009. Iiiiiiih! La fòla dal business Certi cavalieri bramati e prediletti si

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009. Iiiiiiih! La fòla dal business Certi cavalieri bramati e prediletti si
009. Iiiiiiih! La fòla dal business
Certi cavalieri bramati e prediletti si ergono alla luce con tanto
di mutande e d’ippocampo bianco in bell’armatura, il garrese lisciato
al punto giusto e un’eccellente criniera già tutta intrecciata sul colletto
ampio alla marinara. Certi altri pasticci imbastiti invece, poveretti, che
di marinaro possiedono giusto l’arroganza isterica dei bastoncini fritti
sul paltò, nemmeno con un cavallo dei pantaloni appena compatibile,
poiché il signore non fa che scompigliarsi lì nel mezzo del più bello e
a dirsi giorno e notte bisognoso di svariati punti d’occasione.
O quantomeno di creanza sentimentale, se ci si perde ancora
per le stanze di palazzo ad indugiare sui biscotti nel languido mosso,
quali gracili damigelle da te verde che hanno mancato davvero per
poco la giostra della Bastiglia, il Quarantotto basso, la zona alticcia di
Zeman e le brioches alla crema. Del resto pioveva e «…cosa credi
william, le messe in piega ferrate vanno prosciolte tutte.»
Potrebbero aver smarrito distratte anche il treno della pentola
a pressione, in un pagliaio ussaro o giù di lì, per sferruzzare in circolo
la maglia sorseggiando sottoinsiemi rosa di bollicine, tutte sopraffatte
da quantità impareggiabili di centritavola color bordeaux. Struggenti
colombe della campagna inglese che infiammano i vessilli dei migliori
campioni. Piccioni travestiti di bianco, in verità, col quarantaquattro e
mezzo di scarpe e un cappellaccio a tesa larga per ripararsi la nuca
dalle tempeste affilate. E starnazzano sbiadite, le incantatrici tisiche,
fantasmi pigolanti d’una reggenza bardotta tumulata sotto coltri di
testosterone germanico, venuto a maturare nei campi vagheggiando
l’estate a bordo di vagoni barbari con la trazione integrale. 1
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N.d.C. Preambolo di rara propedeutica cavalleresca ricamato alla Pascal. Si ragiona di
Rivoluzioni e d’ossute giovinette che hanno perso l’occasione giusta solo per starsene tra di
loro in sottoveste ad ubriacarsi col Bordeaux. Cosa di per sé encomiabile, avesse istituito un
cenacolo più devoto del Beccheggio femminino perpetuo, salvo poi volersi redimere i baffi
alla bersagliera. Ma forse era solo perché non se la sentivano di salire in Wolkswagen senza
un paltò stirato, soprattutto dopo aver vissuto avventure così meravigliosamente romantiche
infilzate alla moschettiera, alla giannizzera, all’archibugiera… Anche alla cosacca.
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Il cavalier Arturo Calciolari, Sua Pia Squisitezza Chiarissima, a
quei tempi neppure portaborse aggiunto di palafreniere, apparteneva
per rettifica ereditata alla seconda stirpe. Nato alla marinara, benché
senza attitudine sintomatica per la pesca sportiva, essendo oltretutto
privo d’un vigoroso motore a remi, aveva dovuto soccombere al vizio
di formarsi ad ogni genere d’impiego agonistico pervenutogli in dote.
Non foss’altro che al fine di sopravvivere a tono.
Va ricordato fin da subito che amava le aragoste a colazione,
non certo per gratificarne l’intuizione eccentrica d’una decenza vista
mare, quanto piuttosto per non dover poi stilare chilometri di verbali a
carico che concedono appena il tempo che trovano per accamparsi
sopra e sotto il sedile in opera, la sdraio, lo sgabello, l’ottomana, la
cassapanca e la panchina… Un tempo da ritenersi ottuso, malgrado
sappia sempre allestire su richiesta comprensivi pomeriggi assolati.
Quest’uomo straordinario per esordire col dovuto garbo si era
più volte trasfigurato in matrimonio a rimorchio sui panfili da crociera,
nei porti, ai vari, nelle casette di guardia del Consorzio, spalmato sul
fondo delle stive insieme al brusio dei candidati medi ad un diploma
d’identità sovrastante. Purtroppo i comandanti stavano al ponte del
golf... Lui aveva comunque saputo rifarsi tutto da sé, offrendosi in
qualità di caddie battista con gamberi da cocktail e fiaschetta d’acqua
santa, senza riscontro che potesse tuttavia sfumare una salsa un po’
troppo sbilanciata sull’anca light della maionese. Si era poi intrufolato
al torneo ittico del venerdì mattina brandendo, automunito, una wild
card da prima comunione, abilmente camuffato da merluzzo magro
con spinaci per espugnare solo le massaie di roccaforte in assedio.
Quelle a cui bastava s’intravedesse un bandolo di speranza in mezzo
al verde della cavallina che impentolavano corsare a testa bassa.
Non lamentava rigurgiti di sorta quando si trattava di ruminare
invano, e non avrebbe avuto riguardi neppure per gli stecchini lunghi
delle olive, verdi o nere, qualora temprati in un’abbondante salamoia
sicula. Meglio ancora se la sicula ci stava ancora attaccata per intero
alle asticelle, con tutte e due le Sicilie. Una per parte, così lui poteva
applicare il turnover borbonico alternando il primae noctis al mito
angioino del turno infrasettimanale. Tutto sarebbe rientrato allora per
diritto nei costumi disciplinati d’una ineccepibile legge storica, se non
proprio articolata nei dettagli tecnici, indubbiamente fisica.
E quando la scienza parla per corsivi fisici che hanno proprio
l’aria di saperla oblunga, noi tutti la stiamo ad ammirare estasiati.
Per un paio d’anni era stato anche mezzo avvocato in marsina
da squalo e tabarro blu sulla sedia. Poi una vedova di scoglio l’aveva
incastrato in un’insenatura australe e lui aveva dovuto darsi gambe e
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cavalluccio scosso all’edilizia rivierasca, contando sulla bassa marea
che s’aggirava da quelle parti. Seppe anche ritagliarsi nel contempo
il ruolo del direttore artistico d’una pallanuoto digitale ancora tutta da
scoprire, che nessuno colse lì sul momento proprio come la storia dei
punti sui pacchi dei biscotti, ma che si fece di colpo chiara ai membri
non associati solo alcuni anniversari più tardi, quando furono costretti
a cambiare tutti acconciatura. Quelle vecchie venivano scaraventate
giù dai barconi dritte in mare via Po, dove il Cavaliere aveva afferrato
i diritti d’insabbiamento inaugurando così il suo miracolo sportivo.
Si vede che un po’ di mareggio gli era rimasto dentro, vicino al
cuore precisavano, come alle conchiglie puntigliose del bagnasciuga.
Puoi scarrozzarle al Tonale per tutto l’inverno quelle maledette, e per
l’inverno successivo e quello dopo ancora, su e giù dallo skilift. Ma
se provi ad accostare l’orecchio non fanno che biascicare fandonie
d’abissi e litorali, con quel fruscio di guardaroba che le scaglieresti in
mare via Po. Non vanno bene neanche per il fritto misto delle cinque.
Visto poi che l’impresa prosperava, iniziò ad avanzare riserve
esclusive, ad impiantare depositi a tema, ad innalzare giardini pensili
ovunque gli capitasse. Con un geniale impianto di condotti babilonesi
progettato dal maniscalco obliquo del paese, portò l’acqua fresca nel
deserto, sui ventidue-ventitre gradi, e quella bollente in cima al K2
per lo scrupolo di farsi un bombardino quando ci sarebbe andato.
L’intero mercato mondiale delle sardine sotto sale ne rimase
scottato. Non aveva mai osato varcare la soglia dei dieci gradi, né
tanto meno quella di casa Ghibli. Gli andava la sabbia nelle mutande
e preferiva starsene rintanato in un posto più tranquillo, dove poteva
al limite levarsele senza rischiare querele. Ad esempio dove c’erano
sardine a banchi emancipati che si lasciavano abbordare in spiaggia
senza lische e si facevano pure riaccompagnare a casa in bici. Le
stesse ginocchia del pesante traffico alpinistico internazionale furono
sottoposte a dura prova dall’introduzione d’una scelta fino ad allora
impensabile tra due eventuali rubinetti a parete. Uno rosso e uno blu.
Tutti i tedeschi furono infatti invogliati a prepararsi di corsa per
l’immane scalata, con enormi biscotti alla crema ficcati nello zaino a
mucchi, e partirono impacchettandosi a vicenda. Non rimase a casa
nessuno. Tant’è che i vicini brazzaghesi provarono a farne migrare le
merendine a punti dalla credenza indifesa dei sottoscala. Molti di loro
non tornarono mai più a casa, anche perché le merende erano state
contaminate con la trazione integrale e li deportarono a moltiplicarsi
nel deserto. Furono scovati presi per mano come cremini al sole, con
un sacchetto di manna sciolta nel borsello per i momenti difficili.
Il Cavaliere proseguì al galoppo senza fare una ruga.
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Bonificò la golena del Po da tutti quegli sgraziati pioppeti che
impedivano ai sindaci assunti d’elargire marche e ducati arredabili ai
propri feudatari assistiti, assessori ed assassini inclusi. A che serve
comandare, insisteva vantando una discreta dentatura sgombrata a
sua volta dai pezzi di lattuga appariscenti, se non si può disporre del
settore ortofrutticolo? magari con un bel palio di quintane estive per
assegnargli nome e colore? Tanto varrebbe andare tutti in pizzeria a
trangugiare wurstel affumicati in salsa di lamponi! «Ah! Ah!»
L’«Ah! Ah!» faceva tutt’uno con il caratterino da guardacaccia
bavarese che aveva messo a punto tra un wurstel affumicato e una
salsa di lamponi, per risultare simpatico al pubblico della birreria. Era
tutto ciò che rimaneva in chiaro dietro un paio d’occhiali da sera così
ben calcati sul naso da non far trapelare altro che birra, salsicce e un
bell’«Ah! Ah!» in vellutata salsa di lamponi. Un «Ah! Ah!» perspicace
quanto un rabdomante d’acqua svezzato a salsicce e vialone nano, e
convertito poi solo in età più che matura al lambrusco dolce. Che per
quanto annacquato richiede pur sempre un briciolo d’esercizio.
Ogni cantone del paese portava ormai la sua sigla riprodotta a
riccioli ben scartavetrati in stile liberty. Niente era stato risparmiato,
comprese le mutandine amaranto della squadra di beach-volley, la
plurititolata Alabarda del Po.
Le carte delle caramelle, i trafiletti del giornale, le ricette della
nonna, le poesie del dottore ed ogni legenda d’amore, cominciarono
allora a mostrare epidemie di testosterone aggiunto in abiti corsivi.
Le parole scritte stavano tutte sedute al loro posto, per cui nessuno
si doleva del sintomo. Spuntavano soltanto alcuni riccioli ben pettinati
nel breve tragitto che separava l’autografo a ceralacca dell’autore reo
confesso dalla sua pubblica esposizione. Risorse supplementari che
rendevano più orecchiabile l’umore selvatico della stampa. Un modo
come un altro per il Cavaliere di farsi onore in battaglia. 2
Eppure non era contento.
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Ci si potrebbe chiedere ancora, se la domanda era partita in orario, se c’erano tonnellate di
prove in scatola sull’abbecedario, perché lo scempio proseguiva e il trattato s’incorsiva?
Perché i pirati non s’ammutinavano sui galeoni, le peonie non si maritavano ginocchioni?
roteando tutte le chiavi uncinate che s’erano dovute sorbire a mazzi di scorta, le belle parole
scivolate tutte fuori porta? E chi avrebbe poi offerto da bere al popolino eletto? Chi avrebbe
lasciato la mancia sul tavolino sfitto? Chi avrebbe sorriso giocondo da ogni poster appeso,
da ogni juke-box acceso, in qualunque cantuccio del bar si fosse lungo disteso, «Ah! Ah!»,
rendendo quasi passabili le tante giornate tapine, le troppe vite meschine? Chi avrebbe fatto
quel che smaniavate di fare voi alla barista corsa, ma non avevate mai abbastanza moneta di
resto in borsa? Chi avrebbe riaccompagnato a casa in bici vostra madre, vostra sorella,
vostra moglie dalla spiaggia? Chi avrebbe santificato le topoline del paese vicino e vostra
figlia con loro, perfino? Voi no invece. Lì avreste dovuto arrangiarvi. Anche con la nonna.
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La gente lo guardava con sospetto a ragione di piccole brighe
sgombrate in pendenza, storie di crocifissi estratti dalla malasorte a
cilindro, cioccolatini amari un po’ molluschi, meloni minorenni a sentir
la madre ancora indietro negli studi. Il don gli aveva persino rifiutato
l’estrema unzione quando s’era preso il morbillo in minigonna acuta,
compiendo l’errore più grave d’una carriera presbiterale per il resto
quasi ineccepibile. Perché la metteva anche lui la minigonna sotto il
pastrano delle feste, si sappia, d’un viola pasquino. Anche ai funerali.
Da quel giorno così umiliante per la sua ammirevole immagine
pubblica, dall’alto d’un tacco del dodici come tutti i grandi condottieri
innalzatisi da sé nel corso della storia che conta ancora qualcosa, il
Cavaliere aveva deciso di scendere nei campi personalmente.
Si fece dunque confezionare un completino amaranto da fare
invidia a quel trequartista assorto di Floriano Sganzerla, che ingaggiò
però sottobanco come aiuto-regista fariseo di manovra, in modo da
neutralizzare le allarmanti virtù alpinistiche dell’ipotetica concorrenza
sovversiva. In cima al mucchio, sul cavallo alato, nel castello di prora
fin quasi all’albero di trinchetto, c’era posto per un solo capitano. Al
massimo due troie che grufolavano accucciate in un angolo, perché
era pur sempre affezionato ai fremiti della campagna, ma per il resto
buone. Frattanto, siccome non era stupido come complesso, sondò il
terreno nel tentativo di ritrovare il petrolio che sempre a dire della
madre melonara s’era perso una marea d’anniversari, e visto poi che
c’era, d’iscrivere la nuova squadra in rendita, l’Alabarda Spaziale da
non confondersi con l’altra, al campionato di calcio di serie B. Calcio,
pallavolo, pallanuoto… sempre di palle che giravano si trattava.
Quando i soliti comunardi gli dissero che l’eccezione non era
ammissibile in un ecosistema organico a suffragio coniglio-pastorale
irriguo come il nostro, contraddistinto da una direzione collettiva delle
trivellazioni in campo, oltretutto dibattuta «a» e non «nel» sedere con
ulteriore aggravante del doppio maggese incrociato a scotch, ma con
auspicabile botolone d’erbaspagna in mancia... Solo che se c’è una
mancia da smaltire, ribatteva lui, non viene forse voglia di premiare la
barista? Non viene quasi voglia di farlo almeno in silenzio e di corsa?
I comunardi invece non si smutandavano mai. Con quell’idea
stravagante d’una sovranità in comune poi, così lontana dal senso
pratico che solo un due pezzi ben tornito poteva sostenere in privato,
sembravano fatti apposta per far saltare ogni intendimento redditizio.
E tra comunardi, sanculotti e mio cugino col filobus il caos dilagava a
circolari equestri. Ci si misero pure i Giovannini, gente semplice che
di solito snobbava i dissidi anarchici privilegiando il tram, ma che per
qualche moneta di resto si sarebbe incendiata il suo stesso giaciglio.
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Avrebbero fatto meglio ad assicurarsi una principessina dotata
di soppalco notte e prestigiosa area esclusiva, invece di sbracciarsi a
danno dell’iniziativa imprenditoriata. L’Arturo fece comunque finta di
nulla e con una balsamica serie di smentite circolanti, talmente tonda
da far vorticare le ferramenta a tutti gli attendenti sanguigni di parte e
agli attendisti coscritti, nonché a tutti i concorrenti iscritti che stavano
lì in circoli spontanei in attesa d’una scommessa eterna, qualcuno in
collegamento via Po da Lourdes, optò per la Seconda categoria.
Si rimboccò le maniche corte di buone intenzioni belligeranti e
acquistò i diritti sportivi dallo Scorzarolo Emilia, squadra comunarda
che aveva smutandato fino al collo in un torneo clandestino. La legge
del mercato sul basso fondale è uguale per tutti e lui non aveva fatto
altro che rassegnarsi alla normativa costiera del calciobalilla. Le sue
azioni salirono vertiginosamente arrampicandosi frenetiche sui crinali
del campanilismo di frontiera, per cui decise di distribuirle per finta.
Le stampò sul dorso della carta da pacchi natalizi, «Ah! Ah!», a tutto
vantaggio di quei lazzaroni dei suoi compaesani. Che poi il prodotto
dubbio fosse finito per sbaglio anche sotto l’albero dei limitrofi nuclei
di persistenza reggiana, e che i suddetti commando abbindolati se la
fossero legata stretta al farfallino turchese, tanto da bandire manovre
di rappresaglia fino a Befana inoltrata, i felloni, è una storia che non
ci deve preoccupare. Ci penserà il soprintendente alle Feste, no?
Ben presto divenne quindi sindaco a pieni poteri. Il concetto
nebuloso della sovranità in Comune ebbe allora finalmente un senso
carnale. Il Cavaliere infatti, oltre a reintrodurre il glorioso corpo delle
majorettes come gli chiedevamo a gran voce, si limitò a perfezionare
l’ideale d’un capolettera. Tutti avrebbero potuto farlo, ma lui ci arrivò
per primo. E a rifletterci bene, se uno è cavaliere deve pur mettersi
nella condizione di ritagliarla qualche testa di drago in giro. Li hanno
ordinati apposta i cavalieri erranti… e i draghi a punti pure. Perché
più d’una testa s’un drago solo non può rimanerci a lungo. Come due
galli nel pollaio o due capitani pirla sul trinchetto… Prima o poi a uno
gli tagliano le palle, diceva la nonna. Non si saprebbe mai cosa fare,
chi vuole andare al lago con l’amante, chi al largo con l’armante, chi
in via Po nell’armadio con badante. E tutti noi giù in fila a pisciare alla
Pascal. Ma ora le presunzioni d’ipotesi sarebbero state vinte, «Ah!
Ah!», i ricami esitanti finalmente estinti. Avremmo contato solo Verità
incrollabili sullo scudo, pronte da annodarci a gassa o col diamante.
A quel punto poteva fare tutto quanto avesse mai desiderato.
Poteva fabbricare policlinici portatili su sei ruote da criceto, succhiare
cartoni interi di ghiaccioli al limoncello, caso mai quelli all’amarena
fossero finiti, trascorrere le intere ferie di suo cugino in ufficio vestito
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da Za-gor-te-nay. Poteva ordinare che i ciccioli dell’inverno venissero
sfornati coi riccioli biondi per farne dono all’amata Bradamante.
Ma ancora non era contento.
E non poteva certo esserlo, poiché ricordava ogni giorno con
amarezza l’episodio del morbillo sottostimato. Un bruciore lancinante
partiva allora dallo stomaco e s’irradiava per tutto il corpo, andandosi
a concentrare proprio nei punti esatti dove un tempo erano cresciute
le pustole. Decise dunque di convertirsi, «Ah! Ah!», sebbene risulti
ancora improprio battezzare decisione un improvviso rischiarimento
mistico conseguito alle due di notte s’una parvenza di seno bulgaro.
Era piuttosto il segno della possessione divina che l’aveva onorato,
come capita solo a pochi eletti, a san Paolo e a qualche bignolata di
campo con una fila estenuante di giudizi sfavorevoli allo zabaione.
Comunque sia, fece costruire una chiesa di mattoni antichi e
convinse tutti i tifosi a frequentarla in prova, sei mesi a rutto sciolto,
garantendo che solo così sarebbero stati davvero liberi d’esprimersi
secondo natura intima, per raggiungere quello stato di pace profonda
tanto inutilmente propagandato dai falsi profeti stitici che infestavano
l’altra chiesa in Lego. Dissertazioni che funzionarono a meraviglia.
Con le due Alabarde che si ritrovava, nessun umano poteva
resistergli o infilargli sondaggi ostili tra le ruote panoramiche. Egli era
inoltre il primo ministro della chiesa riformata, il nuovo apostolo d’un
padrone di casa finalmente a spasso con i tempi, «Ah! Ah!», come lo
era stato san Paolo ai suoi di tempi, oserei dire avvalendomi tuttavia
di un passeggio che potrebbe risultare poco attendibile per chi non
sputa sufficiente gomma dal ponte. E a Brazzaga ne contiamo ben
tre di ponti. Fa niente… sarà per la prossima volta, si dissero allora i
nostalgici ortodossi d’una liturgia che poteva dirsi ormai defunta, allo
stesso modo del suo anziano promotore locale, don Curato Brioni. 3
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San Paolo Giovannini (1905-1945) era stato un fervente fuochista nella prima parte della
sua carriera, aveva alimentato parecchie insurrezioni di grido, almeno quelle che eccitavano
gli stomaci pubblici, come il Tumulto dei Ciompi a Firenze nel 1378, la Peasant’s revolt del
1381 in Inghilterra con Wat Tyler e Billy the Kid, ma già aveva dato prova di sé in terra di
Francia arruolando le falangi dei Pastoreaux prima ed inventandosi di punto in bianco una
Jacquerie digitale che davvero in pochi dei non affiliati riuscirono a ricevere senza farsi
ferrare le palle. Era stato con Masaniello a Napoli nel 1647 e forse anche con Robin Hood a
Sherwood, anche se qui si sfuma nella leggenda e i troppi cantastorie al soldo dello sceriffo
di Nottingham non renderebbero giustizia al lavoro dei necrofori. Forse invece fu proprio lì
che imparò qualcosa del business. Togliere il superfluo ai facoltosi pare arricchisca dentro.
Fatto sta che ad un certo punto della sua rocambolesca vita, mentre faceva merenda con gli
insorti milanesi del 1848, si convertì fulminato s’una piada al Tabasco. Emigrò allora con
una divisione di pastorelli fedelissimi prima a Lourdes sui Pirenei nel 1858, e da lì scese in
Portogallo nel 1917, località Fatima, e tutti conosciamo la florida industria che n’è venuta,
con le imitazioni più o meno riuscite intabernacolate un po’ in tutti gli angoli dei nostri bar.
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Ciò nonostante il Cavaliere rimaneva un saltafossi convinto e
quando i sempre più numerosi ammiratori presero ad inchinarsi e a
chiamarlo «Eccellenza», lui si risentì di nuovo. Gli sembrava troppo
poco. Un banale titolo da patriarca comunardo e reazionario insieme,
da vegetarca Giovannini in sospette mutande dell’estrema destra Po.
Un epiteto che confondeva entrambi i pergolati auricolari, tante erano
le imitazioni in commercio sui filobus. Siccome amava invece i prodi
Cavalieri della Tavola rotonda, e sarebbe stato davvero un fantastico
re Arturo un giorno… e gli piacevano un poco anche i cavalieri Jedi
oltre a quelli dello Zodiaco, aprì un dibattito critico col proprio umore
effimero, deliberando di farsi cavaliere allo stesso modo. Per trovare
il bandolo verde del santo Graal nel te o avere più femmine da corsa
in braccio, come per ogni mistero della Fede, non è dato sapersi.
Ciò che conta è piuttosto rimarcare il Sacro Evento, la nascita
d’un Cavaliere senza macchie vistose sulla cravatta dell’anniversario,
impavido paladino d’una giustizia emendata a fagioli e cipolle. Colui
che avrebbe sbaragliato il processo d’imbarbarimento dalle pagine
corsive del nuovo organo di castello, Va’ Che Portfolio Brazzaghese,
e avrebbe disarcionato tutti gli spergiuri infami del bel paese sordo,
«Ah! Ah!», tutti i raschiatori sommersi d’ogni barile al lordo.
Quando la gente aveva un dubbio su cui contare, a chi poteva
mai rivolgersi? A quel rovescio di don Brioni, il quale non faceva che
schioccare sberle giù dal campanile o emettere penitenze imbrogliate
come quaresime? Almeno il Cavaliere snocciolava via un bianchetto
o due. E quando poi il tarlo in dispensa si rosicchiava pure la raccolta
dei punti, ecco il cavalier Arturo con le topoline amaranto di ritorno da
una santa crociera servita in tavola, pronto ad allungare una mano
amica sotto i sederi, «Ah! Ah!», ad aggiudicare un sedile certificato in
anagrafe, uno scranno ben saldo in banca, una cassapanca censita
al catasto, un’ottomana a riccioli biondi dal notaio, un diritto di sdraio
in tribunale… O anche una seggiola in vimini semplicemente libera
dal barbiere, che di posti autonomi ne contava sempre così pochi. 4
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Le crociere del Cavaliere hanno fatto storia nel settore. Cominciò come tutti dalla curva.
Alla richiesta d’aiuto dell'imperatore bizantino Alessio Comneno, preoccupato per la scarsa
risposta di pubblico allo stadio, egli rispose insieme al Papa Urbano II al grido ultrà di «Dio
lo vuole», indicendo la Prima crociera nel 1095, un pellegrinaggio di massa organizzato
per assistere alla finale di coppa che il Real Costantinopoli doveva giocarsi a Gerusalemme
contro una squadra tardo marocchina o turca, tanto per loro era uguale. La crocerossina che
si portavano sul mantello indicava che i ragazzi erano tutti infermieri diplomati. I Pezzenti
col capobanda Pietro l’eremita partirono subito, armati soltanto di manganelli e fumogeni, e
furono giustamente massacrati di botte dalla Polizia in un bar di Nicea. Si sfogarono allora
s’una compagnia azzima d’Israeliti scalzi, colpevoli, in attesa del filobus. Partì in seguito lo
zoccolo nobile della tifoseria capitanato da Goffredo di Buglione, che nel 1099 invece di
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soccorrere i complicati bizantini si mise a saccheggiare il viavai di Gerusalemme. Com’era
usanza arrivavano al galoppo, scostavano l’elmo ferino in segno di buongiorno cavalleresco
e massacravano tutti con la pallacorda, uomini, bambini e mascottes. Se poi ci capitava di
mezzo anche qualche mosaico... mica gliel’avevano detto loro di farsi così difficile. E tanto
era già rotto. Le azioni dimostrative si protrassero fino al campionato 1100-1101. Tra il
1147 e il 1149 fu organizzata la Seconda crociera, questa volta per la semifinale ma con un
miglior panettone di scorta confezionato dallo chef internazionale Bernard de Clairvaux, il
quale spiegò agli ultrà esitanti che loro non avrebbero menato uomini, ma il male che questi
incarnavano in quanto brutti avversari del cazzo. Il Cavaliere si accordò in quell’occasione
con Luigi VII di Francia e Corrado III del Sac. Rom. Imp. che inviarono i loro commando.
Pochini in verità e furono infatti fermati dalla Polizia già nei dintorni di Damasco. La Terza
crociera fu allora allestita tra il 1189 e il 1192. Questa volta era il Bayern che si giocava la
coppa col Galatasaray del Saladino. Il Cavaliere si limitò ad armare le falangi di Federico
Barbarossa alleatosi coi francesi di Filippo II e gl’inglesi di Riccardo cuor di leone. Le
squadre pareggiarono e quel che rimase in piedi dei capitani si dovette accontentare di San
Giovanni d’Acri, coppetta inventata lì per lì che non convinse nessuno. La Quarta crociera
fu organizzata tutta dal Cavaliere nel 1198 per ordine del papa Innocenzo III. Le tifoserie
erano di nuovo scarse così per non rimetterci la faccia s’inscenò uno sbarco in Terra Santa
girato in golena col super8 del dott. Kubrik, mentre i capi se ne andarono al mare in Croazia
con una muta di topoline venete. Il papa, venutolo a sapere, s’infuriò perché non l’avevano
invitato a cena e ne pretese subito una Quinta, 1217-1221, da Federico II. Ingaggiò inoltre
vari fuoriclasse per stare sul sicuro, tra cui il funambolico san Francesco d’Assisi, ma fu
inutile. Federico era rimasto a letto perché la sveglia non aveva suonato e il papa lo nominò
Anticristo da trequarti scarso. Lui allora chiese aiuto al Cavaliere che gli consigliò tanta
diplomazia per la Sesta crociera del 1228. Questa partì dunque in sordina. Tuttavia a metà
del secondo tempo un esagitato turco starnutì dagli spalti. Tutto il centrocampo tedesco
stramazzò al suolo e fu tre a zero a tavolino. Poi si disse che il Cavaliere aveva donato al
sultano al-Malik al-Kamil una tenda diplomatica da campeggio con gli spifferi contagiosi…
Nessuno riuscì a dimostrare nulla. La Settima 1249-1250, l’Ottava 1270 e la Nona crociera
1271-1291, furono invece coordinate da Luigi IX di Francia. L’Arturo ci mise soltanto la
firma timonata sull’albero di trinchetto. Le finali si erano spostate in Egitto, e i francesi del
Bordeaux dovevano vedersela ubriachi con gli elettricisti della Dinamo Cairo. Sarà stata la
sfiga gugiœla, toscanismo, sarà stato che a girare avanti e indietro tra il Cairo e Tunisi
perché tanto sono tutti marocchini uguali, può capitare di beccarsi un po’ di cacarella col
raffreddore, fatto sta che Luigi ci rimise tutto l’inventario coi mutandoni e scomparve dalla
scena. I tifosi guidati dal fratello Carlo d’Angiò invasero subito Palermo e Napoli in segno
di protesta. Tornarono in gioco allora gli hooligans guidati da Edoardo I, che tuttavia
sbagliò stadio recandosi nella vecchia sede di Gerusalemme. Non gli rimase che negoziare
una tregua con gli ultrà locali di Baybars, mentre le brigate europee cominciarono a menarsi
tra di loro dal freddo e i mamelucchi chiusero infine lo stadio di San Giovanni d’Acri che
cadeva a pezzi. Altre crociere prestigiose furono poi quella alessandrina, quella contro gli
Albigesi, quella contro i Forlivesi, quella contro il bel capocrociera addormentato Federico
II, quella contro i popoli del Nord che non pagavano i balzelli, quella alla pecorina ecc.. Da
menzionare infine la Crociera dei fanciulli del 1212, dove un tizio visionario promise di
separare le acque del mare per permettere a tutti i bambini abbastanza buoni di vedere la
finale. Poi siccome a parte qualche ondeggiamento ritmico del tipo su e giù il mare neanche
a farlo apposta non ne voleva proprio sapere, i bambini accettarono un passaggio natalizio
dagli sconosciuti e furono obbligati a vendere pop-corn in catene nell’intervallo. Qui però il
Cavaliere non è responsabile. Lui non lo sapeva ch’erano bambini. Credeva più peluches.
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Ogni volta al di fuori della propria competenza scritta, benché
assolutamente al di sopra d’ogni più becco sospetto orale. Se ad
esempio Giovanardi non versava la quota pattuita e un Giovannini gli
bruciava il cappello, o se il cucciolo custode del porcile ringhiava in
maniera troppo tardo egizia per essere figlio legittimo d’un manager
rosa con appena due zamponi per lato, una soffiata all’archeologo e
in cinque minuti scarsi accorreva la biga del Cavaliere con sei arcieri
unni sul portapacchi, una pala bulldozer e due architetti di cortesia a
traino. Entro sera ogni disguido sarebbe stato ricamato di lenticchie.
Ma queste sono solo le illazioni delle tante malelingue salite in
cattedra dopo il tramonto. Perché il cavalier Arturo una notte cadde
da cavallo spezzandosi la maiuscola senza mai essere stato re una
sola volta. Come spesso capita a chi galoppa troppo svelto di gomito
e tralascia per vanità d’allacciarsi stretta l’armatura a molla suggerita
con la cuffia ignifuga della nonna. La bestia nitrì fuori di sé dalla gioia
e andò a coltivarsi zoccoli di scorta in un pagliaio randagio, o giù di lì.
Quelli ussari stavano già tutti sommersi d’inquietudini in reggicalze e
sospironi da coccodrilla in fregola. A lui non rimase che ritirarsi a sua
volta in alta campagna, poiché gli avevano svergognato i punti della
patente alfabetica e non poteva più sfrecciare ai centottanta per le
vie del centro, nel diffuso e quanto mai spontaneo tripudio generale.
«Ah! Ah!»
Gli anni bui brancolarono a mandrie, e il cavalier Agenore, che
come dice la parola giusta forse non era più lo stesso, occupava le
giornate seduto al bar della piazza. Ci andava a piedi perché era
caduto giù anche dalla bicicletta da corsa e qualche concessionario
farabutto gliel’aveva noleggiata.
Questo cavaliere aveva un fratello minore di nome Fernando a
cui non rivolgeva la parola da anni per una briga da tresette svizzero,
o forse una disputa di pesca al siluro di cava. Il fatto era talmente
remoto che nessuno dei due armigeri ricordava di cosa si trattasse.
Sapevano d’avere entrambi una ragione valida, anche se ignota, per
mantenere animato il cruciverba, con quella collera alla marinara che
poteva esistere solo una volta, inasprita oltre la conformità ussara dai
caratteri degli uomini veri che c’erano solo una volta, per fortuna, e
che allo stesso modo nascevano e morivano solo una volta ciascuno.
Come certi peperoni verdi messi a macerare nel vino sotto il
sole d’agosto, che ti fregano una volta e mai più, o certe polente
condominiali sbattute sul tavolo una volta a settimana e chi s’è visto,
s’è visto, Fernando era un vero uomo tutto d’un pezzo. Sempre ben
vestito, s’infilava con piacere una Nazionale d’esportazione all’angolo
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della bocca. Alla moda e senza filtro. Avrebbe potuto essere preso
per un autista di Hollywood, col cappello intraversato sulla testa tirata
a lucido e gli agili baffi da gentiluomo in corsa. Orgoglioso e podista,
tanto da farsi nominare gran marchese su due piedi quando il fratello
aveva ottenuto il cavalierato in carrozza, invecchiò nella sua reggia.
Conquistata la pensione si comprò un’Alfa Settecinquanta a
nafta per presenziare a tutti i tornei importanti della provincia. Gli era
capitato spesso d’incontrare per strada una gabbana barcollante, ma
ogni volta aveva fatto gorgheggiare i quattro carburatori del camion
insieme a quelli di Claudio Villa dal mangiacassette, e non ci aveva
più pensato. L’orgoglio non gli consentiva d’ascoltarsi nell’animo, per
quanto anche Granada... Eppure, uno di quei rari giorni in cui ogni
cosa, più che scommettersi al contrario, si ricama un po’ come vuole,
sorpreso da un pensiero primaverile in pieno inverno, rallentò.
Gli era parso infatti di riconoscere nella sagoma in lontananza
un ragazzo coraggioso, solo di qualche anno più vecchio di lui, che
gli aveva insegnato tutto quanto sapeva sulle corse dei cavalli, lo
aveva iniziato all’arte della mungitura e a quella del granoturco, gli
aveva spiegato come arrivano le cicogne a punti e come a volte se
ne possono anche andare. Era stato suo maestro d’armi e di tresette
e gli aveva svelato i posti migliori dove crescono le borsine da funghi.
Forse, addirittura, era stato proprio lui a suggerirgli di tenere in bocca
una Nazionale per darsi un certo contegno. Senza filtro.
«Serve un passaggio, cavaliere?»
Gli uomini alle volte cambiano. Anche quelli più arcigni, anche
quelli più spocchiosi e bari, possono invece vincere a duello i confini
della troppa umanità avuta in sorte. Soprattutto quando cadendo da
cavallo gli viene d’afferrare i segreti più insabbiati del cosmo a sfoglie
in una caratteristica scossa intermittente della nuca, del tipo su e giù
alla marinara, e s’immaginano di fare il business seduti a tavola col
padrone di casa in carica, prete o sindaco che sia. Nessuno escluso.
Purtroppo la carica di cavalleria è scomparsa da parecchi anni
e tornei belli come una volta non ne fanno più. Ma se vi capitasse di
notare due fantini addobbati in drappi variopinti a passeggio tra i box
dell’ippodromo, osservateli con cura. Può darsi che il primo somigli a
un autiere d’altri tempi o ne possegga il soprabito sottobraccio, e che
l’altro s’atteggi a cavaliere d’assalto, scostando con la manopola la
visiera dell’elmo nell’eventualità in cui dovesse avvicinarsi una dama
dal tratto cortese. Nel qual caso porgete loro i vostri ossequi, e dato
che probabilmente sono i miei zii scomparsi, fategli sapere che la
polenta è in tavola. Se poi vi resta spazio sul portapacchi, per favore
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riportateceli a casa. Poma libera tutti invece, se si tratta di Morselli e
Sganzerla in incognito. È una settimana che i marrani si nascondono
per non fare il turno all’oratorio. Se infine sono foresti e vi mandano a
cagare nel loro idioma tipico... amen. Cosa potevate mai aspettarvi a
rompere i coglioni a due fantini alemanni regolarmente iscritti? 5
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N.d.C. Mi trovo costretto di nuovo ad intervenire perché la trama risulta intricata oltre la
misura ammessa dai pur robusti filati ussari. A prima vista il maestro sembra fare attualità
da filòs, introduce loschi cavallerizzi e amazzoni coi baffi, descrive massacranti gran premi
biografici in circoli di corsivo aggiunto per confondere le idee censurabili della marcatura a
uomo. Mischia ellissi alla livornese e parabole evangeliche ai soliti luoghi tardo comunali
dell’oscurantismo ventennale, i Tedeschi corazzati di Erwin Rommell alle belle damigiane
d’Inghilterra, i santini plastificati ai reggimenti di mercenarie alpine. E la risacca del mare
poi… che vorrà dire? È quasi certo che applichi al testo alcune dosi scientifiche di peperoni
verdi per sperimentarne l’effetto sulla pagina intonsa, una carrellata di caroselli probatori
degni d’un palio tosco-romagnolo, e in tal caso non lo sapremo mai a meno che non sia lui
a spiegarcelo. L’ho interrogato in tal proposito e lui m’ha consigliato di prendere le distanze
da una causa che non può avere repliche obbedienti. E anche dai suoi coglioni di fantino
socio. Io però non mi sono avvilito e dopo aver appeso a testa in giù le pagine alla distanza
prescritta, mi sono accorto di due righe bianche che isolavano un prima più consistente da
un dopo più esiguo, ma pur sempre di peso formativo. «Ah! Ah!» si trattava allora d’un
intermezzo inserito, se non proprio nel mezzo esatto dell’impianto termico, quantomeno nel
bel mezzo dei piedistalli dell’ignaro lettore? mi sono chiesto eccitato. Ma forse stavo in tiro
di mio per le cipolle alla marinara che m’ero silurato dalla nonna a merenda. Consultai
comunque l’enciclopedia araldica… Dunque esisteva l’Intermezzo operistico del XVIII
secolo… breve spettacolo buffo inscenato nelle pause dei governi seri, che si fa sempre
meno breve fino a diventare un governo a sé… come la salamella e la luganega… Cfr. La
serva padrona, di G.B. Pergolesi del 1752… C’era poi l’Intermezzo strumentale del XIX
secolo… stacchetto promozionale posto tra due ritocchi alle meloniere del governo… C’era
anche l’Intermezzo sinfonico, motivo che spartiva come una ghigliottina mannara, una
brioche alla crema, le fatiche melodrammatiche del gouvernement alla francese. Nient’altro
che un je vous ai dit, un prelude alla belle etoile, audacemente posticipato a governo più
che decomposto… Cfr. La traviata di G. Verdi 1853, Il figluol prodigo di A. Ponchielli
1880, Pagliacci di R. Leoncavallo 1892, Cavalleria Rusticana di P. Mascagni 1891,
Madama Butterfly di G. Puccini 1904, Suor Angelica di G. Puccini 1919… Un brivido
prese allora a percorrermi la schiena dal basso verso l’alto e viceversa, come un su e giù da
bagnasciuga. Il testo che avevo tra le mani era nientemeno che un feuilleton ricamato alla
Pascal. Ne avevo sentito parlare alla taverna ma credevo fossero legenda false messe in giro
dal grafomane Nottingham. Cerano i politicanti corrotti, i monsignori corrotti, i cavadenti
corrotti, le signorine inglesi… qualcuna di scapola corrotta, qualche altra più troia… e
c’erano pure i tedeschi… Cfr. L’amico Fritz di P. Mascagni 1891 e Hänsel und Gretel di E.
Humperdinck 1893. Quando tuttavia lessi del Billy Budd di B. Britten 1951, afferrando in
un improvviso rischiarimento mistico dell’attrazione integrale, come cadendo alla cavallina,
l’azzardo cabalistico di pag. 92 inerente Billy the kid, che avevo sempre pensato fosse il
nome d’una comunione municipale istituita da Pat Garrett, sceriffo mormone corrotto col
complesso del nativo minorenne, ringraziai il padrone di casa e suo figlio d’avermi fatto un
giorno incontrare il maestro a tavola. Ora mi aspetto da un momento all’altro che vengano
le due anche per me e che mi sia concessa l’agognata dose di parvenza bulgara e lenticchie.
Resterebbero ancora fuori i frutti di mare… Attenderò le cinque allora.
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