrale di Bushehr. La presenza americana nel Golfo Persico è stata potenziata e Riad guida in funzione anti-iraniana la politica di contenimento del fronte sunnita. Teheran avverte anche il rischio che il braccio di ferro sul nucleare non sia che un sintomo di una crisi più profonda. Le tattiche dilatorie utilizzate per dividere il Consiglio di sicurezza hanno solo allungato i tempi. Il dialogo fra il negoziatore nucleare Ali Larijani e il capo della diplomazia europea, Javier Solana, non ha prodotto risultati e l’ayatollah Khamenei nel suo recente messaggio di Nowruz ha tratteggiato per gli interlocutori regionali e internazionali la linea rossa della politica estera iraniana: “Chi causa dolore all’Iran dovrà pagare un prezzo”. Isolata, Teheran, provoca. Annuncia la sospensione parziale della sua collaborazione con l’Agenzia atomica, ribadisce che non fermerà i progetti nucleari, fa trapelare la notizia della “confessione” dei membri della pattuglia britannica e ventila l’ipotesi di un processo con inquietanti conseguenze. L’Iran alza i toni perché ha bisogno di nuove carte da giocare. Sul fronte interno Teheran si presenta come vittima dell’intelligence anglo-americana, un argomento che trova terreno fertile nell’opinione pubblica iraniana. All’esterno segnala che le nuove sanzioni saranno considerate come azioni nemiche e gli stati che le hanno determinate giudicati di conseguenza. Bruxelles. Proprio mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu stava per votare il rafforzamento delle sanzioni contro il programma nucleare iraniano, la settimana scorsa a Parigi l’amministratore delegato di Total, Christophe de Margerie, finiva in carcere per uno scandalo di corruzione legato all’Iran. Il gigante petrolifero francese avrebbe versato, dal 1997 al 2003, 60 milioni di dollari a una società di consulenza, che serviva da copertura per pagare intermediari e corrompere funzionari della Repubblica islamica, al fine di ottenere un contratto da due miliardi di dollari per sfruttare il giacimento di gas off-shore di South Pars. Secondo un dirigente di Total interrogato dalla giustizia francese, il beneficiario della commissione occulta sarebbe il figlio dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che ha smentito le accuse. Ma i giudici di Parigi disporrebbero della testimonianza di un dirigente della compagnia petrolifera russa Statoil – partner di Total nel contratto South Pars – che evoca l’esistenza di un sistema di corruzione organizzato attorno a una fondazione presieduta dal figlio di Rafsanjani. Total era già finita sotto inchiesta nel 2005 per “corruzione attiva e traffico di influenza” nello scandalo iracheno oil for food. Se “quello che è buono per Total è buono per la Francia” – come dicono a Parigi – lo scandalo potrebbe spiegare la prudenza francese nell’imporre sanzioni alla Repubblica islamica. Tanto più che, come in oil for food, anche il contratto con l’Iran ha un risvolto politico: lo sfruttamento di South Pars era stato inizialmente negoziato dalle compagnie americane e solo il veto della Casa Bianca ha permesso ai francesi di sfruttare l’enorme giacimento off-shore. La decisione di Total è stata presa “con l’avallo delle più alte autorità dello stato”, ha detto a Libération un uomo vicino al dossier. Se Hezbollah in Libano e Hamas nei territori palestinesi minacciano gli interessi arabi, petrolio e gas sono la leva nei confronti dell’Europa, presente in Iran con l’italiana Eni e la spagnola Repsol. “Il mondo ha tanto bisogno del petrolio iraniano quanto l’Iran ha bisogno del resto del mondo”, ha detto il predecessore di Margerie, Thierry Desmarest, nel novembre 2006 al Monde, spiegando le esitazioni della Francia alle sanzioni contro l’Iran. MANO PESANTE Genitori non conformisti prendono a sani ceffoni un po’ di ragazzini che se li meritano D ue bei ceffoni, di quelli di una volta con la mano aperta, che lasciano un lungo pizzicore sulla guancia e il giusto tempo per pensare. Ceffoni così non se ne danno praticamente più, purtroppo, perché si rischia, in ordine crescente di sventura: la pubblica riprovazione, la denuncia, i servizi sociali, l’analisi. Ma un genitore anticonformista, padre di una bambina di dodici anni, se ne è allegramente infischiato e ha riempito di schiaffi cinque sbruffoni delle medie: prima li ha fatti scendere dalle biciclette (la moglie era con lui, e con il senso forte della famiglia unita ne ha buttato uno per terra aprendogli la portiera dell’auto addosso), poi le ha date volentieri anche a un papà accorso al primo squillo di cellulare del figlio lamentoso e terrorizzato. I ragazzi ovviamente stanno bene, subito dimessi dal pronto soccorso pediatrico, hanno un po’ di sani giorni di prognosi e certo d’ora in poi eviteranno di chiudersi in un magazzino buio di sabato pomeriggio con una dodicenne, compagna di classe di alcuni di loro, per filmare con il cellulare una scena triste di sesso orale e fare girare il video per tutta la scuola media (sette maschi addosso a una femmina). La ragazzina piange e dice che l’hanno costretta, loro ridono e dicono che era consenziente, “un rito di iniziazione per farsi accettare nel gruppo”. Il preside è molto sollevato perché il filmino è stato girato fuori dalla scuola, i genitori della bambina hanno preso un avvocato e ovviamente credono alla versione della violenza, i ragazzi si sentono molto sicuri perché solo uno di loro ha più di quattordici anni, e comunque il vero protagonista del video ne ha tredici. “Un altro episodio di bullismo”, sui giornali un mese fa, le solite risatine, e la colpa come sempre è della playstation. Un sacco di storie identiche a questa sono finite così, con la vergogna e con il dialogo (“era solo un gioco, non c’era nulla di male, lo fanno tutti”, hanno detto orgogliosi i ragazzi, che però avevano paura a tornare a casa da soli, terrore di quel padre infuriato che all’uscita da scuola osava prenderli a male parole e mettere in discussione la loro adolescente onnipotenza), invece stavolta è cambiato tutto: è finita a ceffoni, finalmente. Respiro di normalità Ceffoni non al preside che vieta i cellulari in classe, non ai professori che danno brutti voti, ma preziosi, rarissimi ceffoni ai figli che fanno casini. Il padre con la mano pesante è finito in caserma dai carabinieri, i genitori degli schiaffeggiati forse lo quereleranno per lesioni, ma almeno per un attimo si è respirata un po’ di normalità: famiglia robusta che sicuramente non avrà fatto mancare alla figlia sventata la giusta dose di sberle, prima di difenderla dalla ferocia brufolosa di un branchetto di maschi ghignanti. Se poi la dodicenne fosse stata molto consenziente, molto d’accordo con l’idea orrenda di un rito iniziatico per entrare nel gruppo fico della scuola, non importa, gli schiaffi sono stati comunque perfetti: perché la seconda media è ancora libera dai video di Fabrizio Corona e dalle inchieste di Woodcock, quindi anche le sciocchine di dodici anni hanno diritto a un po’ di privacy. Fiaccole per la sicurezza Per Moratti non bastano 500 poliziotti, serve una nuova cultura dei doveri Il sindaco di Milano incassa la presenza di Berlusconi, di molti colleghi e fa un discorso valoriale da leader Penati: “Lavoriamo insieme” Milano. Ieri Letizia Moratti alla manifestazione per la sicurezza ha incassato la presenza di Silvio Berlusconi, di parecchi sindaci, tra cui quelli di Trieste e Palermo, e quella di decine di migliaia di cittadini. Con lo slogan “Proteggere Milano”, la fiaccolata aveva l’obiettivo “tecnico di ottenere dal governo cinquecento agenti in più. In realtà il sindaco di Milano ha fatto un discorso valoriale, da leader politico. Ha parlato di necessità di una svolta culturale “dopo troppi anni di lassismo e permissivismo” e “di sguardi girati dall’altra parte”. Di un’insicurezza che “è figlia dell’involuzione culturale durata decenni”, in cui contavano di più le garanzie di chi delinque che quelle dei cittadini. Ha proposto una cultura dei diritti, ma anche dei doveri. Ha chiesto ai suoi concittadini di “non essere più sudditi”. Parole molto più convincenti per i milanesi che non gli scontati appelli contro il degrado delle periferie proposti dalla sinistra, che aveva accusato la fiaccolata di dividere più che unire. “La sicurezza non può essere strumentalizzata”, dice Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro di Milano, alla fine di una contromanifestazione stracca, in cui “almeno millecinquecento persone chiamate in piazza da centocinquanta comitati di quartiere”, così battono le agenzie, hanno formato una catena umana tra la prefettura e il comune. La scarsa riuscita è anche una spia dei dubbi strategici della sinistra di fronte all’offensiva di Letizia Moratti. Pierfrancesco Majorino, segretario cittadino dei Ds, pure presente al corteo, aveva preferito spendere diversamente le energie politiche della sua base, sostenendo nello scorso weekend la distribuzione nelle strade (centomila copie) di una lettera aperta in cui si spiegavano le critiche alla Moratti. Majorino le ribadisce al Foglio: “La nostra valutazione è fortemente negativa sul suo comportamento. E’ scandaloso che dal sindaco e da una parte politica che governa da quindici anni vengano scaricati sul governo i problemi, mentre poi l’amministrazione taglia le risorse alla sicurezza”. La sinistra, prosegue, “non trascura il tema della sicurezza, ma va affrontato senza la demagogia”. La questione è però politica. Sulla sicurezza resta difficile trovare l’equilibrio tra chi teme soprattutto la drammatizzazione (“più che un un’emergenza sicurezza c’è un disagio sociale” dice il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero) e chi invece teme soprattutto di perdere consensi nei ceti popolari e nelle periferie. Non a caso l’Unione a Milano ha provato anche a schierare un ex prefetto, Bruno Ferrante, ma ha ugualmente perso. Così i trenta punti proposti nella “lettera” diessina si sono sintetizzati in dieci punti presentati domenica dall’Unione. Ma alcuni, come il rafforzamento delle forze dell’ordine, il risanamento dei campi nomadi, il coordinamento tra istituzioni sono in pratica le stesse ricette proposte dalla Cdl, tanto che il vicesindaco di An, Riccardo De Corato, ha avuto buon gioco a riconoscere la comunanza di intenti. Ma allora, perché due manifestazioni? Il presidente della provincia, Filippo Penati, ieri era a Cuba per promuovere la candidatura di Milano per l’Expo 2015, – obiettivo comune con il sindaco – ha affidato il suo punto di vista a uno scarno comunicato, in cui però chiama per nome le “attività criminali diffuse sul territorio come lo spaccio, le rapine che creano nei cittadini il maggior allarme”. E conclude con un “da martedì si ritorni a lavorare insieme”. Un episodio ha riacceso la fiducia di Sebastiano Messina nella grandezza della chiesa alla vigilia di questa benedetta nota dei vescovi sui Dico. E l’episodio è questo. Sembra che un chierichetto, salito sul pulpito durante una messa alla Madonna di Pietraquaria di Avezzano, abbia detto al secondo chierichetto: “Ti amo”; di fronte a che il sacerdote avrebbe commentato: “Non c’è nulla di straordinario a dire ‘ti amo’ a una persona dello stesso sesso. Dio infatti è amore”. E grazie al cielo, ha ragionato Messina, perché non credo che quello stesso sacerdote avrebbe detto così se avesse prima consultato la Binetti, o Ruini, o addirittura il Papa, su come la pensano sui Dico. E questa volta conveniamo con lui. E’ possibile. E’ possibile che quel sacerdote avrebbe usato parole diverse. Di più, è probabile. Però restiamo fermi ai Dico. Non potrà Messina non convenire con noi su una faccenda scontata: “Ti amo”, avrebbe detto il primo chierichetto all’altro. Questo la stampa quantomeno ha scritto: “Ti amo”, “Ti amo”, soltanto “Ti amo”. “Ti amo”, ok? Mica: “Ti amo, poi t’inculo e poi ti sposo”.