Rassegna stampa 13 dicembre 2016

Transcript

Rassegna stampa 13 dicembre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 13 dicembre 2016
SOMMARIO
“È un esecutivo di sopravvivenza - lo definisce così Massimo Franco sulla prima pagina
del Corriere di oggi -, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica.
L’ambizione e il compito di Paolo Gentiloni saranno quelli di suturare le ferite lasciate
dal referendum del 4 dicembre e da mesi di scontro con le opposizioni; e
accompagnare l’Italia al voto, nel 2017 o l’anno dopo. Le capacità di mediazione del
nuovo premier sono riconosciute da tutti, e Gentiloni sa di avere l’appoggio e la
fiducia del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso
partito gli permetterà di consolidare questa nuova identità. La lealtà a Matteo Renzi è
perfino troppo sottolineata dalla lista dei ministri: quasi una fotocopia del suo
esecutivo, con l’ex ministro alle Riforme, Maria Elena Boschi, solo in apparenza
«declassata» a sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma il Pd non sembra affatto pacificato.
E il segretario si prepara a riaffermare il primato su un partito in ebollizione, scottato
dalle sconfitte. Soprattutto, non è pacificata l’Italia. Le opposizioni rimarcano una
compagine schiacciata sul «fronte del Sì», dopo avere fatto di tutto perché nascesse
proprio così. Movimento 5 Stelle e Lega si preparano a sfruttare ogni occasione per
delegittimare il governo, forti della vittoria dei No e dell’oggettivo indebolimento
della maggioranza; e a presentarlo come subalterno a un’Europa bersagliata con livore
demagogico. Ma la Ue appare ansiosa di aiutare Gentiloni e l’Italia, dopo gli scarti e le
incomprensioni degli ultimi mesi. Le prime reazioni lasciano capire che il nuovo
governo sarà accolto a Bruxelles a braccia aperte, nella convinzione di rinsaldare la
sintonia di sempre: una tradizione un po’ appannata durante la campagna
referendaria, quando Palazzo Chigi sperava di recuperare voti del M5S e di
centrodestra anche polemizzando tatticamente con Bruxelles. Il profilo è basso, e non
poteva essere che così. Risente dell’esigenza di tacitare le spinte correntizie tornate
a galla nella maggioranza del Pd. E il no delle opposizioni a entrare nel governo
restituisce numeri parlamentari avari, che trasformano ogni partitino in un possibile
dominus della sua sopravvivenza. Eppure, l’irrigidimento a sorpresa di Denis Verdini
contro un «governo fotocopia» non è bastato a fargli concedere ministri. Per ora il
vero regista rimane Renzi, il quale non fa nulla per nasconderlo. Ma sarebbe un errore
raffigurare Gentiloni come un amministratore delegato a tempo, in attesa del ritorno
in tempi brevi di quello «vero». Uno schema del genere sa di forzatura. Sottovaluta
quanto è successo il 4 dicembre. Proietta la continuità che il governo esprime in un
futuro dai contorni estremamente incerti: quasi si potesse tornare in modo
automatico a un passato interrotto bruscamente e ingiustamente. In più, rischia di
relegare in secondo piano le emergenze che l’Italia deve affrontare, e di cui la legge
elettorale è soltanto l’elemento più vistoso e citato. I prossimi mesi diranno che si
tratta di questioni drammatiche, di fronte alle quali evocare elezioni anticipate
risulterà azzardato fino alla temerarietà: a meno che non si voglia regalare Palazzo
Chigi a Beppe Grillo. Il governo Gentiloni viene presentato come una parentesi aperta
dal Pd, che il partito di Renzi potrà chiudere a piacimento. In realtà, già lo stile
dimesso del premier segna una cesura col passato. Sarà interesse di tutta la
maggioranza accentuarla, se vuole non solo mantenere il contatto col quaranta per
cento degli italiani che hanno votato Sì, ma recuperare credibilità agli occhi della vera
maggioranza del Paese: quella che, dopo avere bocciato Renzi, pretende dal sistema
politico una coda di legislatura improntata al senso di responsabilità, a fatti concreti,
e allo sforzo vero di restituire all’Italia un simulacro di unità nazionale”. Per Mario
Calabresi, direttore di Repubblica, “avevamo bisogno di un governo leggero, efficiente
e dotato di senso pratico, capace di chiudere i dossier più urgenti mentre il
Parlamento lavorerà a scrivere le regole per tornare al voto in tempi brevi. Avevamo
bisogno di un governo capace di affrontare l’emergenza bancaria, gestire il fenomeno
migratorio e le sfide di politica estera in un quadro che sta cambiando radicalmente
dopo l’elezione di Donald Trump. Avevamo bisogno di un presidente del Consiglio
serio e allergico ai protagonismi e di un ex premier capace di fare un passo indietro e
provare a ricostruire il suo partito e il rapporto con i cittadini. Tutto ciò sembrava a
portata di mano, ci si è mossi in tempi brevissimi, e Gentiloni è certamente la figura
giusta. È riuscito anche a resistere alle pressioni di Verdini e tenendolo fuori ha
evitato una macchia politica che sarebbe stata letale per il suo esecutivo. Matteo
Renzi ha fatto gli scatoloni, ha scritto la sua lettera d’addio al governo nel cuore della
notte e promesso di dedicarsi solo al Pd. Sembrava un nuovo inizio. Poi sono arrivati i
dettagli, quelli in cui è solito nascondersi il diavolo: Maria Elena Boschi, la madre della
riforma costituzionale bocciata dagli italiani, anziché fare un doveroso passo indietro
ha chiesto e ottenuto una promozione. Per farle posto si sono resuscitati due vecchi
ministeri, uno per il fedelissimo Lotti l’altro per De Vincenti. Angelino Alfano si è
spostato alla Farnesina, un passaggio incomprensibile in una fase così delicata dato
che non si conoscono sue competenze in politica estera. Come non pensare ad una
mossa dettata dalla voglia di allargare il curriculum? O dalla necessità di allontanarsi
dalla patata bollente dell’immigrazione? Ma non era meglio restare e rivendicare il
lavoro fatto? Scelte evitabili che rafforzano diffidenze, gonfiano il qualunquismo e
lasciano un retrogusto di furbizia e immaturità. A pagare gli errori del passato la sola
ministra Giannini, senza che il governo abbia mai fatto un minimo di autocritica sulla
riforma della scuola. Troppo facile e troppo poco”. Su Avvenire, poi, il direttore
Marco Tarquinio osserva: “La crisi è finita. Il Governo Gentiloni è nato e si sta
mettendo, anzi sta tornando, al lavoro. La maggioranza, infatti, è in pratica la stessa
che aveva retto nei «mille giorni» di Matteo Renzi, con gli stessi problemi interni, un
paio di pezzi in meno (i verdiniani e ciò che resta di Scelta Civica) e un orizzonte
temporale ristretto. E la compagine ministeriale le somiglia come una goccia d’acqua.
Limitatissime le novità, in attesa di viceministri e sottosegretari. Un pesante cambio
di poltrona: Angelino Alfano passa dalla guida dell’Interno a quella degli Esteri. Un
debutto: Valeria Fedeli all’Istruzione. Un ritorno dopo diciott’anni: Anna Finocchiaro
ai Rapporti col Parlamento. Due promozioni da sottosegretario a ministro: Marco
Minniti all’Interno, Claudio De Vincenti alla Coesione territoriale e Mezzogiorno. E una
promozione da ministro a sottosegretario-segretario di governo per Maria Elena
Boschi. Adesso saranno le due Camere a decidere sulla fiducia, perché questo è il loro
potere esclusivo e condiviso, secondo la Costituzione che gli italiani hanno
confermato votando No al referendum. Molto sembra uguale, dunque, eppure tutto è
cambiato. Perché siamo passati da un 'Governo dei poteri' a un 'Governo dei doveri'.
Matteo Renzi era arrivato nel 2014 alla presidenza del Consiglio proiettando l’idea del
cambiamento forte e possibile pur in una Legislatura che appena un anno prima era
nata ingovernabile. Paolo Gentiloni gli succede, col suo stile misurato e consapevole,
mentre il Parlamento è (in diversi sensi) a un passo dal pensionamento, e il dossier
delle priorità stringenti non dà spazio ad altro – appunto – che a questi doveri, messi
giustamente in primo piano dal presidente Mattarella. Dal sostegno ai terremotati e
alla ricostruzione nel Centro Italia, all’applicazione di una legge di bilancio che
contiene finalmente anche un primo pacchetto di misure organiche anti-povertà, ma
che è motivo di un duro braccio di ferro con la Ue; dalla patata bollente (economicofinanziaria e morale) del Monte dei Paschi in crisi a una intensa serie di appuntamenti
internazionali: ingresso nel Consiglio Onu (gennaio), preparazione dell’eurovertice di
Roma (marzo) e della presidenza del G7 di Taormina (maggio). E, da ultimo, ma solo
per elencazione, il dovere definitivo della XVII Legislatura: una legge elettorale che
restituisca agli elettori il potere di scegliere gli eletti e consenta di rappresentare
davvero e secondo giusta proporzione la realtà italiana. Non onorare questi doveri,
soprattutto il primo (i poveri) e l’ultimo (regole del voto a misura di cittadini, non solo
di potenti) segnerebbe non solo il fallimento di un governo e di quel che resta della
XVII Legislatura, ma la premessa per l’archiviazione ingloriosa – e già rabbiosamente
incombente – di un’intera stagione politica”.
Nella Rassegna stampa di oggi il testo completo del messaggio del Papa per la
Giornata mondiale della pace: “La non violenza stile di una politica per la pace”
(a.p.)
IN PRIMO PIANO – ECCO IL GOVERNO GENTILONI, NUOVO O… “FOTOCOPIA”?
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Le ferite da ricucire di Massimo Franco
Pag 1 Dieci rischi per Renzi di Paolo Mieli
LA REPUBBLICA
Pag 1 Troppo poco di Mario Calabresi
LA STAMPA
Ricucire la frattura con il Paese di Francesco Bei
AVVENIRE
Pag 1 Il governo dei doveri di Marco Tarquinio
Una strada segnata
Pag 3 L’80esima crisi in 73 anni. Tutti i numeri del governo di Marco Olivetti
Analogie e differenze con le vicende politiche del passato
Pag 11 Squadra che perde cambia poco: Matteo “pesa” ancora nel governo. Così
si gioca la partita del Nazareno di Danilo Paolini
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Zanetti, il veneziano escluso ora mette a rischio il governo. Il rebus dei
sottosegretari di Giovanni Viafora
Le nomine e gli scenari. Nessun veneto nell’esecutivo
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il rischio della palude permanente di Marco Gervasoni
Pag 3 L’impronta di Renzi e i fronti ancora aperti di Marco Conti
LA NUOVA
Pag 1 Veneto senza ministri e leader di Paolo Possamai
1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV Santa Lucia: messa solenne a San Geremia con il Patriarca Moraglia
LA NUOVA
Pag 21 Il Patriarca celebra Santa Lucia di n.d.l.
Per onorare la patrona della vista “riaggiustato” anche il crocifisso
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 L’unica e vera via di g.m.v.
Pagg 4 – 5 La non violenza stile di una politica per la pace
Per la giornata mondiale della pace il papa invoca un cambiamento nei rapporti
personali, sociali e internazionali
Pag 5 Lanciare l’idea
Il messaggio di Paolo VI dell’8 dicembre 1967
Pag 7 Scelta di civiltà
All’Angelus in piazza San Pietro il Pontefice invoca la fine della guerra in Siria
AVVENIRE
Pag 2 Dire no alla violenza per aiutare Dio, e l’uomo di Marina Corradi
Pag 5 Il Papa scrive ad Assad: “Basta violenze” di Luca Geronico
“Visita di cortesia” del nunzio Zenari. Che consegna una lettera di Bergoglio
LA REPUBBLICA
Pag 53 Le idee progressiste di the Young Pope, così gli scritti giovanili di
Ratzinger anticipano le riforme di Bergoglio di Paolo Rodari
Pubblicati i testi del futuro Pontefice sul Concilio Vaticano II in cui rivendica la necessità
del “dialogo con il mondo di oggi”
IL FOGLIO
Pag 1 Un processo a Francesco di Giuliano Ferrara
Un papa che non capisce i principi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un
filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia. Il
pamphlet di Valli con postilla sul relativismo all’ingrosso
Pag 1 L’equilibrio instabile di Matteo Matzuzzi
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 Il sindaco promuove piazzale Sicilia. E vuole spostare le mense dei
poveri di G.B.
Ca’ Farsetti sta preparando un fascicolo con i posti sui sociali di alcuni comunali
Pag 13 Ca’ Farsetti rifiuta 60 profughi a Marghera: “Accoglienza diffusa” di
Francesco Bottazzo
Venturini scrive alla prefettura: zona già provata
LA NUOVA
Pag 20 Qualità della vita, Venezia migliora di Enrico Tantucci
La classifica del Sole 24 Ore: la nostra provincia al 39° posto. Guadagnate nove
posizioni rispetto allo scorso anno
Pag 20 Petizione contro la cessione dell’ostello
Giudecca, raccolte 500 firme per salvare lo “Jan Palach” che lo Iuav vorrebbe vendere
per fare cassa
IL GAZZETTINO
Pag 26 Philip Rylands: “Fra 6 mesi addio alla Guggenheim” di Sergio Frigo
“Giusto cambiare dopo tanto tempo. Andrò a fare dell’altro”
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV Ostello Palach, appello per evitare la vendita di Giorgia Pradolin
Lo Iuav avrebbe deciso di vendere l’immobile che oggi ospita una foresteria per studenti
gestita dalla Pastorale universitaria
Pag VII Teatro a favore della Casa famiglia di Daniela Ghio
Iniziativa al Malibran per aiutare i nuclei che si trovano in difficoltà
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 6 Gara di solidarietà per il papà povero: “Aiuti e regali di Natale a tuo
figlio” di Francesca Visentin
Gardaland offre un giorno da sogno. Lui declina: “Voglio solo che parliate dei separati”
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 30 Donne non gradite nei bar a nord di Parigi, come nel Maghreb di Stefano
Montefiori
AVVENIRE
Pag 19 I copti: “Ormai ci trattano da stranieri” di Federica Zoia
Paura dopo l’attacco al Cairo. Ad agire un kamikaze di 22 anni. Sisi ai funerali
Torna al sommario
IN PRIMO PIANO – ECCO IL GOVERNO GENTILONI, NUOVO O… “FOTOCOPIA”?
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Le ferite da ricucire di Massimo Franco
È un esecutivo di sopravvivenza, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica.
L’ambizione e il compito di Paolo Gentiloni saranno quelli di suturare le ferite lasciate dal
referendum del 4 dicembre e da mesi di scontro con le opposizioni; e accompagnare
l’Italia al voto, nel 2017 o l’anno dopo. Le capacità di mediazione del nuovo premier
sono riconosciute da tutti, e Gentiloni sa di avere l’appoggio e la fiducia del capo dello
Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso partito gli permetterà di
consolidare questa nuova identità. La lealtà a Matteo Renzi è perfino troppo sottolineata
dalla lista dei ministri: quasi una fotocopia del suo esecutivo, con l’ex ministro alle
Riforme, Maria Elena Boschi, solo in apparenza «declassata» a sottosegretario a Palazzo
Chigi. Ma il Pd non sembra affatto pacificato. E il segretario si prepara a riaffermare il
primato su un partito in ebollizione, scottato dalle sconfitte. Soprattutto, non è pacificata
l’Italia. Le opposizioni rimarcano una compagine schiacciata sul «fronte del Sì», dopo
avere fatto di tutto perché nascesse proprio così. Movimento 5 Stelle e Lega s i
preparano a sfruttare ogni occasione per delegittimare il governo, forti della vittoria dei
No e dell’oggettivo indebolimento della maggioranza; e a presentarlo come subalterno a
un’Europa bersagliata con livore demagogico. Ma la Ue appare ansiosa di aiutare
Gentiloni e l’Italia, dopo gli scarti e le incomprensioni degli ultimi mesi. Le prime reazioni
lasciano capire che il nuovo governo sarà accolto a Bruxelles a braccia aperte, nella
convinzione di rinsaldare la sintonia di sempre: una tradizione un po’ appannata durante
la campagna referendaria, quando Palazzo Chigi sperava di recuperare voti del M5S e di
centrodestra anche polemizzando tatticamente con Bruxelles. Il profilo è basso, e non
poteva essere che così. Risente dell’esigenza di tacitare le spinte correntizie tornate a
galla nella maggioranza del Pd. E il no delle opposizioni a entrare nel governo restituisce
numeri parlamentari avari, che trasformano ogni partitino in un possibile dominus della
sua sopravvivenza. Eppure, l’irrigidimento a sorpresa di Denis Verdini contro un
«governo fotocopia» non è bastato a fargli concedere ministri. Per ora il vero regista
rimane Renzi, il quale non fa nulla per nasconderlo. Ma sarebbe un errore raffigurare
Gentiloni come un amministratore delegato a tempo, in attesa del ritorno in tempi brevi
di quello «vero». Uno schema del genere sa di forzatura. Sottovaluta quanto è successo
il 4 dicembre. Proietta la continuità che il governo esprime in un futuro dai contorni
estremamente incerti: quasi si potesse tornare in modo automatico a un passato
interrotto bruscamente e ingiustamente. In più, rischia di relegare in secondo piano le
emergenze che l’Italia deve affrontare, e di cui la legge elettorale è soltanto l’elemento
più vistoso e citato. I prossimi mesi diranno che si tratta di questioni drammatiche, di
fronte alle quali evocare elezioni anticipate risulterà azzardato fino alla temerarietà: a
meno che non si voglia regalare Palazzo Chigi a Beppe Grillo. Il governo Gentiloni viene
presentato come una parentesi aperta dal Pd, che il partito di Renzi potrà chiudere a
piacimento. In realtà, già lo stile dimesso del premier segna una cesura col passato.
Sarà interesse di tutta la maggioranza accentuarla, se vuole non solo mantenere il
contatto col quaranta per cento degli italiani che hanno votato Sì, ma recuperare
credibilità agli occhi della vera maggioranza del Paese: quella che, dopo avere bocciato
Renzi, pretende dal sistema politico una coda di legislatura improntata al senso di
responsabilità, a fatti concreti, e allo sforzo vero di restituire all’Italia un simulacro di
unità nazionale.
Pag 1 Dieci rischi per Renzi di Paolo Mieli
Mentre Paolo Gentiloni riceve l’incarico di formare un nuovo governo, il pensiero va al
presidente colombiano Juan Manuel Santos che ai primi di ottobre è stato sconfitto nel
referendum sull’intesa con le Forze armate rivoluzionarie del suo Paese, è rimasto al suo
posto ed è stato persino insignito del Premio Nobel. Premio che ha ritirato a Oslo nelle
stesse ore in cui Matteo Renzi lasciava Palazzo Chigi. Un’eccezione, quella di Santos, alla
regola generale per cui, da Charles De Gaulle a David Cameron, tutti i capi di governo
hanno sempre lasciato i loro incarichi dopo essere stati battuti in una consultazione
referendaria (il premier inglese con la Brexit per 52 a 48). Cosa ha reso possibile
l’anomalia di Santos? Il fatto che il presidente della Colombia, pur avendo perso, in
seguito, per condizioni interne e internazionali da lui stesso predisposte, è stato in grado
di riprendere in mano il proprio progetto, di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative
con le Farc, e di puntare a una rivincita nelle urne in tempi brevi. Al nostro presidente
del Consiglio uscente, a ogni evidenza, tutto ciò non sarebbe stato consentito. Di riforma
costituzionale da noi non si parlerà più per molti anni (checché ne dicessero esponenti
del No i quali annunciavano progetti alternativi a tal punto semplici da poter essere
approvati nel giro di pochi mesi, anche in questa legislatura). Ma con il tessuto di quella
riforma era stato cucito, da lui stesso tra l’altro, l’abito d’ordinanza del Matteo Renzi
capo di governo, così che adesso non avrebbe potuto passare inosservato se avesse
aperto l’armadio per indossarne un altro a caso. Lui stesso ne è sempre stato
consapevole ed è per questo che nell’ultimo anno aveva annunciato una trentina di volte
che, nell’eventualità di una sconfitta, se ne sarebbe «tornato a casa» (cosa che ha fatto
in tempi rapidissimi, è doveroso dargliene atto). In molte occasioni, però, si era sentito
in dovere di aggiungere che, se avesse perso, avrebbe considerato «fallita» o
«conclusa» la sua esperienza politica, che avrebbe addirittura «smesso di fare politica»
dal momento che credeva «profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica».
Sicché avrebbe fatto «altro», sarebbe andato «via subito» e non lo si sarebbe «visto mai
più». Ora che annuncia per il 10 gennaio il suo reingresso nella campagna
precongressuale del Pd è bene che prepari delle risposte convincenti alla domanda sul
perché di quelle «parole aggiunte». Ed è bene altresì che approfitti del mese che ci
separa da quella scadenza per fare un’ulteriore riflessione sull’opportunità di correre a
riprendersi il partito. Per una decina di ragioni. La prima è che non sono state fatte
analisi approfondite di quel che è veramente accaduto il 4 dicembre. Non è colpa di
nessuno, non ce n’è stato il tempo. Ma se il 75% dei giovani ha votato No, è arduo
pensare che ciò sia riconducibile - come Renzi ha confidato a Massimo Gramellini esclusivamente al fatto che «il Pd è assente dal web» e che sia sufficiente «dedicare
tutte le energie a ricostruire una comunità digitale». Servirà anche questo, ma sarà
necessario anche altro. Molto altro. La seconda è che da candidato alle primarie, Renzi
perderà il profilo internazionale e accentuerà quello di personalità da confronto interno al
partito. Già ci sarebbe da riflettere se abbia giovato alla battaglia referendaria quel
modo di ricondurla ossessivamente alla conquista del consenso di Gianni Cuperlo, di
Pierluigi Bersani o di chi per loro. Adesso ci sarebbe solo o soprattutto questo. La terza
ragione è strettamente connessa alla seconda. Renzi è reduce da un’indubbia
sovraesposizione mediatica. Presentarsi nuovamente in tv a discutere prevalentemente
con avversari del Pd per di più su una materia come la legge elettorale, potrebbe essere
una scelta poco accorta. Ed esporlo a un effetto saturazione. La quarta è che l’immediato
ritorno nella mischia lo priverebbe di quei sia pur parziali riconoscimenti al suo triennio
di governo che già affiorano in qualche commento alla sua uscita da Palazzo Chigi.
Riconoscimenti, a parere di chi scrive, più che meritati. A un tempo sarebbe costretto
per esigenze propagandistiche a diffondersi da sé sui propri «miracoli» (come già gli
capita di fare). Il giudizio sul suo operato spetta agli altri, quello che lui dà di se stesso
conta poco e potrebbe essere - per qualche eccesso di generosità - nocivo. La quinta è
che se, come sembra, le elezioni politiche non saranno convocate per questa primavera,
ad aprile si terrà - lo ha già deciso la Cassazione - il referendum sul Jobs act e con lui in
pista potrebbe riservare brutte sorprese. Anche perché quella prova referendaria
sarebbe l’occasione d’oro per alcuni «pentiti del Sì» ansiosi di riverniciare la propria
immagine. Quei «personaggetti» (la definizione è dell’ Unità in presumibile riferimento ai
due Vincenzi, De Luca e D’Anna) che appaiono desiderosi di trasferirsi dal mondo degli
sconfitti a quello dei vincitori. Se il nostro Paese introducesse lo sport del «calcio
dell’asino», alle Olimpiadi saremmo in grado di conquistare medaglie d’oro, d’argento e
di bronzo. La sesta è che se non gli si opporranno nelle primarie personaggi di primo
piano in grado di competere con lui e se la dovrà vedere con Michele Emiliano o altre
personalità del genere, vorrà dire che il ventre doroteo del partito gli manda il seguente
messaggio: «corri pure da solo, conquistati una facile vittoria nel Pd, vatti a schiantare
per la seconda volta, così ti togli di mezzo per sempre». Che non è un bel viatico. La
settima è che con la separazione dei ruoli di segretario del Pd e di presidente del
Consiglio, è possibile che - come accadde a Bettino Craxi quando nel ’92 restò alla
conduzione del Psi lasciando a Giuliano Amato quella del governo - tutto ciò che di
negativo accadrà di qui ai prossimi mesi nella vita politica del Paese, soprattutto le
baruffe per la spartizione del potere, gli venga messo nel conto. Provocando difficoltà nei
suoi rapporti con lo stesso Gentiloni. L’ottava è che, se la legislatura dovesse protrarsi
oltre il 15 settembre, conoscerebbe la beffa di essere percepito come l’«uomo del
vitalizio» (altrui, per giunta). Renzi, come lui stesso non ha mancato di sottolineare, da
domani non avrà più stipendio. Ma il suo partito così come quello di Silvio Berlusconi
appare già adesso poco incline ad accelerare il ricorso anticipato alle urne. E lui, anche
per non rompere con il capo dello Stato, potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover
assecondare lo scavallamento di quella fatidica data. La nona è che in genere non è
consigliabile dopo una sconfitta (anzi due, vanno ricordate anche le Comunali del giugno
scorso) gettarsi di nuovo in un combattimento. Esistono anche problemi di tenuta fisica,
se non per lui, per i suoi. Fu l’errore - quello di passare da uno scontro all’altro restando
alla guida del partito - che fece Amintore Fanfani dopo il referendum sul divorzio (1974)
e che pagò con la sconfitta alle elezioni amministrative del 1975. La decima è relativa al
discorso sui «suoi». Quando si affrontano partite così importanti sarebbe saggio
affiancare ai collaboratori tradizionali altri che trovino il modo di dirti le verità amare,
quelle che fino a oggi nessuno ti ha mai detto. Ed è difficile riuscire a trovare il tempo
per farlo di qui a un mese prima che inizi la nuova battaglia.
LA REPUBBLICA
Pag 1 Troppo poco di Mario Calabresi
Avevamo bisogno di un governo leggero, efficiente e dotato di senso pratico, capace di
chiudere i dossier più urgenti mentre il Parlamento lavorerà a scrivere le regole per
tornare al voto in tempi brevi. Avevamo bisogno di un governo capace di affrontare
l’emergenza bancaria, gestire il fenomeno migratorio e le sfide di politica estera in un
quadro che sta cambiando radicalmente dopo l’elezione di Donald Trump. Avevamo
bisogno di un presidente del Consiglio serio e allergico ai protagonismi e di un ex
premier capace di fare un passo indietro e provare a ricostruire il suo partito e il
rapporto con i cittadini. Tutto ciò sembrava a portata di mano, ci si è mossi in tempi
brevissimi, e Gentiloni è certamente la figura giusta. È riuscito anche a resistere alle
pressioni di Verdini e tenendolo fuori ha evitato una macchia politica che sarebbe stata
letale per il suo esecutivo. Matteo Renzi ha fatto gli scatoloni, ha scritto la sua lettera
d’addio al governo nel cuore della notte e promesso di dedicarsi solo al Pd. Sembrava un
nuovo inizio. Poi sono arrivati i dettagli, quelli in cui è solito nascondersi il diavolo: Maria
Elena Boschi, la madre della riforma costituzionale bocciata dagli italiani, anziché fare un
doveroso passo indietro ha chiesto e ottenuto una promozione. Per farle posto si sono
resuscitati due vecchi ministeri, uno per il fedelissimo Lotti l’altro per De Vincenti.
Angelino Alfano si è spostato alla Farnesina, un passaggio incomprensibile in una fase
così delicata dato che non si conoscono sue competenze in politica estera. Come non
pensare ad una mossa dettata dalla voglia di allargare il curriculum? O dalla necessità di
allontanarsi dalla patata bollente dell’immigrazione? Ma non era meglio restare e
rivendicare il lavoro fatto? Scelte evitabili che rafforzano diffidenze, gonfiano il
qualunquismo e lasciano un retrogusto di furbizia e immaturità. A pagare gli errori del
passato la sola ministra Giannini, senza che il governo abbia mai fatto un minimo di
autocritica sulla riforma della scuola. Troppo facile e troppo poco.
LA STAMPA
Ricucire la frattura con il Paese di Francesco Bei
La proprietà commutativa che ci hanno insegnato a scuola dice che cambiando l’ordine
dei fattori il risultato non cambia. Non dovrebbe cambiare nulla quindi spostando un
Alfano dal Viminale alla Farnesina o una Boschi da un ministero a una poltrona da
sottosegretario, movimenti che profumano molto di Prima Repubblica e delle sue liturgie
partitiche e correntizie. Così sembrerebbero aver ragione le opposizioni che, a proposito
della staffetta Renzi-Gentiloni a palazzo Chigi, parlano di un governo-fotocopia, un
governo copia-incolla, un esecutivo Avatar. Ma purtroppo o per fortuna la politica non è
solo aritmetica. E basta avvicinare un po’ lo sguardo, e lasciare per un momento da
parte le semplificazioni della propaganda, per capire che le similitudini sono più
apparenti che reali. Certo, la composizione è quella che è e forse inevitabilmente il
nuovo governo sconta un tasso eccessivo di continuità con il precedente. Del resto anche
nel Duemila, con la staffetta tra D’Alema e Amato, la squadra fu quasi identica, a parte
un paio di ministri. E tuttavia, al di là dei cliché, quello che cambia davvero è il modo di
presentare i problemi, la narrazione, come usa dire oggi. Si è notata subito in Gentiloni
una consapevolezza dei problemi del Paese diversa, lontana da quell’ottimismo a tutti i
costi del presidente del Consiglio uscente. «Non si possono ignorare le forme di disagio,
specie del ceto medio e del Mezzogiorno, in cui il lavoro è un’emergenza più drammatica
che altrove», ha detto ieri Gentiloni presentando il governo. Che include, appunto, un
ministro ad hoc per il Mezzogiorno e una ex sindacalista della Cgil al dicastero
dell’Istruzione. Non a caso proprio al Sud e tra gli insegnanti si è verificato lo
scollamento più grande tra il renzismo e il paese reale, nonostante i miliardi destinati
alla Buona Scuola e la decina di patti territoriali siglati in questi mesi nel Meridione.
Come se, seppur tardivamente, il Pd avesse finalmente compreso la lezione del
referendum – il No ha prevalso non per l’attaccamento degli elettori al bicameralismo
paritario o al Cnel ma per la rabbia degli esclusi, dei dimenticati, dei giovani Neet - e
provasse a ricucire quella frattura. Sperando che non sia troppo tardi. Ma c’è un’altra
ragione per cui sarebbe un abbaglio considerare Gentiloni un clone politico di Renzi, un
burattino. Intanto perché il nuovo presidente del Consiglio, come ha scritto con acume la
Sueddeutsche Zeitung, era già renziano prima che l’ex sindaco di Firenze facesse
irruzione sulla scena politica. Ovvero, fin dai tempi di Rutelli e della Margherita, Gentiloni
è sempre stato sulla frontiera più avanzata di una sinistra riformista di tipo nuovo, libera
dall’ancoraggio novecentesco della Ditta comunista. Ma soprattutto, a differenziarlo oggi
da Renzi, c’è la questione non secondaria dei tempi del governo. Sarà un esecutivoyogurt, con la scadenza di poche settimane? O andrà avanti finché avrà i voti in
Parlamento? La questione per ora resta sottotraccia, ma c’è da scommettere che, al di là
della lealtà di Gentiloni a Renzi, è destinata a riproporsi presto. E’ una dialettica
inevitabile, perché in natura non esiste presidente del Consiglio che non voglia
proseguire il suo mandato, mentre l’esigenza del segretario Pd è andare al voto nel più
breve tempo possibile. Ieri Renzi, durante la direzione del Pd, si è spinto a definire le
elezioni «imminenti», mentre Ignazio la Russa, riferendo ai giornalisti il colloquio appena
avuto con il nuovo premier, ha affermato che l’intenzione è «restare finché avrà la
fiducia, quindi anche fino alla fine della legislatura». La data preferita da Renzi per le
urne sarebbe il 4 giugno, domenica di Pentecoste. Gentiloni sarà d’accordo a dimettersi
così presto? Ma soprattutto, Mattarella riterrà opportuno sciogliere le Camere e far
gestire il G7 di fine maggio in Italia, sotto presidenza italiana, da un governo
dimissionario, con una campagna elettorale in corso? Sono domande che troveranno
risposta solo nelle prossime settimane.
AVVENIRE
Pag 1 Il governo dei doveri di Marco Tarquinio
Una strada segnata
La crisi è finita. Il Governo Gentiloni è nato e si sta mettendo, anzi sta tornando, al
lavoro. La maggioranza, infatti, è in pratica la stessa che aveva retto nei «mille giorni»
di Matteo Renzi, con gli stessi problemi interni, un paio di pezzi in meno (i verdiniani e
ciò che resta di Scelta Civica) e un orizzonte temporale ristretto. E la compagine
ministeriale le somiglia come una goccia d’acqua. Limitatissime le novità, in attesa di
viceministri e sottosegretari. Un pesante cambio di poltrona: Angelino Alfano passa dalla
guida dell’Interno a quella degli Esteri. Un debutto: Valeria Fedeli all’Istruzione. Un
ritorno dopo diciott’anni: Anna Finocchiaro ai Rapporti col Parlamento. Due promozioni
da sottosegretario a ministro: Marco Minniti all’Interno, Claudio De Vincenti alla
Coesione territoriale e Mezzogiorno. E una promozione da ministro a sottosegretariosegretario di governo per Maria Elena Boschi. Adesso saranno le due Camere a decidere
sulla fiducia, perché questo è il loro potere esclusivo e condiviso, secondo la Costituzione
che gli italiani hanno confermato votando No al referendum. Molto sembra uguale,
dunque, eppure tutto è cambiato. Perché siamo passati da un 'Governo dei poteri' a un
'Governo dei doveri'. Matteo Renzi era arrivato nel 2014 alla presidenza del Consiglio
proiettando l’idea del cambiamento forte e possibile pur in una Legislatura che appena
un anno prima era nata ingovernabile. Paolo Gentiloni gli succede, col suo stile misurato
e consapevole, mentre il Parlamento è (in diversi sensi) a un passo dal pensionamento,
e il dossier delle priorità stringenti non dà spazio ad altro – appunto – che a questi
doveri, messi giustamente in primo piano dal presidente Mattarella. Dal sostegno ai
terremotati e alla ricostruzione nel Centro Italia, all’applicazione di una legge di bilancio
che contiene finalmente anche un primo pacchetto di misure organiche anti-povertà, ma
che è motivo di un duro braccio di ferro con la Ue; dalla patata bollente (economicofinanziaria e morale) del Monte dei Paschi in crisi a una intensa serie di appuntamenti
internazionali: ingresso nel Consiglio Onu (gennaio), preparazione dell’eurovertice di
Roma (marzo) e della presidenza del G7 di Taormina (maggio). E, da ultimo, ma solo
per elencazione, il dovere definitivo della XVII Legislatura: una legge elettorale che
restituisca agli elettori il potere di scegliere gli eletti e consenta di rappresentare davvero
e secondo giusta proporzione la realtà italiana. Non onorare questi doveri, soprattutto il
primo (i poveri) e l’ultimo (regole del voto a misura di cittadini, non solo di potenti)
segnerebbe non solo il fallimento di un governo e di quel che resta della XVII
Legislatura, ma la premessa per l’archiviazione ingloriosa – e già rabbiosamente
incombente – di un’intera stagione politica.
Pag 3 L’80esima crisi in 73 anni. Tutti i numeri del governo di Marco Olivetti
Analogie e differenze con le vicende politiche del passato
La crisi di governo apertasi il 7 dicembre con le dimissioni del governo Renzi e conclusasi
con la formazione del nuovo esecutivo, guidato da Paolo Gentiloni, è stata una delle più
brevi della storia della Repubblica: appena 5 giorni, giustificando la definizione di 'crisilampo'. Essa presenta alcune caratteristiche che la assimilano ed altre che la
differenziano dalle numerosissime crisi di governo che hanno preceduto quella appena
conclusa. Anzitutto il numero: dall’11 maggio 1948, data in cui le Camere elette il 18
aprile precedente elessero presidente della Repubblica Luigi Einaudi, consentendogli di
gestire (seguendo una procedura allora molto discussa, a metà fra un rimpasto e una
crisi) la formazione del primo governo sotto la vigenza della nuova Costituzione, le crisi
di governo in Italia sono state ben 70. Di esse, 61 sono state crisi nel senso pieno del
termine, vale a dire fasi della vita istituzionale in cui un Governo si è dimesso e si sono
seguite le procedure per la formazione di un nuovo governo, che si è poi effettivamente
formato. Ma a queste vanno aggiunte altre 9 crisi che si possono definire 'rientrate', vale
a dire fasi di crisi, aperte dalle dimissioni dell’Esecutivo, ma poi chiusesi con il rinvio alle
Camere del Governo uscente e con la sua sopravvivenza in carica: questi casi si sono
verificati nel 1957 con il governo Zoli, nel marzo 1960 con il governo Tambroni, nel 1974
con il V governo Rumor, nel 1985 con il I governo Craxi (la crisi dell’Achille Lauro), due
volte (novembre 1987 e febbraio 1988) con il breve governo Goria, alla fine del 1995
con il governo Dini, nel 1997 e nel 2007 con il governo Prodi. Ma il numero delle crisi
sale ancora se consideriamo anche quelle che hanno immediatamente preceduto
l’entrata in vigore della Costituzione: esso diventa di 73 se si prende come data di inizio
la nascita della Repubblica (2 giugno 1946), 75 se si muove dalla Liberazione (25 aprile
1945) e addirittura di 80 se si prende come data di inizio la caduta di Mussolini il 25
luglio 1943. 80 crisi in 73 anni: un numero che giustifica il titolo di un ormai vecchio
libro di uno dei massimi esperti del settore, Giulio Andreotti ('Governare con la crisi').
Solo 12 dei 74 anni solari succedutisi dal 1943 al 2016 non hanno visto nessuna crisi di
governo. Nei numeri sopra indicati non sono invece contati i casi in cui il Presidente del
Consiglio ha offerto le dimissioni al Presidente della Repubblica, come di solito accadeva
al momento dell’elezione del Capo dello Stato, in omaggio ad una tradizione monarchica:
in questi casi, infatti, la crisi non si apriva neppure. Lo stesso può dirsi per i rimpasti di
governo, vale a dire per la sostituzione di uno o più ministri: se ne è avuto qualche
esempio anche nel governo Renzi (uno di essi ha portato alla Farnesina Paolo Gentiloni).
Al di là dei numeri, quali particolarità ha avuto la crisi del 2016? È stata la prima crisi
della presidenza di Sergio Mattarella, iniziata il 3 febbraio 2015: e l’attuale Capo dello
Stato ha potuto godere del periodo più lungo – 22 mesi – fra la sua elezione e una crisi
di governo rispetto a tutti i suoi predecessori, superando Giuseppe Saragat (il quale,
eletto nel dicembre 1964, affrontò la prima crisi di governo, quella fra il II e il III
governo Moro, nel gennaio 1966): un dato non marginale se si ricorda che in passato il
neo-eletto Presidente della Repubblica ha dovuto affrontare una crisi subito dopo
l’insediamento al Quirinale (Einaudi nel 1948, Gronchi nel 1955, Leone nel 1972,
Scalfaro nel 1992, Napolitano nel 2006 e nel 2013). Per la seconda volta nella storia
della Repubblica, la crisi è stata aperta dal risultato di un referendum: era già accaduto
dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (allora il II governo De Gasperi
successe al I). Dopo di allora, nessun governo si era mai dimesso in seguito a un voto
referendario (anche perché i referendum costituzionali sono stati solo 3 e quelli
abrogativi hanno raramente visto la vittoria dei Sì). Nel 1974, il segretario della Dc
Fanfani fu travolto all’esito del referendum sul divorzio: ma in quella occasione il politico
aretino (che guidò ben sei governi fra il 1954 e il 1987) non era a Palazzo Chigi. Forse il
passaggio di questi giorni può ricordare le dimissioni del governo dopo una sconfitta
della sua coalizione in elezioni amministrative, di cui si possono citare casi recenti:
quello del 2000 (dimissioni del II governo D’Alema e formazione del I governo Amato) e
quello del 2005 (dimissioni imposte dall’Udc al II governo Berlusconi e formazione del III
esecutivo guidato dal leader di Forza Italia). Non è stata invece la prima crisi aperta
subito dopo un voto parlamentare di conferma della fiducia al governo: accadde già con
il II governo Cossiga e con il I governo Craxi. È stata, in fondo, una crisi assai lineare:
non ha dovuto passare per passaggi intermedi come il preincarico (l’ultima volta:
Bersani nel 2013), il mandato esplorativo (l’ultima volta: Marini nel 2008, anche se in
quel caso la distinzione col preincarico era assai problematica), un incarico seguito da
rinuncia (l’ultima volta: Maccanico nel 1996) o il rinvio alle Camere del governo
dimissionario (l’ultima volta: Prodi nel 2007). La crisi – come in altri 40 casi dal 1948 a
oggi – si è risolta con un cambiamento del Presidente del Consiglio (negli altri casi il
titolare di Palazzo Chigi successe a se stesso) e, in particolare, con la nomina alla
presidenza di un ministro del governo uscente: non accadeva dal 2000 (successione del
II governo Amato al II governo D’Alema), ma questa pratica era invece stata assai
frequente prima del 1992. Paolo Gentiloni è il 28° inquilino della Presidenza dall’entrata
in vigore della Costituzione. I l governo appena formato è in forte continuità col
precedente dal punto di vista della composizione: ma neanche questa è una novità
assoluta. Vicende analoghe sono accadute in altri esecutivi di fine legislatura, come i
governi Amato II e Berlusconi III, rispettivamente nel 2000 e nel 2005, anche se sarà
difficile eguagliare il 'governo fotocopia' formato nell’estate 1982 da Giovanni Spadolini:
il II esecutivo formato dal leader repubblicano era identico al I, dimessosi poco prima (il
governo dell’Italia campione del mondo!). In quel caso solo un componente
dell’esecutivo fu sostituito: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Francesco
Compagna, era infatti morto subito prima dell’apertura della crisi. Verosimilmente il
nuovo esecutivo otterrà la fiducia delle due Camere: è sempre successo per i 60 che lo
hanno preceduto, tranne che in cinque casi: l’VIII governo De Gasperi nel luglio 1953, il
I governo Fanfani nel gennaio 1954, il I governo Andreotti nel gennaio 1972, il V
governo Andreotti nel marzo 1979 e il VI governo Fanfani nell’aprile 1987.
Pag 11 Squadra che perde cambia poco: Matteo “pesa” ancora nel governo. Così
si gioca la partita del Nazareno di Danilo Paolini
Al governo il vero cambiamento è all’Istruzione, dove la rimozione di Stefania Giannini,
con l’arrivo di Valeria Fedeli, sa tanto di bocciatura. Per il resto, Gentiloni si è limitato a
gestire l’effetto domino innescato dalle dimissioni di Matteo Renzi dalla Presidenza del
Consiglio: con lui fuori dalla Farnesina, ecco Angelino Alfano e, all’Interno, Marco Minniti.
Per quest’ultimo, da sempre esperto di sicurezza e di servizi segreti, si può dire senza
tema di smentita che ieri si è avverato un sogno politico. Per il resto, aspettiamo le
nomine dei vari sottosegretari. Si potrebbe concludere che squadra che ha perso (il
referendum) cambia poco, pochissimo. Anche con un occhio ai difficili equilibri interni al
Pd. Certo, si spostano i due fedelissimi di Matteo Renzi. Ma sembra davvero difficile
parlare di un silura- mento per Maria Elena Boschi, intanto perché l’incarico alle Riforme
si è esaurito con il voto del 4 dicembre (mentre i Rapporti con il Parlamento vanno
all’esperta Anna Finocchiaro) e poi perché resta nel governo con il ruolo chiave di
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Prende il posto di Claudio De Vincenti,
divenuto comunque ministro per la Coesione territoriale e per il Sud. Lo stesso discorso
vale per l’altro renziano doc, Luca Lotti, che anzi da sottosegretario a Palazzo Chigi
diventa ministro (dello Sport). Rimangono al loro posto per l’Economia Pier Carlo
Padoan, e su questo c’erano pochi dubbi, ma anche, per il Lavoro e il Welfare, Maurizio
Poletti, dato per partente dalla gran parte dei pronostici. Insomma, il governo Gentiloni
nasce nel chiaro segno della continuità con il precedente esecutivo Renzi. Quest’ultimo
non c’è più, ma 'pesa' ancora. Vista la dinamica della crisi di governo e la comprensibile
sollecitudine con la quale è stata chiusa, era nelle cose. Ma è chiaro che per il segretario
del Pd è questa una buona carta da giocarsi nella partita per restare alla guida del
partito. La vera sfida per Paolo Gentiloni, invece, è quella di «accompagnare» e
«facilitare» (per usare le sue stesse parole) i provvedimenti urgenti rimasti in sospeso e,
se possibile, la riforma delle legge elettorali per la Camera e per il Senato. Per fare
senza «galleggiare», per citare stavolta lo stesso Renzi.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Zanetti, il veneziano escluso ora mette a rischio il governo. Il rebus dei
sottosegretari di Giovanni Viafora
Le nomine e gli scenari. Nessun veneto nell’esecutivo
Venezia. Non c’è nessun veneto nel nuovo governo guidato da Paolo Gentiloni. E poco
male, visto che nessun veneto compariva nemmeno nell’esecutivo Renzi (tra i ministri, si
intende). Ma questa volta a fare notizia è proprio chi non c’è. Parliamo, ovviamente, di
Enrico Zanetti, l’ex viceministro all’Economia che, dopo aver spaccato Scelta Civica,
alleandosi alla Camera con Denis Verdini, covava la non troppo minuta ambizione di
essere promosso alla guida di un dicastero. E invece niente, come si è visto. Il punto è
che l’esclusione di Zanetti, 43 anni, commercialista veneziano, che doveva essere l’uomo
di rappresentanza dell’area composta da verdiniani ed ex montiani («Ala-Sc»), ha creato
un vero caso politico. Che rischia di mettere subito in difficoltà il neonato esecutivo.
Raramente si era visto, d’altronde, un messaggio come quello inviato ieri proprio dallo
stesso Zanetti, con Verdini, all’indirizzo del primo ministro incaricato, a pochi minuti
dalla presentazione delle liste al Capo dello Stato. Annusata l’aria dell’esclusione, infatti,
la coppia faceva capire di non essere disposta a votare la fiducia, qualora non fosse
giustamente rappresentata all’interno dell’esecutivo. Una mossa audace, quasi
temeraria. «Apprendiamo la seria possibilità che venga varato un governo “fotocopia” scrivevano i due - senza alcun approfondimento sulle questioni in campo. Di
conseguenza, in coerenza con un’azione che in questi ultimi diciassette mesi ha
assicurato al Paese la governabilità e la realizzazione di importanti provvedimenti senza
alcuna contropartita, non voteremo la fiducia a un governo che ci pare al momento
intenzionato a mantenere uno status quo, che più dignitosamente sarebbe stato
comprensibile con un governo Renzi-bis». Quasi una sfida. Che per qualche minuto ha
pure messo in difficoltà lo stesso Gentiloni e che ha rallentato le operazioni di annuncio
dei nuovi ministri (l’incontro con Mattarella si è protratto per più di un’ora). Si era
pensato, ad un certo punto, che la pressione di Zanetti e Verdini avrebbe potuto far
rivedere all’ultimo la lista dei ministri. Attorno alle 19, invece, la questione si è chiarita:
nessuna concessione al gruppo centrista, ed anzi confermata l’esclusione di Zanetti. E
ora dunque si fanno i conti: all’ultimo voto di fiducia a Palazzo Madama, lo scorso 7
dicembre Renzi aveva incassato 173 voti. Di questi decisivi sono stati i voti favorevoli
proprio di «Ala-Sc», che al Senato conta 18 membri. Con i numeri di quella votazione,
ma senza «Ala-Sc», la maggioranza finirebbe a quota 155, sotto la quota di
sopravvivenza. Zanetti, tuttavia, di suo, conta solo quattro deputati alla Camera (dove
però non c’è partita perché il Pd è forte): cioè oltre a se stesso, i tre che lo hanno
seguito dalla «scissione» di Scelta Civica (Rabino, Sottanelli, D’Agostino). L’attesa quindi
è per la fiducia: Verdini-Zanetti potrebbero «rientrare», magari con la nomina di un
nutrito gruppo di sottosegretari e/o viceministri (tra cui lo stesso Zanetti all’Economia)?
Possibile. In realtà, ieri sera, circolava anche un’altra voce, che sarebbe clamorosa.
Quella di una rottura tra Verdini e Zanetti: secondo alcune fonti l’ex Forza Italia si
sarebbe accordato con il premier per avere dei sottosegretari tutti di «Ala», a spese
proprio di Zanetti, che verrebbe in questo modo scaricato. Una «trappola» per il
veneziano, che è tra i fondatori di Scelta Civica (prima del grande strappo con Mario
Monti, a cui ha tolto anche il simbolo e il nome del partito). Se sia fantapolitica o vero
tatticismo, lo scopriremo presto. Intanto nelle prossime ore si aprirà proprio la partita
dei sottosegretari. Anche in questo caso molto dipenderà da quanto siano
eventualmente riusciti ad ottenere Verdini-Zanetti (o solo uno dei due). Ieri venivano
dati in fase di conferma i veneti: cioè Pierpaolo Baretta all’Economia («Ha in mano la
questione delle banche in crisi, non è possibile rinunciare a uno come lui», si vociferava
ieri a Roma); Gianclaudio Bressa agli Affari Regionali; Barbara Degani all’Ambiente. È
chiaro che se «Ala-Sc», in cambio della rinuncia a Zanetti, avrà più di 3-4 pedine, tutto
potrebbe essere rimesso in ballo. Difficili invece nuovi innesti di veneti: ieri era circolata
per qualche ora la voce di un inserimento del sindaco di Verona Flavio Tosi (agli Affari
Regionali?), che molto si era speso a favore del referendum costituzionale. Difficile,
però, che la cosa vada in porto: la presunta «contropartita» a Tosi, per l’impegno nella
campagna referendaria, sarebbe stata quella di un inserimento nel decreto milleproroghe del provvedimento che gli consentirebbe un terzo mandato da sindaco. Ma con
la vittoria del No si è tutto complicato. In Veneto, invece, è stata accolta positivamente
la riconferma di Graziano Delrio alle Infrastrutture, che sta seguendo i dossier Tav e
Pedemontana.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il rischio della palude permanente di Marco Gervasoni
Alla Prima Repubblica non si ritornerà perché la storia non procede a ritroso, di certo
però il linguaggio di questi giorni suona come un déjà vu. La parola delle ultime ore è
stata infatti «discontinuità», per rivendicare o criticare le somiglianze tra il nuovo e il
vecchio governo, tra Renzi e Gentiloni. La discussione ci sembra mal posta. Il nuovo
governo, avviato con una meritoria operazione lampo che ricorda la velocità renziana, è
sostenuto e voluto dal Pd, di cui Renzi è ancora segretario: difficile definirlo fotocopia ma
certo rispecchia i desiderata del suo leader, almeno in una repubblica parlamentare
come la nostra, che ha sempre funzionato da specchio dei partiti, in cui la volontà delle
Camere è nei fatti dipendente dalle loro segreterie. Il Pd che sostiene Gentiloni, e qui è
una prima novità, non è però lo stesso di una settimana fa. Come si è visto nella
Direzione di ieri, la sinistra ha mostrato un rinnovato protagonismo, di cui non si sentiva
la mancanza, fino quasi a volersi intestare il 60% dei No e a dichiarare che il governo
sarà da sostenere solo fin quando prenderà misure condivise dalla corrente. La
confusione che ha tradizionalmente caratterizzato il Pd, e che era sembrata superata
negli ultimi anni con il domatore Renzi, non mancherà di farsi sentire sull'esecutivo,
certo non rafforzandolo. Il sollevamento della sinistra Pd, è accompagnato sul fronte
opposto della maggioranza uscente dalla promessa minacciosa di Verdini di non votare la
fiducia, apporto prezioso anche se fino ad oggi non determinante al Senato. La minaccia
più esplicita in realtà arriva da Bersani quando avverte che su certi provvedimenti
«dovranno convincerci». Chiarito questo, come si colloca il governo rispetto al suo
predecessore? A guardare i ministri, sembrerebbe un semplice rimpasto - in fondo ha
perso il posto la sola Giannini. E tuttavia non è così. L'esecutivo guidato da un uomo del
dialogo, un tessitore di natura, mantiene i suoi confini ma vede alle estreme latitudini
accesi due fuochi che annunciano potenziali turbolenze. Ci sono segnali di maggiore
attenzione al tradizionale mondo della sinistra. In tal senso vanno le nomine di Valeria
Fedeli all'Istruzione, per recuperare l'elettorato storico dei professori deluso dalla riforma
della Buona Scuola, e il ritorno del Viminale al Pd, anche se Minniti è figura consapevole
di dover affrontare con rigore la questione immigrazione. V'è una maggiore attenzione al
Sud, dopo i numeri devastanti del No nel Mezzogiorno, che attende segnali e risposte
concrete. La differenza più macroscopica? L'assenza di Renzi anche se la conferma di
due suoi fedelissimi come la Boschi e Lotti mantengono il sigillo politico renziano al
nuovo esecutivo. L'ex premier a Palazzo Chigi ha agito non come primus inter pares ma
come capo del governo all'inglese, in un rapporto di evidente supremazia politica
rispetto agli altri ministri - da qui anche l'accentramento nel suo staff di dossier propri
ad altri dicasteri. Un metodo dettato anche del ruolo di segretario del partito di
maggioranza. La prima impressione è insomma che la vita del governo sarà scandita da
potenziali turbolenze, il che richiederà a Gentiloni tutte le sue doti di mediazione, tra le
spinte verso sinistra e quelle verso destra, tra Bersani da un lato e Verdini dall'altro.
L'orizzonte, dunque, che accompagnerà anche la scrittura della nuova legge elettorale,
non sembra avere i presupposti di lunga durata. Il traguardo di giugno sembrerebbe
realistico, salvo che il partito del non voto (molto trasversale) non abbia il sopravvento
sulle spinte centrifughe. Oggi è largamente maggioritario tra Camera e Senato. Lo
capiremo a fine gennaio.
Pag 3 L’impronta di Renzi e i fronti ancora aperti di Marco Conti
Partenza in salita per il governo Gentiloni che con la stessa maggioranza del suo
predecessore, e un orizzonte non di lungo periodo, forse non poteva fare molto di più. Le
opposizioni definiscono il nuovo esecutivo una sorte di Renzi-bis. Un «governofotocopia» che si sarebbe potuto scongiurare se l'appello al governo di tutti avesse avuto
maggior fortuna. Oppure se al governo fosse entrato Verdini. La prima ipotesi non ha
tentato nessuno dei partiti d'opposizione mentre la seconda sarebbe stata indigeribile
per il Pd renziano che si avvicina a passo veloce verso il congresso e vuole togliere alla
minoranza quanto più spazio possibile. Una scelta, quella di tenere fuori Ala, che segnala
una profonda sintonia tra Gentiloni e Renzi che nei tre anni di governo aveva tenuto
fuori Ala dal Consiglio dei ministri. Così sarà anche questa volta anche perché, malgrado
facciano gruppo insieme, una cosa è Verdini (Ala) e una cosa Scelta Civica (Zanetti). Il
tentativo fatto da Verdini - ammesso sia mai stato vero e non si puntasse a far entrare
Saverio Romano - di risolvere la questione proponendo, Marcello Pera o Giuliano Urbani,
non risolveva il problema dell'allargamento della maggioranza che sarebbe avvenuto a
dispetto delle scelte fatte dal Pd ad inizio legislatura. Né è bastata l'idea, tentata dal
premier durante la sua salita al Quirinale, di risolvere le minacciose promesse dei
verdiniani di non votare la fiducia, proponendo a Zanetti la delega agli Affari Regionali
che è poi rimasta nelle mani di Enrico Costa. Pochi aggiustamenti, alcuni chirurgici, che
ripropongono lo stesso schema che nel 2000 si ebbe quando si passò dal secondo
governo D'Alema al governo Amato che poi portò il Paese alle urne. Anche allora, come
oggi, si è cambiato poco proprio perché la legislatura stava finendo e la vittoria del
centrodestra di Berlusconi era data come molto probabile. Pallottoliere alla mano il
governo Gentiloni a palazzo Madama i numeri li ha. Non solo perché il senatore
Naccarato (Gal) è pronto a far scendere in campo «gli stabilizzatori». Infatti senza
Verdini la maggioranza si attesta a quota 168. I più ottimisti sostengono che oggi
potrebbe anche superare i 170 anche perché i verdiniani, forse più di Forza Italia, hanno
il terrore delle urne. Discorso uguale si potrebbe fare per la minoranza del Pd, viste le
parole di Pierluigi Bersani che ha promesso di valutare «volta per volta» quali
provvedimenti votare. Senza Ala e con la sinistra del Pd sul piede di guerra anche in
vista del congresso e della trattativa sulla legge elettorale, il percorso del governo e
della maggioranza si fa al Senato più complicato e le richieste di numero legale
fioccheranno. Seppur la struttura resta la stessa del governo Renzi, nasce un governo
fragile con l'obiettivo, che Gentiloni sottolinea, dopo aver sciolto la riserva a Sergio
Mattarella, «di facilitare il lavoro delle diverse forze parlamentari volto a individuare
nuove regole per la legge elettorale». Un cambio di passo rispetto a quanto sostenuto
dal premier in maniera più sfumata al momento dell'accettazione. Una promessa frutto
forse dei colloqui avuti con le forze politiche di maggioranza e di opposizione e
dell'atteggiamento tenuto da Lega e M5S che hanno disertato l'appuntamento. Un
esecutivo che di fatto si riconferma nella linea «dell'innovazione svolta dal governo
Renzi», come ha detto Gentiloni accettando l'incarico, non poteva tenere fuori Maria
Elena Boschi. Un intento punitivo, nei confronti dell'ormai ex ministro che ha dato il
nome alla riforma costituzionale poi bocciata, indigeribile per il Pd renziano che non
sembra voler arretrare sulla necessità che ha il Paese di dotarsi di un sistema
istituzionale più efficiente. La Boschi trasloca a palazzo Chigi, come sottosegretario alla
presidenza del Consiglio, in virtù della conoscenza acquisita da ministro delle principali
riforme e dei provvedimenti del precedente governo. Un cambio con Luca Lotti che
invece diventa ministro, con delega allo Sport e all'Editoria, che indica una continuità e
una sintonia tra palazzo Chigi e largo del Nazareno visibile anche nella scelta di cambiare
laddove il Pd soffre di più elettoralmente. Ovvero nel mondo della scuola, storico bacino
dei partiti di centrosinistra, e nel Mezzogiorno che da ieri ha un ministro tutto suo (De
Vincenti).
LA NUOVA
Pag 1 Veneto senza ministri e leader di Paolo Possamai
«Come si può vedere dalla sua composizione, il governo proseguirà nell’azione di
innovazione» del governo Renzi. Con queste parole Paolo Gentiloni ha iniziato ieri il suo
mandato da premier, dopo aver sciolto la riserva da presidente del Consiglio incaricato.
E ha aggiunto: «Ho messo tutto il mio impegno per la soluzione più rapida possibile»
della crisi. Le due considerazioni vanno colte insieme. Rapidità e continuità. Ma a latere
del concetto di continuità dobbiamo osservare, in premessa di queste righe, che il
Veneto continua a pesare zero. Nemmeno un ministro in una squadra largamente
coincidente con la formazione schierata da Matteo Renzi. Al sostantivo rapidità, che
Gentiloni ovviamente ha messo in relazione ai tempi davvero stretti con cui ha
provveduto a risolvere la crisi, vogliamo associare un auspicio: che il nuovo esecutivo
esegua celermente e al meglio la propria missione, e gli elettori possano quanto prima
essere dunque chiamati a esprimere il proprio orientamento. In questione è la
legittimazione di chi sta al governo e pure di chi siede in Parlamento. Non è nemmeno
da prendere sul serio l’ipotesi che una maggioranza trasversale di parlamentari (quasi)
d’ogni colore tiri a campare oltre settembre, con il solo e indichiarabile scopo di accedere
al vitalizio. Indispensabile e di massima urgenza è la messa in ordine della legge
elettorale, poiché solo gli sfascisti più grossolani possono sostenere che occorre andare
subito alle urne, anche se oggi sono differenti i sistemi che definiscono la maggioranza
alla Camera e al Senato. Un puro principio di buon senso pretende che la legge
elettorale sia riformata e uniformata. Ne è persuaso pure il neo premier, il quale assicura
che «il governo si adopererà per aiutare il lavoro tra le forze politiche per l’estensione
delle nuove regole elettorali». Bene. La riforma delle regole elettorali, il presidio
dell’economia e dell’assetto delle banche, la rappresentanza degli interessi nazionali in
sede comunitaria. L’elenco delle priorità assolute è breve. Perché breve deve essere il
lasso di tempo in cui questa opera urgente ed emergenziale deve essere eseguita. Resta
una riflessione riguardo alla sparizione del Veneto dai radar della politica. Sparizione
certificata ancora una volta dal nuovo team ministeriale. Che Renzi sia passato da
queste parti numerose volte e che abbia dimostrato qualche attenzione per le peculiarità
della comunità e del territorio veneti, non sposta di un millimetro il fatto che mai prima
una delle regioni fondamentali, una delle più avanzate e delle più esposte sulla scena
internazionale è stata così brutalmente sotto-rappresentata. Dipende dalla pessima
reputazione che ci siamo conquistati, per esempio nella gestione della cosa pubblica
(Mose) così come nelle maggiori partite finanziarie (banche popolari). Ma se non
sapremo prenderne coscienza, non potremo nemmeno provare a ricostruire un progetto
politico e un ceto dirigente degno del nome. Quanto alla Lega, a mio modo di vedere
trova il proprio massimo lucro proprio nel fatto che il Veneto non conta nulla a Roma.
Roma ladrona. Roma matrigna infida e distratta. Consenso garantito con questa tesi
retorica. Declino altrettanto garantito per questo pezzo d’Italia orfano di leader.
Torna al sommario
1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV Santa Lucia: messa solenne a San Geremia con il Patriarca Moraglia
Oggi, per la festa di Santa Lucia, le cui reliquie sono custodite proprio a Venezia nella
chiesa dei Ss. Geremia e Lucia in Lista di Spagna, alle ore 17, messa solenne presieduta
dal patriarca Francesco Moraglia. Dalle 8 alle 18, previste una serie di funzioni religiose
dedicate al culto della Santa e numerosi sacerdoti a disposizione per i fedeli.
LA NUOVA
Pag 21 Il Patriarca celebra Santa Lucia di n.d.l.
Per onorare la patrona della vista “riaggiustato” anche il crocifisso
Ricorre oggi la festa di Santa Lucia, che ogni anno richiama in laguna migliaia e migliaia
di pellegrini. E' un giorno speciale per la città, in particolare per la chiesa parrocchiale
dei Santi Geremia e Lucia, che si trova ad alcune centinaia di metri della stazione
ferroviaria, che tra l’altro prende proprio il nome della santa, e che custodisce le reliquie
della martire siracusana, protettrice della vista e venerata da cattolici e ortodossi.
Mentre in chiesa fervono gli ultimi preparativi con il prezioso aiuto dei numerosi
volontari, in campo gli ambulanti hanno già stati allestito i banchetti con le tradizionali
candele. In calendario sono previste numerose celebrazioni. Alle 17 il patriarca
Francesco Moraglia presiede la messa solenne. Queste le altre celebrazioni previste: ore
8 con i padri canossiani di San Giobbe; ore 9; ore 10 con monsignor Antonio Meneguolo
e il Capitolo della Cattedrale di San Marco; ore 11, 12, 13 con gli ottici, gli optometrici e
gli elettricisti; ore 15 con don Orlando Barbaro e la partecipazione del Movimento
Apostolico Ciechi; ore 16 con don Stefano Costantini, vicario foraneo di Cannaregio Estuario; ore 18 per i giovani del vicariato e infine alle ore 19. Per la festa di Santa Lucia
don Renzo Scarpa ha ricollocato in chiesa il grande crocifisso che la scorsa estate un
vandalo, farfugliando frasi sconnesse, aveva scaraventato a terra spezzando il braccio
del Cristo. «E' stato solo aggiustato alla meglio», spiega don Scarpa, «Successivamente
si procederà al restauro vero e proprio al quale vengono in aiuto il Consolato francese di
Venezia e l'Ordine militare del Cavalieri del Collare d'Aragona. La spesa ammonta a circa
mille euro». E poi il sacerdote ricorda: «Lo scorso anno, in questo giorno, il patriarca
Moraglia apriva la Porta Santa in Basilica di San Marco, in occasione del Giubileo
straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco".
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 L’unica e vera via di g.m.v.
C’è soprattutto Paolo VI sullo sfondo del messaggio del Papa per la cinquantesima
giornata mondiale della pace. Fu infatti Montini, mezzo secolo fa, ad avere l’intuizione di
un’iniziativa del tutto nuova nella Chiesa, quella cioè di una proposta non
«esclusivamente nostra» scriveva nel testo fondativo a cui oggi il suo successore si
richiama, perché «vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come
fosse iniziativa loro propria». Insomma, «lanciare l’idea», da parte cattolica, «con
intenzione di servizio e di esempio», senza pretese di annessione o di egemonia.
Testimone in prima persona dei due tragici conflitti nati in Europa e della divisione
successiva del vecchio continente, durante il pontificato Paolo VI ebbe acuta l’esigenza
della pace, come appare subito nel grande discorso davanti alle Nazioni unite. Allo stesso
modo Francesco, che le due guerre mondiali non ha invece vissuto, ne denuncia oggi
con forza una terza, definita con immediata efficacia «a pezzi». E l’enumerazione nel
nuovo messaggio («guerre in diversi paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi
armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la
devastazione dell’ambiente») conferma lo sguardo globale del Pontefice. Una visione che
è tragicamente confermata dal susseguirsi implacabile di notizie tremende su attentati
efferati che si ripetono, versando sangue su sangue: in Turchia, in Egitto, in Nigeria, in
Somalia. Crimini che sgomentano per la loro spietatezza, non si fermano nemmeno
davanti a fedeli in preghiera, come nella chiesa cairota a ridosso della cattedrale copta, e
arrivano a utilizzare bambini e donne come strumenti di morte, in Nigeria e nella regione
mediorientale, dove le vittime della guerra che dura ormai da quasi sei anni sono
centinaia di migliaia. Di fronte a questo panorama tragico, come motivo conduttore della
riflessione per la giornata mondiale il Papa addita la non violenza «come stile di una
politica di pace». Un’indicazione che si richiama a quelle dei predecessori: di Benedetto
XVI, che sottolineava il realismo della scelta non violenta perché «nel mondo c’è troppa
violenza, troppa ingiustizia» per aggiungerne altra; di Giovanni Paolo II, di fronte alla
rivoluzione che portò al disfacimento dei regimi comunisti europei, auspicata «mediante
una lotta pacifica». Con accentuazioni che, in perfetta coerenza con la politica della
Santa Sede, sono privilegiate da Papa Francesco, come l’additare a esempio figure non
cattoliche celebrate per la scelta della non violenza come via alla pace, da Gandhi ad
Abdul Ghaffar Khan fino a Luther King. E molto significativi sono il riconoscimento e
l’omaggio che il Pontefice riserva alle donne: tra loro, Leymah Gbowee e altre migliaia di
liberiane. Oltre a una protagonista del Novecento che proprio Bergoglio ha proclamato
santa nel cuore dell’anno santo dedicato alla misericordia, e cioè madre Teresa. È la
pace «l’unica e vera linea dell’umano progresso» scriveva Montini, ripreso oggi dal suo
successore che, come lui, vede oggi sopravvivere egoismi, crescere violenze e
armamenti. Mentre è urgente «una nuova pedagogia», che è «nel genio della religione
cristiana» e ripete ancora, senza «falsa retorica» e senza stancarsi: «Occorre sempre
parlare di pace».
Pagg 4 – 5 La non violenza stile di una politica per la pace
Per la giornata mondiale della pace il papa invoca un cambiamento nei rapporti
personali, sociali e internazionali
La «nonviolenza attiva e creativa» come «stile di vita» nei rapporti interpersonali, sociali
e internazionali è al centro del messaggio del Papa per la cinquantesima giornata
mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio 2017.
LA NONVIOLENZA: STILE DI UNA POLITICA PER LA PACE
1. All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle
nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità
religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna,
bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona
ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa.
Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»1 e
facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.
Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa
Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È
finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso
(non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni
apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le
controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle
trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze
deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san
Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla
giustizia, sulla libertà, sull’amore».2 Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non
sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.
In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di
pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei
nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il
modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in
quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime
della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di
costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale,
possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre
relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
2. Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la
minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo
siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il
mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi
di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più
consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.
In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca
enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti;
terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle
vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di
raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di
scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori
della guerra”?
La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la
violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani
sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte
alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati,
della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare
alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.
La Buona Notizia
3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in
cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal
cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21). Ma il messaggio di Cristo, di
fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò
instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi
discepoli ad amare i nemici (cfr. Mt 5, 44) e a porgere l’altra guancia (cfr. Mt 5, 39).
Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr. Gv 8, 1-11) e
quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr. Mt
26, 52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla
croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr. Ef 2, 14-16).
Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e
si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di
riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate
con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».3
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di
nonviolenza. Essa - come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI - «è realistica,
perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non
si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più
di bontà. Questo “di più” viene da Dio».4 Ed egli aggiungeva con grande forza: «La
nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di
essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua
potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità.
L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».5 Giustamente il
vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr. Lc 6, 27) viene considerato «la magna charta
della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male [...] ma nel
rispondere al male con il bene (cfr. Rm 12, 17-21), spezzando in tal modo la catena
dell’ingiustizia».6
Più potente della violenza
4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in
realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979,
dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non
abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare
insieme, di amarci gli uni gli altri [...] E potremo superare tutto il male che c’è nel
mondo».7 Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il
loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona,
un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è
«un simbolo, un’icona dei nostri tempi».8 Nello scorso mese di settembre ho avuto la
grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso
«l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e
scartata. [...] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade,
riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti
della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini - dinanzi ai crimini! della povertà creata da loro stessi».9 In risposta, la sua missione - e in questo
rappresenta migliaia, anzi milioni di persone - è andare incontro alle vittime con
generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita
spezzata.
La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I
successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione
dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai
dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad
esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri
di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la
conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi
comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera
insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il
magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica
Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale
nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica,
che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».10 Questo percorso di transizione
politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini
che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare
di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva:
«Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta
di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».11
La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della
pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una
pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un
patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per
le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».12
Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».13 La violenza è una
profanazione del nome di Dio.14 Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio
può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la
guerra!».15
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale
percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una
componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo
nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da
parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo
attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a
prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i
conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca
del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.16 Dall’interno della famiglia la gioia
dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.17 D’altronde, un’etica di
fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla
logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e
sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché
della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la
minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di
etica.18 Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi
su donne e bambini.
Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a
guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio.
L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le
persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di
ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri
fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di
casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù
Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di
una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia.
Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la
logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».19
Il mio invito
6. La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e
coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le
norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e
grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti
i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace
nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr. Mt 5, 3-10) tracciano il
profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti - dice
Gesù -, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e
sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i
responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto
il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità.
Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo
stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le
persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la
disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di
collegamento di un nuovo processo».20 Operare in questo modo significa scegliere la
solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza
attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del
conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.21 Certo, può accadere che le
differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che
«le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova
vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».22
Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace
anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il
nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a
promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della
pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi,
gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi
naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di
tortura».23 Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a
costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.
In conclusione
7. Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata
Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo
Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di
buona volontà (cfr. Lc 2, 14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.
«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e
molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».24
Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno
bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire
comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se
ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».25
Dal Vaticano, 8 dicembre 2016
1 Esort. ap. Evangelii gaudium, 228.
2 Messaggio per la celebrazione della 1ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 1968.
3 «Leggenda dei tre compagni»: Fonti Francescane, n. 1469.
4 Angelus, 18 febbraio 2007.
5 Ibid.
6 Ibid.
7 Madre Teresa, Discorso per il Premio Nobel, 11 dicembre 1979.
8 Meditazione “La strada della pace”, Cappella della Domus Sanctae Marthae, 19
novembre 2015.
9 Omelia per la canonizzazione della Beata Madre Teresa di Calcutta, 4 settembre 2016.
10 N. 23.
11 Ibid.
12 Discorso nell’Udienza interreligiosa, 3 novembre 2016.
13 Discorso al 3° Incontro mondiale dei movimenti popolari, 5 novembre 2016.
14 Cfr. Discorso nell’Incontro con lo Sceicco dei Musulmani del Caucaso e con
Rappresentanti delle altre Comunità religiose, Baku, 2 ottobre 2016.
15 Discorso, Assisi, 20 settembre 2016.
16 Cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 90-130.
17 Cfr. ibid., 133.194.234.
18 Cfr. Messaggio in occasione della Conferenza sull’impatto umanitario delle armi
nucleari, 7 dicembre 2014.
19 Enc. Laudato si’, 230.
20 Esort. ap. Evangelii gaudium, 227.
21 Cfr. Enc. Laudato si’, 16.117.138.
22 Esort. ap. Evangelii gaudium, 228.
23 Lettera apostolica in forma di “Motu proprio” con la quale si istituisce il Dicastero per
il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, 17 agosto 2016.
24 Regina Caeli, Betlemme, 25 maggio 2014.
25 Appello, Assisi, 20 settembre 2016.
Pag 5 Lanciare l’idea
Il messaggio di Paolo VI dell’8 dicembre 1967
Ci rivolgiamo a tutti gli uomini di buona volontà per esortarli a celebrare «La giornata
della pace», in tutto il mondo, il primo giorno dell’anno civile, 1° gennaio 1968. Sarebbe
nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e
come promessa - all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita
umana nel tempo - che sia la pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo
svolgimento della storia avvenire. Noi pensiamo che la proposta interpreti le aspirazioni
dei popoli, dei loro governanti, degli enti internazionali che attendono a conservare la
pace nel mondo, delle Istituzioni religiose tanto interessate alla promozione della pace,
dei movimenti culturali, politici e sociali che della pace fanno il loro ideale, della gioventù
- in cui più viva è la perspicacia delle vie nuove della civiltà, doverosamente orientate
verso un suo pacifico sviluppo - degli uomini saggi che vedono quanto oggi la pace sia al
tempo stesso necessaria e minacciata. La proposta di dedicare alla pace il primo giorno
dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa
cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come
fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all’indole
particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza
d’ogni voce nel mondo per l’esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario
concerto della moderna umanità. La Chiesa cattolica, con intenzione di servizio e di
esempio, vuole semplicemente «lanciare l’idea», nella speranza ch’essa raccolga non
solo il più largo consenso del mondo civile, ma che tale idea trovi dappertutto promotori
molteplici, abili e validi a imprimere nella «giornata della pace», da celebrarsi alle
calende d’ogni anno nuovo, quel sincero e forte carattere d’umanità cosciente e redenta
dai suoi tristi e fatali conflitti bellici, che sappia dare alla storia del mondo un più felice
svolgimento ordinato e civile. La Chiesa cattolica provvederà a richiamare i suoi figli al
dovere di celebrare la «giornata della pace» con le espressioni religiose e morali della
fede cristiana; ma ritiene doveroso ricordare a tutti coloro che vorranno condividere
l’opportunità di tale «giornata», alcuni punti che la devono caratterizzare; e primo fra
essi: la necessità di difendere la pace nei confronti dei pericoli, che sempre la
minacciano:
- il pericolo della sopravvivenza degli egoismi nei rapporti tra le nazioni;
- il pericolo delle violenze, a cui alcune popolazioni possono lasciarsi trascinare per la
disperazione nel non vedere riconosciuto e rispettato il loro diritto alla vita e alla dignità
umana;
- il pericolo, oggi tremendamente cresciuto, del ricorso ai terribili armamenti
sterminatori, di cui alcune potenze dispongono, impiegandovi enormi mezzi finanziari, il
cui dispendio è motivo di penosa riflessione, di fronte alle gravi necessità che angustiano
lo sviluppo di tanti altri popoli;
- il pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie
della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per
quelle delle forze deterrenti e micidiali.
La pace si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la
convivenza dei popoli, una nuova mentalità circa l’uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini.
Lungo cammino ancora è necessario per rendere universale ed operante questa
mentalità; una nuova pedagogia deve educare le nuove generazioni al reciproco rispetto
delle nazioni, alla fratellanza dei popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, anche in
vista del loro progresso e sviluppo. Gli organismi internazionali, istituiti a questo scopo,
devono essere sostenuti da tutti, meglio conosciuti, dotati di autorità e di mezzi, idonei
alla loro grande missione. La «giornata della pace» deve rendere onore a queste
istituzioni e circondare la loro opera di prestigio, di fiducia e di quel senso di attesa, che
deve in esse tenere vigile il senso delle loro gravissime responsabilità e forte la
coscienza del mandato loro affidato. Un’avvertenza sarà da ricordare. La pace non può
essere basata su una falsa retorica di parole, bene accette perché rispondenti alle
profonde e genuine aspirazioni degli uomini, ma che possono anche servire, ed hanno
purtroppo a volte servito, a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di
pace, se non addirittura a coprire sentimenti ed azioni di sopraffazioni o interessi di
parte. Né di pace si può legittimamente parlare, ove della pace non si riconoscano e non
si rispettino i solidi fondamenti: la sincerità, cioè, la giustizia e l’amore nei rapporti fra gli
Stati e, nell’ambito di ciascuna nazione, fra i cittadini tra di loro e con i loro governanti;
la libertà, degli individui e dei popoli, in tutte le sue espressioni, civiche, culturali, morali,
religiose. Altrimenti, non la pace si avrà - anche se, per avventura, l’oppressione sia
capace di creare un aspetto esteriore di ordine e di legalità - ma il germinare continuo e
insoffocabile di rivolte e di guerre. È dunque alla pace vera, alla pace giusta ed
equilibrata, nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana e
dell’indipendenza delle singole nazioni che noi invitiamo gli uomini saggi e forti a
dedicare questa «giornata». Così, da ultimo, sarà da auspicare che la esaltazione
dell’ideale della pace non debba favorire l’ignavia di coloro che temono di dover dare la
vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella
difesa della giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga della responsabilità,
dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose. Pace non è
pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed
universali valori della vita; la verità, la giustizia, la libertà, l’amore. Ed è per la tutela di
questi valori che noi li poniamo sotto il vessillo della pace, e che invitiamo uomini e
nazioni, e innalzare, all’alba dell’anno nuovo, questo vessillo, che deve guidare la nave
della civiltà, attraverso le inevitabili tempeste della storia, al porto delle sue più alte
mete. A voi, venerati fratelli nell’episcopato; a voi, figli e fedeli carissimi della nostra
santa Chiesa cattolica, rivolgiamo l’invito, di cui sopra abbiamo dato l’annuncio; quello di
dedicare ai pensieri ed ai propositi della pace una particolare celebrazione nel primo
giorno dell’anno civile, l’uno gennaio del prossimo anno. Questa celebrazione non deve
alterare il calendario liturgico, che riserva il «capo d’anno» al culto della divina maternità
di Maria ed al nome beatissimo di Gesù; anzi queste sante e soavi memorie religiose
devono proiettare la loro luce di bontà, di sapienza e di speranza sopra l’implorazione, la
meditazione, la promozione del grande e desiderato dono della pace, di cui il mondo ha
tanto bisogno. Vi sarete accorti, fratelli veneratissimi e figli carissimi, quanto spesso la
nostra parola ripeta considerazioni ed esortazioni circa il tema della pace; non lo
facciamo per cedere ad una facile abitudine, ovvero per servirci di argomento di pura
attualità;
- lo facciamo perché pensiamo essere ciò reclamato dal nostro dovere di pastore
universale;
- lo facciamo perché vediamo minacciata la pace in misura grave e con previsioni di
avvenimenti terribili, che possono essere catastrofici per nazioni intere e fors’anche per
gran parte dell’umanità;
- lo facciamo perché negli ultimi anni della storia del nostro secolo è finalmente emerso
chiarissimo la pace essere l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di
ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso
ordine civile);
- lo facciamo perché la pace è nel genio della religione cristiana, poiché per il cristiano
proclamare la pace è annunciare Gesù Cristo, «egli è la nostra pace» (Eph. 2, 14); «il
suo è Vangelo di pace» (Eph. 6, 15): mediante il suo sacrificio sulla croce egli ha
compiuto la riconciliazione universale, e noi, suoi seguaci, siamo chiamati ad essere
«operatori della pace» (Matth. 5, 9); e solo dal Vangelo, alla fine, può effettivamente
scaturire la pace, non per rendere fiacchi e molli gli uomini, ma per sostituire nei loro
animi agli impulsi della violenza e delle sopraffazioni le virili virtù della ragione e del
cuore d’un vero umanesimo;
- lo facciamo infine perché vorremmo che non mai ci fosse rimproverato da Dio e dalla
storia di aver taciuto davanti al pericolo d’una nuova conflagrazione fra i popoli, la quale,
come ognuno sa, potrebbe assumere forme improvvise di apocalittica terribilità.
Occorre sempre parlare di pace! Occorre educare il mondo ad amare la pace, a
costruirla, a difenderla; e contro le rinascenti premesse della guerra (emulazioni
nazionalistiche, armamenti, provocazioni rivoluzionarie, odio di razze, spirito di vendetta,
ecc.), e contro le insidie di un pacifismo tattico, che narcotizza l’avversario da abbattere,
o disarma negli spiriti il senso della giustizia, del dovere e del sacrificio, occorre suscitare
negli uomini del nostro tempo e delle generazioni venture il senso e l’amore della pace
fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore (cf. Giovanni XXIII, Pacem in
terris). La grande idea della pace abbia, specialmente per noi seguaci di Cristo, la sua
giornata solenne, all’inizio dell’anno nuovo 1968. Noi credenti nel Vangelo possiamo
infondere in questa celebrazione un tesoro meraviglioso di idee originali e potenti: come
quella dell’intangibile e universale fratellanza di tutti gli uomini, derivante dall’unica,
sovrana e amabilissima paternità di Dio, e proveniente dalla comunione che - in re vel in
spe - tutti ci unisce a Cristo; ed anche dalla vocazione profetica, che nello Spirito Santo
chiama il genere umano all’unità, non solo di coscienza, ma di opere e di destini. Noi
possiamo, come nessuno, parlare dell’amore del prossimo. Noi possiamo trarre
dall’evangelico precetto del perdono e della misericordia fermenti rigeneratori della
società. Noi, soprattutto, fratelli veneratissimi e figli dilettissimi, possiamo avere
un’arma singolare per la pace: la preghiera, con le sue meravigliose energie di
tonificazione morale e di impetrazione, di trascendenti fattori divini, di innovazioni
spirituali e politiche; e con la possibilità ch’essa offre a ciascuno di interrogarsi
individualmente e sinceramente circa le radici del rancore e della violenza, che possono
eventualmente trovarsi nel cuore di ognuno. Vediamo allora d’inaugurare l’anno di grazia
1968 (anno della fede che diviene speranza) pregando per la pace; tutti, possibilmente
insieme nelle nostre chiese e nelle nostre case; è ciò che per ora vi chiediamo: non
manchi la voce di alcuno nel grande coro della Chiesa e del mondo invocante da Cristo,
immolato per noi: dona nobis pacem.
Pag 7 Scelta di civiltà
All’Angelus in piazza San Pietro il Pontefice invoca la fine della guerra in Siria
«Faccio appello all’impegno di tutti, perché si faccia una scelta di civiltà: no alla
distruzione, sì alla pace». È l’auspicio espresso da Papa Francesco all’Angelus dell’11
dicembre dinanzi alle violenze che continuano a insanguinare la Siria, in particolare
Aleppo, e agli «efferati attacchi terroristici che nelle ultime ore hanno colpito» l’Egitto, la
Somalia, la Nigeria e la Turchia. Prima della recita della preghiera mariana con i fedeli
presenti in piazza San Pietro il Pontefice aveva commentato il vangelo della seconda
domenica di Avvento.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi celebriamo la terza domenica di Avvento,
caratterizzata dall’invito di san Paolo: «Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto,
rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4-5). Non è un’allegria superficiale o puramente
emotiva, quella alla quale ci esorta l’Apostolo, e nemmeno quella mondana o quella
allegria del consumismo. No, non è questa, ma si tratta di una gioia più autentica, di cui
siamo chiamati a riscoprire il sapore. Il sapore della vera gioia. È una gioia che tocca
l’intimo del nostro essere, mentre attendiamo Gesù che è già venuto a portare la
salvezza al mondo, il Messia promesso, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. La liturgia
della Parola ci offre il contesto adeguato per comprendere e vivere questa gioia. Isaia
parla di deserto, di terra arida, di steppa (cfr. 35, 1); il profeta ha davanti a sé mani
fiacche, ginocchia vacillanti, cuori smarriti, ciechi, sordi e muti (cfr. vv. 3-6). È il quadro
di una situazione di desolazione, di un destino inesorabile senza Dio. Ma finalmente la
salvezza è annunciata: «Coraggio, non temete! - dice il Profeta - [...] Ecco il vostro Dio,
[...] Egli viene a salvarvi» (cfr. Is 35, 4). E subito tutto si trasforma: il deserto fiorisce,
la consolazione e la gioia pervadono i cuori (cfr. vv. 5-6). Questi segni annunciati da
Isaia come rivelatori della salvezza già presente, si realizzano in Gesù. Egli stesso lo
afferma rispondendo ai messaggeri inviati da Giovanni Battista. Cosa dice Gesù a questi
messaggeri? «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono
purificati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Mt 11, 5). Non sono parole, sono fatti che
dimostrano come la salvezza, portata da Gesù, afferra tutto l’essere umano e lo
rigenera. Dio è entrato nella storia per liberarci dalla schiavitù del peccato; ha posto la
sua tenda in mezzo a noi per condividere la nostra esistenza, guarire le nostre piaghe,
fasciare le nostre ferite e donarci la vita nuova. La gioia è il frutto di questo intervento di
salvezza e di amore di Dio. Siamo chiamati a lasciarci coinvolgere dal sentimento di
esultanza. Questa esultanza, questa gioia... Ma un cristiano che non è gioioso, qualcosa
manca a questo cristiano, o non è cristiano! La gioia del cuore, la gioia dentro che ci
porta avanti e ci dà il coraggio. Il Signore viene, viene nella nostra vita come liberatore,
viene a liberarci da tutte le schiavitù interiori ed esterne. È Lui che ci indica la strada
della fedeltà, della pazienza e della perseveranza perché, al suo ritorno, la nostra gioia
sarà piena. Il Natale è vicino, i segni del suo approssimarsi sono evidenti per le nostre
strade e nelle nostre case; anche qui in Piazza è stato posto il presepio con accanto
l’albero. Questi segni esterni ci invitano ad accogliere il Signore che sempre viene e
bussa alla nostra porta, bussa al nostro cuore, per venire vicino a noi; ci invitano a
riconoscere i suoi passi tra quelli dei fratelli che ci passano accanto, specialmente i più
deboli e bisognosi. Oggi siamo invitati a gioire per la venuta imminente del nostro
Redentore; e siamo chiamati a condividere questa gioia con gli altri, donando conforto e
speranza ai poveri, agli ammalati, alle persone sole e infelici. La Vergine Maria, la “serva
del Signore”, ci aiuti ad ascoltare la voce di Dio nella preghiera e a servirlo con
compassione nei fratelli, per giungere pronti all’appuntamento con il Natale, preparando
il nostro cuore ad accogliere Gesù.
Al termine dell’Angelus il Papa ha lanciato gli appelli per la pace, ha ricordato la
beatificazione di diciassette missionari in Laos e ha salutato i gruppi presenti. Infine ha
benedetto i “bambinelli”, portati dai piccoli degli oratori parrocchiali e delle scuole
cattoliche romane, che poco prima nella basilica vaticana avevano partecipato alla
messa celebrata all’altare della confessione dal cardinale arciprete Angelo Comastri.
Cari fratelli e sorelle, ogni giorno sono vicino, soprattutto nella preghiera, alla gente di
Aleppo. Non dobbiamo dimenticare che Aleppo è una città, che lì c’è della gente:
famiglie, bambini, anziani, persone malate... Purtroppo ci siamo ormai abituati alla
guerra, alla distruzione, ma non dobbiamo dimenticare che la Siria è un Paese pieno di
storia, di cultura, di fede. Non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra,
che è un cumulo di soprusi e di falsità. Faccio appello all’impegno di tutti, perché si
faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace, sì alla gente di Aleppo e della
Siria. E preghiamo anche per le vittime di alcuni efferati attacchi terroristici che nelle
ultime ore hanno colpito vari Paesi. Diversi sono i luoghi, ma purtroppo unica è la
violenza che semina morte e distruzione, e unica è anche la risposta: fede in Dio e unità
nei valori umani e civili. Vorrei esprimere una particolare vicinanza al mio caro fratello
Papa Tawadros II [Patriarca della Chiesa Copta Ortodossa] e alla sua comunità,
pregando per i morti e i feriti. Oggi, a Vientiane, in Laos, vengono proclamati Beati Mario
Borzaga, sacerdote dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, Paolo Thoj Xyooj, fedele
laico catechista e quattordici compagni uccisi in odio alla fede. La loro eroica fedeltà a
Cristo possa essere di incoraggiamento e di esempio ai missionari e specialmente ai
catechisti, che nelle terre di missione svolgono una preziosa e insostituibile opera
apostolica, per la quale tutta la Chiesa è loro grata. E pensiamo ai nostri catechisti:
tanto lavoro fanno, un così bel lavoro! Essere catechista è una cosa bellissima: è portare
il messaggio del Signore perché cresca in noi. Un applauso ai catechisti, tutti! Saluto con
affetto tutti voi, cari pellegrini provenienti da vari Paesi. Oggi il primo saluto è riservato
ai bambini e ragazzi di Roma, venuti per la tradizionale benedizione dei “Bambinelli”,
organizzata dagli Oratori parrocchiali e dalle Scuole cattoliche romane. Cari ragazzi,
quando pregherete davanti al vostro presepe con i vostri genitori, chiedete a Gesù
Bambino di aiutarci tutti ad amare Dio e il prossimo. E ricordatevi di pregare anche per
me, come io mi ricordo di voi. Grazie. Saluto i docenti dell’Università Cattolica di Sydney,
la corale do Mosteiro de Grijó in Portogallo, i fedeli di Barbianello e Campobasso. Auguro
a tutti una buona domenica. E non dimenticatevi di pregare per me. E una cosa vorrei
dire ai bambini e ai ragazzi: vogliamo sentire una canzone vostra! Arrivederci e buon
pranzo! Cantate!
AVVENIRE
Pag 2 Dire no alla violenza per aiutare Dio, e l’uomo di Marina Corradi
Venerdì scorso, Istanbul: 15 morti allo stadio in un attentato. Sabato, Nigeria: due
kamikaze bambine al mercato di Madagali provocano 57 morti e 177 feriti. Domenica, al
Cairo: ancora un kamikaze in una cappella attigua alla cattedrale cristiana copta di San
Marco uccide 25 persone e ne ferisce 35. Erano quasi tutti donne e bambini. È un rosario
di sangue, l’elenco delle ultime notizie dal mondo in questi giorni. Scorrono veloci, sui
siti dei quotidiani, queste stragi lontane da noi. Ma, se ti resta negli occhi un titolo o
l’immagine di un tg, e ti ci soffermi, puoi avvertire in te l’eco delle deflagrazioni, delle
urla, dei pianti. Quelle bambine in Nigeria caricate di esplosivo, agnelli mandati al
macello in un povero mercato di frutta e verdura: quanti morti, quanti invalidi per
sempre, e, a casa, quanti orfani, quante vedove, lasciate coi figli a fare la fame. E, al
Cairo: la furia di tredici chili di tritolo contro una folla di madri con i figli in braccio, nella
cappella riservata a loro. Una quantità spaventevole di morte che si scatena sulla
umanità più inerme. L’ordigno svelle le travi, schianta le volte. Grandi macchie di sangue
restano sui muri bianchi. Madri impazzite nella calca, nel fumo, cercano i loro bambini.
In soli tre giorni, che impressionante quantità di violenza. Cerchi di scacciare quelle
immagini, che fanno male come un pugno. Insorge ancora una volta la domanda: ma
Dio, dov’era in quegli istanti? E più che una domanda, è un’accusa, è il germe amaro del
dubbio. Oppure, peggio, pensi: non c’è niente da fare, in questo mondo roso dal male
come da un cancro. Dopo tre giorni come questi viene reso noto il Messaggio per la
Giornata della pace del 2017 di papa Francesco. La nonviolenza come stile politico di
pace, è il tema. La nonviolenza? La pace? Tu hai ancora negli occhi l’immagine di quella
chiesa devastata, delle madri con i figli sanguinanti fra le braccia. La via della
nonviolenza ti sembra, d’istinto, così utopistica, così impotente, davanti a tanto male.
Ma, la violenza, si domanda invece il Papa, «permette di raggiungere obiettivi di valore
duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di
conflitti letali che recano benefici solo a pochi signori della guerra? La violenza non è la
cura per il nostro mondo frantumato». E cita Benedetto XVI: la nonviolenza «è realistica,
perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non
si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più
di bontà. Questo ' di più' viene da Dio». Una prospettiva del tutto diversa. Nella
consapevolezza piena della violenza nel mondo: che è troppa, così tanta che
nessun’arma basta a combatterla. Una violenza tale che, a averne la totale cognizione, ci
sarebbe insopportabile. Troppa violenza, che non si può superare se non in un di più,
che viene da Dio. Sì, vorresti dire, ma intanto i cannoni tuonano, le bombe deflagrano, e
da dove questo di più di Dio può cominciare? Il Papa: «Anche Gesù visse in tempi di
violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la
pace, è il cuore umano: 'Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le
intenzioni cattive', si legge nel Vangelo di Marco». Dal cuore degli uomini. Dal nostro
cuore. Chi crede in Cristo, dice il Papa, «sa riconoscere la violenza che porta in sé e si
lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di
riconciliazione, secondo l’esortazione di San Francesco d’Assisi: 'La pace che annunziate
con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori'». Rivedi quelle madri del Cairo
spezzate, immagini i grandi occhi innocenti e spauriti di due bambine comandate a
portare la morte. Per te, quel male è schiacciante. È oltre ogni tollerabile misura. Ma per
Dio, per la misericordia di Dio, nulla è troppo grande. Bisogna aiutarlo, però, Dio.
Bisogna riconoscere in sé quella radice di male che anche noi portiamo. Siamo così
pacifici, finché qualcuno non ci fa del male. O magari, semplicemente, ci disturba.
Quanta violenza inizia da sciocchezze, dai rumori del vicino, dalla parola di un collega,
da cose da nulla. Si ricomincia dal cuore, proprio il nostro, angusto com’è. Con negli
occhi quelle madri, quei bambini, sapere almeno che il vero campo di battaglia è il cuore
degli uomini, e la domanda a Dio. Che si ricomincia, ogni volta, da qui.
Pag 5 Il Papa scrive ad Assad: “Basta violenze” di Luca Geronico
“Visita di cortesia” del nunzio Zenari. Che consegna una lettera di Bergoglio
Una «visita di cortesia» al presidente Bashar al-Assad dopo quella di una delegazione di
Damasco, lo scorso novembre in Vaticano, per la creazione a cardinale del nunzio Mario
Zenari. È lo stesso cardinale-nunzio in Siria a confermare ad Avvenire l’incontro con
Assad e la consegna di un messaggio di Francesco al leader di Damasco. Una lettera di
Francesco, fa sapere la sala stampa del Vaticano, per dare un segnale di «particolare
affetto per l’amato popolo siriano», duramente provato in questi ultimi anni. Un nuovo
appello – dopo quello deciso e accorato durante l’Angelus di domenica in piazza San
Pietro – rivolto al presidente Assad e alla comunità internazionale per «porre fine alle
violenze», trovare una «soluzione pacifica delle ostilità» condannando «ogni forma di
estremismo e di terrorismo da qualsiasi parte esse provengano». Bergoglio – afferma la
Sala stampa vaticana – chiede pure al presidente siriano di «assicurare che il diritto
internazionale umanitario sia pienamente rispettato» in particolare per quanto riguarda
la «protezione dei civili e l’accesso degli aiuti umanitari ». Un incontro fra il cardinale
Zenari e il presidente Assad confermato pure da Damasco che, nella nota consegnata
all’agenzia ufficiale Sana, sottolinea la «condanna del Vaticano di ogni forma di
estremismo e terrorismo» – termine quest’ultimo con cui il governo siriano indica tutte
le forze di opposizione – e la richiesta da parte di Bergoglio di «moltiplicare gli sforzi di
tutti per mettere fine alla guerra in Siria e ripristinare la pace». Nel faccia a faccia,
immortalato da una foto pubblicata sul sito dalla Sana, il presidente siriano si è
complimentato per la promozione del nunzio Mario Zenari, una nomina definita «senza
precedenti» e che per ’agenzia siriana «ribadisce la grande importanza che il Papa
accorda alla Siria e al suo popolo». Un incontro confermato ad Avvenire dallo stesso
cardinale Mario Zenari, rientrato in Siria pochi giorni dopo la sua creazione a cardinale.
La lettera, recapitata personalmente dal rappresentante vaticano, potrebbe essere stata
consegnata da papa Francesco al suo diplomatico poche settimane fa a Roma, nei giorni
in cui venivano creati i 17 nuovi cardinali. Un testo che il cardinale Zenari «non
commenta», anche se pare evidente, quanto ai contenuti, il riferimento a quanto
affermato solo poche ore prima, con forza, da Jorge Bergoglio a piazza San Pietro. Nel
dopo Angelus, domenica, un nuovo messaggio di papa Francesco, vicino ogni
«soprattutto nella preghiera» alla popolazione civile sotto assedio nella seconda città
siriana: «Non dobbiamo dimenticare che Aleppo è una città, che lì c’è della gente:
famiglie, bambini, anziani, persone malate…», ha esclamato il Papa. «Purtroppo – ha
aggiunto – ci siamo ormai abituati alla guerra, alla distruzione, ma non dobbiamo
dimenticare che la Siria è un Paese pieno di storia, di cultura, di fede». Un enorme
patrimonio che «non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra, che è un
cumulo di soprusi e di falsità». Da qui l’appello di Bergoglio «all’impegno di tutti, perché
si faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace, sì alla gente di Aleppo e
della Siria».
LA REPUBBLICA
Pag 53 Le idee progressiste di the Young Pope, così gli scritti giovanili di
Ratzinger anticipano le riforme di Bergoglio di Paolo Rodari
Pubblicati i testi del futuro Pontefice sul Concilio Vaticano II in cui rivendica la necessità
del “dialogo con il mondo di oggi”
Città del Vaticano. C'è un Ratzinger poco percorso, quasi sconosciuto. Molto più vicino a
Papa Bergoglio di quanto si possa immaginare, soprattutto per quanto riguarda la
visione di una Chiesa che sappia guardare in modo positivo alle sfide della modernità e,
insieme, intransigente nel condannare il carrierismo e i privilegi di vescovi e clero. È il
Ratzinger, a tratti del tutto inedito in italiano, che giovane professore della facoltà
teologica cattolica dell'università di Bonn - il più giovane docente - partecipò come
consigliere del cardinale Joseph Frings al Concilio Vaticano II. Da consigliere fu più volte
consultato, esprimendosi spesso in modo frammentario, ma in ogni caso ben mostrando
un visione di se stesso lontana da quell'immagine del "grande conservatore" che con
troppa semplicità gli è stata successivamente appiccicata addosso. I testi, pubblicati nel
settimo volume della sua opera omnia (Opera Omnia. L'insegnamento del Concilio
Vaticano II) dalla Libreria Editrice Vaticana, con traduzione di Pierluca Azzaro, e
presentati domani pomeriggio in Gregoriana, mostrano un giovane teologo che auspica
una Chiesa capace di aggiornamento, di passi in avanti. La Chiesa che ancora in epoca
barocca aveva plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre
più evidente in rapporto negativo con l'età moderna, solo allora pienamente iniziata. Ma
le cose - si domanda significativamente Ratzinger - devono «rimanere così?» La Chiesa
non può «compiere un passo in senso positivo nei tempi nuovi?». Il primo passo in
avanti riguarda la liturgia. Ratzinger non appare per nulla entusiasta di una Chiesa
ancorata al rito antico. «È forse normale - si chiede in un testo scritto di getto nel
gennaio del 1963, a Concilio concluso, a beneficio dei suoi studenti - che 2500 vescovi,
per non parlare dei tanti altri credenti, siano condannati a essere muti testimoni di una
liturgia nella quale, oltre al celebrante, ha la parola solo la Cappella Sistina? Il fatto che
non fosse richiesta la partecipazione attiva dei presenti non era forse sintomo di una
situazione che andava superata?». La questione di fondo era ovviamente più generale e
non riguardava meramente la liturgia. La domanda che tutti si ponevano era una: da
che parte deve andare la Chiesa? Si chiede Ratzinger: «L'attitudine dello spirito
antimodernista, la linea della chiusura, della condanna, della difesa che giunge fin quasi
al timoroso rifiuto, deve essere mantenuta, oppure la Chiesa, dopo aver operato la
necessaria demarcazione, vuole aprire una pagina nuova, entrando in dialogo positivo
con le sue origini, con i suoi fratelli, con il mondo di oggi?». Risponde, senza
tentennamenti, lui stesso: «Questo Concilio si è trasformato in un nuovo inizio per il
fatto che una maggioranza molto netta si decise per la seconda alternativa. È così che
esso ha oltrepassato il rango di continuazione del Vaticano I: infatti Trento e Vaticano I
servirono al movimento di chiusura, di salvaguardia e di demarcazione, l'attuale Concilio,
sulla base di quello che era stato operato, si è rivolto a un nuovo compito». Insomma, la
decisione di esprimersi «contro la prosecuzione unilaterale dello spirito antimodernistico
» è stata presa. Ed è la decisione «di imboccare una nuova strada, positiva, a livello del
pensiero e del linguaggio». E poi le parole forse più nette, che mostrano come nella
lettura di Ratzinger il "partito" della Curia, conservatore e ancorato agli schemi passati,
abbia perso: «Quel 20 novembre - si riferisce alla votazione a favore di una profonda
revisione della schema sulla rivelazione originariamente predisposto dagli uffici curiali e
che avvenne dopo che, per la prima volta, i vescovi decisero di prendersi del tempo per
conoscersi e discutere assieme, ndr - davvero rappresenta una svolta anche per il fatto
che, a differenza di Trento e del 1869/1870, il Papa si era opposto alla tendenza
dominante in Curia mettendosi dalla parte del Concilio». Per Ratzinger sono tante le cose
che non vanno nella Chiesa, e anche in Curia. Nelle bozze di discorso poi fatte proprie da
Frings, parla del Sant'Uffizio e dei suoi discutibili metodi inquisitori: la sua «modalità di
azione in molti casi non è più adatta ai nostri tempi, anzi è motivo di danno e di calunnia
contro i cattolici». E poi le parole del tutto vicine alle idee di riforma della Curia proprie
di Francesco: «È mia opinione che il numero dei vescovi che lavorano nella Curia romana
debba essere ridimensionato. Nessuno dovrebbe essere ordinato vescovo al solo scopo
di rendere onore alla sua persona o al suo ruolo. L'episcopato non è un ruolo in sé, non
un onore o un lustro da aggiungere a un altro ruolo Va aggiunto che anche l' ordine del
sacro presbiterato non si dà per rendere onore a qualcuno, ma per la cura del gregge del
Signore Credo che nella Curia romana ci siano molti ruoli che potrebbero essere ricoperti
da laici. Propongo dunque che si stabilisca che nella Curia sia diminuito non solo il
numero dei vescovi che vi lavorano, ma anche il numero dei sacerdoti, e che vi debbano
essere ammessi anche i laici».
IL FOGLIO
Pag 1 Un processo a Francesco di Giuliano Ferrara
Un papa che non capisce i principi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un
filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia. Il
pamphlet di Valli con postilla sul relativismo all’ingrosso
Dall'interno della chiesa o se preferite del mondo cristiano-cattolico è nato e si consolida
un "caso Bergoglio". Il Papa è messo in discussione apertamente. Cardi nali dissenzienti,
tra i quali l'ottimo Arcivescovo emerito di Bologna Carlo Caffarra, così simile a Pio IX nel
volto ottocentesco, rispettosamente scrivono al Beatissimo Padre sul "divorzio cattolico"
della Amoris laetitia, esortazione pontificia seguita ai famosi due sinodi sulla famiglia, e
non ricevono altra risposta se non una sorta di censura morale, più qualche controverso
sberleffo del selfie-gesuita confidente di Francesco, il Reverendo Padre Spadaro della
Civiltà Cattolica, e di vari cortigiani anche laici. Apocalittici intelligenti e argomentati
contestano tutto nel segno del rigetto (il Papa non è il Papa, ci sono due papi l'un contro
l'altro armati, il problema è che ormai si tocca una dimensione eretica: letteratura
Socci). I tradizionalisti come il professor Roberto de Mattei, in uno con una vasta rete di
bloggers combattivi, insistono nella loro critica dottrinale spietata degli errori, cioè delle
eresie moderniste, di cui il successore di Pietro si renderebbe colpevole protagonista.
Ora arriva un pamphlet di Aldo Maria Valli per Liberilibri (titolo: "266. Jorge Mario
Bergoglio Franciscus P.P."). Valli è il vaticanista principe del Tg1, un cattolico ardente dai
toni moderati, familiari, devoti, uno che da decenni racconta le storie papali per il grande
pubblico e commenta con lo speciale fervore che gli è proprio i fatti e i problemi della
vita cristiana e cattolica. Ruolo e tono di Valli sono diversi dagli altri, cercano
disperatamente la moderazione, però la diagnosi è molto severa. E impressionante la
documentazione sul filo dei tre anni di pontificato. I turiferari, quelli che servono la corte
papale spesso in modo impudente, dipingendo il beniamino delle folle laiche e cattoliche
come un povero predicatore assediato dai lupi e dalle tenebre di un nuovo medioevo,
hanno pane per i loro denti. Di Trump si è detto che i suoi avversari lo hanno preso alla
lettera e non lo hanno preso sul serio, mentre i suoi elettori non lo hanno preso alla
lettera ma lo hanno preso sul serio. Efficace descrizione di un fenomeno. Valli secondo
me fa parte della prima categoria, non prende Francesco sul serio ma registra alla
lettera quelle che giudica le sue bavures, gaffe, i suoi imbizzarrimenti pastorali e para
teologici. L'elenco è sterminato. Sul piano anche solo documentario è un servizio alla
comprensione del "caso" di rara utilità. I lettori del Foglio ne conoscono in anticipo il
contenuto, Matteo Matzuzzi è sempre equilibrato ma non perdona quando deve
raccontare con libertà Francesco, e un nostro vecchio libriccino, "Questo Papa piace
troppo", fu loquace se non eloquente in merito già un anno dopo l' elezione al soglio del
Papa venuto dalla fine del mondo (un capitolo del libro di Valli si intitola a un Papa che
"piace troppo"). La dottrina cattolica è messa da parte come un ingombro, per quanto
formalmente ribadita qui e là, in favore della pastorale, cioè della prassi cattolica in un
tempo determinato, sapendo che per questo Papa "il tempo è superiore allo spazio": così
Valli. Ora i dogmi e la dottrina hanno in qualche modo una storia, ce lo ha spiegato il
cardinale John Henry Newman, ma nonostante quel che dice Francesco a Scalfari ("Dio
non è cattolico") l'impressione è che Dio sia cattolico in quanto universale, universale ed
eterno come i dogmi che lo riguardano e ci riguardano, mentre la pastorale, quella sì,
può non essere cattolica, perché è il regno delle opinioni, sebbene autorevoli, conciliari,
consacrate dalla vita della chiesa che governa, per dir così, il soffio vago e
multidirezionale dello spirito nel tempo. Poi c'è il giudizio, che a nessuno è dato
pronunciare secondo il famoso motto catechistico "chi sono io per giudicare?". Una
derivazione dal vangelo molto più problematica di quanto non si pensi. Come dice Valli,
basta pensare al credo cattolico con quel Dio incarnato, e risorto, che tornerà sulla terra
a giudicare i vivi e i morti. Poi c'è tutto il resto: le cortesie per ospiti graditi verso l'islam,
e le scortesie verso i parenti di Asia Bibi, condannata a morte per apostasia e
imprigionata in attesa di una misericordia che non arriva. E una gran confusione nei
pronunciamenti più vari, politici (ultimo il caso Trump con la consegna degli Stati Uniti
d'America a un "non cristiano", secondo la definizione improvvisata e polemica del Papa
in aereo, che non è poco) e geopolitici, etici, intraecclesiali, curiali, episcopali (la curia
come "lebbra" della chiesa, "non ho mai capito cosa siano i princìpi non negoziabili").
Francesco è buono, dice Valli, e ha fini di riconciliazione in ogni campo con il mondo
com'è, che infatti lo applaude come una star del permissivismo universale anche se
diserta ancora la sua chiesa, il risultato è cattivo, confuso, pasticciato nelle parole e nei
gesti di questi tre anni di papato. I fedeli sono confusi, non sanno più se a far figli nel
matrimonio cristiano non si finisca per essere "come i conigli", animali e bigotti non
illuminati dallo spirito, anche quello strano Paracleto della contraccezione o dell'aborto.
Non sanno più come giudicare la violenza jihadista contro i vignettisti libertini che
esercitano a loro modo la libertà di espressione, anche blasfema, perché il Papa dice che
"se uno ti parla male di tua madre, la religione, sei autorizzato a dargli un pugno",
dizione popolaresca e ambigua, tecnicamente collaterale al 7 gennaio 2015 di Parigi,
Charlie Hebdo. Non capiscono perché il martirio dei cristiani debba essere nascosto e,
preghiere a parte, trattato con una certa riluttante indifferenza. Interviste, sopra tutto
interviste, ma anche viaggi, pronunciamenti vari nelle udienze e nella catechesi, tutto è
all'insegna di un perdono che, preso alla lettera, consacra in nome della misericordia più
o meno qualsiasi cosa o comportamento si affacci nella storia umana della modernità e
postmodernità, eh già, il tempo è superiore allo spazio e anche alla penitenza e
all'espiazione. Il denaro è astrattamente condannato, quello sì, in nome di una dottrina
sociale intinta nel peronismo, nella teologia del popolo sudamericana, e l'ecologia è
onusiana, non creaturale. Si potrebbe continuare all'infinito, ma il libro di Valli è lì per
essere letto, compulsato, esaminato come un documento che molti lettori
considereranno testimonianza ambigua di un papato ambiguo e tutt'altro che innocente
e remissivo e tenero come si autocomprende. Perché dico che Valli non prende il Papa
abbastanza sul serio, pur descrivendolo perfettamente preso alla lettera? Perché penso
che alla radice di quanto accade nella chiesa cattolica c'è qualcosa di profondo e
inquietante che a Valli sfugge. A me non interessano i dogmi o la dottrina o la dottrina
morale in quanto uomo di fede che non sono, ma in quanto il magistero cattolico è stato
fino a Francesco una testimonianza contro la riduzione di tutto a storia, un elemento di
contraddizione rispetto a quel mondo "liquido" che sulla scorta di Bauman Valli cita
spesso nel suo pamphlet. Liquido vuol dire storicistico, cioè relativistico, all'ingrosso. Un
Papa che non capisce i princìpi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un
filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia, che ha
in uggia le permanenze classiche della filosofia e della nobile arte della filosofia politica,
prima tra tutte la differenza razionale di bene e di male, alla quale prepone in modo
intransigente il fideismo, il misticismo dell' abbandono interiore alla misericordia e al
perdono di Dio. La chiesa non può interferire nella vita personale degli uomini, dice
Francesco beatificando il precetto del permissivismo romantico in nome dell'amore. Il
suo punto di partenza è che l' interferenza è diretta, riguarda la fede e non la ragione, e
il rapporto tra un' anima e Dio senza la mediazione efficace della chiesa e della cultura e
dell'etica cristianizzate o di derivazione cristiana. Per questo il Papa regnante è quanto di
più dissimile esista al mondo da un cattolico liberale, per questo segno radicale e ben
interrato nella storia del gesuitismo cinque e seicentesco il Papa che abbraccia il mondo
è un casuista, uno che giudica caso per caso e si affida alle intenzioni, alla coscienza
personale, alla fede. E punto. E basta. Francesco non è banalmente un progressista,
anzi, coltiva un oscurantismo segreto, quello dell' anima e dell'amore, quello delle buone
intenzioni, al posto del libero pensiero cristiano di tipo illuminista, che aveva trovato una
sua espressione modernissima e contraddittoria con il mondo com' è nei papati di san
Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che furono invece dannati dal giro laicista e soi
disant illuminista perché toglievano ai chierici della ragione esclusiva e incapace di
mistero il loro monopolio sulla cultura e sulla società, sui costumi. Francesco vuole
rievangelizzare il mondo (fine santo) partendo dalla liquidazione di un grande patrimonio
filosofico e culturale europeo di cui il polacco e il tedesco furono gli ultimi grandi
testimoni (mezzo diabolicamente inadatto). E questo non prendere sul serio il papato
francescano, sebbene il lavoro di scavo documentale tenda a spiegarlo, e bene, è
chiarito da una dimenticanza fatale. Valli cita spesso Ratzinger e Giovanni Paolo come
predecessori che dicevano cose diverse da Francesco, e le dicevano divinamente bene.
Ma dimentica di farsi la benché minima domanda sul fatto che Francesco segue un'
abdicazione dall' esercizio del munus petrino da parte del suo predecessore, il tedesco
che fu braccio destro del polacco, non proprio un evento minore nella storia della chiesa
e del mondo.
Pag 1 L’equilibrio instabile di Matteo Matzuzzi
Roma. Nel giorno in cui il Papa ha consegnato, tramite il nunzio a Damasco, il cardinale
Mario Zenari, una lettera al presidente Bashar el Assad in cui "esprime solidarietà al
popolo siriano" e ribadisce "la condanna del Vaticano per ogni forma di estremismo e
terrorismo", la Santa Sede è impegnata a valutare le conseguenze dell'attentato di
domenica al Cairo contro la comunità copta, che ha causato la morte di venticinque
persone, per lo più donne e bambini presenti nella chiesa di San Pietro. All'ora di pranzo,
la Sala stampa d'oltretevere ha diffuso una Nota in cui si fa sapere che Francesco ha
chiamato il Papa Tawadros II, patriarca della chiesa coptoortodossa d' Alessandria per
esprimere le condoglianze per quanto avvenuto. "Il Patriarca Tawadros II ha ricordato
l'espressione di Papa Francesco, pronunciata durante il loro incontro in Vaticano, ossia
l''ecumenismo del sangue'. Da parte sua, Papa Francesco ha sottolineato che 'noi siamo
uniti nel sangue dei nostri martiri'". Espressione rischiosa, specie se si ricorda quanto
accadde nel 2011, allorché l'università di al Azhar sospese ogni contatto con il Vaticano
dopo la condanna di Benedetto XVI del "terrorismo" che aveva "colpito brutalmente dei
fedeli in preghiera" in una chiesa copta di Alessandria. Dieci giorni dopo, Joseph
Ratzinger - al quale il Cairo aveva chiesto immediate scuse - tornò sull'argomento,
sottolineando "l' urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le
difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose". Il
rischio è che l'attentato di domenica rompa nuovamente il sottile equilibrio interreligioso
ch'era venuto a crearsi nel contesto egiziano, complesso e spesso ambiguo. Secondo
Ashraf Ramelah, presidente dell'organizzazione no profit Voice of the Copts, poco
cambierà visto che "non c'è nessun equilibrio da mantenere". I cristiani in Egitto sono il
dieci per cento della popolazione, non sono una comunità ed episodi come questo altro
non sono che il perpetuarsi "del piano antico di Gamal Abdel Nasser, secondo cui prima
andavano cacciati gli ebrei e poi i copti", aggiunge Ramelah in una conversazione con il
Foglio (la versione integrale è su ilfoglio.it). Niente di nuovo dunque, e poco contano le
condanne che pur numerose sono piovute già nell' immediatezza del post attentato,
quando anche il Grande imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb, ha definito "contrario all'
islam" quanto accaduto nella chiesa di San Pietro. "Il problema però è proprio al Azhar,
la sua ambiguità di fondo", dice Ramelah, che all'estero è riuscita ad accreditarsi come
protagonista del dialogo e internamente alterna sostegno e contrarietà ai progetti del
presidente Abdel Fattah al Sisi di riformare l'islam e i testi religiosi". Se Tawadros II ha
immediatamente cancellato il suo viaggio in Grecia facendo sapere che presiederà
personalmente la celebrazione dei funerali delle vittime, il portavoce della piccola chiesa
cattolica egiziana, padre Rafich Greiche, ha emesso un comunicato di cordoglio: "Siamo
profondamente colpiti e in pianto per quello che è successo ai nostri fratelli ortodossi e
condividiamo il loro lutto con tutto il cuore". Un passaggio della nota merita
sottolineatura, ed è quello in cui si chiede ai "responsabili della sicurezza di trovare gli
autori di questo crimine e di fermarli". Ed è proprio questo il punto dolente, spiega
Ashraf Ramelah: il ruolo delle forze di sicurezza che, "se non direttamente responsabili,
di sicuro sapevano quanto stava accadendo. E' come quando arriva in porto una nave
con droga a bordo e si arrestano tre ragazzini che vanno spacciandone qualche grammo,
anziché i grandi colpevoli. E' la stessa cosa, niente di più". Proprio ieri, è stato diffuso il
Messaggio per la Giornata mondiale della pace che si celebrerà come sempre il prossimo
1° gennaio. "La non violenza: stile di una politica per la pace" è il titolo scelto per la
riflessione del Pontefice. Riflettendo sul "mondo frantumato", Francesco scrive che
"questa violenza che si esercita a pezzi, in modi e a livelli diversi, provoca enormi
sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi paesi e continenti; terrorismo,
criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime
della tratta; la devastazione dell' ambiente".
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 Il sindaco promuove piazzale Sicilia. E vuole spostare le mense dei
poveri di G.B.
Ca’ Farsetti sta preparando un fascicolo con i posti sui sociali di alcuni comunali
Mestre. «Quando ho visto le proteste, sono andato subito a vedere il compattatore: a
me non pare brutto, in tutti i centri storici sono usati». Il sindaco difende il nuovo
piazzale Donatori di sangue:. «Ci sono anche a Santa Maria Novella a Firenze e
comunque il nostro impianto va completato - ha spiegato - ho chiesto a Veritas di
sistemare gli allineamenti dei cestini, purtroppo scontiamo la non abitudine alle cose
nuove». Il problema è che in questi primi giorni, in più di un’occasione il compattatore
non ha funzionato, tanto che il sindaco durante il Tavolo di consultazione di ieri sera al
Centro Santa Maria delle Grazie, non ha escluso anche boicottaggio. «C’è molta
maleducazione, tanti, troppi cittadini buttano l’indifferenziata nell’umido - ha aggiunto -.
Se tutti conferissimo i rifiuti bene, risparmieremmo 4 milioni di euro l’anno». Un
tesoretto che, magari, avrebbe potuto ridurre i rincari del 5,5 per cento, inseriti nel
bilancio 2017, alla Tari e di cui ieri la giunta ha approvato la ripartizione. «Se sei un
cittadino con la “C” maiuscola devi gettare correttamente le immondizie - ha rincarato la
dose il sindaco - prima del nostro arrivo l’area di piazzale Donatori di sangue era un
disastro, in biblioteca succedeva di tutto, ora stiamo lavorando per migliorarla». Lunedì
prossimo sarà inaugurata la Vez Junior (600 metri quadrati di biblioteca per i bambini) e
l’amministrazione sta studiando come chiudere il negozio self service di snack che si
trova sotto i portici di via Carducci. «Ci sono molte segnalazioni da parte dei cittadini,
crea disagi - ha detto Brugnaro - c’è poi il problema delle mense per i poveri, stiamo
cercando di capire se è fattibile un polo unico della povertà, fuori dal centro». Si tratta di
una vecchia ipotesi, in passato accantonata per motivi tecnici, l’immobile di via Querini
infatti è una donazione vincolata a quest’uso e la mensa dei Cappuccini è proprio a
fianco del convento, non delocalizzabile. Ieri, nel confrontarsi con i cittadini al tavolo
fucsia, Brugnaro è tornato a parlare della riorganizzazione della macchina comunale, in
particolare delle Municipalità dove è in atto una protesta dei dipendenti, sostenuta dai
presidenti, contro un’organizzazione che creerebbe disagi al cittadino, oltre che ai
lavoratori. «Sulle Municipalità sono state dette molte falsità - ha detto il sindaco nessun servizio è stato tagliato, per il sociale nel 2016 c’erano 40 milioni e altrettanti ce
ne sono per il 2017, sono state riportate affermazioni gravi di alcuni dipendenti, dicono
che si blocca il servizio pubblico ma loro non hanno titolo per bloccarlo: li denuncerò se
avviene». Ma c’è di più, l’amministrazione starebbe raccogliendo un fascicolo con i post
sui social network di alcuni comunali. «Alle Municipalità non dico che stiano sereni, porta
male ma non si preoccupino», ha concluso.
Pag 13 Ca’ Farsetti rifiuta 60 profughi a Marghera: “Accoglienza diffusa” di
Francesco Bottazzo
Venturini scrive alla prefettura: zona già provata
Venezia. Ca’ Farsetti rifiuta sessanta profughi. Avrebbero dovuto andare in un albergo di
Ca’ Sabbioni, ma l’assessore alla Coesione sociale Simone Venturini ha scritto alla
prefettura dando parere negativo, per non creare tensioni sociali. Ad oggi infatti sono
213 i profughi accolti nel territorio comunale a cui vanno aggiunti il centinaio di rifugiati
che rientrano nei centri Sprar di accoglienza. L’obiettivo della giunta fucsia infatti è di
non creare grossi punti di accoglienza paragonabili anche solo lontanamente a Cona e a
Bagnoli. «L’ipotesi sarebbe stata in conflitto con il principio dell’accoglienza diffusa che
fino ad oggi ha garantito l’assenza di tensioni significative nel territorio comunale»,
spiega Venturini. Del resto una delle cose che ha fatto Luigi Brugnaro appena diventato
sindaco è stato scrivere al prefetto, dicendo che Venezia non dava più la disponibilità di
posti per accogliere migranti, tanto da minacciare il governo di organizzare una
manifestazione popolare: «Spero che Renzi e Alfano capiscano, il patto l’ho fatto con i
cittadini e solo a loro risponderò», aveva subito messo le cose in chiaro. In realtà le cose
sono andate diversamente, l’assessore alla Coesione sociale già l’hanno scorso ha
negoziato con la prefettura un tetto massimo di accoglienza di 350 persone (andando
oltre il criterio legato alla popolazione, di due migranti ogni mille abitanti), considerando
anche che Venezia si fa già carico, con soldi propri, dell’accoglienza di minori stranieri
non accompagnati, 250 nel 2016. La proposta era stata fatta dalla Cooperativa San
Pietro che gestisce l’albergo e il ristorante Villa Dori a Marghera. D’inverno la struttura
ha ampi spazi liberi tanto da spingere i gestori a presentare alla prefettura la
disponibilità ad accogliere una sessantina di profughi, andando così a coprire tutto l’arco
della stagione invernale. All’albergo era stata chiesta la disponibilità all’accoglienza un
paio d’anni fa, ma poi non se ne fece nulla. E non se ne farà nulla nemmeno questa
volta. Anche se infatti il parere di Ca’ Farsetti non è vincolante, il prefetto difficilmente
andrà contro l’amministrazione, comunque disponibile ad una accoglienza diffusa che
non crei grosse concentrazioni di migranti. «Ci pareva una soluzione opportuna andando
incontro alla necessità di immobili per l’accoglienza dei migranti, considerando il periodo
di bassa stagione», dicono i soci della cooperativa. Il parere negativo dell’assessore ha
però «stroncato» la proposta. Anche perché la zona in cui si trova l’albergo è stata
considerata da Ca’ Farsetti«inadeguata considerando che l’area di Marghera è già
provata da problematiche sociali significative e ospita già otto appartamenti di
accoglienza». La presenza quindi di una sessantina di migranti in un contesto ridotto
come Ca’ Sabbioni per l’amministrazione avrebbe rischiato di generare problemi di
impatto sociale e conflitto con i residenti. I migranti rimangono così poco più di trecento
nel comune di Venezia lasciando quindi ancora margine per ulteriori accoglimenti. Sono
invece 2362 quelli accolti in tutta la provincia di Venezia, la maggior parte dei quali all’ex
base militare di Conetta dove si trovano quasi 1200 migranti. Troppi anche per il
prefetto che continua ad appellarsi alla disponibilità di tutti Comuni per promuovere
un’accoglienza diffusa.
LA NUOVA
Pag 20 Qualità della vita, Venezia migliora di Enrico Tantucci
La classifica del Sole 24 Ore: la nostra provincia al 39° posto. Guadagnate nove posizioni
rispetto allo scorso anno
Migliora la “Qualità della vita a Venezia” e nel suo territorio secondo la classifica annuale
tra le 110 province italiane riferita al 2015 - sulla base di numerosi indicatori che
riguardano reddito, lavoro, ambiente, demografia, giustizia, cultura e tempo libero. Sta
di fatto che, stando all’annuale studio del Sole 24 Ore, Venezia passa dal 48° al 39°
posto in classifica, grazie soprattutto agli indicatori legati ad economia e turismo, mentre
in campo ambientale le cose non vanno troppo bene. Il traino di turismo e cultura. Sono
proprio gli indicatori su cultura e tempo libero che “trainano” Venezia che è al nono
posto in Italia nel settore, ma al terzo (dietro Roma e Milano) nell’attrazione turistica, al
decimo per gli spettacoli, al sedicesimo per la ristorazione. Ma già per le sale
cinematografiche si scende al numero 42, al 40 per le attività sportive e ancora più giù,
al posto 48 per le librerie. Anche per quanto riguarda la solidarietà si scende al 49°
posto. Casa: croce e delizia. Venezia è inoltre addirittura al quarto posto in Italia per il
valore del patrimonio immobiliare dei suoi cittadini, ma al penultimo (preceduta solo da
Milano) per le case in affitto, che sono le più care d’Italia, proprio perché “drogate” dal
mercato turistico. Per altri indicatori di reddito l’area veneziana si difende, perché è
quindicesima per l’importo degli assegni di pensione, ventisettesima per il reddito a
persona, al numero 46 per i risparmi in banca e un po’ più giù - al posto 51 e al 54 - per
la spesa per famiglia e per i prestiti non pagati. Giovani al lavoro ma istruzione limitata.
Un dato abbastanza confortante è quello relativo al lavoro dei giovani. Venezia è infatti
al posto numero 15 in Italia per il tasso di disoccupazione giovanile. Un risultato che
stupisce invece è quello relativo all’alta formazione (percentuale di laureati per ogni mille
giovani). Nonostante la presenza di due università, un’Accademia di belle arti e altri
istituzioni di istruzione superiore, Venezia per questo indicatore risulta solo al posto
numro 56, preceduta tra l’altro da Trapani, Ogliastra, Foggia, Viterbo, Forlì. Scippi e
borseggi. Per quanto riguarda sicurezza e reati, Venezia è agli ultimi posti (a quota 105)
in Italia per la microcriminalità legata a scippi e borseggi. Bassa classifica anche per le
rapine (posto numero 85) e appartamenti svaligiati (76). Va male anche per il
contenzioso civile (63) e meglio per truffe e frodi (posto numero 34) e per le auto rubate
(16), ma qui la città d’acqua spiega in parte il buon risultato. Pochi nati e molti anziani.
La classifica del Sole per quanto riguarda la demografia conferma dati purtroppo noti.
Venezia è agli ultimi posti (93) per il tasso di natalità e in basso (67) per l’indice di
vecchiaia. Anche per densità demografica (numero di abitanti per chilometro quadrato)
siamo molto in basso, al posto numero 95. Anche l’integrazione, con l’acquisizione di
cittadini stranieri ci vede solo al posto numero 54, che diventa il 58 per quanto riguarda
il numero di separazioni. Ambiente e clima non brillano. La pagella ecologica mette
l’ecosistema urbano di Venezia al posto numero 53 e ancora più già (all’87) per il clima.
La sanità è da centro classifica (posto numero 52), mentre - grazie ai turisti - siamo al
nono posto per i pagamenti veloci e al 28 per le connessioni web. Per gli asili nido si
deve scendere al posto numero 65. Per lo spirito d’iniziativa Venezia è al posto numero
86 ma per la propensione a investire al 31.
Pag 20 Petizione contro la cessione dell’ostello
Giudecca, raccolte 500 firme per salvare lo “Jan Palach” che lo Iuav vorrebbe vendere
per fare cassa
Già oltre 500 firme sono state raccolte anche tra gli abitanti della Giudecca contro
l’annunciata vendita da parte dell’Iuav dell’ostello per la gioventù «Jan Palach» sull’isola,
che l’ateneo possiede ma che secondo quanto già annunciato dal rettore Alberto
Ferlenga, intende cedere per fare cassa, non trattandosi di un bene strategico per
l’università. Nel tentativo di fermare questa vendita i ragazzi di casa Jan Palach hanno
appunto organizzato una raccolta firme che verrà presentata al rettore dell’Iuav. Le
firme sono già più di 500, raccolte tra gli studenti e gli abitanti della Giudecca. «Non è
ancora possibile sapere quale sarà la sua destinazione d’uso in seguito alla vendita» si
legge in una nota degli studenti della struttura «ma è ragionevole ipotizzare che diventi
sede di un nuovo albergo o ostello. La vendita potrebbe allora significare un’ulteriore
impoverimento della città a favore di un turismo sempre più invasivo, privando l’isola
della Giudecca di una componente importante della sua comunità». La casa studentesca
Jan Palach è una residenza universitaria situata sull’isola della Giudecca, gestita dal
Centro della Pastorale Universitaria che, nel 2008, ha esteso l’esperienza nata con la
Casa studentesca Santa Fosca anche a questo stabile, ricevuto in gestione dall'Esu che a
sua volta lo gestiva dal 2002 per conto dello Iuav. Ospita 50 studenti universitari. «Lo
scopo primario di questo progetto» scrivono gli studenti «è quello di stimolare la crescita
individuale, culturale e civica di studenti dalla più vasta provenienza che, attraverso
dialogo, cooperazione e condivisione, possano costruire un ambiente comunitario
fondato sui valori cristiani di fratellanza, solidarietà e correzione fraterna. La
realizzazione di ciò è resa possibile, in primo luogo, dall’organizzazione interna alla
residenza in cui si richiede a tutti i ragazzi di assumere un ruolo attivo nella conduzione
della casa, che si concretizza svolgendo delle mansioni per il bene comune e riunendosi
settimanalmente per affrontare un cammino condiviso di crescita spirituale ed umana.
Alcuni di questi incontri vengono aperti al pubblico per incoraggiare l’interazione tra i
ragazzi ed il territorio, la Giudecca. Infatti, la realtà dell’isola si fonde con la quotidianità
degli studenti, che frequentano supermercati, bar, centri d'attività sportiva e molti altri
luoghi appartenenti alla realtà dell'isola e di Venezia».
IL GAZZETTINO
Pag 26 Philip Rylands: “Fra 6 mesi addio alla Guggenheim” di Sergio Frigo
“Giusto cambiare dopo tanto tempo. Andrò a fare dell’altro”
La notizia, comunicata ieri pomeriggio direttamente da New York dalla Fondazione
Solomon R. Guggenheim, è destinata a fare rumore nel mondo dell'arte, ben oltre i
confini veneziani: il prossimo giugno Philip Rylands, direttore della Collezione
Guggenheim e della stessa Fondazione per l'Italia, lascerà i suoi incarichi, che ricopriva
rispettivamente dal 2000 e dal 2009. Per chi non si occupa direttamente di arte basti
sapere che sotto la sua direzione (che in realtà dura da 38 anni, poi vedremo perché) la
Guggenheim è diventata il principale museo di arte moderna in Italia, con la cifra record
di oltre 400mila visitatori, e insieme il più giovane e il più internazionalizzato (è sempre
affollatissimo di ragazzi di tutto il mondo) e l'unico nel nostro paese a chiudere i conti in
attivo, con otto milioni di euro di entrate e un avanzo di gestione sufficiente per le opere
di manutenzione. Non è dato saperlo, ma senza di lui la Collezione, la stessa immagine
di Peggy, e in qualche misura persino l'allure di Venezia, sarebbero state altra cosa.
Basti considerare qual'era la situazione quando Rylands, trentenne studioso di storia
dell'arte appassionato di Palma il Vecchio, nato a Stratford upon Avon (la patria di
Shakespeare), prese letteralmente in mano (in maniera del tutto informale) i destini
della Collezione, nel dicembre del 1979: Peggy (amica di sua moglie Jane) stava
morendo, la sua splendida casa sul Canal Grande rischiava di essere sommersa da una
gigantesca acqua alta, e della sua preziosa collezione di quadri nessuno sapeva bene
cosa fare. Rylands iniziò aiutando il figlio Sindbad Vail a inventariare le opere d'arte della
madre e poi... ci prese gusto.
Ora il direttore, che è diventato quasi veneziano (accento a parte...) ha quasi 67 anni,
ma l'energia e la creatività non sembrano molto diminuite da allora: e allora perché
andarsene? Oppure vi è costretto da qualche circostanza? Perché quello che è certo è
che non andrà in pensione. Il comunicato con cui Richard Armstrong, direttore della
Fondazione americana da cui la Guggenheim dipende, contiene parole di vivo
apprezzamento per il suo operato a Venezia, per il genuino affetto con cui ha valorizzato
la memoria della fondatrice, per il suo impegno educativo, oltre che per le migliaia di
visitatori acquisiti. «Dopo tutto questo tempo è venuto il momento di cambiare risponde lui - un nuovo timoniere non potrà che fare bene al Museo. Sì, lascio anche il
ruolo di direttore della Fondazione per l'Italia, non voglio interferire nè fare ombra a
quello che sarà il mio successore»: successore di cui partirà subito la ricerca,
annunciano da New York. «Certo, non mi sento ancora un pensionato - aggiunge lui per cui esaminerò altre opportunità di lavoro». A Venezia, in Italia o altrove? chiediamo.
«È troppo presto per dirlo. Certo non lascerò Venezia definitivamente, qui ho la casa, e
molti amici». Quando gli chiediamo se tornerà a occuparsi di Palma il Vecchio sorride,
ma la risposta fa capire che continuerà ad occuparsi di arte moderna e contemporanea.
«Spero di avere l'opportunità di tornare a studiare l'arte rinascimentale, se ne avrò il
tempo». Da tempo, tra l'altro, Philip Rylands fa parte anche del cda della Fondazione
Marini, e sta collaborando attivamente alla realizzazione della grande mostra «Marino
Marini. Passioni visive», che si aprirà a Pistoia (capitale italiana della cultura il prossimo
anno) da metà settembre 2017 fino all'inizio di gennaio 2018, per poi venire per altri tre
mesi proprio alla Guggenheim, dove la sua famosa scultura L'angelo della città è una
delle opere più famose. Chiediamo se per caso nella sua decisione abbia influito il fatto
che a Venezia il museo ha problemi di spazio che ne impediscono lo sviluppo che
meriterebbe... «No, tutt'altro - è la risposta - Grazie alla disponibilità del Comune
abbiamo appena potuto realizzare un piccolo ampliamento dei nostri spazi, con il nuovo
caffè e ulteriori migliorie, oltre a tre nuove stanze per le esposizioni, contando proprio la
veranda dell'ex caffè. Per marzo sarà tutto completo». Anche la campagna per la
raccolta dei fondi è praticamente conclusa, con quel coinvolgimento di aziende e
imprenditori fra gli amici della Collezione che è stato uno dei segreti della floridità dei
suoi conti. Di cosa va fiero, nel suo ultra-trentennale impegno alal Guggenheim?
chiediamo. «Grazie ad un bellissimo staff (una quarantina di persone, ndr) lascio un
museo in ottime condizioni, il numero uno nell'arte moderna in Italia. Se qualche
decennio fa qualcuno mi avesse detto che avremmo superato i 400mila visitatori l'avrei
preso per matto. E ho fatto del mio meglio per valorizzare la memoria della fondatrice e
utilizzare la sua collezione per educare tanti giovani ai valori dell'arte». Certo, il suo
ottimo staff da ieri pomeriggio è letteralmente sotto choch.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV Ostello Palach, appello per evitare la vendita di Giorgia Pradolin
Lo Iuav avrebbe deciso di vendere l’immobile che oggi ospita una foresteria per studenti
gestita dalla Pastorale universitaria
Oltre 500 firme per impedire la vendita della casa studentesca Jan Palach alla Giudecca.
A raccoglierle gli studenti dello Iuav dopo aver appreso la volontà del rettore, Alberto
Ferlenga, di mettere sul mercato l'edificio con il rischio di vederlo trasformato
nell'ennesimo albergo. La residenza universitaria è gestita dal Centro della Pastorale
Universitaria ed ospita 50 studenti a prezzi modici rispetto al mercato degli affitti
veneziani, con un percorso di comunità cristiana: gli studenti vivono e studiano assieme,
partecipano ad incontri sui valori cattolici e di lettura del Vangelo. E d'estate, quando
l'edificio ospita turisti, si occupano a turni della gestione e dell'organizzazione. «Per me
questa casa è stata una mano santa spiega Francesca Narri, studentessa di cinese che
arriva dall'Abruzzo e non si tratta solo dell'affitto conveniente ma dell'esperienza
universitaria coniugata alla vita cristiana, perché qui non siamo mai soli ed è importante
per chi si trova a vivere lontano da casa». Francesca racconta che gli ospiti della casa
arrivano da tutta Italia e studiano vari corsi. Vendere lo Jan Palach per la studentessa
significa: Toglierci una risorsa, la terra sotto i piedi. Abbiamo appreso la notizia della
vendita da parte dello Iuav dai giornali e auspichiamo si possa evitare. La convivenza
della casa mira al dialogo, alla cooperazione: Ospitiamo anche un ragazzo musulmano
ricorda Daniele Pighin, responsabile della casa e non è il primo. Qui accogliamo tutti
coloro che sono interessati a condividere il percorso di comunità e condivisione, dopo un
colloquio conoscitivo. Il responsabile spiega che un posto letto in camera doppia con
bagno in camera costa 220 euro al mese, senza il bagno 190. I ragazzi si occupano delle
pulizie, della cucina e della spesa, un ruolo attivo nella conduzione della casa, con
incontri una volta alla settimana rivolti invece alla crescita spirituale. Pare che la
tendenza commenta il responsabile sia quella di spostare gli studenti dal centro storico
alla terraferma, in via Torino, stiamo cercando di far capire che la loro presenza non è
accessoria ma un investimento per la città: molti di questi giovani poi si fermano a
lavorare e vivere qui».
Pag VII Teatro a favore della Casa famiglia di Daniela Ghio
Iniziativa al Malibran per aiutare i nuclei che si trovano in difficoltà
A teatro in sostegno di Casa Famiglia San Pio X. Domani alle 20 verrà rappresentata al
Teatro Malibran la commedia I Rusteghi, di Carlo Goldoni, interpretata dalla più volte
premiata compagnia La Bautta - F. Saoner. I biglietti avranno un costo minimo,
configurabile come erogazione liberale, di 18 euro l'uno, ma l'offerta è libera. Tutto il
ricavato della vendita andrà a sostegno dei progetti di accoglienza, inserimento e
sostegno di mamme e bambini all'interno di Casa Famiglia San Pio X alla Giudecca,
comunità di accoglienza, un rifugio protetto, espressione della Diocesi di Venezia affidata
dal patriarca alla Pastorale degli Sposi e della Famiglia. La responsabilità e la gestione
della Casa sono affidate a coppie di sposi, i Familiari, che hanno il compito di
concretizzare uno stile di vita familiare per donne, mamme con figli e future mamme in
difficoltà con bambini. L'evento di beneficenza è organizzato dall'associazione Amici di
Casa Famiglia Onlus, nata dall'iniziativa delle persone che già collaborano, a diverso
titolo, alla conduzione di Casa Famiglia San Pio X, con gli obiettivi di fornire una rete di
sostegno ai nuclei che escono dalla Casa dopo il periodo di accoglienza e un aiuto
economico per guardare al futuro con maggior serenità favorendo sostegni economici a
distanza e creando una rete di appoggio; contribuire alle spese di ordinaria e
straordinaria manutenzione della Casa. La manifestazione ha il patrocinio del Comune,
della Municipalità di Venezia e del Comune di Dolo.
Torna al sommario
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 6 Gara di solidarietà per il papà povero: “Aiuti e regali di Natale a tuo figlio”
di Francesca Visentin
Gardaland offre un giorno da sogno. Lui declina: “Voglio solo che parliate dei separati”
Venezia. Gara di solidarietà per aiutare il papà separato e povero che non ha i soldi per
festeggiare il Natale con suo figlio. «Non posso permettermi l’albero di Natale, così con il
mio bambino meraviglioso di 6 anni, quando è come me, abbiamo recuperato per strada
assi di legno e creato le decorazioni con le bottigliette di plastica. Ecco il nostro albero».
Ha commosso i lettori questa mail arrivata in redazione e la storia di Luciano, 60 anni,
veneziano, papà separato che per rendere felice il suo bimbo trasforma la difficile realtà
di ogni giorno in una favola piena di magia e giochi speciali. Tante le lettere e i messaggi
arrivati in redazione per offrire aiuto a Luciano. Tanti colpiti dalla sua situazione,
vorrebbero dimostrare la loro solidarietà con un gesto concreto, anche se non sono
ricchi. «Ma è un atto di umanità doveroso», dicono. Papà Luciano ringrazia tutti, ma
declina gli aiuti. L’ha detto subito: non chiede niente, il suo obiettivo è fare riflettere
sulla situazione dei padri separati, come lui. Ridotti in miseria da alcune sentenze e
contemporaneamente privati della possibilità di vivere la quotidianità dei loro figli. «Qual
è l’esperto che può dire che un bambino deve stare necessariamente con la mamma
perché questo è più sano per lui e per il papà resta solo l’allontanamento con tutto ciò
che ne consegue?», dice Luciano e invita a riflettere: «Oggi molti papà hanno una
consapevolezza diversa. Nelle coppie anche la mamma lavora, i ruoli spesso sono
intercambiabili. Ma i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti dei papà resistono e
condizionano le sentenze di separazione». Domenica Luciano l’ha trascorsa con il suo
bambino: «Abbiamo aspettato che gli elfi di Babbo Natale passassero a ritirare la sua
letterina con la richiesta di Natale», rivela il papà veneziano. Un altro momento magico
da vivere insieme, felici di poco, trasformando le durezze della vita in una favola
colorata. Come ha fatto Luciano costruendo un albero «povero», ma ricco di colori e
creatività insieme al suo bambino. Si sono mossi in tanti per Luciano. Che con sincerità
ha fatto sapere che spesso salta i pasti, perché i soldi non bastano. Una volta pagato il
mutuo della casa dove la ex vive con il figlio, saldato l’affitto del monolocale dove sta ora
e le bollette, non resta più nulla. Nemmeno per un caffè con i colleghi in ufficio. «Ci ha
colpito la dignità con cui questo papà racconta le sue fatiche e il tentativo di non farle
pesare al figlio - scrive una coppia - , Sappiamo che non vuole denaro, ma ci piacerebbe
contribuire. Non siamo benestanti, ma siamo fortunati, viviamo del nostro lavoro,
abbiamo due figli grandi e siamo ancora innamorati dopo 30 anni». E Antonella: «Sono
anch’io separata, capisco cosa prova Luciano. In alcuni momenti non ho avuto nemmeno
i soldi per un gelato. Ora va meglio, ma quanti sacrifici. Per questo vorrei aiutarlo».
Francesco: «Vorrei sostenerlo, non sono ricco, ma lo sento come un dovere». Arturo da
Salerno chiede di inviare a Luciano un grande albero di Natale pieno di addobbi: «Ho
apprezzato moltissimo la sua dignità». Molti papà separati incitano Luciano a non
mollare. Poi ci sono le donne: l’associazione di imprenditrici, manager, professioniste,
PadovaDonne, in prima linea contro la violenza sulle donne è solidale con Luciano e
vuole mandargli un aiuto. «E’ la testimonianza che si può accettare la fine di una
relazione, anche se con dolore e in situazioni difficili. Solo il rispetto reciproco può
aiutare i figli», sottolinea Alessandra Brotto di PadovaDonne. E poi c’è un’offerta che
papà Luciano non può proprio rifiutare: il parco divertimenti Gardaland a Castelnuovo
del Garda (Verona), sogno di ogni bambino, invita padre e figlio a trascorrere un giorno
da favola: una festa indimenticabile offerta dal parco, compreso viaggio andata e
ritorno, pranzo e gadget regalo di Gardaland. Tra le testimonianze di papà separati
«costretti a vagare per strada con i figli» perché non hanno un luogo dove portarli,
scrive Andrea: «...e l’auto diventa la calda casetta dove tenere il piccolo tra le braccia e
raccontargli una favola: resistiamo padri».
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 30 Donne non gradite nei bar a nord di Parigi, come nel Maghreb di Stefano
Montefiori
In Francia e nel resto dell’Occidente i cittadini musulmani sono spesso accusati di non
essere abbastanza attivi nel denunciare i soprusi di chi non condivide lo stile di vita
europeo. In realtà non poche associazioni, in particolare quelle che si battono per i diritti
delle donne, sono fondate e guidate da militanti di estrazione arabo-musulmana. Dopo le
azioni di «Ni putes ni soumises» di Fadela Amara, nei primi anni Duemila, in questi
giorni in Francia si è parlato molto della «Brigade des mères», la «brigata delle madri»
fondata dall’algerina Nadia Remadna, che ha realizzato un video con telecamera
nascosta poi mandato in onda dal servizio pubblico al telegiornale delle 20. Nadia e
l’altra militante Aziza Sayah sono andate a Sevran, nella periferia nord di Parigi, e hanno
filmato strade dove non si vede in giro neanche una donna. «Gli uomini occupano i
luoghi, e le donne subiscono», dice la voce fuori campo. Poi le due attiviste decidono di
entrare in un bar. Il dialogo che ne segue è molto interessante. «Cosa volete, signore?»,
chiede subito il padrone del bar. «Cerchiamo qualcuno». «È meglio se aspettate fuori».
«Perché?». «Qui ci sono solo uomini». «Pazienza, al mondo ci sono uomini e donne, le
diamo fastidio?». «Lo dico per voi». «Ma per noi non c’è problema, ci facciamo piccole
piccole e ci mettiamo in un angolo». «Ma ci sono solo uomini qui», ripete un cliente. «E
ti sembra normale? E se io volessi prendere un caffè con una cugina, un’amica, o tua
moglie?». «Mia cugina resta a casa. In questo caffé non c’è mixité», insiste il
proprietario, uomini e donne non si mescolano. «Siamo a Sevran qui, non a Parigi». «E
allora? Sevran non è in Francia?». Esasperato, il patron alza la voce per sentenziare che
«qui sei nel 93! (il dipartimento Seine-Saint-Denis, ndr) La mentalità è diversa, qui è
come al villaggio!». Per villaggio si intende quello di origine, nel Maghreb, che alcuni
cercano di importare tale e quale alle porte di Parigi.
AVVENIRE
Pag 19 I copti: “Ormai ci trattano da stranieri” di Federica Zoia
Paura dopo l’attacco al Cairo. Ad agire un kamikaze di 22 anni. Sisi ai funerali
«Ho sempre più paura, non ho mai pensato di andare via, ma adesso comincio a
considerare la possibilità di farlo in pianta stabile», spiega Ragab. È una copta ortodossa
cairota. E conosce molte famiglie toccate dalla strage di domenica nella cosiddetta “Cairo
copta”. L’attentato presso la chiesa di San Pietro e Paolo, nel complesso della cattedrale
di San Marco, riporta bruscamente al centro dell’attenzione il contesto drammatico in cui
versa la minoranza cristiana egiziana. In un crescendo di tensioni sociali, intimidazioni,
attacchi mirati, il 10 per cento circa della popolazione vive sentendosi discriminato nel
proprio Paese d’origine. Discriminazioni sistematiche e anche gravi episodi di violenza
non rappresentano una novità nella vita dei cristiani d’Egitto. Qualcosa, però, pare
peggiorato negli ultimi anni. «Mi sento sempre meno protetta, ho l’impressione che alla
polizia non interessi la nostra sicurezza, come se non fossimo davvero egiziani, come se
fossimo un po’ stranieri. Prima mi muovevo spesso fuori dal Cairo nei fine settimana,
adesso ho ridotto gli spostamenti e vado sempre meno nel Sinai», spiega Ragab, 40
anni, ricercatrice universitaria in un ateneo privato. Dopo la fulminante ascesa, seguita
da un’uscita di scena altrettanto rapida, della Fratellanza musulmana alla guida del
Paese fra il 2012 e il 2013, i vertici del patriarcato copto ortodosso si sono esposti
politicamente come mai nel passato recente. Il sostegno manifesto al direttorio militare
di Abdel Fattah al-Sisi, prima, e all’insediamento alla presidenza di quest’ultimo, poi,
hanno acuito il risentimento nei confronti della comunità cristiana d’Egitto da parte dei
sostenitori della confraternita. «In realtà, io il risentimento lo sento da più parti, anche
molto diverse – riferisce la donna –. È il fastidio evidente dell’autista dell’autobus
quando salgo io, donna senza velo e con una croce sul polso, e magari fa di tutto per
farmi scendere con la scusa che non c’è posto. Oppure sono le occhiate delle altre donne
in metropolitana, tutte con l’hijab, che piano piano si allontanano. Ormai prendo la
macchina per spostarmi. È chiaro che non è sempre così e che ho amici musulmani di
lunga data. E anche colleghi musulmani con cui lavoro bene, però appena possono la
“battuta” scatta. E fa male». Ai cristiani, i concittadini musulmani rinfacciano l’attuale
corso politico, più o meno in questi termini: «Dicono così: credevate che al-Sisi fosse il
salvatore e invece è molto peggio di Hosni (Mubarak) e pure di (Mohamed) Morsi,
contenti?», sintetizza Ragab. Nel passato recente, un altro attacco dinamitardo ha
insanguinato una funzione religiosa cristiana, quello del primo gennaio 2011 nella chiesa
dei Santi, ad Alessandria d’Egitto. Ad Alessandria, Magda, 37 anni, fa la Web master:
«Lavoro per conto mio, a volte ho pochi contatti con i miei clienti, quindi non risento
della mia diversità nel mondo del lavoro. Ma gli amici cristiani occupati nella pubblica
amministrazione hanno un sacco di problemi, ritardi, fastidi, trovano continui ostacoli.
Spesso sono vittime di mobbing. E poi temono sempre di essere licenziati. Io invece ho
paura quando si avvicinano le feste, le occasioni religiose in cui siamo “apertamente”
cristiani. Ho paura degli estremisti, dei pazzi. Avevo paura sotto Mubarak e ho paura
anche adesso. In questi anni noi cristiani non siamo cambiati, sono cambiati loro
musulmani: gli intolleranti sono aumentati. E vogliono un Egitto tutto loro», conclude
con amarezza. Il cambiamento, tuttavia, riguarda anche il comportamento dei copti,
inevitabilmente: «Certo, ci frequentiamo sempre più fra di noi, andiamo nei negozi di
copti, nei ristoranti di copti, dai medici copti.. E se ti innamori di un musulmano, per le
famiglie è ancora peggio oggi che 20 anni fa, una tragedia », chiosa la giovane donna».
Torna al sommario