Rassegna stampa 13 dicembre 2016
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Rassegna stampa 13 dicembre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 13 dicembre 2016 SOMMARIO “È un esecutivo di sopravvivenza - lo definisce così Massimo Franco sulla prima pagina del Corriere di oggi -, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica. L’ambizione e il compito di Paolo Gentiloni saranno quelli di suturare le ferite lasciate dal referendum del 4 dicembre e da mesi di scontro con le opposizioni; e accompagnare l’Italia al voto, nel 2017 o l’anno dopo. Le capacità di mediazione del nuovo premier sono riconosciute da tutti, e Gentiloni sa di avere l’appoggio e la fiducia del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso partito gli permetterà di consolidare questa nuova identità. La lealtà a Matteo Renzi è perfino troppo sottolineata dalla lista dei ministri: quasi una fotocopia del suo esecutivo, con l’ex ministro alle Riforme, Maria Elena Boschi, solo in apparenza «declassata» a sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma il Pd non sembra affatto pacificato. E il segretario si prepara a riaffermare il primato su un partito in ebollizione, scottato dalle sconfitte. Soprattutto, non è pacificata l’Italia. Le opposizioni rimarcano una compagine schiacciata sul «fronte del Sì», dopo avere fatto di tutto perché nascesse proprio così. Movimento 5 Stelle e Lega si preparano a sfruttare ogni occasione per delegittimare il governo, forti della vittoria dei No e dell’oggettivo indebolimento della maggioranza; e a presentarlo come subalterno a un’Europa bersagliata con livore demagogico. Ma la Ue appare ansiosa di aiutare Gentiloni e l’Italia, dopo gli scarti e le incomprensioni degli ultimi mesi. Le prime reazioni lasciano capire che il nuovo governo sarà accolto a Bruxelles a braccia aperte, nella convinzione di rinsaldare la sintonia di sempre: una tradizione un po’ appannata durante la campagna referendaria, quando Palazzo Chigi sperava di recuperare voti del M5S e di centrodestra anche polemizzando tatticamente con Bruxelles. Il profilo è basso, e non poteva essere che così. Risente dell’esigenza di tacitare le spinte correntizie tornate a galla nella maggioranza del Pd. E il no delle opposizioni a entrare nel governo restituisce numeri parlamentari avari, che trasformano ogni partitino in un possibile dominus della sua sopravvivenza. Eppure, l’irrigidimento a sorpresa di Denis Verdini contro un «governo fotocopia» non è bastato a fargli concedere ministri. Per ora il vero regista rimane Renzi, il quale non fa nulla per nasconderlo. Ma sarebbe un errore raffigurare Gentiloni come un amministratore delegato a tempo, in attesa del ritorno in tempi brevi di quello «vero». Uno schema del genere sa di forzatura. Sottovaluta quanto è successo il 4 dicembre. Proietta la continuità che il governo esprime in un futuro dai contorni estremamente incerti: quasi si potesse tornare in modo automatico a un passato interrotto bruscamente e ingiustamente. In più, rischia di relegare in secondo piano le emergenze che l’Italia deve affrontare, e di cui la legge elettorale è soltanto l’elemento più vistoso e citato. I prossimi mesi diranno che si tratta di questioni drammatiche, di fronte alle quali evocare elezioni anticipate risulterà azzardato fino alla temerarietà: a meno che non si voglia regalare Palazzo Chigi a Beppe Grillo. Il governo Gentiloni viene presentato come una parentesi aperta dal Pd, che il partito di Renzi potrà chiudere a piacimento. In realtà, già lo stile dimesso del premier segna una cesura col passato. Sarà interesse di tutta la maggioranza accentuarla, se vuole non solo mantenere il contatto col quaranta per cento degli italiani che hanno votato Sì, ma recuperare credibilità agli occhi della vera maggioranza del Paese: quella che, dopo avere bocciato Renzi, pretende dal sistema politico una coda di legislatura improntata al senso di responsabilità, a fatti concreti, e allo sforzo vero di restituire all’Italia un simulacro di unità nazionale”. Per Mario Calabresi, direttore di Repubblica, “avevamo bisogno di un governo leggero, efficiente e dotato di senso pratico, capace di chiudere i dossier più urgenti mentre il Parlamento lavorerà a scrivere le regole per tornare al voto in tempi brevi. Avevamo bisogno di un governo capace di affrontare l’emergenza bancaria, gestire il fenomeno migratorio e le sfide di politica estera in un quadro che sta cambiando radicalmente dopo l’elezione di Donald Trump. Avevamo bisogno di un presidente del Consiglio serio e allergico ai protagonismi e di un ex premier capace di fare un passo indietro e provare a ricostruire il suo partito e il rapporto con i cittadini. Tutto ciò sembrava a portata di mano, ci si è mossi in tempi brevissimi, e Gentiloni è certamente la figura giusta. È riuscito anche a resistere alle pressioni di Verdini e tenendolo fuori ha evitato una macchia politica che sarebbe stata letale per il suo esecutivo. Matteo Renzi ha fatto gli scatoloni, ha scritto la sua lettera d’addio al governo nel cuore della notte e promesso di dedicarsi solo al Pd. Sembrava un nuovo inizio. Poi sono arrivati i dettagli, quelli in cui è solito nascondersi il diavolo: Maria Elena Boschi, la madre della riforma costituzionale bocciata dagli italiani, anziché fare un doveroso passo indietro ha chiesto e ottenuto una promozione. Per farle posto si sono resuscitati due vecchi ministeri, uno per il fedelissimo Lotti l’altro per De Vincenti. Angelino Alfano si è spostato alla Farnesina, un passaggio incomprensibile in una fase così delicata dato che non si conoscono sue competenze in politica estera. Come non pensare ad una mossa dettata dalla voglia di allargare il curriculum? O dalla necessità di allontanarsi dalla patata bollente dell’immigrazione? Ma non era meglio restare e rivendicare il lavoro fatto? Scelte evitabili che rafforzano diffidenze, gonfiano il qualunquismo e lasciano un retrogusto di furbizia e immaturità. A pagare gli errori del passato la sola ministra Giannini, senza che il governo abbia mai fatto un minimo di autocritica sulla riforma della scuola. Troppo facile e troppo poco”. Su Avvenire, poi, il direttore Marco Tarquinio osserva: “La crisi è finita. Il Governo Gentiloni è nato e si sta mettendo, anzi sta tornando, al lavoro. La maggioranza, infatti, è in pratica la stessa che aveva retto nei «mille giorni» di Matteo Renzi, con gli stessi problemi interni, un paio di pezzi in meno (i verdiniani e ciò che resta di Scelta Civica) e un orizzonte temporale ristretto. E la compagine ministeriale le somiglia come una goccia d’acqua. Limitatissime le novità, in attesa di viceministri e sottosegretari. Un pesante cambio di poltrona: Angelino Alfano passa dalla guida dell’Interno a quella degli Esteri. Un debutto: Valeria Fedeli all’Istruzione. Un ritorno dopo diciott’anni: Anna Finocchiaro ai Rapporti col Parlamento. Due promozioni da sottosegretario a ministro: Marco Minniti all’Interno, Claudio De Vincenti alla Coesione territoriale e Mezzogiorno. E una promozione da ministro a sottosegretario-segretario di governo per Maria Elena Boschi. Adesso saranno le due Camere a decidere sulla fiducia, perché questo è il loro potere esclusivo e condiviso, secondo la Costituzione che gli italiani hanno confermato votando No al referendum. Molto sembra uguale, dunque, eppure tutto è cambiato. Perché siamo passati da un 'Governo dei poteri' a un 'Governo dei doveri'. Matteo Renzi era arrivato nel 2014 alla presidenza del Consiglio proiettando l’idea del cambiamento forte e possibile pur in una Legislatura che appena un anno prima era nata ingovernabile. Paolo Gentiloni gli succede, col suo stile misurato e consapevole, mentre il Parlamento è (in diversi sensi) a un passo dal pensionamento, e il dossier delle priorità stringenti non dà spazio ad altro – appunto – che a questi doveri, messi giustamente in primo piano dal presidente Mattarella. Dal sostegno ai terremotati e alla ricostruzione nel Centro Italia, all’applicazione di una legge di bilancio che contiene finalmente anche un primo pacchetto di misure organiche anti-povertà, ma che è motivo di un duro braccio di ferro con la Ue; dalla patata bollente (economicofinanziaria e morale) del Monte dei Paschi in crisi a una intensa serie di appuntamenti internazionali: ingresso nel Consiglio Onu (gennaio), preparazione dell’eurovertice di Roma (marzo) e della presidenza del G7 di Taormina (maggio). E, da ultimo, ma solo per elencazione, il dovere definitivo della XVII Legislatura: una legge elettorale che restituisca agli elettori il potere di scegliere gli eletti e consenta di rappresentare davvero e secondo giusta proporzione la realtà italiana. Non onorare questi doveri, soprattutto il primo (i poveri) e l’ultimo (regole del voto a misura di cittadini, non solo di potenti) segnerebbe non solo il fallimento di un governo e di quel che resta della XVII Legislatura, ma la premessa per l’archiviazione ingloriosa – e già rabbiosamente incombente – di un’intera stagione politica”. Nella Rassegna stampa di oggi il testo completo del messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace: “La non violenza stile di una politica per la pace” (a.p.) IN PRIMO PIANO – ECCO IL GOVERNO GENTILONI, NUOVO O… “FOTOCOPIA”? CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le ferite da ricucire di Massimo Franco Pag 1 Dieci rischi per Renzi di Paolo Mieli LA REPUBBLICA Pag 1 Troppo poco di Mario Calabresi LA STAMPA Ricucire la frattura con il Paese di Francesco Bei AVVENIRE Pag 1 Il governo dei doveri di Marco Tarquinio Una strada segnata Pag 3 L’80esima crisi in 73 anni. Tutti i numeri del governo di Marco Olivetti Analogie e differenze con le vicende politiche del passato Pag 11 Squadra che perde cambia poco: Matteo “pesa” ancora nel governo. Così si gioca la partita del Nazareno di Danilo Paolini CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Zanetti, il veneziano escluso ora mette a rischio il governo. Il rebus dei sottosegretari di Giovanni Viafora Le nomine e gli scenari. Nessun veneto nell’esecutivo IL GAZZETTINO Pag 1 Il rischio della palude permanente di Marco Gervasoni Pag 3 L’impronta di Renzi e i fronti ancora aperti di Marco Conti LA NUOVA Pag 1 Veneto senza ministri e leader di Paolo Possamai 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Santa Lucia: messa solenne a San Geremia con il Patriarca Moraglia LA NUOVA Pag 21 Il Patriarca celebra Santa Lucia di n.d.l. Per onorare la patrona della vista “riaggiustato” anche il crocifisso 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 L’unica e vera via di g.m.v. Pagg 4 – 5 La non violenza stile di una politica per la pace Per la giornata mondiale della pace il papa invoca un cambiamento nei rapporti personali, sociali e internazionali Pag 5 Lanciare l’idea Il messaggio di Paolo VI dell’8 dicembre 1967 Pag 7 Scelta di civiltà All’Angelus in piazza San Pietro il Pontefice invoca la fine della guerra in Siria AVVENIRE Pag 2 Dire no alla violenza per aiutare Dio, e l’uomo di Marina Corradi Pag 5 Il Papa scrive ad Assad: “Basta violenze” di Luca Geronico “Visita di cortesia” del nunzio Zenari. Che consegna una lettera di Bergoglio LA REPUBBLICA Pag 53 Le idee progressiste di the Young Pope, così gli scritti giovanili di Ratzinger anticipano le riforme di Bergoglio di Paolo Rodari Pubblicati i testi del futuro Pontefice sul Concilio Vaticano II in cui rivendica la necessità del “dialogo con il mondo di oggi” IL FOGLIO Pag 1 Un processo a Francesco di Giuliano Ferrara Un papa che non capisce i principi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia. Il pamphlet di Valli con postilla sul relativismo all’ingrosso Pag 1 L’equilibrio instabile di Matteo Matzuzzi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Il sindaco promuove piazzale Sicilia. E vuole spostare le mense dei poveri di G.B. Ca’ Farsetti sta preparando un fascicolo con i posti sui sociali di alcuni comunali Pag 13 Ca’ Farsetti rifiuta 60 profughi a Marghera: “Accoglienza diffusa” di Francesco Bottazzo Venturini scrive alla prefettura: zona già provata LA NUOVA Pag 20 Qualità della vita, Venezia migliora di Enrico Tantucci La classifica del Sole 24 Ore: la nostra provincia al 39° posto. Guadagnate nove posizioni rispetto allo scorso anno Pag 20 Petizione contro la cessione dell’ostello Giudecca, raccolte 500 firme per salvare lo “Jan Palach” che lo Iuav vorrebbe vendere per fare cassa IL GAZZETTINO Pag 26 Philip Rylands: “Fra 6 mesi addio alla Guggenheim” di Sergio Frigo “Giusto cambiare dopo tanto tempo. Andrò a fare dell’altro” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Ostello Palach, appello per evitare la vendita di Giorgia Pradolin Lo Iuav avrebbe deciso di vendere l’immobile che oggi ospita una foresteria per studenti gestita dalla Pastorale universitaria Pag VII Teatro a favore della Casa famiglia di Daniela Ghio Iniziativa al Malibran per aiutare i nuclei che si trovano in difficoltà 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Gara di solidarietà per il papà povero: “Aiuti e regali di Natale a tuo figlio” di Francesca Visentin Gardaland offre un giorno da sogno. Lui declina: “Voglio solo che parliate dei separati” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 30 Donne non gradite nei bar a nord di Parigi, come nel Maghreb di Stefano Montefiori AVVENIRE Pag 19 I copti: “Ormai ci trattano da stranieri” di Federica Zoia Paura dopo l’attacco al Cairo. Ad agire un kamikaze di 22 anni. Sisi ai funerali Torna al sommario IN PRIMO PIANO – ECCO IL GOVERNO GENTILONI, NUOVO O… “FOTOCOPIA”? CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le ferite da ricucire di Massimo Franco È un esecutivo di sopravvivenza, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica. L’ambizione e il compito di Paolo Gentiloni saranno quelli di suturare le ferite lasciate dal referendum del 4 dicembre e da mesi di scontro con le opposizioni; e accompagnare l’Italia al voto, nel 2017 o l’anno dopo. Le capacità di mediazione del nuovo premier sono riconosciute da tutti, e Gentiloni sa di avere l’appoggio e la fiducia del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso partito gli permetterà di consolidare questa nuova identità. La lealtà a Matteo Renzi è perfino troppo sottolineata dalla lista dei ministri: quasi una fotocopia del suo esecutivo, con l’ex ministro alle Riforme, Maria Elena Boschi, solo in apparenza «declassata» a sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma il Pd non sembra affatto pacificato. E il segretario si prepara a riaffermare il primato su un partito in ebollizione, scottato dalle sconfitte. Soprattutto, non è pacificata l’Italia. Le opposizioni rimarcano una compagine schiacciata sul «fronte del Sì», dopo avere fatto di tutto perché nascesse proprio così. Movimento 5 Stelle e Lega s i preparano a sfruttare ogni occasione per delegittimare il governo, forti della vittoria dei No e dell’oggettivo indebolimento della maggioranza; e a presentarlo come subalterno a un’Europa bersagliata con livore demagogico. Ma la Ue appare ansiosa di aiutare Gentiloni e l’Italia, dopo gli scarti e le incomprensioni degli ultimi mesi. Le prime reazioni lasciano capire che il nuovo governo sarà accolto a Bruxelles a braccia aperte, nella convinzione di rinsaldare la sintonia di sempre: una tradizione un po’ appannata durante la campagna referendaria, quando Palazzo Chigi sperava di recuperare voti del M5S e di centrodestra anche polemizzando tatticamente con Bruxelles. Il profilo è basso, e non poteva essere che così. Risente dell’esigenza di tacitare le spinte correntizie tornate a galla nella maggioranza del Pd. E il no delle opposizioni a entrare nel governo restituisce numeri parlamentari avari, che trasformano ogni partitino in un possibile dominus della sua sopravvivenza. Eppure, l’irrigidimento a sorpresa di Denis Verdini contro un «governo fotocopia» non è bastato a fargli concedere ministri. Per ora il vero regista rimane Renzi, il quale non fa nulla per nasconderlo. Ma sarebbe un errore raffigurare Gentiloni come un amministratore delegato a tempo, in attesa del ritorno in tempi brevi di quello «vero». Uno schema del genere sa di forzatura. Sottovaluta quanto è successo il 4 dicembre. Proietta la continuità che il governo esprime in un futuro dai contorni estremamente incerti: quasi si potesse tornare in modo automatico a un passato interrotto bruscamente e ingiustamente. In più, rischia di relegare in secondo piano le emergenze che l’Italia deve affrontare, e di cui la legge elettorale è soltanto l’elemento più vistoso e citato. I prossimi mesi diranno che si tratta di questioni drammatiche, di fronte alle quali evocare elezioni anticipate risulterà azzardato fino alla temerarietà: a meno che non si voglia regalare Palazzo Chigi a Beppe Grillo. Il governo Gentiloni viene presentato come una parentesi aperta dal Pd, che il partito di Renzi potrà chiudere a piacimento. In realtà, già lo stile dimesso del premier segna una cesura col passato. Sarà interesse di tutta la maggioranza accentuarla, se vuole non solo mantenere il contatto col quaranta per cento degli italiani che hanno votato Sì, ma recuperare credibilità agli occhi della vera maggioranza del Paese: quella che, dopo avere bocciato Renzi, pretende dal sistema politico una coda di legislatura improntata al senso di responsabilità, a fatti concreti, e allo sforzo vero di restituire all’Italia un simulacro di unità nazionale. Pag 1 Dieci rischi per Renzi di Paolo Mieli Mentre Paolo Gentiloni riceve l’incarico di formare un nuovo governo, il pensiero va al presidente colombiano Juan Manuel Santos che ai primi di ottobre è stato sconfitto nel referendum sull’intesa con le Forze armate rivoluzionarie del suo Paese, è rimasto al suo posto ed è stato persino insignito del Premio Nobel. Premio che ha ritirato a Oslo nelle stesse ore in cui Matteo Renzi lasciava Palazzo Chigi. Un’eccezione, quella di Santos, alla regola generale per cui, da Charles De Gaulle a David Cameron, tutti i capi di governo hanno sempre lasciato i loro incarichi dopo essere stati battuti in una consultazione referendaria (il premier inglese con la Brexit per 52 a 48). Cosa ha reso possibile l’anomalia di Santos? Il fatto che il presidente della Colombia, pur avendo perso, in seguito, per condizioni interne e internazionali da lui stesso predisposte, è stato in grado di riprendere in mano il proprio progetto, di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative con le Farc, e di puntare a una rivincita nelle urne in tempi brevi. Al nostro presidente del Consiglio uscente, a ogni evidenza, tutto ciò non sarebbe stato consentito. Di riforma costituzionale da noi non si parlerà più per molti anni (checché ne dicessero esponenti del No i quali annunciavano progetti alternativi a tal punto semplici da poter essere approvati nel giro di pochi mesi, anche in questa legislatura). Ma con il tessuto di quella riforma era stato cucito, da lui stesso tra l’altro, l’abito d’ordinanza del Matteo Renzi capo di governo, così che adesso non avrebbe potuto passare inosservato se avesse aperto l’armadio per indossarne un altro a caso. Lui stesso ne è sempre stato consapevole ed è per questo che nell’ultimo anno aveva annunciato una trentina di volte che, nell’eventualità di una sconfitta, se ne sarebbe «tornato a casa» (cosa che ha fatto in tempi rapidissimi, è doveroso dargliene atto). In molte occasioni, però, si era sentito in dovere di aggiungere che, se avesse perso, avrebbe considerato «fallita» o «conclusa» la sua esperienza politica, che avrebbe addirittura «smesso di fare politica» dal momento che credeva «profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica». Sicché avrebbe fatto «altro», sarebbe andato «via subito» e non lo si sarebbe «visto mai più». Ora che annuncia per il 10 gennaio il suo reingresso nella campagna precongressuale del Pd è bene che prepari delle risposte convincenti alla domanda sul perché di quelle «parole aggiunte». Ed è bene altresì che approfitti del mese che ci separa da quella scadenza per fare un’ulteriore riflessione sull’opportunità di correre a riprendersi il partito. Per una decina di ragioni. La prima è che non sono state fatte analisi approfondite di quel che è veramente accaduto il 4 dicembre. Non è colpa di nessuno, non ce n’è stato il tempo. Ma se il 75% dei giovani ha votato No, è arduo pensare che ciò sia riconducibile - come Renzi ha confidato a Massimo Gramellini esclusivamente al fatto che «il Pd è assente dal web» e che sia sufficiente «dedicare tutte le energie a ricostruire una comunità digitale». Servirà anche questo, ma sarà necessario anche altro. Molto altro. La seconda è che da candidato alle primarie, Renzi perderà il profilo internazionale e accentuerà quello di personalità da confronto interno al partito. Già ci sarebbe da riflettere se abbia giovato alla battaglia referendaria quel modo di ricondurla ossessivamente alla conquista del consenso di Gianni Cuperlo, di Pierluigi Bersani o di chi per loro. Adesso ci sarebbe solo o soprattutto questo. La terza ragione è strettamente connessa alla seconda. Renzi è reduce da un’indubbia sovraesposizione mediatica. Presentarsi nuovamente in tv a discutere prevalentemente con avversari del Pd per di più su una materia come la legge elettorale, potrebbe essere una scelta poco accorta. Ed esporlo a un effetto saturazione. La quarta è che l’immediato ritorno nella mischia lo priverebbe di quei sia pur parziali riconoscimenti al suo triennio di governo che già affiorano in qualche commento alla sua uscita da Palazzo Chigi. Riconoscimenti, a parere di chi scrive, più che meritati. A un tempo sarebbe costretto per esigenze propagandistiche a diffondersi da sé sui propri «miracoli» (come già gli capita di fare). Il giudizio sul suo operato spetta agli altri, quello che lui dà di se stesso conta poco e potrebbe essere - per qualche eccesso di generosità - nocivo. La quinta è che se, come sembra, le elezioni politiche non saranno convocate per questa primavera, ad aprile si terrà - lo ha già deciso la Cassazione - il referendum sul Jobs act e con lui in pista potrebbe riservare brutte sorprese. Anche perché quella prova referendaria sarebbe l’occasione d’oro per alcuni «pentiti del Sì» ansiosi di riverniciare la propria immagine. Quei «personaggetti» (la definizione è dell’ Unità in presumibile riferimento ai due Vincenzi, De Luca e D’Anna) che appaiono desiderosi di trasferirsi dal mondo degli sconfitti a quello dei vincitori. Se il nostro Paese introducesse lo sport del «calcio dell’asino», alle Olimpiadi saremmo in grado di conquistare medaglie d’oro, d’argento e di bronzo. La sesta è che se non gli si opporranno nelle primarie personaggi di primo piano in grado di competere con lui e se la dovrà vedere con Michele Emiliano o altre personalità del genere, vorrà dire che il ventre doroteo del partito gli manda il seguente messaggio: «corri pure da solo, conquistati una facile vittoria nel Pd, vatti a schiantare per la seconda volta, così ti togli di mezzo per sempre». Che non è un bel viatico. La settima è che con la separazione dei ruoli di segretario del Pd e di presidente del Consiglio, è possibile che - come accadde a Bettino Craxi quando nel ’92 restò alla conduzione del Psi lasciando a Giuliano Amato quella del governo - tutto ciò che di negativo accadrà di qui ai prossimi mesi nella vita politica del Paese, soprattutto le baruffe per la spartizione del potere, gli venga messo nel conto. Provocando difficoltà nei suoi rapporti con lo stesso Gentiloni. L’ottava è che, se la legislatura dovesse protrarsi oltre il 15 settembre, conoscerebbe la beffa di essere percepito come l’«uomo del vitalizio» (altrui, per giunta). Renzi, come lui stesso non ha mancato di sottolineare, da domani non avrà più stipendio. Ma il suo partito così come quello di Silvio Berlusconi appare già adesso poco incline ad accelerare il ricorso anticipato alle urne. E lui, anche per non rompere con il capo dello Stato, potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover assecondare lo scavallamento di quella fatidica data. La nona è che in genere non è consigliabile dopo una sconfitta (anzi due, vanno ricordate anche le Comunali del giugno scorso) gettarsi di nuovo in un combattimento. Esistono anche problemi di tenuta fisica, se non per lui, per i suoi. Fu l’errore - quello di passare da uno scontro all’altro restando alla guida del partito - che fece Amintore Fanfani dopo il referendum sul divorzio (1974) e che pagò con la sconfitta alle elezioni amministrative del 1975. La decima è relativa al discorso sui «suoi». Quando si affrontano partite così importanti sarebbe saggio affiancare ai collaboratori tradizionali altri che trovino il modo di dirti le verità amare, quelle che fino a oggi nessuno ti ha mai detto. Ed è difficile riuscire a trovare il tempo per farlo di qui a un mese prima che inizi la nuova battaglia. LA REPUBBLICA Pag 1 Troppo poco di Mario Calabresi Avevamo bisogno di un governo leggero, efficiente e dotato di senso pratico, capace di chiudere i dossier più urgenti mentre il Parlamento lavorerà a scrivere le regole per tornare al voto in tempi brevi. Avevamo bisogno di un governo capace di affrontare l’emergenza bancaria, gestire il fenomeno migratorio e le sfide di politica estera in un quadro che sta cambiando radicalmente dopo l’elezione di Donald Trump. Avevamo bisogno di un presidente del Consiglio serio e allergico ai protagonismi e di un ex premier capace di fare un passo indietro e provare a ricostruire il suo partito e il rapporto con i cittadini. Tutto ciò sembrava a portata di mano, ci si è mossi in tempi brevissimi, e Gentiloni è certamente la figura giusta. È riuscito anche a resistere alle pressioni di Verdini e tenendolo fuori ha evitato una macchia politica che sarebbe stata letale per il suo esecutivo. Matteo Renzi ha fatto gli scatoloni, ha scritto la sua lettera d’addio al governo nel cuore della notte e promesso di dedicarsi solo al Pd. Sembrava un nuovo inizio. Poi sono arrivati i dettagli, quelli in cui è solito nascondersi il diavolo: Maria Elena Boschi, la madre della riforma costituzionale bocciata dagli italiani, anziché fare un doveroso passo indietro ha chiesto e ottenuto una promozione. Per farle posto si sono resuscitati due vecchi ministeri, uno per il fedelissimo Lotti l’altro per De Vincenti. Angelino Alfano si è spostato alla Farnesina, un passaggio incomprensibile in una fase così delicata dato che non si conoscono sue competenze in politica estera. Come non pensare ad una mossa dettata dalla voglia di allargare il curriculum? O dalla necessità di allontanarsi dalla patata bollente dell’immigrazione? Ma non era meglio restare e rivendicare il lavoro fatto? Scelte evitabili che rafforzano diffidenze, gonfiano il qualunquismo e lasciano un retrogusto di furbizia e immaturità. A pagare gli errori del passato la sola ministra Giannini, senza che il governo abbia mai fatto un minimo di autocritica sulla riforma della scuola. Troppo facile e troppo poco. LA STAMPA Ricucire la frattura con il Paese di Francesco Bei La proprietà commutativa che ci hanno insegnato a scuola dice che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Non dovrebbe cambiare nulla quindi spostando un Alfano dal Viminale alla Farnesina o una Boschi da un ministero a una poltrona da sottosegretario, movimenti che profumano molto di Prima Repubblica e delle sue liturgie partitiche e correntizie. Così sembrerebbero aver ragione le opposizioni che, a proposito della staffetta Renzi-Gentiloni a palazzo Chigi, parlano di un governo-fotocopia, un governo copia-incolla, un esecutivo Avatar. Ma purtroppo o per fortuna la politica non è solo aritmetica. E basta avvicinare un po’ lo sguardo, e lasciare per un momento da parte le semplificazioni della propaganda, per capire che le similitudini sono più apparenti che reali. Certo, la composizione è quella che è e forse inevitabilmente il nuovo governo sconta un tasso eccessivo di continuità con il precedente. Del resto anche nel Duemila, con la staffetta tra D’Alema e Amato, la squadra fu quasi identica, a parte un paio di ministri. E tuttavia, al di là dei cliché, quello che cambia davvero è il modo di presentare i problemi, la narrazione, come usa dire oggi. Si è notata subito in Gentiloni una consapevolezza dei problemi del Paese diversa, lontana da quell’ottimismo a tutti i costi del presidente del Consiglio uscente. «Non si possono ignorare le forme di disagio, specie del ceto medio e del Mezzogiorno, in cui il lavoro è un’emergenza più drammatica che altrove», ha detto ieri Gentiloni presentando il governo. Che include, appunto, un ministro ad hoc per il Mezzogiorno e una ex sindacalista della Cgil al dicastero dell’Istruzione. Non a caso proprio al Sud e tra gli insegnanti si è verificato lo scollamento più grande tra il renzismo e il paese reale, nonostante i miliardi destinati alla Buona Scuola e la decina di patti territoriali siglati in questi mesi nel Meridione. Come se, seppur tardivamente, il Pd avesse finalmente compreso la lezione del referendum – il No ha prevalso non per l’attaccamento degli elettori al bicameralismo paritario o al Cnel ma per la rabbia degli esclusi, dei dimenticati, dei giovani Neet - e provasse a ricucire quella frattura. Sperando che non sia troppo tardi. Ma c’è un’altra ragione per cui sarebbe un abbaglio considerare Gentiloni un clone politico di Renzi, un burattino. Intanto perché il nuovo presidente del Consiglio, come ha scritto con acume la Sueddeutsche Zeitung, era già renziano prima che l’ex sindaco di Firenze facesse irruzione sulla scena politica. Ovvero, fin dai tempi di Rutelli e della Margherita, Gentiloni è sempre stato sulla frontiera più avanzata di una sinistra riformista di tipo nuovo, libera dall’ancoraggio novecentesco della Ditta comunista. Ma soprattutto, a differenziarlo oggi da Renzi, c’è la questione non secondaria dei tempi del governo. Sarà un esecutivoyogurt, con la scadenza di poche settimane? O andrà avanti finché avrà i voti in Parlamento? La questione per ora resta sottotraccia, ma c’è da scommettere che, al di là della lealtà di Gentiloni a Renzi, è destinata a riproporsi presto. E’ una dialettica inevitabile, perché in natura non esiste presidente del Consiglio che non voglia proseguire il suo mandato, mentre l’esigenza del segretario Pd è andare al voto nel più breve tempo possibile. Ieri Renzi, durante la direzione del Pd, si è spinto a definire le elezioni «imminenti», mentre Ignazio la Russa, riferendo ai giornalisti il colloquio appena avuto con il nuovo premier, ha affermato che l’intenzione è «restare finché avrà la fiducia, quindi anche fino alla fine della legislatura». La data preferita da Renzi per le urne sarebbe il 4 giugno, domenica di Pentecoste. Gentiloni sarà d’accordo a dimettersi così presto? Ma soprattutto, Mattarella riterrà opportuno sciogliere le Camere e far gestire il G7 di fine maggio in Italia, sotto presidenza italiana, da un governo dimissionario, con una campagna elettorale in corso? Sono domande che troveranno risposta solo nelle prossime settimane. AVVENIRE Pag 1 Il governo dei doveri di Marco Tarquinio Una strada segnata La crisi è finita. Il Governo Gentiloni è nato e si sta mettendo, anzi sta tornando, al lavoro. La maggioranza, infatti, è in pratica la stessa che aveva retto nei «mille giorni» di Matteo Renzi, con gli stessi problemi interni, un paio di pezzi in meno (i verdiniani e ciò che resta di Scelta Civica) e un orizzonte temporale ristretto. E la compagine ministeriale le somiglia come una goccia d’acqua. Limitatissime le novità, in attesa di viceministri e sottosegretari. Un pesante cambio di poltrona: Angelino Alfano passa dalla guida dell’Interno a quella degli Esteri. Un debutto: Valeria Fedeli all’Istruzione. Un ritorno dopo diciott’anni: Anna Finocchiaro ai Rapporti col Parlamento. Due promozioni da sottosegretario a ministro: Marco Minniti all’Interno, Claudio De Vincenti alla Coesione territoriale e Mezzogiorno. E una promozione da ministro a sottosegretariosegretario di governo per Maria Elena Boschi. Adesso saranno le due Camere a decidere sulla fiducia, perché questo è il loro potere esclusivo e condiviso, secondo la Costituzione che gli italiani hanno confermato votando No al referendum. Molto sembra uguale, dunque, eppure tutto è cambiato. Perché siamo passati da un 'Governo dei poteri' a un 'Governo dei doveri'. Matteo Renzi era arrivato nel 2014 alla presidenza del Consiglio proiettando l’idea del cambiamento forte e possibile pur in una Legislatura che appena un anno prima era nata ingovernabile. Paolo Gentiloni gli succede, col suo stile misurato e consapevole, mentre il Parlamento è (in diversi sensi) a un passo dal pensionamento, e il dossier delle priorità stringenti non dà spazio ad altro – appunto – che a questi doveri, messi giustamente in primo piano dal presidente Mattarella. Dal sostegno ai terremotati e alla ricostruzione nel Centro Italia, all’applicazione di una legge di bilancio che contiene finalmente anche un primo pacchetto di misure organiche anti-povertà, ma che è motivo di un duro braccio di ferro con la Ue; dalla patata bollente (economicofinanziaria e morale) del Monte dei Paschi in crisi a una intensa serie di appuntamenti internazionali: ingresso nel Consiglio Onu (gennaio), preparazione dell’eurovertice di Roma (marzo) e della presidenza del G7 di Taormina (maggio). E, da ultimo, ma solo per elencazione, il dovere definitivo della XVII Legislatura: una legge elettorale che restituisca agli elettori il potere di scegliere gli eletti e consenta di rappresentare davvero e secondo giusta proporzione la realtà italiana. Non onorare questi doveri, soprattutto il primo (i poveri) e l’ultimo (regole del voto a misura di cittadini, non solo di potenti) segnerebbe non solo il fallimento di un governo e di quel che resta della XVII Legislatura, ma la premessa per l’archiviazione ingloriosa – e già rabbiosamente incombente – di un’intera stagione politica. Pag 3 L’80esima crisi in 73 anni. Tutti i numeri del governo di Marco Olivetti Analogie e differenze con le vicende politiche del passato La crisi di governo apertasi il 7 dicembre con le dimissioni del governo Renzi e conclusasi con la formazione del nuovo esecutivo, guidato da Paolo Gentiloni, è stata una delle più brevi della storia della Repubblica: appena 5 giorni, giustificando la definizione di 'crisilampo'. Essa presenta alcune caratteristiche che la assimilano ed altre che la differenziano dalle numerosissime crisi di governo che hanno preceduto quella appena conclusa. Anzitutto il numero: dall’11 maggio 1948, data in cui le Camere elette il 18 aprile precedente elessero presidente della Repubblica Luigi Einaudi, consentendogli di gestire (seguendo una procedura allora molto discussa, a metà fra un rimpasto e una crisi) la formazione del primo governo sotto la vigenza della nuova Costituzione, le crisi di governo in Italia sono state ben 70. Di esse, 61 sono state crisi nel senso pieno del termine, vale a dire fasi della vita istituzionale in cui un Governo si è dimesso e si sono seguite le procedure per la formazione di un nuovo governo, che si è poi effettivamente formato. Ma a queste vanno aggiunte altre 9 crisi che si possono definire 'rientrate', vale a dire fasi di crisi, aperte dalle dimissioni dell’Esecutivo, ma poi chiusesi con il rinvio alle Camere del Governo uscente e con la sua sopravvivenza in carica: questi casi si sono verificati nel 1957 con il governo Zoli, nel marzo 1960 con il governo Tambroni, nel 1974 con il V governo Rumor, nel 1985 con il I governo Craxi (la crisi dell’Achille Lauro), due volte (novembre 1987 e febbraio 1988) con il breve governo Goria, alla fine del 1995 con il governo Dini, nel 1997 e nel 2007 con il governo Prodi. Ma il numero delle crisi sale ancora se consideriamo anche quelle che hanno immediatamente preceduto l’entrata in vigore della Costituzione: esso diventa di 73 se si prende come data di inizio la nascita della Repubblica (2 giugno 1946), 75 se si muove dalla Liberazione (25 aprile 1945) e addirittura di 80 se si prende come data di inizio la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. 80 crisi in 73 anni: un numero che giustifica il titolo di un ormai vecchio libro di uno dei massimi esperti del settore, Giulio Andreotti ('Governare con la crisi'). Solo 12 dei 74 anni solari succedutisi dal 1943 al 2016 non hanno visto nessuna crisi di governo. Nei numeri sopra indicati non sono invece contati i casi in cui il Presidente del Consiglio ha offerto le dimissioni al Presidente della Repubblica, come di solito accadeva al momento dell’elezione del Capo dello Stato, in omaggio ad una tradizione monarchica: in questi casi, infatti, la crisi non si apriva neppure. Lo stesso può dirsi per i rimpasti di governo, vale a dire per la sostituzione di uno o più ministri: se ne è avuto qualche esempio anche nel governo Renzi (uno di essi ha portato alla Farnesina Paolo Gentiloni). Al di là dei numeri, quali particolarità ha avuto la crisi del 2016? È stata la prima crisi della presidenza di Sergio Mattarella, iniziata il 3 febbraio 2015: e l’attuale Capo dello Stato ha potuto godere del periodo più lungo – 22 mesi – fra la sua elezione e una crisi di governo rispetto a tutti i suoi predecessori, superando Giuseppe Saragat (il quale, eletto nel dicembre 1964, affrontò la prima crisi di governo, quella fra il II e il III governo Moro, nel gennaio 1966): un dato non marginale se si ricorda che in passato il neo-eletto Presidente della Repubblica ha dovuto affrontare una crisi subito dopo l’insediamento al Quirinale (Einaudi nel 1948, Gronchi nel 1955, Leone nel 1972, Scalfaro nel 1992, Napolitano nel 2006 e nel 2013). Per la seconda volta nella storia della Repubblica, la crisi è stata aperta dal risultato di un referendum: era già accaduto dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (allora il II governo De Gasperi successe al I). Dopo di allora, nessun governo si era mai dimesso in seguito a un voto referendario (anche perché i referendum costituzionali sono stati solo 3 e quelli abrogativi hanno raramente visto la vittoria dei Sì). Nel 1974, il segretario della Dc Fanfani fu travolto all’esito del referendum sul divorzio: ma in quella occasione il politico aretino (che guidò ben sei governi fra il 1954 e il 1987) non era a Palazzo Chigi. Forse il passaggio di questi giorni può ricordare le dimissioni del governo dopo una sconfitta della sua coalizione in elezioni amministrative, di cui si possono citare casi recenti: quello del 2000 (dimissioni del II governo D’Alema e formazione del I governo Amato) e quello del 2005 (dimissioni imposte dall’Udc al II governo Berlusconi e formazione del III esecutivo guidato dal leader di Forza Italia). Non è stata invece la prima crisi aperta subito dopo un voto parlamentare di conferma della fiducia al governo: accadde già con il II governo Cossiga e con il I governo Craxi. È stata, in fondo, una crisi assai lineare: non ha dovuto passare per passaggi intermedi come il preincarico (l’ultima volta: Bersani nel 2013), il mandato esplorativo (l’ultima volta: Marini nel 2008, anche se in quel caso la distinzione col preincarico era assai problematica), un incarico seguito da rinuncia (l’ultima volta: Maccanico nel 1996) o il rinvio alle Camere del governo dimissionario (l’ultima volta: Prodi nel 2007). La crisi – come in altri 40 casi dal 1948 a oggi – si è risolta con un cambiamento del Presidente del Consiglio (negli altri casi il titolare di Palazzo Chigi successe a se stesso) e, in particolare, con la nomina alla presidenza di un ministro del governo uscente: non accadeva dal 2000 (successione del II governo Amato al II governo D’Alema), ma questa pratica era invece stata assai frequente prima del 1992. Paolo Gentiloni è il 28° inquilino della Presidenza dall’entrata in vigore della Costituzione. I l governo appena formato è in forte continuità col precedente dal punto di vista della composizione: ma neanche questa è una novità assoluta. Vicende analoghe sono accadute in altri esecutivi di fine legislatura, come i governi Amato II e Berlusconi III, rispettivamente nel 2000 e nel 2005, anche se sarà difficile eguagliare il 'governo fotocopia' formato nell’estate 1982 da Giovanni Spadolini: il II esecutivo formato dal leader repubblicano era identico al I, dimessosi poco prima (il governo dell’Italia campione del mondo!). In quel caso solo un componente dell’esecutivo fu sostituito: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Francesco Compagna, era infatti morto subito prima dell’apertura della crisi. Verosimilmente il nuovo esecutivo otterrà la fiducia delle due Camere: è sempre successo per i 60 che lo hanno preceduto, tranne che in cinque casi: l’VIII governo De Gasperi nel luglio 1953, il I governo Fanfani nel gennaio 1954, il I governo Andreotti nel gennaio 1972, il V governo Andreotti nel marzo 1979 e il VI governo Fanfani nell’aprile 1987. Pag 11 Squadra che perde cambia poco: Matteo “pesa” ancora nel governo. Così si gioca la partita del Nazareno di Danilo Paolini Al governo il vero cambiamento è all’Istruzione, dove la rimozione di Stefania Giannini, con l’arrivo di Valeria Fedeli, sa tanto di bocciatura. Per il resto, Gentiloni si è limitato a gestire l’effetto domino innescato dalle dimissioni di Matteo Renzi dalla Presidenza del Consiglio: con lui fuori dalla Farnesina, ecco Angelino Alfano e, all’Interno, Marco Minniti. Per quest’ultimo, da sempre esperto di sicurezza e di servizi segreti, si può dire senza tema di smentita che ieri si è avverato un sogno politico. Per il resto, aspettiamo le nomine dei vari sottosegretari. Si potrebbe concludere che squadra che ha perso (il referendum) cambia poco, pochissimo. Anche con un occhio ai difficili equilibri interni al Pd. Certo, si spostano i due fedelissimi di Matteo Renzi. Ma sembra davvero difficile parlare di un silura- mento per Maria Elena Boschi, intanto perché l’incarico alle Riforme si è esaurito con il voto del 4 dicembre (mentre i Rapporti con il Parlamento vanno all’esperta Anna Finocchiaro) e poi perché resta nel governo con il ruolo chiave di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Prende il posto di Claudio De Vincenti, divenuto comunque ministro per la Coesione territoriale e per il Sud. Lo stesso discorso vale per l’altro renziano doc, Luca Lotti, che anzi da sottosegretario a Palazzo Chigi diventa ministro (dello Sport). Rimangono al loro posto per l’Economia Pier Carlo Padoan, e su questo c’erano pochi dubbi, ma anche, per il Lavoro e il Welfare, Maurizio Poletti, dato per partente dalla gran parte dei pronostici. Insomma, il governo Gentiloni nasce nel chiaro segno della continuità con il precedente esecutivo Renzi. Quest’ultimo non c’è più, ma 'pesa' ancora. Vista la dinamica della crisi di governo e la comprensibile sollecitudine con la quale è stata chiusa, era nelle cose. Ma è chiaro che per il segretario del Pd è questa una buona carta da giocarsi nella partita per restare alla guida del partito. La vera sfida per Paolo Gentiloni, invece, è quella di «accompagnare» e «facilitare» (per usare le sue stesse parole) i provvedimenti urgenti rimasti in sospeso e, se possibile, la riforma delle legge elettorali per la Camera e per il Senato. Per fare senza «galleggiare», per citare stavolta lo stesso Renzi. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Zanetti, il veneziano escluso ora mette a rischio il governo. Il rebus dei sottosegretari di Giovanni Viafora Le nomine e gli scenari. Nessun veneto nell’esecutivo Venezia. Non c’è nessun veneto nel nuovo governo guidato da Paolo Gentiloni. E poco male, visto che nessun veneto compariva nemmeno nell’esecutivo Renzi (tra i ministri, si intende). Ma questa volta a fare notizia è proprio chi non c’è. Parliamo, ovviamente, di Enrico Zanetti, l’ex viceministro all’Economia che, dopo aver spaccato Scelta Civica, alleandosi alla Camera con Denis Verdini, covava la non troppo minuta ambizione di essere promosso alla guida di un dicastero. E invece niente, come si è visto. Il punto è che l’esclusione di Zanetti, 43 anni, commercialista veneziano, che doveva essere l’uomo di rappresentanza dell’area composta da verdiniani ed ex montiani («Ala-Sc»), ha creato un vero caso politico. Che rischia di mettere subito in difficoltà il neonato esecutivo. Raramente si era visto, d’altronde, un messaggio come quello inviato ieri proprio dallo stesso Zanetti, con Verdini, all’indirizzo del primo ministro incaricato, a pochi minuti dalla presentazione delle liste al Capo dello Stato. Annusata l’aria dell’esclusione, infatti, la coppia faceva capire di non essere disposta a votare la fiducia, qualora non fosse giustamente rappresentata all’interno dell’esecutivo. Una mossa audace, quasi temeraria. «Apprendiamo la seria possibilità che venga varato un governo “fotocopia” scrivevano i due - senza alcun approfondimento sulle questioni in campo. Di conseguenza, in coerenza con un’azione che in questi ultimi diciassette mesi ha assicurato al Paese la governabilità e la realizzazione di importanti provvedimenti senza alcuna contropartita, non voteremo la fiducia a un governo che ci pare al momento intenzionato a mantenere uno status quo, che più dignitosamente sarebbe stato comprensibile con un governo Renzi-bis». Quasi una sfida. Che per qualche minuto ha pure messo in difficoltà lo stesso Gentiloni e che ha rallentato le operazioni di annuncio dei nuovi ministri (l’incontro con Mattarella si è protratto per più di un’ora). Si era pensato, ad un certo punto, che la pressione di Zanetti e Verdini avrebbe potuto far rivedere all’ultimo la lista dei ministri. Attorno alle 19, invece, la questione si è chiarita: nessuna concessione al gruppo centrista, ed anzi confermata l’esclusione di Zanetti. E ora dunque si fanno i conti: all’ultimo voto di fiducia a Palazzo Madama, lo scorso 7 dicembre Renzi aveva incassato 173 voti. Di questi decisivi sono stati i voti favorevoli proprio di «Ala-Sc», che al Senato conta 18 membri. Con i numeri di quella votazione, ma senza «Ala-Sc», la maggioranza finirebbe a quota 155, sotto la quota di sopravvivenza. Zanetti, tuttavia, di suo, conta solo quattro deputati alla Camera (dove però non c’è partita perché il Pd è forte): cioè oltre a se stesso, i tre che lo hanno seguito dalla «scissione» di Scelta Civica (Rabino, Sottanelli, D’Agostino). L’attesa quindi è per la fiducia: Verdini-Zanetti potrebbero «rientrare», magari con la nomina di un nutrito gruppo di sottosegretari e/o viceministri (tra cui lo stesso Zanetti all’Economia)? Possibile. In realtà, ieri sera, circolava anche un’altra voce, che sarebbe clamorosa. Quella di una rottura tra Verdini e Zanetti: secondo alcune fonti l’ex Forza Italia si sarebbe accordato con il premier per avere dei sottosegretari tutti di «Ala», a spese proprio di Zanetti, che verrebbe in questo modo scaricato. Una «trappola» per il veneziano, che è tra i fondatori di Scelta Civica (prima del grande strappo con Mario Monti, a cui ha tolto anche il simbolo e il nome del partito). Se sia fantapolitica o vero tatticismo, lo scopriremo presto. Intanto nelle prossime ore si aprirà proprio la partita dei sottosegretari. Anche in questo caso molto dipenderà da quanto siano eventualmente riusciti ad ottenere Verdini-Zanetti (o solo uno dei due). Ieri venivano dati in fase di conferma i veneti: cioè Pierpaolo Baretta all’Economia («Ha in mano la questione delle banche in crisi, non è possibile rinunciare a uno come lui», si vociferava ieri a Roma); Gianclaudio Bressa agli Affari Regionali; Barbara Degani all’Ambiente. È chiaro che se «Ala-Sc», in cambio della rinuncia a Zanetti, avrà più di 3-4 pedine, tutto potrebbe essere rimesso in ballo. Difficili invece nuovi innesti di veneti: ieri era circolata per qualche ora la voce di un inserimento del sindaco di Verona Flavio Tosi (agli Affari Regionali?), che molto si era speso a favore del referendum costituzionale. Difficile, però, che la cosa vada in porto: la presunta «contropartita» a Tosi, per l’impegno nella campagna referendaria, sarebbe stata quella di un inserimento nel decreto milleproroghe del provvedimento che gli consentirebbe un terzo mandato da sindaco. Ma con la vittoria del No si è tutto complicato. In Veneto, invece, è stata accolta positivamente la riconferma di Graziano Delrio alle Infrastrutture, che sta seguendo i dossier Tav e Pedemontana. IL GAZZETTINO Pag 1 Il rischio della palude permanente di Marco Gervasoni Alla Prima Repubblica non si ritornerà perché la storia non procede a ritroso, di certo però il linguaggio di questi giorni suona come un déjà vu. La parola delle ultime ore è stata infatti «discontinuità», per rivendicare o criticare le somiglianze tra il nuovo e il vecchio governo, tra Renzi e Gentiloni. La discussione ci sembra mal posta. Il nuovo governo, avviato con una meritoria operazione lampo che ricorda la velocità renziana, è sostenuto e voluto dal Pd, di cui Renzi è ancora segretario: difficile definirlo fotocopia ma certo rispecchia i desiderata del suo leader, almeno in una repubblica parlamentare come la nostra, che ha sempre funzionato da specchio dei partiti, in cui la volontà delle Camere è nei fatti dipendente dalle loro segreterie. Il Pd che sostiene Gentiloni, e qui è una prima novità, non è però lo stesso di una settimana fa. Come si è visto nella Direzione di ieri, la sinistra ha mostrato un rinnovato protagonismo, di cui non si sentiva la mancanza, fino quasi a volersi intestare il 60% dei No e a dichiarare che il governo sarà da sostenere solo fin quando prenderà misure condivise dalla corrente. La confusione che ha tradizionalmente caratterizzato il Pd, e che era sembrata superata negli ultimi anni con il domatore Renzi, non mancherà di farsi sentire sull'esecutivo, certo non rafforzandolo. Il sollevamento della sinistra Pd, è accompagnato sul fronte opposto della maggioranza uscente dalla promessa minacciosa di Verdini di non votare la fiducia, apporto prezioso anche se fino ad oggi non determinante al Senato. La minaccia più esplicita in realtà arriva da Bersani quando avverte che su certi provvedimenti «dovranno convincerci». Chiarito questo, come si colloca il governo rispetto al suo predecessore? A guardare i ministri, sembrerebbe un semplice rimpasto - in fondo ha perso il posto la sola Giannini. E tuttavia non è così. L'esecutivo guidato da un uomo del dialogo, un tessitore di natura, mantiene i suoi confini ma vede alle estreme latitudini accesi due fuochi che annunciano potenziali turbolenze. Ci sono segnali di maggiore attenzione al tradizionale mondo della sinistra. In tal senso vanno le nomine di Valeria Fedeli all'Istruzione, per recuperare l'elettorato storico dei professori deluso dalla riforma della Buona Scuola, e il ritorno del Viminale al Pd, anche se Minniti è figura consapevole di dover affrontare con rigore la questione immigrazione. V'è una maggiore attenzione al Sud, dopo i numeri devastanti del No nel Mezzogiorno, che attende segnali e risposte concrete. La differenza più macroscopica? L'assenza di Renzi anche se la conferma di due suoi fedelissimi come la Boschi e Lotti mantengono il sigillo politico renziano al nuovo esecutivo. L'ex premier a Palazzo Chigi ha agito non come primus inter pares ma come capo del governo all'inglese, in un rapporto di evidente supremazia politica rispetto agli altri ministri - da qui anche l'accentramento nel suo staff di dossier propri ad altri dicasteri. Un metodo dettato anche del ruolo di segretario del partito di maggioranza. La prima impressione è insomma che la vita del governo sarà scandita da potenziali turbolenze, il che richiederà a Gentiloni tutte le sue doti di mediazione, tra le spinte verso sinistra e quelle verso destra, tra Bersani da un lato e Verdini dall'altro. L'orizzonte, dunque, che accompagnerà anche la scrittura della nuova legge elettorale, non sembra avere i presupposti di lunga durata. Il traguardo di giugno sembrerebbe realistico, salvo che il partito del non voto (molto trasversale) non abbia il sopravvento sulle spinte centrifughe. Oggi è largamente maggioritario tra Camera e Senato. Lo capiremo a fine gennaio. Pag 3 L’impronta di Renzi e i fronti ancora aperti di Marco Conti Partenza in salita per il governo Gentiloni che con la stessa maggioranza del suo predecessore, e un orizzonte non di lungo periodo, forse non poteva fare molto di più. Le opposizioni definiscono il nuovo esecutivo una sorte di Renzi-bis. Un «governofotocopia» che si sarebbe potuto scongiurare se l'appello al governo di tutti avesse avuto maggior fortuna. Oppure se al governo fosse entrato Verdini. La prima ipotesi non ha tentato nessuno dei partiti d'opposizione mentre la seconda sarebbe stata indigeribile per il Pd renziano che si avvicina a passo veloce verso il congresso e vuole togliere alla minoranza quanto più spazio possibile. Una scelta, quella di tenere fuori Ala, che segnala una profonda sintonia tra Gentiloni e Renzi che nei tre anni di governo aveva tenuto fuori Ala dal Consiglio dei ministri. Così sarà anche questa volta anche perché, malgrado facciano gruppo insieme, una cosa è Verdini (Ala) e una cosa Scelta Civica (Zanetti). Il tentativo fatto da Verdini - ammesso sia mai stato vero e non si puntasse a far entrare Saverio Romano - di risolvere la questione proponendo, Marcello Pera o Giuliano Urbani, non risolveva il problema dell'allargamento della maggioranza che sarebbe avvenuto a dispetto delle scelte fatte dal Pd ad inizio legislatura. Né è bastata l'idea, tentata dal premier durante la sua salita al Quirinale, di risolvere le minacciose promesse dei verdiniani di non votare la fiducia, proponendo a Zanetti la delega agli Affari Regionali che è poi rimasta nelle mani di Enrico Costa. Pochi aggiustamenti, alcuni chirurgici, che ripropongono lo stesso schema che nel 2000 si ebbe quando si passò dal secondo governo D'Alema al governo Amato che poi portò il Paese alle urne. Anche allora, come oggi, si è cambiato poco proprio perché la legislatura stava finendo e la vittoria del centrodestra di Berlusconi era data come molto probabile. Pallottoliere alla mano il governo Gentiloni a palazzo Madama i numeri li ha. Non solo perché il senatore Naccarato (Gal) è pronto a far scendere in campo «gli stabilizzatori». Infatti senza Verdini la maggioranza si attesta a quota 168. I più ottimisti sostengono che oggi potrebbe anche superare i 170 anche perché i verdiniani, forse più di Forza Italia, hanno il terrore delle urne. Discorso uguale si potrebbe fare per la minoranza del Pd, viste le parole di Pierluigi Bersani che ha promesso di valutare «volta per volta» quali provvedimenti votare. Senza Ala e con la sinistra del Pd sul piede di guerra anche in vista del congresso e della trattativa sulla legge elettorale, il percorso del governo e della maggioranza si fa al Senato più complicato e le richieste di numero legale fioccheranno. Seppur la struttura resta la stessa del governo Renzi, nasce un governo fragile con l'obiettivo, che Gentiloni sottolinea, dopo aver sciolto la riserva a Sergio Mattarella, «di facilitare il lavoro delle diverse forze parlamentari volto a individuare nuove regole per la legge elettorale». Un cambio di passo rispetto a quanto sostenuto dal premier in maniera più sfumata al momento dell'accettazione. Una promessa frutto forse dei colloqui avuti con le forze politiche di maggioranza e di opposizione e dell'atteggiamento tenuto da Lega e M5S che hanno disertato l'appuntamento. Un esecutivo che di fatto si riconferma nella linea «dell'innovazione svolta dal governo Renzi», come ha detto Gentiloni accettando l'incarico, non poteva tenere fuori Maria Elena Boschi. Un intento punitivo, nei confronti dell'ormai ex ministro che ha dato il nome alla riforma costituzionale poi bocciata, indigeribile per il Pd renziano che non sembra voler arretrare sulla necessità che ha il Paese di dotarsi di un sistema istituzionale più efficiente. La Boschi trasloca a palazzo Chigi, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in virtù della conoscenza acquisita da ministro delle principali riforme e dei provvedimenti del precedente governo. Un cambio con Luca Lotti che invece diventa ministro, con delega allo Sport e all'Editoria, che indica una continuità e una sintonia tra palazzo Chigi e largo del Nazareno visibile anche nella scelta di cambiare laddove il Pd soffre di più elettoralmente. Ovvero nel mondo della scuola, storico bacino dei partiti di centrosinistra, e nel Mezzogiorno che da ieri ha un ministro tutto suo (De Vincenti). LA NUOVA Pag 1 Veneto senza ministri e leader di Paolo Possamai «Come si può vedere dalla sua composizione, il governo proseguirà nell’azione di innovazione» del governo Renzi. Con queste parole Paolo Gentiloni ha iniziato ieri il suo mandato da premier, dopo aver sciolto la riserva da presidente del Consiglio incaricato. E ha aggiunto: «Ho messo tutto il mio impegno per la soluzione più rapida possibile» della crisi. Le due considerazioni vanno colte insieme. Rapidità e continuità. Ma a latere del concetto di continuità dobbiamo osservare, in premessa di queste righe, che il Veneto continua a pesare zero. Nemmeno un ministro in una squadra largamente coincidente con la formazione schierata da Matteo Renzi. Al sostantivo rapidità, che Gentiloni ovviamente ha messo in relazione ai tempi davvero stretti con cui ha provveduto a risolvere la crisi, vogliamo associare un auspicio: che il nuovo esecutivo esegua celermente e al meglio la propria missione, e gli elettori possano quanto prima essere dunque chiamati a esprimere il proprio orientamento. In questione è la legittimazione di chi sta al governo e pure di chi siede in Parlamento. Non è nemmeno da prendere sul serio l’ipotesi che una maggioranza trasversale di parlamentari (quasi) d’ogni colore tiri a campare oltre settembre, con il solo e indichiarabile scopo di accedere al vitalizio. Indispensabile e di massima urgenza è la messa in ordine della legge elettorale, poiché solo gli sfascisti più grossolani possono sostenere che occorre andare subito alle urne, anche se oggi sono differenti i sistemi che definiscono la maggioranza alla Camera e al Senato. Un puro principio di buon senso pretende che la legge elettorale sia riformata e uniformata. Ne è persuaso pure il neo premier, il quale assicura che «il governo si adopererà per aiutare il lavoro tra le forze politiche per l’estensione delle nuove regole elettorali». Bene. La riforma delle regole elettorali, il presidio dell’economia e dell’assetto delle banche, la rappresentanza degli interessi nazionali in sede comunitaria. L’elenco delle priorità assolute è breve. Perché breve deve essere il lasso di tempo in cui questa opera urgente ed emergenziale deve essere eseguita. Resta una riflessione riguardo alla sparizione del Veneto dai radar della politica. Sparizione certificata ancora una volta dal nuovo team ministeriale. Che Renzi sia passato da queste parti numerose volte e che abbia dimostrato qualche attenzione per le peculiarità della comunità e del territorio veneti, non sposta di un millimetro il fatto che mai prima una delle regioni fondamentali, una delle più avanzate e delle più esposte sulla scena internazionale è stata così brutalmente sotto-rappresentata. Dipende dalla pessima reputazione che ci siamo conquistati, per esempio nella gestione della cosa pubblica (Mose) così come nelle maggiori partite finanziarie (banche popolari). Ma se non sapremo prenderne coscienza, non potremo nemmeno provare a ricostruire un progetto politico e un ceto dirigente degno del nome. Quanto alla Lega, a mio modo di vedere trova il proprio massimo lucro proprio nel fatto che il Veneto non conta nulla a Roma. Roma ladrona. Roma matrigna infida e distratta. Consenso garantito con questa tesi retorica. Declino altrettanto garantito per questo pezzo d’Italia orfano di leader. Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Santa Lucia: messa solenne a San Geremia con il Patriarca Moraglia Oggi, per la festa di Santa Lucia, le cui reliquie sono custodite proprio a Venezia nella chiesa dei Ss. Geremia e Lucia in Lista di Spagna, alle ore 17, messa solenne presieduta dal patriarca Francesco Moraglia. Dalle 8 alle 18, previste una serie di funzioni religiose dedicate al culto della Santa e numerosi sacerdoti a disposizione per i fedeli. LA NUOVA Pag 21 Il Patriarca celebra Santa Lucia di n.d.l. Per onorare la patrona della vista “riaggiustato” anche il crocifisso Ricorre oggi la festa di Santa Lucia, che ogni anno richiama in laguna migliaia e migliaia di pellegrini. E' un giorno speciale per la città, in particolare per la chiesa parrocchiale dei Santi Geremia e Lucia, che si trova ad alcune centinaia di metri della stazione ferroviaria, che tra l’altro prende proprio il nome della santa, e che custodisce le reliquie della martire siracusana, protettrice della vista e venerata da cattolici e ortodossi. Mentre in chiesa fervono gli ultimi preparativi con il prezioso aiuto dei numerosi volontari, in campo gli ambulanti hanno già stati allestito i banchetti con le tradizionali candele. In calendario sono previste numerose celebrazioni. Alle 17 il patriarca Francesco Moraglia presiede la messa solenne. Queste le altre celebrazioni previste: ore 8 con i padri canossiani di San Giobbe; ore 9; ore 10 con monsignor Antonio Meneguolo e il Capitolo della Cattedrale di San Marco; ore 11, 12, 13 con gli ottici, gli optometrici e gli elettricisti; ore 15 con don Orlando Barbaro e la partecipazione del Movimento Apostolico Ciechi; ore 16 con don Stefano Costantini, vicario foraneo di Cannaregio Estuario; ore 18 per i giovani del vicariato e infine alle ore 19. Per la festa di Santa Lucia don Renzo Scarpa ha ricollocato in chiesa il grande crocifisso che la scorsa estate un vandalo, farfugliando frasi sconnesse, aveva scaraventato a terra spezzando il braccio del Cristo. «E' stato solo aggiustato alla meglio», spiega don Scarpa, «Successivamente si procederà al restauro vero e proprio al quale vengono in aiuto il Consolato francese di Venezia e l'Ordine militare del Cavalieri del Collare d'Aragona. La spesa ammonta a circa mille euro». E poi il sacerdote ricorda: «Lo scorso anno, in questo giorno, il patriarca Moraglia apriva la Porta Santa in Basilica di San Marco, in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco". Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 L’unica e vera via di g.m.v. C’è soprattutto Paolo VI sullo sfondo del messaggio del Papa per la cinquantesima giornata mondiale della pace. Fu infatti Montini, mezzo secolo fa, ad avere l’intuizione di un’iniziativa del tutto nuova nella Chiesa, quella cioè di una proposta non «esclusivamente nostra» scriveva nel testo fondativo a cui oggi il suo successore si richiama, perché «vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria». Insomma, «lanciare l’idea», da parte cattolica, «con intenzione di servizio e di esempio», senza pretese di annessione o di egemonia. Testimone in prima persona dei due tragici conflitti nati in Europa e della divisione successiva del vecchio continente, durante il pontificato Paolo VI ebbe acuta l’esigenza della pace, come appare subito nel grande discorso davanti alle Nazioni unite. Allo stesso modo Francesco, che le due guerre mondiali non ha invece vissuto, ne denuncia oggi con forza una terza, definita con immediata efficacia «a pezzi». E l’enumerazione nel nuovo messaggio («guerre in diversi paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente») conferma lo sguardo globale del Pontefice. Una visione che è tragicamente confermata dal susseguirsi implacabile di notizie tremende su attentati efferati che si ripetono, versando sangue su sangue: in Turchia, in Egitto, in Nigeria, in Somalia. Crimini che sgomentano per la loro spietatezza, non si fermano nemmeno davanti a fedeli in preghiera, come nella chiesa cairota a ridosso della cattedrale copta, e arrivano a utilizzare bambini e donne come strumenti di morte, in Nigeria e nella regione mediorientale, dove le vittime della guerra che dura ormai da quasi sei anni sono centinaia di migliaia. Di fronte a questo panorama tragico, come motivo conduttore della riflessione per la giornata mondiale il Papa addita la non violenza «come stile di una politica di pace». Un’indicazione che si richiama a quelle dei predecessori: di Benedetto XVI, che sottolineava il realismo della scelta non violenta perché «nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia» per aggiungerne altra; di Giovanni Paolo II, di fronte alla rivoluzione che portò al disfacimento dei regimi comunisti europei, auspicata «mediante una lotta pacifica». Con accentuazioni che, in perfetta coerenza con la politica della Santa Sede, sono privilegiate da Papa Francesco, come l’additare a esempio figure non cattoliche celebrate per la scelta della non violenza come via alla pace, da Gandhi ad Abdul Ghaffar Khan fino a Luther King. E molto significativi sono il riconoscimento e l’omaggio che il Pontefice riserva alle donne: tra loro, Leymah Gbowee e altre migliaia di liberiane. Oltre a una protagonista del Novecento che proprio Bergoglio ha proclamato santa nel cuore dell’anno santo dedicato alla misericordia, e cioè madre Teresa. È la pace «l’unica e vera linea dell’umano progresso» scriveva Montini, ripreso oggi dal suo successore che, come lui, vede oggi sopravvivere egoismi, crescere violenze e armamenti. Mentre è urgente «una nuova pedagogia», che è «nel genio della religione cristiana» e ripete ancora, senza «falsa retorica» e senza stancarsi: «Occorre sempre parlare di pace». Pagg 4 – 5 La non violenza stile di una politica per la pace Per la giornata mondiale della pace il papa invoca un cambiamento nei rapporti personali, sociali e internazionali La «nonviolenza attiva e creativa» come «stile di vita» nei rapporti interpersonali, sociali e internazionali è al centro del messaggio del Papa per la cinquantesima giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio 2017. LA NONVIOLENZA: STILE DI UNA POLITICA PER LA PACE 1. All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»1 e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita. Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».2 Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa. In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme. Un mondo frantumato 2. Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa. In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti. La Buona Notizia 3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr. Mt 5, 44) e a porgere l’altra guancia (cfr. Mt 5, 39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr. Gv 8, 1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr. Mt 26, 52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr. Ef 2, 14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».3 Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa - come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI - «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».4 Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».5 Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr. Lc 6, 27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male [...] ma nel rispondere al male con il bene (cfr. Rm 12, 17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».6 Più potente della violenza 4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri [...] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».7 Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».8 Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. [...] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini - dinanzi ai crimini! della povertà creata da loro stessi».9 In risposta, la sua missione - e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone - è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata. La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia. Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».10 Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».11 La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura. Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».12 Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».13 La violenza è una profanazione del nome di Dio.14 Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».15 La radice domestica di una politica nonviolenta 5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.16 Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.17 D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.18 Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini. Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».19 Il mio invito 6. La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr. Mt 5, 3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti - dice Gesù -, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia. Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».20 Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.21 Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».22 Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».23 Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace. In conclusione 7. Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr. Lc 2, 14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida. «Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».24 Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».25 Dal Vaticano, 8 dicembre 2016 1 Esort. ap. Evangelii gaudium, 228. 2 Messaggio per la celebrazione della 1ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 1968. 3 «Leggenda dei tre compagni»: Fonti Francescane, n. 1469. 4 Angelus, 18 febbraio 2007. 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Madre Teresa, Discorso per il Premio Nobel, 11 dicembre 1979. 8 Meditazione “La strada della pace”, Cappella della Domus Sanctae Marthae, 19 novembre 2015. 9 Omelia per la canonizzazione della Beata Madre Teresa di Calcutta, 4 settembre 2016. 10 N. 23. 11 Ibid. 12 Discorso nell’Udienza interreligiosa, 3 novembre 2016. 13 Discorso al 3° Incontro mondiale dei movimenti popolari, 5 novembre 2016. 14 Cfr. Discorso nell’Incontro con lo Sceicco dei Musulmani del Caucaso e con Rappresentanti delle altre Comunità religiose, Baku, 2 ottobre 2016. 15 Discorso, Assisi, 20 settembre 2016. 16 Cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 90-130. 17 Cfr. ibid., 133.194.234. 18 Cfr. Messaggio in occasione della Conferenza sull’impatto umanitario delle armi nucleari, 7 dicembre 2014. 19 Enc. Laudato si’, 230. 20 Esort. ap. Evangelii gaudium, 227. 21 Cfr. Enc. Laudato si’, 16.117.138. 22 Esort. ap. Evangelii gaudium, 228. 23 Lettera apostolica in forma di “Motu proprio” con la quale si istituisce il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, 17 agosto 2016. 24 Regina Caeli, Betlemme, 25 maggio 2014. 25 Appello, Assisi, 20 settembre 2016. Pag 5 Lanciare l’idea Il messaggio di Paolo VI dell’8 dicembre 1967 Ci rivolgiamo a tutti gli uomini di buona volontà per esortarli a celebrare «La giornata della pace», in tutto il mondo, il primo giorno dell’anno civile, 1° gennaio 1968. Sarebbe nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa - all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo - che sia la pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo svolgimento della storia avvenire. Noi pensiamo che la proposta interpreti le aspirazioni dei popoli, dei loro governanti, degli enti internazionali che attendono a conservare la pace nel mondo, delle Istituzioni religiose tanto interessate alla promozione della pace, dei movimenti culturali, politici e sociali che della pace fanno il loro ideale, della gioventù - in cui più viva è la perspicacia delle vie nuove della civiltà, doverosamente orientate verso un suo pacifico sviluppo - degli uomini saggi che vedono quanto oggi la pace sia al tempo stesso necessaria e minacciata. La proposta di dedicare alla pace il primo giorno dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all’indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza d’ogni voce nel mondo per l’esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità. La Chiesa cattolica, con intenzione di servizio e di esempio, vuole semplicemente «lanciare l’idea», nella speranza ch’essa raccolga non solo il più largo consenso del mondo civile, ma che tale idea trovi dappertutto promotori molteplici, abili e validi a imprimere nella «giornata della pace», da celebrarsi alle calende d’ogni anno nuovo, quel sincero e forte carattere d’umanità cosciente e redenta dai suoi tristi e fatali conflitti bellici, che sappia dare alla storia del mondo un più felice svolgimento ordinato e civile. La Chiesa cattolica provvederà a richiamare i suoi figli al dovere di celebrare la «giornata della pace» con le espressioni religiose e morali della fede cristiana; ma ritiene doveroso ricordare a tutti coloro che vorranno condividere l’opportunità di tale «giornata», alcuni punti che la devono caratterizzare; e primo fra essi: la necessità di difendere la pace nei confronti dei pericoli, che sempre la minacciano: - il pericolo della sopravvivenza degli egoismi nei rapporti tra le nazioni; - il pericolo delle violenze, a cui alcune popolazioni possono lasciarsi trascinare per la disperazione nel non vedere riconosciuto e rispettato il loro diritto alla vita e alla dignità umana; - il pericolo, oggi tremendamente cresciuto, del ricorso ai terribili armamenti sterminatori, di cui alcune potenze dispongono, impiegandovi enormi mezzi finanziari, il cui dispendio è motivo di penosa riflessione, di fronte alle gravi necessità che angustiano lo sviluppo di tanti altri popoli; - il pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali. La pace si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei popoli, una nuova mentalità circa l’uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini. Lungo cammino ancora è necessario per rendere universale ed operante questa mentalità; una nuova pedagogia deve educare le nuove generazioni al reciproco rispetto delle nazioni, alla fratellanza dei popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, anche in vista del loro progresso e sviluppo. Gli organismi internazionali, istituiti a questo scopo, devono essere sostenuti da tutti, meglio conosciuti, dotati di autorità e di mezzi, idonei alla loro grande missione. La «giornata della pace» deve rendere onore a queste istituzioni e circondare la loro opera di prestigio, di fiducia e di quel senso di attesa, che deve in esse tenere vigile il senso delle loro gravissime responsabilità e forte la coscienza del mandato loro affidato. Un’avvertenza sarà da ricordare. La pace non può essere basata su una falsa retorica di parole, bene accette perché rispondenti alle profonde e genuine aspirazioni degli uomini, ma che possono anche servire, ed hanno purtroppo a volte servito, a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di pace, se non addirittura a coprire sentimenti ed azioni di sopraffazioni o interessi di parte. Né di pace si può legittimamente parlare, ove della pace non si riconoscano e non si rispettino i solidi fondamenti: la sincerità, cioè, la giustizia e l’amore nei rapporti fra gli Stati e, nell’ambito di ciascuna nazione, fra i cittadini tra di loro e con i loro governanti; la libertà, degli individui e dei popoli, in tutte le sue espressioni, civiche, culturali, morali, religiose. Altrimenti, non la pace si avrà - anche se, per avventura, l’oppressione sia capace di creare un aspetto esteriore di ordine e di legalità - ma il germinare continuo e insoffocabile di rivolte e di guerre. È dunque alla pace vera, alla pace giusta ed equilibrata, nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana e dell’indipendenza delle singole nazioni che noi invitiamo gli uomini saggi e forti a dedicare questa «giornata». Così, da ultimo, sarà da auspicare che la esaltazione dell’ideale della pace non debba favorire l’ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa della giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga della responsabilità, dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose. Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita; la verità, la giustizia, la libertà, l’amore. Ed è per la tutela di questi valori che noi li poniamo sotto il vessillo della pace, e che invitiamo uomini e nazioni, e innalzare, all’alba dell’anno nuovo, questo vessillo, che deve guidare la nave della civiltà, attraverso le inevitabili tempeste della storia, al porto delle sue più alte mete. A voi, venerati fratelli nell’episcopato; a voi, figli e fedeli carissimi della nostra santa Chiesa cattolica, rivolgiamo l’invito, di cui sopra abbiamo dato l’annuncio; quello di dedicare ai pensieri ed ai propositi della pace una particolare celebrazione nel primo giorno dell’anno civile, l’uno gennaio del prossimo anno. Questa celebrazione non deve alterare il calendario liturgico, che riserva il «capo d’anno» al culto della divina maternità di Maria ed al nome beatissimo di Gesù; anzi queste sante e soavi memorie religiose devono proiettare la loro luce di bontà, di sapienza e di speranza sopra l’implorazione, la meditazione, la promozione del grande e desiderato dono della pace, di cui il mondo ha tanto bisogno. Vi sarete accorti, fratelli veneratissimi e figli carissimi, quanto spesso la nostra parola ripeta considerazioni ed esortazioni circa il tema della pace; non lo facciamo per cedere ad una facile abitudine, ovvero per servirci di argomento di pura attualità; - lo facciamo perché pensiamo essere ciò reclamato dal nostro dovere di pastore universale; - lo facciamo perché vediamo minacciata la pace in misura grave e con previsioni di avvenimenti terribili, che possono essere catastrofici per nazioni intere e fors’anche per gran parte dell’umanità; - lo facciamo perché negli ultimi anni della storia del nostro secolo è finalmente emerso chiarissimo la pace essere l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile); - lo facciamo perché la pace è nel genio della religione cristiana, poiché per il cristiano proclamare la pace è annunciare Gesù Cristo, «egli è la nostra pace» (Eph. 2, 14); «il suo è Vangelo di pace» (Eph. 6, 15): mediante il suo sacrificio sulla croce egli ha compiuto la riconciliazione universale, e noi, suoi seguaci, siamo chiamati ad essere «operatori della pace» (Matth. 5, 9); e solo dal Vangelo, alla fine, può effettivamente scaturire la pace, non per rendere fiacchi e molli gli uomini, ma per sostituire nei loro animi agli impulsi della violenza e delle sopraffazioni le virili virtù della ragione e del cuore d’un vero umanesimo; - lo facciamo infine perché vorremmo che non mai ci fosse rimproverato da Dio e dalla storia di aver taciuto davanti al pericolo d’una nuova conflagrazione fra i popoli, la quale, come ognuno sa, potrebbe assumere forme improvvise di apocalittica terribilità. Occorre sempre parlare di pace! Occorre educare il mondo ad amare la pace, a costruirla, a difenderla; e contro le rinascenti premesse della guerra (emulazioni nazionalistiche, armamenti, provocazioni rivoluzionarie, odio di razze, spirito di vendetta, ecc.), e contro le insidie di un pacifismo tattico, che narcotizza l’avversario da abbattere, o disarma negli spiriti il senso della giustizia, del dovere e del sacrificio, occorre suscitare negli uomini del nostro tempo e delle generazioni venture il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore (cf. Giovanni XXIII, Pacem in terris). La grande idea della pace abbia, specialmente per noi seguaci di Cristo, la sua giornata solenne, all’inizio dell’anno nuovo 1968. Noi credenti nel Vangelo possiamo infondere in questa celebrazione un tesoro meraviglioso di idee originali e potenti: come quella dell’intangibile e universale fratellanza di tutti gli uomini, derivante dall’unica, sovrana e amabilissima paternità di Dio, e proveniente dalla comunione che - in re vel in spe - tutti ci unisce a Cristo; ed anche dalla vocazione profetica, che nello Spirito Santo chiama il genere umano all’unità, non solo di coscienza, ma di opere e di destini. Noi possiamo, come nessuno, parlare dell’amore del prossimo. Noi possiamo trarre dall’evangelico precetto del perdono e della misericordia fermenti rigeneratori della società. Noi, soprattutto, fratelli veneratissimi e figli dilettissimi, possiamo avere un’arma singolare per la pace: la preghiera, con le sue meravigliose energie di tonificazione morale e di impetrazione, di trascendenti fattori divini, di innovazioni spirituali e politiche; e con la possibilità ch’essa offre a ciascuno di interrogarsi individualmente e sinceramente circa le radici del rancore e della violenza, che possono eventualmente trovarsi nel cuore di ognuno. Vediamo allora d’inaugurare l’anno di grazia 1968 (anno della fede che diviene speranza) pregando per la pace; tutti, possibilmente insieme nelle nostre chiese e nelle nostre case; è ciò che per ora vi chiediamo: non manchi la voce di alcuno nel grande coro della Chiesa e del mondo invocante da Cristo, immolato per noi: dona nobis pacem. Pag 7 Scelta di civiltà All’Angelus in piazza San Pietro il Pontefice invoca la fine della guerra in Siria «Faccio appello all’impegno di tutti, perché si faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace». È l’auspicio espresso da Papa Francesco all’Angelus dell’11 dicembre dinanzi alle violenze che continuano a insanguinare la Siria, in particolare Aleppo, e agli «efferati attacchi terroristici che nelle ultime ore hanno colpito» l’Egitto, la Somalia, la Nigeria e la Turchia. Prima della recita della preghiera mariana con i fedeli presenti in piazza San Pietro il Pontefice aveva commentato il vangelo della seconda domenica di Avvento. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi celebriamo la terza domenica di Avvento, caratterizzata dall’invito di san Paolo: «Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4-5). Non è un’allegria superficiale o puramente emotiva, quella alla quale ci esorta l’Apostolo, e nemmeno quella mondana o quella allegria del consumismo. No, non è questa, ma si tratta di una gioia più autentica, di cui siamo chiamati a riscoprire il sapore. Il sapore della vera gioia. È una gioia che tocca l’intimo del nostro essere, mentre attendiamo Gesù che è già venuto a portare la salvezza al mondo, il Messia promesso, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. La liturgia della Parola ci offre il contesto adeguato per comprendere e vivere questa gioia. Isaia parla di deserto, di terra arida, di steppa (cfr. 35, 1); il profeta ha davanti a sé mani fiacche, ginocchia vacillanti, cuori smarriti, ciechi, sordi e muti (cfr. vv. 3-6). È il quadro di una situazione di desolazione, di un destino inesorabile senza Dio. Ma finalmente la salvezza è annunciata: «Coraggio, non temete! - dice il Profeta - [...] Ecco il vostro Dio, [...] Egli viene a salvarvi» (cfr. Is 35, 4). E subito tutto si trasforma: il deserto fiorisce, la consolazione e la gioia pervadono i cuori (cfr. vv. 5-6). Questi segni annunciati da Isaia come rivelatori della salvezza già presente, si realizzano in Gesù. Egli stesso lo afferma rispondendo ai messaggeri inviati da Giovanni Battista. Cosa dice Gesù a questi messaggeri? «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Mt 11, 5). Non sono parole, sono fatti che dimostrano come la salvezza, portata da Gesù, afferra tutto l’essere umano e lo rigenera. Dio è entrato nella storia per liberarci dalla schiavitù del peccato; ha posto la sua tenda in mezzo a noi per condividere la nostra esistenza, guarire le nostre piaghe, fasciare le nostre ferite e donarci la vita nuova. La gioia è il frutto di questo intervento di salvezza e di amore di Dio. Siamo chiamati a lasciarci coinvolgere dal sentimento di esultanza. Questa esultanza, questa gioia... Ma un cristiano che non è gioioso, qualcosa manca a questo cristiano, o non è cristiano! La gioia del cuore, la gioia dentro che ci porta avanti e ci dà il coraggio. Il Signore viene, viene nella nostra vita come liberatore, viene a liberarci da tutte le schiavitù interiori ed esterne. È Lui che ci indica la strada della fedeltà, della pazienza e della perseveranza perché, al suo ritorno, la nostra gioia sarà piena. Il Natale è vicino, i segni del suo approssimarsi sono evidenti per le nostre strade e nelle nostre case; anche qui in Piazza è stato posto il presepio con accanto l’albero. Questi segni esterni ci invitano ad accogliere il Signore che sempre viene e bussa alla nostra porta, bussa al nostro cuore, per venire vicino a noi; ci invitano a riconoscere i suoi passi tra quelli dei fratelli che ci passano accanto, specialmente i più deboli e bisognosi. Oggi siamo invitati a gioire per la venuta imminente del nostro Redentore; e siamo chiamati a condividere questa gioia con gli altri, donando conforto e speranza ai poveri, agli ammalati, alle persone sole e infelici. La Vergine Maria, la “serva del Signore”, ci aiuti ad ascoltare la voce di Dio nella preghiera e a servirlo con compassione nei fratelli, per giungere pronti all’appuntamento con il Natale, preparando il nostro cuore ad accogliere Gesù. Al termine dell’Angelus il Papa ha lanciato gli appelli per la pace, ha ricordato la beatificazione di diciassette missionari in Laos e ha salutato i gruppi presenti. Infine ha benedetto i “bambinelli”, portati dai piccoli degli oratori parrocchiali e delle scuole cattoliche romane, che poco prima nella basilica vaticana avevano partecipato alla messa celebrata all’altare della confessione dal cardinale arciprete Angelo Comastri. Cari fratelli e sorelle, ogni giorno sono vicino, soprattutto nella preghiera, alla gente di Aleppo. Non dobbiamo dimenticare che Aleppo è una città, che lì c’è della gente: famiglie, bambini, anziani, persone malate... Purtroppo ci siamo ormai abituati alla guerra, alla distruzione, ma non dobbiamo dimenticare che la Siria è un Paese pieno di storia, di cultura, di fede. Non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra, che è un cumulo di soprusi e di falsità. Faccio appello all’impegno di tutti, perché si faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace, sì alla gente di Aleppo e della Siria. E preghiamo anche per le vittime di alcuni efferati attacchi terroristici che nelle ultime ore hanno colpito vari Paesi. Diversi sono i luoghi, ma purtroppo unica è la violenza che semina morte e distruzione, e unica è anche la risposta: fede in Dio e unità nei valori umani e civili. Vorrei esprimere una particolare vicinanza al mio caro fratello Papa Tawadros II [Patriarca della Chiesa Copta Ortodossa] e alla sua comunità, pregando per i morti e i feriti. Oggi, a Vientiane, in Laos, vengono proclamati Beati Mario Borzaga, sacerdote dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, Paolo Thoj Xyooj, fedele laico catechista e quattordici compagni uccisi in odio alla fede. La loro eroica fedeltà a Cristo possa essere di incoraggiamento e di esempio ai missionari e specialmente ai catechisti, che nelle terre di missione svolgono una preziosa e insostituibile opera apostolica, per la quale tutta la Chiesa è loro grata. E pensiamo ai nostri catechisti: tanto lavoro fanno, un così bel lavoro! Essere catechista è una cosa bellissima: è portare il messaggio del Signore perché cresca in noi. Un applauso ai catechisti, tutti! Saluto con affetto tutti voi, cari pellegrini provenienti da vari Paesi. Oggi il primo saluto è riservato ai bambini e ragazzi di Roma, venuti per la tradizionale benedizione dei “Bambinelli”, organizzata dagli Oratori parrocchiali e dalle Scuole cattoliche romane. Cari ragazzi, quando pregherete davanti al vostro presepe con i vostri genitori, chiedete a Gesù Bambino di aiutarci tutti ad amare Dio e il prossimo. E ricordatevi di pregare anche per me, come io mi ricordo di voi. Grazie. Saluto i docenti dell’Università Cattolica di Sydney, la corale do Mosteiro de Grijó in Portogallo, i fedeli di Barbianello e Campobasso. Auguro a tutti una buona domenica. E non dimenticatevi di pregare per me. E una cosa vorrei dire ai bambini e ai ragazzi: vogliamo sentire una canzone vostra! Arrivederci e buon pranzo! Cantate! AVVENIRE Pag 2 Dire no alla violenza per aiutare Dio, e l’uomo di Marina Corradi Venerdì scorso, Istanbul: 15 morti allo stadio in un attentato. Sabato, Nigeria: due kamikaze bambine al mercato di Madagali provocano 57 morti e 177 feriti. Domenica, al Cairo: ancora un kamikaze in una cappella attigua alla cattedrale cristiana copta di San Marco uccide 25 persone e ne ferisce 35. Erano quasi tutti donne e bambini. È un rosario di sangue, l’elenco delle ultime notizie dal mondo in questi giorni. Scorrono veloci, sui siti dei quotidiani, queste stragi lontane da noi. Ma, se ti resta negli occhi un titolo o l’immagine di un tg, e ti ci soffermi, puoi avvertire in te l’eco delle deflagrazioni, delle urla, dei pianti. Quelle bambine in Nigeria caricate di esplosivo, agnelli mandati al macello in un povero mercato di frutta e verdura: quanti morti, quanti invalidi per sempre, e, a casa, quanti orfani, quante vedove, lasciate coi figli a fare la fame. E, al Cairo: la furia di tredici chili di tritolo contro una folla di madri con i figli in braccio, nella cappella riservata a loro. Una quantità spaventevole di morte che si scatena sulla umanità più inerme. L’ordigno svelle le travi, schianta le volte. Grandi macchie di sangue restano sui muri bianchi. Madri impazzite nella calca, nel fumo, cercano i loro bambini. In soli tre giorni, che impressionante quantità di violenza. Cerchi di scacciare quelle immagini, che fanno male come un pugno. Insorge ancora una volta la domanda: ma Dio, dov’era in quegli istanti? E più che una domanda, è un’accusa, è il germe amaro del dubbio. Oppure, peggio, pensi: non c’è niente da fare, in questo mondo roso dal male come da un cancro. Dopo tre giorni come questi viene reso noto il Messaggio per la Giornata della pace del 2017 di papa Francesco. La nonviolenza come stile politico di pace, è il tema. La nonviolenza? La pace? Tu hai ancora negli occhi l’immagine di quella chiesa devastata, delle madri con i figli sanguinanti fra le braccia. La via della nonviolenza ti sembra, d’istinto, così utopistica, così impotente, davanti a tanto male. Ma, la violenza, si domanda invece il Papa, «permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi signori della guerra? La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato». E cita Benedetto XVI: la nonviolenza «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo ' di più' viene da Dio». Una prospettiva del tutto diversa. Nella consapevolezza piena della violenza nel mondo: che è troppa, così tanta che nessun’arma basta a combatterla. Una violenza tale che, a averne la totale cognizione, ci sarebbe insopportabile. Troppa violenza, che non si può superare se non in un di più, che viene da Dio. Sì, vorresti dire, ma intanto i cannoni tuonano, le bombe deflagrano, e da dove questo di più di Dio può cominciare? Il Papa: «Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: 'Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive', si legge nel Vangelo di Marco». Dal cuore degli uomini. Dal nostro cuore. Chi crede in Cristo, dice il Papa, «sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di San Francesco d’Assisi: 'La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori'». Rivedi quelle madri del Cairo spezzate, immagini i grandi occhi innocenti e spauriti di due bambine comandate a portare la morte. Per te, quel male è schiacciante. È oltre ogni tollerabile misura. Ma per Dio, per la misericordia di Dio, nulla è troppo grande. Bisogna aiutarlo, però, Dio. Bisogna riconoscere in sé quella radice di male che anche noi portiamo. Siamo così pacifici, finché qualcuno non ci fa del male. O magari, semplicemente, ci disturba. Quanta violenza inizia da sciocchezze, dai rumori del vicino, dalla parola di un collega, da cose da nulla. Si ricomincia dal cuore, proprio il nostro, angusto com’è. Con negli occhi quelle madri, quei bambini, sapere almeno che il vero campo di battaglia è il cuore degli uomini, e la domanda a Dio. Che si ricomincia, ogni volta, da qui. Pag 5 Il Papa scrive ad Assad: “Basta violenze” di Luca Geronico “Visita di cortesia” del nunzio Zenari. Che consegna una lettera di Bergoglio Una «visita di cortesia» al presidente Bashar al-Assad dopo quella di una delegazione di Damasco, lo scorso novembre in Vaticano, per la creazione a cardinale del nunzio Mario Zenari. È lo stesso cardinale-nunzio in Siria a confermare ad Avvenire l’incontro con Assad e la consegna di un messaggio di Francesco al leader di Damasco. Una lettera di Francesco, fa sapere la sala stampa del Vaticano, per dare un segnale di «particolare affetto per l’amato popolo siriano», duramente provato in questi ultimi anni. Un nuovo appello – dopo quello deciso e accorato durante l’Angelus di domenica in piazza San Pietro – rivolto al presidente Assad e alla comunità internazionale per «porre fine alle violenze», trovare una «soluzione pacifica delle ostilità» condannando «ogni forma di estremismo e di terrorismo da qualsiasi parte esse provengano». Bergoglio – afferma la Sala stampa vaticana – chiede pure al presidente siriano di «assicurare che il diritto internazionale umanitario sia pienamente rispettato» in particolare per quanto riguarda la «protezione dei civili e l’accesso degli aiuti umanitari ». Un incontro fra il cardinale Zenari e il presidente Assad confermato pure da Damasco che, nella nota consegnata all’agenzia ufficiale Sana, sottolinea la «condanna del Vaticano di ogni forma di estremismo e terrorismo» – termine quest’ultimo con cui il governo siriano indica tutte le forze di opposizione – e la richiesta da parte di Bergoglio di «moltiplicare gli sforzi di tutti per mettere fine alla guerra in Siria e ripristinare la pace». Nel faccia a faccia, immortalato da una foto pubblicata sul sito dalla Sana, il presidente siriano si è complimentato per la promozione del nunzio Mario Zenari, una nomina definita «senza precedenti» e che per ’agenzia siriana «ribadisce la grande importanza che il Papa accorda alla Siria e al suo popolo». Un incontro confermato ad Avvenire dallo stesso cardinale Mario Zenari, rientrato in Siria pochi giorni dopo la sua creazione a cardinale. La lettera, recapitata personalmente dal rappresentante vaticano, potrebbe essere stata consegnata da papa Francesco al suo diplomatico poche settimane fa a Roma, nei giorni in cui venivano creati i 17 nuovi cardinali. Un testo che il cardinale Zenari «non commenta», anche se pare evidente, quanto ai contenuti, il riferimento a quanto affermato solo poche ore prima, con forza, da Jorge Bergoglio a piazza San Pietro. Nel dopo Angelus, domenica, un nuovo messaggio di papa Francesco, vicino ogni «soprattutto nella preghiera» alla popolazione civile sotto assedio nella seconda città siriana: «Non dobbiamo dimenticare che Aleppo è una città, che lì c’è della gente: famiglie, bambini, anziani, persone malate…», ha esclamato il Papa. «Purtroppo – ha aggiunto – ci siamo ormai abituati alla guerra, alla distruzione, ma non dobbiamo dimenticare che la Siria è un Paese pieno di storia, di cultura, di fede». Un enorme patrimonio che «non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra, che è un cumulo di soprusi e di falsità». Da qui l’appello di Bergoglio «all’impegno di tutti, perché si faccia una scelta di civiltà: no alla distruzione, sì alla pace, sì alla gente di Aleppo e della Siria». LA REPUBBLICA Pag 53 Le idee progressiste di the Young Pope, così gli scritti giovanili di Ratzinger anticipano le riforme di Bergoglio di Paolo Rodari Pubblicati i testi del futuro Pontefice sul Concilio Vaticano II in cui rivendica la necessità del “dialogo con il mondo di oggi” Città del Vaticano. C'è un Ratzinger poco percorso, quasi sconosciuto. Molto più vicino a Papa Bergoglio di quanto si possa immaginare, soprattutto per quanto riguarda la visione di una Chiesa che sappia guardare in modo positivo alle sfide della modernità e, insieme, intransigente nel condannare il carrierismo e i privilegi di vescovi e clero. È il Ratzinger, a tratti del tutto inedito in italiano, che giovane professore della facoltà teologica cattolica dell'università di Bonn - il più giovane docente - partecipò come consigliere del cardinale Joseph Frings al Concilio Vaticano II. Da consigliere fu più volte consultato, esprimendosi spesso in modo frammentario, ma in ogni caso ben mostrando un visione di se stesso lontana da quell'immagine del "grande conservatore" che con troppa semplicità gli è stata successivamente appiccicata addosso. I testi, pubblicati nel settimo volume della sua opera omnia (Opera Omnia. L'insegnamento del Concilio Vaticano II) dalla Libreria Editrice Vaticana, con traduzione di Pierluca Azzaro, e presentati domani pomeriggio in Gregoriana, mostrano un giovane teologo che auspica una Chiesa capace di aggiornamento, di passi in avanti. La Chiesa che ancora in epoca barocca aveva plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in rapporto negativo con l'età moderna, solo allora pienamente iniziata. Ma le cose - si domanda significativamente Ratzinger - devono «rimanere così?» La Chiesa non può «compiere un passo in senso positivo nei tempi nuovi?». Il primo passo in avanti riguarda la liturgia. Ratzinger non appare per nulla entusiasta di una Chiesa ancorata al rito antico. «È forse normale - si chiede in un testo scritto di getto nel gennaio del 1963, a Concilio concluso, a beneficio dei suoi studenti - che 2500 vescovi, per non parlare dei tanti altri credenti, siano condannati a essere muti testimoni di una liturgia nella quale, oltre al celebrante, ha la parola solo la Cappella Sistina? Il fatto che non fosse richiesta la partecipazione attiva dei presenti non era forse sintomo di una situazione che andava superata?». La questione di fondo era ovviamente più generale e non riguardava meramente la liturgia. La domanda che tutti si ponevano era una: da che parte deve andare la Chiesa? Si chiede Ratzinger: «L'attitudine dello spirito antimodernista, la linea della chiusura, della condanna, della difesa che giunge fin quasi al timoroso rifiuto, deve essere mantenuta, oppure la Chiesa, dopo aver operato la necessaria demarcazione, vuole aprire una pagina nuova, entrando in dialogo positivo con le sue origini, con i suoi fratelli, con il mondo di oggi?». Risponde, senza tentennamenti, lui stesso: «Questo Concilio si è trasformato in un nuovo inizio per il fatto che una maggioranza molto netta si decise per la seconda alternativa. È così che esso ha oltrepassato il rango di continuazione del Vaticano I: infatti Trento e Vaticano I servirono al movimento di chiusura, di salvaguardia e di demarcazione, l'attuale Concilio, sulla base di quello che era stato operato, si è rivolto a un nuovo compito». Insomma, la decisione di esprimersi «contro la prosecuzione unilaterale dello spirito antimodernistico » è stata presa. Ed è la decisione «di imboccare una nuova strada, positiva, a livello del pensiero e del linguaggio». E poi le parole forse più nette, che mostrano come nella lettura di Ratzinger il "partito" della Curia, conservatore e ancorato agli schemi passati, abbia perso: «Quel 20 novembre - si riferisce alla votazione a favore di una profonda revisione della schema sulla rivelazione originariamente predisposto dagli uffici curiali e che avvenne dopo che, per la prima volta, i vescovi decisero di prendersi del tempo per conoscersi e discutere assieme, ndr - davvero rappresenta una svolta anche per il fatto che, a differenza di Trento e del 1869/1870, il Papa si era opposto alla tendenza dominante in Curia mettendosi dalla parte del Concilio». Per Ratzinger sono tante le cose che non vanno nella Chiesa, e anche in Curia. Nelle bozze di discorso poi fatte proprie da Frings, parla del Sant'Uffizio e dei suoi discutibili metodi inquisitori: la sua «modalità di azione in molti casi non è più adatta ai nostri tempi, anzi è motivo di danno e di calunnia contro i cattolici». E poi le parole del tutto vicine alle idee di riforma della Curia proprie di Francesco: «È mia opinione che il numero dei vescovi che lavorano nella Curia romana debba essere ridimensionato. Nessuno dovrebbe essere ordinato vescovo al solo scopo di rendere onore alla sua persona o al suo ruolo. L'episcopato non è un ruolo in sé, non un onore o un lustro da aggiungere a un altro ruolo Va aggiunto che anche l' ordine del sacro presbiterato non si dà per rendere onore a qualcuno, ma per la cura del gregge del Signore Credo che nella Curia romana ci siano molti ruoli che potrebbero essere ricoperti da laici. Propongo dunque che si stabilisca che nella Curia sia diminuito non solo il numero dei vescovi che vi lavorano, ma anche il numero dei sacerdoti, e che vi debbano essere ammessi anche i laici». IL FOGLIO Pag 1 Un processo a Francesco di Giuliano Ferrara Un papa che non capisce i principi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia. Il pamphlet di Valli con postilla sul relativismo all’ingrosso Dall'interno della chiesa o se preferite del mondo cristiano-cattolico è nato e si consolida un "caso Bergoglio". Il Papa è messo in discussione apertamente. Cardi nali dissenzienti, tra i quali l'ottimo Arcivescovo emerito di Bologna Carlo Caffarra, così simile a Pio IX nel volto ottocentesco, rispettosamente scrivono al Beatissimo Padre sul "divorzio cattolico" della Amoris laetitia, esortazione pontificia seguita ai famosi due sinodi sulla famiglia, e non ricevono altra risposta se non una sorta di censura morale, più qualche controverso sberleffo del selfie-gesuita confidente di Francesco, il Reverendo Padre Spadaro della Civiltà Cattolica, e di vari cortigiani anche laici. Apocalittici intelligenti e argomentati contestano tutto nel segno del rigetto (il Papa non è il Papa, ci sono due papi l'un contro l'altro armati, il problema è che ormai si tocca una dimensione eretica: letteratura Socci). I tradizionalisti come il professor Roberto de Mattei, in uno con una vasta rete di bloggers combattivi, insistono nella loro critica dottrinale spietata degli errori, cioè delle eresie moderniste, di cui il successore di Pietro si renderebbe colpevole protagonista. Ora arriva un pamphlet di Aldo Maria Valli per Liberilibri (titolo: "266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P."). Valli è il vaticanista principe del Tg1, un cattolico ardente dai toni moderati, familiari, devoti, uno che da decenni racconta le storie papali per il grande pubblico e commenta con lo speciale fervore che gli è proprio i fatti e i problemi della vita cristiana e cattolica. Ruolo e tono di Valli sono diversi dagli altri, cercano disperatamente la moderazione, però la diagnosi è molto severa. E impressionante la documentazione sul filo dei tre anni di pontificato. I turiferari, quelli che servono la corte papale spesso in modo impudente, dipingendo il beniamino delle folle laiche e cattoliche come un povero predicatore assediato dai lupi e dalle tenebre di un nuovo medioevo, hanno pane per i loro denti. Di Trump si è detto che i suoi avversari lo hanno preso alla lettera e non lo hanno preso sul serio, mentre i suoi elettori non lo hanno preso alla lettera ma lo hanno preso sul serio. Efficace descrizione di un fenomeno. Valli secondo me fa parte della prima categoria, non prende Francesco sul serio ma registra alla lettera quelle che giudica le sue bavures, gaffe, i suoi imbizzarrimenti pastorali e para teologici. L'elenco è sterminato. Sul piano anche solo documentario è un servizio alla comprensione del "caso" di rara utilità. I lettori del Foglio ne conoscono in anticipo il contenuto, Matteo Matzuzzi è sempre equilibrato ma non perdona quando deve raccontare con libertà Francesco, e un nostro vecchio libriccino, "Questo Papa piace troppo", fu loquace se non eloquente in merito già un anno dopo l' elezione al soglio del Papa venuto dalla fine del mondo (un capitolo del libro di Valli si intitola a un Papa che "piace troppo"). La dottrina cattolica è messa da parte come un ingombro, per quanto formalmente ribadita qui e là, in favore della pastorale, cioè della prassi cattolica in un tempo determinato, sapendo che per questo Papa "il tempo è superiore allo spazio": così Valli. Ora i dogmi e la dottrina hanno in qualche modo una storia, ce lo ha spiegato il cardinale John Henry Newman, ma nonostante quel che dice Francesco a Scalfari ("Dio non è cattolico") l'impressione è che Dio sia cattolico in quanto universale, universale ed eterno come i dogmi che lo riguardano e ci riguardano, mentre la pastorale, quella sì, può non essere cattolica, perché è il regno delle opinioni, sebbene autorevoli, conciliari, consacrate dalla vita della chiesa che governa, per dir così, il soffio vago e multidirezionale dello spirito nel tempo. Poi c'è il giudizio, che a nessuno è dato pronunciare secondo il famoso motto catechistico "chi sono io per giudicare?". Una derivazione dal vangelo molto più problematica di quanto non si pensi. Come dice Valli, basta pensare al credo cattolico con quel Dio incarnato, e risorto, che tornerà sulla terra a giudicare i vivi e i morti. Poi c'è tutto il resto: le cortesie per ospiti graditi verso l'islam, e le scortesie verso i parenti di Asia Bibi, condannata a morte per apostasia e imprigionata in attesa di una misericordia che non arriva. E una gran confusione nei pronunciamenti più vari, politici (ultimo il caso Trump con la consegna degli Stati Uniti d'America a un "non cristiano", secondo la definizione improvvisata e polemica del Papa in aereo, che non è poco) e geopolitici, etici, intraecclesiali, curiali, episcopali (la curia come "lebbra" della chiesa, "non ho mai capito cosa siano i princìpi non negoziabili"). Francesco è buono, dice Valli, e ha fini di riconciliazione in ogni campo con il mondo com'è, che infatti lo applaude come una star del permissivismo universale anche se diserta ancora la sua chiesa, il risultato è cattivo, confuso, pasticciato nelle parole e nei gesti di questi tre anni di papato. I fedeli sono confusi, non sanno più se a far figli nel matrimonio cristiano non si finisca per essere "come i conigli", animali e bigotti non illuminati dallo spirito, anche quello strano Paracleto della contraccezione o dell'aborto. Non sanno più come giudicare la violenza jihadista contro i vignettisti libertini che esercitano a loro modo la libertà di espressione, anche blasfema, perché il Papa dice che "se uno ti parla male di tua madre, la religione, sei autorizzato a dargli un pugno", dizione popolaresca e ambigua, tecnicamente collaterale al 7 gennaio 2015 di Parigi, Charlie Hebdo. Non capiscono perché il martirio dei cristiani debba essere nascosto e, preghiere a parte, trattato con una certa riluttante indifferenza. Interviste, sopra tutto interviste, ma anche viaggi, pronunciamenti vari nelle udienze e nella catechesi, tutto è all'insegna di un perdono che, preso alla lettera, consacra in nome della misericordia più o meno qualsiasi cosa o comportamento si affacci nella storia umana della modernità e postmodernità, eh già, il tempo è superiore allo spazio e anche alla penitenza e all'espiazione. Il denaro è astrattamente condannato, quello sì, in nome di una dottrina sociale intinta nel peronismo, nella teologia del popolo sudamericana, e l'ecologia è onusiana, non creaturale. Si potrebbe continuare all'infinito, ma il libro di Valli è lì per essere letto, compulsato, esaminato come un documento che molti lettori considereranno testimonianza ambigua di un papato ambiguo e tutt'altro che innocente e remissivo e tenero come si autocomprende. Perché dico che Valli non prende il Papa abbastanza sul serio, pur descrivendolo perfettamente preso alla lettera? Perché penso che alla radice di quanto accade nella chiesa cattolica c'è qualcosa di profondo e inquietante che a Valli sfugge. A me non interessano i dogmi o la dottrina o la dottrina morale in quanto uomo di fede che non sono, ma in quanto il magistero cattolico è stato fino a Francesco una testimonianza contro la riduzione di tutto a storia, un elemento di contraddizione rispetto a quel mondo "liquido" che sulla scorta di Bauman Valli cita spesso nel suo pamphlet. Liquido vuol dire storicistico, cioè relativistico, all'ingrosso. Un Papa che non capisce i princìpi non negoziabili è per me, che sono laico e devoto, un filosofo che non accetta la ragione, la mette di lato, che risolve tutto nella storia, che ha in uggia le permanenze classiche della filosofia e della nobile arte della filosofia politica, prima tra tutte la differenza razionale di bene e di male, alla quale prepone in modo intransigente il fideismo, il misticismo dell' abbandono interiore alla misericordia e al perdono di Dio. La chiesa non può interferire nella vita personale degli uomini, dice Francesco beatificando il precetto del permissivismo romantico in nome dell'amore. Il suo punto di partenza è che l' interferenza è diretta, riguarda la fede e non la ragione, e il rapporto tra un' anima e Dio senza la mediazione efficace della chiesa e della cultura e dell'etica cristianizzate o di derivazione cristiana. Per questo il Papa regnante è quanto di più dissimile esista al mondo da un cattolico liberale, per questo segno radicale e ben interrato nella storia del gesuitismo cinque e seicentesco il Papa che abbraccia il mondo è un casuista, uno che giudica caso per caso e si affida alle intenzioni, alla coscienza personale, alla fede. E punto. E basta. Francesco non è banalmente un progressista, anzi, coltiva un oscurantismo segreto, quello dell' anima e dell'amore, quello delle buone intenzioni, al posto del libero pensiero cristiano di tipo illuminista, che aveva trovato una sua espressione modernissima e contraddittoria con il mondo com' è nei papati di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che furono invece dannati dal giro laicista e soi disant illuminista perché toglievano ai chierici della ragione esclusiva e incapace di mistero il loro monopolio sulla cultura e sulla società, sui costumi. Francesco vuole rievangelizzare il mondo (fine santo) partendo dalla liquidazione di un grande patrimonio filosofico e culturale europeo di cui il polacco e il tedesco furono gli ultimi grandi testimoni (mezzo diabolicamente inadatto). E questo non prendere sul serio il papato francescano, sebbene il lavoro di scavo documentale tenda a spiegarlo, e bene, è chiarito da una dimenticanza fatale. Valli cita spesso Ratzinger e Giovanni Paolo come predecessori che dicevano cose diverse da Francesco, e le dicevano divinamente bene. Ma dimentica di farsi la benché minima domanda sul fatto che Francesco segue un' abdicazione dall' esercizio del munus petrino da parte del suo predecessore, il tedesco che fu braccio destro del polacco, non proprio un evento minore nella storia della chiesa e del mondo. Pag 1 L’equilibrio instabile di Matteo Matzuzzi Roma. Nel giorno in cui il Papa ha consegnato, tramite il nunzio a Damasco, il cardinale Mario Zenari, una lettera al presidente Bashar el Assad in cui "esprime solidarietà al popolo siriano" e ribadisce "la condanna del Vaticano per ogni forma di estremismo e terrorismo", la Santa Sede è impegnata a valutare le conseguenze dell'attentato di domenica al Cairo contro la comunità copta, che ha causato la morte di venticinque persone, per lo più donne e bambini presenti nella chiesa di San Pietro. All'ora di pranzo, la Sala stampa d'oltretevere ha diffuso una Nota in cui si fa sapere che Francesco ha chiamato il Papa Tawadros II, patriarca della chiesa coptoortodossa d' Alessandria per esprimere le condoglianze per quanto avvenuto. "Il Patriarca Tawadros II ha ricordato l'espressione di Papa Francesco, pronunciata durante il loro incontro in Vaticano, ossia l''ecumenismo del sangue'. Da parte sua, Papa Francesco ha sottolineato che 'noi siamo uniti nel sangue dei nostri martiri'". Espressione rischiosa, specie se si ricorda quanto accadde nel 2011, allorché l'università di al Azhar sospese ogni contatto con il Vaticano dopo la condanna di Benedetto XVI del "terrorismo" che aveva "colpito brutalmente dei fedeli in preghiera" in una chiesa copta di Alessandria. Dieci giorni dopo, Joseph Ratzinger - al quale il Cairo aveva chiesto immediate scuse - tornò sull'argomento, sottolineando "l' urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose". Il rischio è che l'attentato di domenica rompa nuovamente il sottile equilibrio interreligioso ch'era venuto a crearsi nel contesto egiziano, complesso e spesso ambiguo. Secondo Ashraf Ramelah, presidente dell'organizzazione no profit Voice of the Copts, poco cambierà visto che "non c'è nessun equilibrio da mantenere". I cristiani in Egitto sono il dieci per cento della popolazione, non sono una comunità ed episodi come questo altro non sono che il perpetuarsi "del piano antico di Gamal Abdel Nasser, secondo cui prima andavano cacciati gli ebrei e poi i copti", aggiunge Ramelah in una conversazione con il Foglio (la versione integrale è su ilfoglio.it). Niente di nuovo dunque, e poco contano le condanne che pur numerose sono piovute già nell' immediatezza del post attentato, quando anche il Grande imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb, ha definito "contrario all' islam" quanto accaduto nella chiesa di San Pietro. "Il problema però è proprio al Azhar, la sua ambiguità di fondo", dice Ramelah, che all'estero è riuscita ad accreditarsi come protagonista del dialogo e internamente alterna sostegno e contrarietà ai progetti del presidente Abdel Fattah al Sisi di riformare l'islam e i testi religiosi". Se Tawadros II ha immediatamente cancellato il suo viaggio in Grecia facendo sapere che presiederà personalmente la celebrazione dei funerali delle vittime, il portavoce della piccola chiesa cattolica egiziana, padre Rafich Greiche, ha emesso un comunicato di cordoglio: "Siamo profondamente colpiti e in pianto per quello che è successo ai nostri fratelli ortodossi e condividiamo il loro lutto con tutto il cuore". Un passaggio della nota merita sottolineatura, ed è quello in cui si chiede ai "responsabili della sicurezza di trovare gli autori di questo crimine e di fermarli". Ed è proprio questo il punto dolente, spiega Ashraf Ramelah: il ruolo delle forze di sicurezza che, "se non direttamente responsabili, di sicuro sapevano quanto stava accadendo. E' come quando arriva in porto una nave con droga a bordo e si arrestano tre ragazzini che vanno spacciandone qualche grammo, anziché i grandi colpevoli. E' la stessa cosa, niente di più". Proprio ieri, è stato diffuso il Messaggio per la Giornata mondiale della pace che si celebrerà come sempre il prossimo 1° gennaio. "La non violenza: stile di una politica per la pace" è il titolo scelto per la riflessione del Pontefice. Riflettendo sul "mondo frantumato", Francesco scrive che "questa violenza che si esercita a pezzi, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell' ambiente". Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Il sindaco promuove piazzale Sicilia. E vuole spostare le mense dei poveri di G.B. Ca’ Farsetti sta preparando un fascicolo con i posti sui sociali di alcuni comunali Mestre. «Quando ho visto le proteste, sono andato subito a vedere il compattatore: a me non pare brutto, in tutti i centri storici sono usati». Il sindaco difende il nuovo piazzale Donatori di sangue:. «Ci sono anche a Santa Maria Novella a Firenze e comunque il nostro impianto va completato - ha spiegato - ho chiesto a Veritas di sistemare gli allineamenti dei cestini, purtroppo scontiamo la non abitudine alle cose nuove». Il problema è che in questi primi giorni, in più di un’occasione il compattatore non ha funzionato, tanto che il sindaco durante il Tavolo di consultazione di ieri sera al Centro Santa Maria delle Grazie, non ha escluso anche boicottaggio. «C’è molta maleducazione, tanti, troppi cittadini buttano l’indifferenziata nell’umido - ha aggiunto -. Se tutti conferissimo i rifiuti bene, risparmieremmo 4 milioni di euro l’anno». Un tesoretto che, magari, avrebbe potuto ridurre i rincari del 5,5 per cento, inseriti nel bilancio 2017, alla Tari e di cui ieri la giunta ha approvato la ripartizione. «Se sei un cittadino con la “C” maiuscola devi gettare correttamente le immondizie - ha rincarato la dose il sindaco - prima del nostro arrivo l’area di piazzale Donatori di sangue era un disastro, in biblioteca succedeva di tutto, ora stiamo lavorando per migliorarla». Lunedì prossimo sarà inaugurata la Vez Junior (600 metri quadrati di biblioteca per i bambini) e l’amministrazione sta studiando come chiudere il negozio self service di snack che si trova sotto i portici di via Carducci. «Ci sono molte segnalazioni da parte dei cittadini, crea disagi - ha detto Brugnaro - c’è poi il problema delle mense per i poveri, stiamo cercando di capire se è fattibile un polo unico della povertà, fuori dal centro». Si tratta di una vecchia ipotesi, in passato accantonata per motivi tecnici, l’immobile di via Querini infatti è una donazione vincolata a quest’uso e la mensa dei Cappuccini è proprio a fianco del convento, non delocalizzabile. Ieri, nel confrontarsi con i cittadini al tavolo fucsia, Brugnaro è tornato a parlare della riorganizzazione della macchina comunale, in particolare delle Municipalità dove è in atto una protesta dei dipendenti, sostenuta dai presidenti, contro un’organizzazione che creerebbe disagi al cittadino, oltre che ai lavoratori. «Sulle Municipalità sono state dette molte falsità - ha detto il sindaco nessun servizio è stato tagliato, per il sociale nel 2016 c’erano 40 milioni e altrettanti ce ne sono per il 2017, sono state riportate affermazioni gravi di alcuni dipendenti, dicono che si blocca il servizio pubblico ma loro non hanno titolo per bloccarlo: li denuncerò se avviene». Ma c’è di più, l’amministrazione starebbe raccogliendo un fascicolo con i post sui social network di alcuni comunali. «Alle Municipalità non dico che stiano sereni, porta male ma non si preoccupino», ha concluso. Pag 13 Ca’ Farsetti rifiuta 60 profughi a Marghera: “Accoglienza diffusa” di Francesco Bottazzo Venturini scrive alla prefettura: zona già provata Venezia. Ca’ Farsetti rifiuta sessanta profughi. Avrebbero dovuto andare in un albergo di Ca’ Sabbioni, ma l’assessore alla Coesione sociale Simone Venturini ha scritto alla prefettura dando parere negativo, per non creare tensioni sociali. Ad oggi infatti sono 213 i profughi accolti nel territorio comunale a cui vanno aggiunti il centinaio di rifugiati che rientrano nei centri Sprar di accoglienza. L’obiettivo della giunta fucsia infatti è di non creare grossi punti di accoglienza paragonabili anche solo lontanamente a Cona e a Bagnoli. «L’ipotesi sarebbe stata in conflitto con il principio dell’accoglienza diffusa che fino ad oggi ha garantito l’assenza di tensioni significative nel territorio comunale», spiega Venturini. Del resto una delle cose che ha fatto Luigi Brugnaro appena diventato sindaco è stato scrivere al prefetto, dicendo che Venezia non dava più la disponibilità di posti per accogliere migranti, tanto da minacciare il governo di organizzare una manifestazione popolare: «Spero che Renzi e Alfano capiscano, il patto l’ho fatto con i cittadini e solo a loro risponderò», aveva subito messo le cose in chiaro. In realtà le cose sono andate diversamente, l’assessore alla Coesione sociale già l’hanno scorso ha negoziato con la prefettura un tetto massimo di accoglienza di 350 persone (andando oltre il criterio legato alla popolazione, di due migranti ogni mille abitanti), considerando anche che Venezia si fa già carico, con soldi propri, dell’accoglienza di minori stranieri non accompagnati, 250 nel 2016. La proposta era stata fatta dalla Cooperativa San Pietro che gestisce l’albergo e il ristorante Villa Dori a Marghera. D’inverno la struttura ha ampi spazi liberi tanto da spingere i gestori a presentare alla prefettura la disponibilità ad accogliere una sessantina di profughi, andando così a coprire tutto l’arco della stagione invernale. All’albergo era stata chiesta la disponibilità all’accoglienza un paio d’anni fa, ma poi non se ne fece nulla. E non se ne farà nulla nemmeno questa volta. Anche se infatti il parere di Ca’ Farsetti non è vincolante, il prefetto difficilmente andrà contro l’amministrazione, comunque disponibile ad una accoglienza diffusa che non crei grosse concentrazioni di migranti. «Ci pareva una soluzione opportuna andando incontro alla necessità di immobili per l’accoglienza dei migranti, considerando il periodo di bassa stagione», dicono i soci della cooperativa. Il parere negativo dell’assessore ha però «stroncato» la proposta. Anche perché la zona in cui si trova l’albergo è stata considerata da Ca’ Farsetti«inadeguata considerando che l’area di Marghera è già provata da problematiche sociali significative e ospita già otto appartamenti di accoglienza». La presenza quindi di una sessantina di migranti in un contesto ridotto come Ca’ Sabbioni per l’amministrazione avrebbe rischiato di generare problemi di impatto sociale e conflitto con i residenti. I migranti rimangono così poco più di trecento nel comune di Venezia lasciando quindi ancora margine per ulteriori accoglimenti. Sono invece 2362 quelli accolti in tutta la provincia di Venezia, la maggior parte dei quali all’ex base militare di Conetta dove si trovano quasi 1200 migranti. Troppi anche per il prefetto che continua ad appellarsi alla disponibilità di tutti Comuni per promuovere un’accoglienza diffusa. LA NUOVA Pag 20 Qualità della vita, Venezia migliora di Enrico Tantucci La classifica del Sole 24 Ore: la nostra provincia al 39° posto. Guadagnate nove posizioni rispetto allo scorso anno Migliora la “Qualità della vita a Venezia” e nel suo territorio secondo la classifica annuale tra le 110 province italiane riferita al 2015 - sulla base di numerosi indicatori che riguardano reddito, lavoro, ambiente, demografia, giustizia, cultura e tempo libero. Sta di fatto che, stando all’annuale studio del Sole 24 Ore, Venezia passa dal 48° al 39° posto in classifica, grazie soprattutto agli indicatori legati ad economia e turismo, mentre in campo ambientale le cose non vanno troppo bene. Il traino di turismo e cultura. Sono proprio gli indicatori su cultura e tempo libero che “trainano” Venezia che è al nono posto in Italia nel settore, ma al terzo (dietro Roma e Milano) nell’attrazione turistica, al decimo per gli spettacoli, al sedicesimo per la ristorazione. Ma già per le sale cinematografiche si scende al numero 42, al 40 per le attività sportive e ancora più giù, al posto 48 per le librerie. Anche per quanto riguarda la solidarietà si scende al 49° posto. Casa: croce e delizia. Venezia è inoltre addirittura al quarto posto in Italia per il valore del patrimonio immobiliare dei suoi cittadini, ma al penultimo (preceduta solo da Milano) per le case in affitto, che sono le più care d’Italia, proprio perché “drogate” dal mercato turistico. Per altri indicatori di reddito l’area veneziana si difende, perché è quindicesima per l’importo degli assegni di pensione, ventisettesima per il reddito a persona, al numero 46 per i risparmi in banca e un po’ più giù - al posto 51 e al 54 - per la spesa per famiglia e per i prestiti non pagati. Giovani al lavoro ma istruzione limitata. Un dato abbastanza confortante è quello relativo al lavoro dei giovani. Venezia è infatti al posto numero 15 in Italia per il tasso di disoccupazione giovanile. Un risultato che stupisce invece è quello relativo all’alta formazione (percentuale di laureati per ogni mille giovani). Nonostante la presenza di due università, un’Accademia di belle arti e altri istituzioni di istruzione superiore, Venezia per questo indicatore risulta solo al posto numro 56, preceduta tra l’altro da Trapani, Ogliastra, Foggia, Viterbo, Forlì. Scippi e borseggi. Per quanto riguarda sicurezza e reati, Venezia è agli ultimi posti (a quota 105) in Italia per la microcriminalità legata a scippi e borseggi. Bassa classifica anche per le rapine (posto numero 85) e appartamenti svaligiati (76). Va male anche per il contenzioso civile (63) e meglio per truffe e frodi (posto numero 34) e per le auto rubate (16), ma qui la città d’acqua spiega in parte il buon risultato. Pochi nati e molti anziani. La classifica del Sole per quanto riguarda la demografia conferma dati purtroppo noti. Venezia è agli ultimi posti (93) per il tasso di natalità e in basso (67) per l’indice di vecchiaia. Anche per densità demografica (numero di abitanti per chilometro quadrato) siamo molto in basso, al posto numero 95. Anche l’integrazione, con l’acquisizione di cittadini stranieri ci vede solo al posto numero 54, che diventa il 58 per quanto riguarda il numero di separazioni. Ambiente e clima non brillano. La pagella ecologica mette l’ecosistema urbano di Venezia al posto numero 53 e ancora più già (all’87) per il clima. La sanità è da centro classifica (posto numero 52), mentre - grazie ai turisti - siamo al nono posto per i pagamenti veloci e al 28 per le connessioni web. Per gli asili nido si deve scendere al posto numero 65. Per lo spirito d’iniziativa Venezia è al posto numero 86 ma per la propensione a investire al 31. Pag 20 Petizione contro la cessione dell’ostello Giudecca, raccolte 500 firme per salvare lo “Jan Palach” che lo Iuav vorrebbe vendere per fare cassa Già oltre 500 firme sono state raccolte anche tra gli abitanti della Giudecca contro l’annunciata vendita da parte dell’Iuav dell’ostello per la gioventù «Jan Palach» sull’isola, che l’ateneo possiede ma che secondo quanto già annunciato dal rettore Alberto Ferlenga, intende cedere per fare cassa, non trattandosi di un bene strategico per l’università. Nel tentativo di fermare questa vendita i ragazzi di casa Jan Palach hanno appunto organizzato una raccolta firme che verrà presentata al rettore dell’Iuav. Le firme sono già più di 500, raccolte tra gli studenti e gli abitanti della Giudecca. «Non è ancora possibile sapere quale sarà la sua destinazione d’uso in seguito alla vendita» si legge in una nota degli studenti della struttura «ma è ragionevole ipotizzare che diventi sede di un nuovo albergo o ostello. La vendita potrebbe allora significare un’ulteriore impoverimento della città a favore di un turismo sempre più invasivo, privando l’isola della Giudecca di una componente importante della sua comunità». La casa studentesca Jan Palach è una residenza universitaria situata sull’isola della Giudecca, gestita dal Centro della Pastorale Universitaria che, nel 2008, ha esteso l’esperienza nata con la Casa studentesca Santa Fosca anche a questo stabile, ricevuto in gestione dall'Esu che a sua volta lo gestiva dal 2002 per conto dello Iuav. Ospita 50 studenti universitari. «Lo scopo primario di questo progetto» scrivono gli studenti «è quello di stimolare la crescita individuale, culturale e civica di studenti dalla più vasta provenienza che, attraverso dialogo, cooperazione e condivisione, possano costruire un ambiente comunitario fondato sui valori cristiani di fratellanza, solidarietà e correzione fraterna. La realizzazione di ciò è resa possibile, in primo luogo, dall’organizzazione interna alla residenza in cui si richiede a tutti i ragazzi di assumere un ruolo attivo nella conduzione della casa, che si concretizza svolgendo delle mansioni per il bene comune e riunendosi settimanalmente per affrontare un cammino condiviso di crescita spirituale ed umana. Alcuni di questi incontri vengono aperti al pubblico per incoraggiare l’interazione tra i ragazzi ed il territorio, la Giudecca. Infatti, la realtà dell’isola si fonde con la quotidianità degli studenti, che frequentano supermercati, bar, centri d'attività sportiva e molti altri luoghi appartenenti alla realtà dell'isola e di Venezia». IL GAZZETTINO Pag 26 Philip Rylands: “Fra 6 mesi addio alla Guggenheim” di Sergio Frigo “Giusto cambiare dopo tanto tempo. Andrò a fare dell’altro” La notizia, comunicata ieri pomeriggio direttamente da New York dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim, è destinata a fare rumore nel mondo dell'arte, ben oltre i confini veneziani: il prossimo giugno Philip Rylands, direttore della Collezione Guggenheim e della stessa Fondazione per l'Italia, lascerà i suoi incarichi, che ricopriva rispettivamente dal 2000 e dal 2009. Per chi non si occupa direttamente di arte basti sapere che sotto la sua direzione (che in realtà dura da 38 anni, poi vedremo perché) la Guggenheim è diventata il principale museo di arte moderna in Italia, con la cifra record di oltre 400mila visitatori, e insieme il più giovane e il più internazionalizzato (è sempre affollatissimo di ragazzi di tutto il mondo) e l'unico nel nostro paese a chiudere i conti in attivo, con otto milioni di euro di entrate e un avanzo di gestione sufficiente per le opere di manutenzione. Non è dato saperlo, ma senza di lui la Collezione, la stessa immagine di Peggy, e in qualche misura persino l'allure di Venezia, sarebbero state altra cosa. Basti considerare qual'era la situazione quando Rylands, trentenne studioso di storia dell'arte appassionato di Palma il Vecchio, nato a Stratford upon Avon (la patria di Shakespeare), prese letteralmente in mano (in maniera del tutto informale) i destini della Collezione, nel dicembre del 1979: Peggy (amica di sua moglie Jane) stava morendo, la sua splendida casa sul Canal Grande rischiava di essere sommersa da una gigantesca acqua alta, e della sua preziosa collezione di quadri nessuno sapeva bene cosa fare. Rylands iniziò aiutando il figlio Sindbad Vail a inventariare le opere d'arte della madre e poi... ci prese gusto. Ora il direttore, che è diventato quasi veneziano (accento a parte...) ha quasi 67 anni, ma l'energia e la creatività non sembrano molto diminuite da allora: e allora perché andarsene? Oppure vi è costretto da qualche circostanza? Perché quello che è certo è che non andrà in pensione. Il comunicato con cui Richard Armstrong, direttore della Fondazione americana da cui la Guggenheim dipende, contiene parole di vivo apprezzamento per il suo operato a Venezia, per il genuino affetto con cui ha valorizzato la memoria della fondatrice, per il suo impegno educativo, oltre che per le migliaia di visitatori acquisiti. «Dopo tutto questo tempo è venuto il momento di cambiare risponde lui - un nuovo timoniere non potrà che fare bene al Museo. Sì, lascio anche il ruolo di direttore della Fondazione per l'Italia, non voglio interferire nè fare ombra a quello che sarà il mio successore»: successore di cui partirà subito la ricerca, annunciano da New York. «Certo, non mi sento ancora un pensionato - aggiunge lui per cui esaminerò altre opportunità di lavoro». A Venezia, in Italia o altrove? chiediamo. «È troppo presto per dirlo. Certo non lascerò Venezia definitivamente, qui ho la casa, e molti amici». Quando gli chiediamo se tornerà a occuparsi di Palma il Vecchio sorride, ma la risposta fa capire che continuerà ad occuparsi di arte moderna e contemporanea. «Spero di avere l'opportunità di tornare a studiare l'arte rinascimentale, se ne avrò il tempo». Da tempo, tra l'altro, Philip Rylands fa parte anche del cda della Fondazione Marini, e sta collaborando attivamente alla realizzazione della grande mostra «Marino Marini. Passioni visive», che si aprirà a Pistoia (capitale italiana della cultura il prossimo anno) da metà settembre 2017 fino all'inizio di gennaio 2018, per poi venire per altri tre mesi proprio alla Guggenheim, dove la sua famosa scultura L'angelo della città è una delle opere più famose. Chiediamo se per caso nella sua decisione abbia influito il fatto che a Venezia il museo ha problemi di spazio che ne impediscono lo sviluppo che meriterebbe... «No, tutt'altro - è la risposta - Grazie alla disponibilità del Comune abbiamo appena potuto realizzare un piccolo ampliamento dei nostri spazi, con il nuovo caffè e ulteriori migliorie, oltre a tre nuove stanze per le esposizioni, contando proprio la veranda dell'ex caffè. Per marzo sarà tutto completo». Anche la campagna per la raccolta dei fondi è praticamente conclusa, con quel coinvolgimento di aziende e imprenditori fra gli amici della Collezione che è stato uno dei segreti della floridità dei suoi conti. Di cosa va fiero, nel suo ultra-trentennale impegno alal Guggenheim? chiediamo. «Grazie ad un bellissimo staff (una quarantina di persone, ndr) lascio un museo in ottime condizioni, il numero uno nell'arte moderna in Italia. Se qualche decennio fa qualcuno mi avesse detto che avremmo superato i 400mila visitatori l'avrei preso per matto. E ho fatto del mio meglio per valorizzare la memoria della fondatrice e utilizzare la sua collezione per educare tanti giovani ai valori dell'arte». Certo, il suo ottimo staff da ieri pomeriggio è letteralmente sotto choch. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Ostello Palach, appello per evitare la vendita di Giorgia Pradolin Lo Iuav avrebbe deciso di vendere l’immobile che oggi ospita una foresteria per studenti gestita dalla Pastorale universitaria Oltre 500 firme per impedire la vendita della casa studentesca Jan Palach alla Giudecca. A raccoglierle gli studenti dello Iuav dopo aver appreso la volontà del rettore, Alberto Ferlenga, di mettere sul mercato l'edificio con il rischio di vederlo trasformato nell'ennesimo albergo. La residenza universitaria è gestita dal Centro della Pastorale Universitaria ed ospita 50 studenti a prezzi modici rispetto al mercato degli affitti veneziani, con un percorso di comunità cristiana: gli studenti vivono e studiano assieme, partecipano ad incontri sui valori cattolici e di lettura del Vangelo. E d'estate, quando l'edificio ospita turisti, si occupano a turni della gestione e dell'organizzazione. «Per me questa casa è stata una mano santa spiega Francesca Narri, studentessa di cinese che arriva dall'Abruzzo e non si tratta solo dell'affitto conveniente ma dell'esperienza universitaria coniugata alla vita cristiana, perché qui non siamo mai soli ed è importante per chi si trova a vivere lontano da casa». Francesca racconta che gli ospiti della casa arrivano da tutta Italia e studiano vari corsi. Vendere lo Jan Palach per la studentessa significa: Toglierci una risorsa, la terra sotto i piedi. Abbiamo appreso la notizia della vendita da parte dello Iuav dai giornali e auspichiamo si possa evitare. La convivenza della casa mira al dialogo, alla cooperazione: Ospitiamo anche un ragazzo musulmano ricorda Daniele Pighin, responsabile della casa e non è il primo. Qui accogliamo tutti coloro che sono interessati a condividere il percorso di comunità e condivisione, dopo un colloquio conoscitivo. Il responsabile spiega che un posto letto in camera doppia con bagno in camera costa 220 euro al mese, senza il bagno 190. I ragazzi si occupano delle pulizie, della cucina e della spesa, un ruolo attivo nella conduzione della casa, con incontri una volta alla settimana rivolti invece alla crescita spirituale. Pare che la tendenza commenta il responsabile sia quella di spostare gli studenti dal centro storico alla terraferma, in via Torino, stiamo cercando di far capire che la loro presenza non è accessoria ma un investimento per la città: molti di questi giovani poi si fermano a lavorare e vivere qui». Pag VII Teatro a favore della Casa famiglia di Daniela Ghio Iniziativa al Malibran per aiutare i nuclei che si trovano in difficoltà A teatro in sostegno di Casa Famiglia San Pio X. Domani alle 20 verrà rappresentata al Teatro Malibran la commedia I Rusteghi, di Carlo Goldoni, interpretata dalla più volte premiata compagnia La Bautta - F. Saoner. I biglietti avranno un costo minimo, configurabile come erogazione liberale, di 18 euro l'uno, ma l'offerta è libera. Tutto il ricavato della vendita andrà a sostegno dei progetti di accoglienza, inserimento e sostegno di mamme e bambini all'interno di Casa Famiglia San Pio X alla Giudecca, comunità di accoglienza, un rifugio protetto, espressione della Diocesi di Venezia affidata dal patriarca alla Pastorale degli Sposi e della Famiglia. La responsabilità e la gestione della Casa sono affidate a coppie di sposi, i Familiari, che hanno il compito di concretizzare uno stile di vita familiare per donne, mamme con figli e future mamme in difficoltà con bambini. L'evento di beneficenza è organizzato dall'associazione Amici di Casa Famiglia Onlus, nata dall'iniziativa delle persone che già collaborano, a diverso titolo, alla conduzione di Casa Famiglia San Pio X, con gli obiettivi di fornire una rete di sostegno ai nuclei che escono dalla Casa dopo il periodo di accoglienza e un aiuto economico per guardare al futuro con maggior serenità favorendo sostegni economici a distanza e creando una rete di appoggio; contribuire alle spese di ordinaria e straordinaria manutenzione della Casa. La manifestazione ha il patrocinio del Comune, della Municipalità di Venezia e del Comune di Dolo. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Gara di solidarietà per il papà povero: “Aiuti e regali di Natale a tuo figlio” di Francesca Visentin Gardaland offre un giorno da sogno. Lui declina: “Voglio solo che parliate dei separati” Venezia. Gara di solidarietà per aiutare il papà separato e povero che non ha i soldi per festeggiare il Natale con suo figlio. «Non posso permettermi l’albero di Natale, così con il mio bambino meraviglioso di 6 anni, quando è come me, abbiamo recuperato per strada assi di legno e creato le decorazioni con le bottigliette di plastica. Ecco il nostro albero». Ha commosso i lettori questa mail arrivata in redazione e la storia di Luciano, 60 anni, veneziano, papà separato che per rendere felice il suo bimbo trasforma la difficile realtà di ogni giorno in una favola piena di magia e giochi speciali. Tante le lettere e i messaggi arrivati in redazione per offrire aiuto a Luciano. Tanti colpiti dalla sua situazione, vorrebbero dimostrare la loro solidarietà con un gesto concreto, anche se non sono ricchi. «Ma è un atto di umanità doveroso», dicono. Papà Luciano ringrazia tutti, ma declina gli aiuti. L’ha detto subito: non chiede niente, il suo obiettivo è fare riflettere sulla situazione dei padri separati, come lui. Ridotti in miseria da alcune sentenze e contemporaneamente privati della possibilità di vivere la quotidianità dei loro figli. «Qual è l’esperto che può dire che un bambino deve stare necessariamente con la mamma perché questo è più sano per lui e per il papà resta solo l’allontanamento con tutto ciò che ne consegue?», dice Luciano e invita a riflettere: «Oggi molti papà hanno una consapevolezza diversa. Nelle coppie anche la mamma lavora, i ruoli spesso sono intercambiabili. Ma i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti dei papà resistono e condizionano le sentenze di separazione». Domenica Luciano l’ha trascorsa con il suo bambino: «Abbiamo aspettato che gli elfi di Babbo Natale passassero a ritirare la sua letterina con la richiesta di Natale», rivela il papà veneziano. Un altro momento magico da vivere insieme, felici di poco, trasformando le durezze della vita in una favola colorata. Come ha fatto Luciano costruendo un albero «povero», ma ricco di colori e creatività insieme al suo bambino. Si sono mossi in tanti per Luciano. Che con sincerità ha fatto sapere che spesso salta i pasti, perché i soldi non bastano. Una volta pagato il mutuo della casa dove la ex vive con il figlio, saldato l’affitto del monolocale dove sta ora e le bollette, non resta più nulla. Nemmeno per un caffè con i colleghi in ufficio. «Ci ha colpito la dignità con cui questo papà racconta le sue fatiche e il tentativo di non farle pesare al figlio - scrive una coppia - , Sappiamo che non vuole denaro, ma ci piacerebbe contribuire. Non siamo benestanti, ma siamo fortunati, viviamo del nostro lavoro, abbiamo due figli grandi e siamo ancora innamorati dopo 30 anni». E Antonella: «Sono anch’io separata, capisco cosa prova Luciano. In alcuni momenti non ho avuto nemmeno i soldi per un gelato. Ora va meglio, ma quanti sacrifici. Per questo vorrei aiutarlo». Francesco: «Vorrei sostenerlo, non sono ricco, ma lo sento come un dovere». Arturo da Salerno chiede di inviare a Luciano un grande albero di Natale pieno di addobbi: «Ho apprezzato moltissimo la sua dignità». Molti papà separati incitano Luciano a non mollare. Poi ci sono le donne: l’associazione di imprenditrici, manager, professioniste, PadovaDonne, in prima linea contro la violenza sulle donne è solidale con Luciano e vuole mandargli un aiuto. «E’ la testimonianza che si può accettare la fine di una relazione, anche se con dolore e in situazioni difficili. Solo il rispetto reciproco può aiutare i figli», sottolinea Alessandra Brotto di PadovaDonne. E poi c’è un’offerta che papà Luciano non può proprio rifiutare: il parco divertimenti Gardaland a Castelnuovo del Garda (Verona), sogno di ogni bambino, invita padre e figlio a trascorrere un giorno da favola: una festa indimenticabile offerta dal parco, compreso viaggio andata e ritorno, pranzo e gadget regalo di Gardaland. Tra le testimonianze di papà separati «costretti a vagare per strada con i figli» perché non hanno un luogo dove portarli, scrive Andrea: «...e l’auto diventa la calda casetta dove tenere il piccolo tra le braccia e raccontargli una favola: resistiamo padri». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 30 Donne non gradite nei bar a nord di Parigi, come nel Maghreb di Stefano Montefiori In Francia e nel resto dell’Occidente i cittadini musulmani sono spesso accusati di non essere abbastanza attivi nel denunciare i soprusi di chi non condivide lo stile di vita europeo. In realtà non poche associazioni, in particolare quelle che si battono per i diritti delle donne, sono fondate e guidate da militanti di estrazione arabo-musulmana. Dopo le azioni di «Ni putes ni soumises» di Fadela Amara, nei primi anni Duemila, in questi giorni in Francia si è parlato molto della «Brigade des mères», la «brigata delle madri» fondata dall’algerina Nadia Remadna, che ha realizzato un video con telecamera nascosta poi mandato in onda dal servizio pubblico al telegiornale delle 20. Nadia e l’altra militante Aziza Sayah sono andate a Sevran, nella periferia nord di Parigi, e hanno filmato strade dove non si vede in giro neanche una donna. «Gli uomini occupano i luoghi, e le donne subiscono», dice la voce fuori campo. Poi le due attiviste decidono di entrare in un bar. Il dialogo che ne segue è molto interessante. «Cosa volete, signore?», chiede subito il padrone del bar. «Cerchiamo qualcuno». «È meglio se aspettate fuori». «Perché?». «Qui ci sono solo uomini». «Pazienza, al mondo ci sono uomini e donne, le diamo fastidio?». «Lo dico per voi». «Ma per noi non c’è problema, ci facciamo piccole piccole e ci mettiamo in un angolo». «Ma ci sono solo uomini qui», ripete un cliente. «E ti sembra normale? E se io volessi prendere un caffè con una cugina, un’amica, o tua moglie?». «Mia cugina resta a casa. In questo caffé non c’è mixité», insiste il proprietario, uomini e donne non si mescolano. «Siamo a Sevran qui, non a Parigi». «E allora? Sevran non è in Francia?». Esasperato, il patron alza la voce per sentenziare che «qui sei nel 93! (il dipartimento Seine-Saint-Denis, ndr) La mentalità è diversa, qui è come al villaggio!». Per villaggio si intende quello di origine, nel Maghreb, che alcuni cercano di importare tale e quale alle porte di Parigi. AVVENIRE Pag 19 I copti: “Ormai ci trattano da stranieri” di Federica Zoia Paura dopo l’attacco al Cairo. Ad agire un kamikaze di 22 anni. Sisi ai funerali «Ho sempre più paura, non ho mai pensato di andare via, ma adesso comincio a considerare la possibilità di farlo in pianta stabile», spiega Ragab. È una copta ortodossa cairota. E conosce molte famiglie toccate dalla strage di domenica nella cosiddetta “Cairo copta”. L’attentato presso la chiesa di San Pietro e Paolo, nel complesso della cattedrale di San Marco, riporta bruscamente al centro dell’attenzione il contesto drammatico in cui versa la minoranza cristiana egiziana. In un crescendo di tensioni sociali, intimidazioni, attacchi mirati, il 10 per cento circa della popolazione vive sentendosi discriminato nel proprio Paese d’origine. Discriminazioni sistematiche e anche gravi episodi di violenza non rappresentano una novità nella vita dei cristiani d’Egitto. Qualcosa, però, pare peggiorato negli ultimi anni. «Mi sento sempre meno protetta, ho l’impressione che alla polizia non interessi la nostra sicurezza, come se non fossimo davvero egiziani, come se fossimo un po’ stranieri. Prima mi muovevo spesso fuori dal Cairo nei fine settimana, adesso ho ridotto gli spostamenti e vado sempre meno nel Sinai», spiega Ragab, 40 anni, ricercatrice universitaria in un ateneo privato. Dopo la fulminante ascesa, seguita da un’uscita di scena altrettanto rapida, della Fratellanza musulmana alla guida del Paese fra il 2012 e il 2013, i vertici del patriarcato copto ortodosso si sono esposti politicamente come mai nel passato recente. Il sostegno manifesto al direttorio militare di Abdel Fattah al-Sisi, prima, e all’insediamento alla presidenza di quest’ultimo, poi, hanno acuito il risentimento nei confronti della comunità cristiana d’Egitto da parte dei sostenitori della confraternita. «In realtà, io il risentimento lo sento da più parti, anche molto diverse – riferisce la donna –. È il fastidio evidente dell’autista dell’autobus quando salgo io, donna senza velo e con una croce sul polso, e magari fa di tutto per farmi scendere con la scusa che non c’è posto. Oppure sono le occhiate delle altre donne in metropolitana, tutte con l’hijab, che piano piano si allontanano. Ormai prendo la macchina per spostarmi. È chiaro che non è sempre così e che ho amici musulmani di lunga data. E anche colleghi musulmani con cui lavoro bene, però appena possono la “battuta” scatta. E fa male». Ai cristiani, i concittadini musulmani rinfacciano l’attuale corso politico, più o meno in questi termini: «Dicono così: credevate che al-Sisi fosse il salvatore e invece è molto peggio di Hosni (Mubarak) e pure di (Mohamed) Morsi, contenti?», sintetizza Ragab. Nel passato recente, un altro attacco dinamitardo ha insanguinato una funzione religiosa cristiana, quello del primo gennaio 2011 nella chiesa dei Santi, ad Alessandria d’Egitto. Ad Alessandria, Magda, 37 anni, fa la Web master: «Lavoro per conto mio, a volte ho pochi contatti con i miei clienti, quindi non risento della mia diversità nel mondo del lavoro. Ma gli amici cristiani occupati nella pubblica amministrazione hanno un sacco di problemi, ritardi, fastidi, trovano continui ostacoli. Spesso sono vittime di mobbing. E poi temono sempre di essere licenziati. Io invece ho paura quando si avvicinano le feste, le occasioni religiose in cui siamo “apertamente” cristiani. Ho paura degli estremisti, dei pazzi. Avevo paura sotto Mubarak e ho paura anche adesso. In questi anni noi cristiani non siamo cambiati, sono cambiati loro musulmani: gli intolleranti sono aumentati. E vogliono un Egitto tutto loro», conclude con amarezza. Il cambiamento, tuttavia, riguarda anche il comportamento dei copti, inevitabilmente: «Certo, ci frequentiamo sempre più fra di noi, andiamo nei negozi di copti, nei ristoranti di copti, dai medici copti.. E se ti innamori di un musulmano, per le famiglie è ancora peggio oggi che 20 anni fa, una tragedia », chiosa la giovane donna». Torna al sommario