Bozza (27 marzo)

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Bozza (27 marzo)
Premessa
degli autori
«... durante il secondo conflitto mondiale in particolare le
Alpi sono state un rifugio, un luogo di battaglia, talora
una trappola, ma soprattutto sono state un laboratorio di
idee che ha modificato il volto del pensiero europeo».
Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia
Il lettore non si attenda rivelazioni particolarmente sensazionali. Sarebbe un
obiettivo quantomeno velleitario (e fors’anche un po’ presuntuoso) a settant’anni
dagli eventi di cui ci occuperemo, dopo la scomparsa di quasi tutti i testimoni diretti e,
soprattutto, dopo decenni di lavoro da parte di storici e ricercatori di ben altra taglia,
che hanno scandagliato tutto lo scandagliabile sul tema dell’antifascismo e della
Resistenza in Valcamonica e nel Bresciano.
Parafrasando il titolo “la terza età della Resistenza” (dopo una prima “età” vissuta
con molta esuberanza giovanile ed una seconda “età” attraversata da riflessioni,
nostalgie e ripensamenti), potremmo dire che questa rilettura degli eventi resistenziali
si sviluppa in una sorta di “terza” dimensione. Dopo la dimensione narrativa, quella
diaristica e quella storica – che si alimenta in buona parte anche delle prime due –
questo racconto assume un carattere prevalentemente antologico a cavallo di quanto
fin qui già pubblicato.
Molto più “terra-terra”, dunque, cercheremo di concretizzare una sorta di
antologia ragionata su quanto è stato scritto e raccontato finora sull’argomento,
partendo da quelli che possiamo considerare a ragion veduta come i “libri mastri”
della Resistenza valligiana (e non solo) ed assemblando quindi una “cronologia”
degli eventi che hanno sconvolto il quieto vivere delle nostre contrade per 20 lunghi
mesi: dai borghi di fondovalle e di mezza costa fino alle creste di confine con altre
valli alpine ed altre province. In tal senso, giacché sta nelle intenzioni degli editori il
promuovere il libro anche come corredo storico per il nascente museo della
Resistenza all’interno della ex polveriera di Sonico – in modo particolare per gli
studenti – ci sentiremmo già più che gratificati dalla prospettiva di poter contribuire
a stimolare qualche accesso in più alle biblioteche.
«Ricordare è sempre una cosa buona, ricordare gli errori per evitare di ricaderci, ricordare le cose giuste per trarre insegnamento, ricordare per smettere di
morire. Però non basta. La memoria ha bisogno di un linguaggio, soprattutto
quando le cose cambiano e all’improvviso ci accorgiamo che i nostri figli son
cresciuti, così diversi da come abbiamo cercato di infondere in loro i valori
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migliori nei quali abbiamo sempre creduto. Sento spesso dire che per andare
avanti bisogna voltare pagina. Credo che prima sia giusto imparare a leggere.
Per questo batto il chiodo su un concetto: la storia non si insegna, si
trasmette. Ecco perchè racconto le barricate del 1922 attraverso la vita di un
bambino, la vita della gente, dei borghi: perchè se riesco a parlare ai bambini
allora so farmi capire anche dagli adulti...».1
Che fare, dunque, per non rischiar di farsi inghiottire da una nostalgica ed ormai
sterile memorialistica o, per altro verso, da un arido (e piuttosto velleitario, nel nostro
caso) storicismo? Una narrazione della Resistenza in forma antologica, dicevamo, senza
inventare nulla neppure sul piano del metodo, perchè altri ci hanno già preceduto in
modo più che meritevole: Dario Morelli, per esempio, ma prima di lui – prima di tutti,
forse – Giulio Mazzon (il comandante Silvio del C1) con Ribelli; Emilio Arduino con
Brigata Perlasca («... almeno di una cosa possiamo garantire il lettore: che la massima
cura fu posta nel mantenerci fedeli alla verità, evitando ogni tentazione di gargarismi
retorici e di raffreddori patriottardi»); Ada Gobetti (Diario partigiano); Renata Viganò,
L’Agnese va a morire; e poi Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno...); Beppe
Fenoglio (Il partigiano Johnny, ed altri non meno importanti); Cesare Pavese (La casa
in collina...); Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone (Le donne di Ravensbrück);
Davide Lajolo (A conquistare la rossa primavera e Il “Voltagabbana”); Elio Vittorini
(Uomini e no); Giovanni Archetti (L’altalena. Il coraggio della paura); Angelo
Bendotti (Sento ancora il cuculo cantare); Luigi Meneghello1bis (I piccoli maestri)...
E ancora: il partigiano-filosofo di origini cortenesi, Pietro Chiodi (il cui omonimo
cugino Peter farà la sua parte sulle montagne dell’alta Valcamonica), protagonista
en passant nel “partigiano Johnny” del suo ex studente di Alba, con Banditi:
testimonianza cruda e concreta che consolida i legami – oltre che le similitudini – tra
le Langhe ed il Mortirolo anche attraverso la figura di Leone,2 al quale sono dedicati
sia l’incipit («15 settembre 1939. Ho cacciato tutto il giorno tra il Padrio e il
Mortirolo. A mezzogiorno ho trovato Leone con due fagiani. Abbiamo mangiato
assieme. Voglio bene a Leone e leggo nei suoi grandi occhi scuri che è contento di
vedermi. Eravamo vicini di banco a scuola. Parla poco e quasi impacciato. Io ho
“studiato” e lui è rimasto a lavorare i suoi campi nascosti fra gli abeti...»), che
l’epilogo del libro («20 maggio [1945]. Stamane sono giunto a Como in viaggio per
casa mia. Da otto mesi non so più nulla della mia famiglia. Approfitto di un paio
d’ore di attesa per recarmi dal dottor Gianni Stefanini, mio compaesano, che abita a
Como. Mi assicura che i miei stanno tutti bene, benché il paese sia stato continuamente in mezzo alla bufera. Andandomene gli chiedo: “Leone?”. Mi risponde: “è
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1
Gianluca Foglia, Ribelli come il sole,
Fedelo’s Editrice, pag. 69.
1bis
Esilarante il suo commento all’indomani dell’8 settembre: «Certo noi
eravamo disorientati: il regime si squagliava come i rifiuti superficiali di un
letamaio sotto l’acquazzone, e ciò che
contava era la confusione in cui restavamo, la guerra, gli alleati-nemici, i
nemici-alleati», Luigi Meneghello, I
piccoli maestri, Rizzoli, pag. 21.
2
«... è un montanaro che ha fatto il
contadino, prima d’esser mandato
a far la guerra in Grecia e in Russia.
Congedato perché ha tre fratelli alle
armi, è stato tra i primi a dedicarsi
all’organizzazione partigiana del
suo paese. È un tipo forte, generoso e conosce come son fatti i tedeschi. Sa che spesso si smarriscono,
senza più capacità di reagire, davanti a chi dimostra coraggio e fermezza», Dario Morelli, La montagna non dorme, pag. 101.
stato uno dei primi e dei più audaci. Ma un giorno...”. Lo interrompo e, scendendo
le scale, gli dico. “Lo sapevo”»).3
Nel mezzo, tra il primo impegno in una formazione partigiana di Giustizia e Libertà
ed il successivo comando di un battaglione garibaldino, viene catturato dai tedeschi e
durante il lungo e straziante viaggio verso la deportazione in Germania (da dove
riuscirà a ritornare in modo avventuroso) conosce Teresio Olivelli:
«Ne avevo sentito parlare dai comunisti del blocco A. Faceva parte di un
movimento democratico cristiano di resistenza molto attivo nel bresciano.
Catturato venne condotto a Fossoli. Una sera gli ebrei uscirono con picchi e
pale. Olivelli intuì che scavavano anche per lui. Al mattino mancava al tragico
appello. D’accordo con alcuni compagni si era nascosto sotto un enorme
mucchio di paglia in un angolo del campo. Costoro si privavano ogni giorno di
parte della loro razione per fargliela avere. Le ricerche si facevano sempre più
attive. Parecchi non ebbero più il coraggio di portargli i viveri. Nel campo già
troppi lo sapevano. Solo due vecchi operai comunisti continuarono a sfidare la
morte pur di non abbandonarlo. Erano già due mesi che la cosa andava quando
i tedeschi lo scopersero. Chissà perché non lo fucilarono. Ora è qui, fra la vita e
la morte. Lo sa ma non trema. Passa tutto il giorno a prestare aiuto a questo ed
a quello. È sempre sorridente. Ha visto che ero ammalato e seminudo. Poco
dopo mi ha portato una pesante camicia militare... ».4
3
«... poi, visto che i fascisti stanno
tentando una manovra avvolgente,
Leone ordina agli altri due di allontanarsi subito e di ritornare a Carona.
Mentre quelli obbediscono, li copre
col suo fuoco attirando su di sé tutta
la reazione nemica. Cade, alla fine,
colpito al petto da un’ultima raffica», Dario Morelli, La montagna non
dorme, pag. 105.
4
Pietro Chiodi, Banditi, Einaudi,
pag. 70.
Un lavoro da farsi più in biblioteca che in archivio, ma non per questo meno
gratificante di quanto non possa essere stata l’opera di quanti ci hanno preceduto nella
paziente ricerca archivistica degli ultimi settant’anni, e soprattutto, vogliamo sperare –
e perché non dovrebbe esserlo? – altrettanto apprezzabilmente lusinghiero nelle aspettative. Un po’ come dire che il merito primario di questo lavoro compete in modo
prevalente a tutti quei giganti sulle cui spalle siamo saliti, non certo per guardare più
lontano (che sarebbe stata un’imperdonabile presunzione), ma per poterci guardare
attorno più liberamente, senza troppi vincoli di “mestiere”. E solo nella misura in cui
saranno riusciti a rendere apprezzabile il risultato, una parte di tale merito potrà essere
riconosciuta anche agli autori delle pagine che seguono.
Post scriptum: avendo chiesto all’avvocato Cesare Trebeschi l’autorizzazione per la
pubblicazione di alcuni stralci della sua sofferta lettera (che publichiamo nella parte
riservata a “Documenti e testimonianze” con il titolo “Il dolore, la vergogna, il
coraggio”), ancora permeata dall’antico e mai definitivamente elaborato lutto («per me
– dice – il sacrificio di mio padre è misteriosamente legato a quello di Cappellini»), ne
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abbiamo ottenuto una garbatissima e argomentata risposta (com’è nello stile dell’uomo). Risposta che vorremmo condividere almeno in parte con i lettori di questo libro...
Con il suo consueto riserbo, l’avvocato Trebeschi evoca il poeta («voce dal sen fuggita
più richiamar non vale»), aggiungendo però che «una grande conquista leninista mi pare
fosse l’abolizione del copyright»; e poi la citazione sullo «straordinario metodo evangelico», ovvero: «… è pur sempre lo stesso annuncio, la stessa verità – l’amore del Padre
– ma Gesù usa un diverso linguaggio con gli apostoli, con i discepoli, con i farisei, con
la folla, col saggio Nicodemo, con i bambini. Mi domando se anche per la Resistenza e
la deportazione non convenga farne memoria solo con gli interessati per evitare che
troppa gente volga le spalle, annoiata».
Un timore (uno scrupolo eccessivo, forse) che viene però risolto dallo stesso autore
con un altro pensiero: «... prima ancora dei tedeschi, il nemico da vincere era la paura, il
quieto vivere... Certo che abbiamo avuto anche autentici eroi, ma i valori nei quali
crediamo – libertà, giustizia, solidarietà – non valgono niente se non riusciamo a farli
condividere dalla gente, da noi che siamo gente comune, non soltanto dagli “eroi”».
Vale a dire, come scrive la studentessa Gilda C. da Isernia in una lettera all’Unità nel
gennaio del 2014, a proposito del Giorno della Memoria, che «non è necessario ricordare
date, o nomi di personalità influenti, per mettere la nostra etica sui binari giusti. Abbiamo
solamente bisogno di porci le domande giuste, di domandarci, invece di immaginare una
latrina in un campo, o una notte in una brandina, perché i soldati tedeschi in opposizione al
regime fossero così pochi; perché i cittadini vedendo sequestrati i loro vicini, i loro amici,
i loro compagni di scuola nel cuore della notte, continuassero a vivere senza troppi
problemi; perché esistono testimonianze di uomini e donne ora anziani che, pur vivendo in
quel periodo ora ricordato con orrore e vergogna, “vivevano bene”. E di avere una visione
d’insieme. Perché se sotto certi punti di vista la Shoah è stata il genocidio più massiccio
e sconvolgente della storia recente, non è di certo stato l’unico: la Cambogia degli anni ’70,
l’occupazione giapponese in Cina durante la seconda guerra mondiale, i massacri etnici in
Jugoslavia, il genocidio armeno e il colonialismo in Africa – ancora oggi dilaniata da
conflitti ignorati – all’inizio del ’900...
Storia, insieme alla letteratura – continua la studentessa – è la disciplina che
preferisco tra tutte quelle che sto studiando. È così incredibilmente proiettata verso il
futuro, è l’acquisire consapevolezza che le cose possono e devono cambiare, e che
solo noi giovani possiamo farlo; e mi arrabbio quando mi penso all’alone monotematico che avvolge i programmi di storia delle scuole elementari, medie, superiori:
Preistoria, Impero Romano, Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Illuminismo,
Risorgimento. Poi, con un po’ di fortuna, il Novecento. Come se il mondo fosse
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composto solamente dal nostro Paese e da quelli che, per questo o quel motivo, su di
esso esercitano la loro influenza. Questo è il secolo in cui si può andare a cercare
lavoro all’estero, e quindi trasferirsi, forse conoscere qualcuno, avere dei figli e
mescolarsi, diventare parte attiva della multietnicità. Penso che proprio ora, ora più
che mai, l’istruzione abbia il compito di fornire ai giovani più strumenti per capire e
meno pagine da imparare a memoria».5
Sempre a proposito dei giovani, ancora, ci sembrano quantomai appropriati alcuni
suggerimenti di Alberto Cavaglion:
«Il primo consiglio che si può dare a un giovane è non fidarsi di chi appesantisce
parole piene di significato come “antifascismo” e “Resistenza” con aggettivo
qualificativo. È il caso, lo abbiamo visto, della fragile distinzione fra Resistenza
militare e Resistenza politica. Gli allargamenti tecnologici sono quasi sempre
concepiti allo scopo di amplificare ciò che invece è giusto rimanga piccolo: i
piccoli maestri, le piccole virtù, le piccole bande. Per rendere nitidi i contorni delle
minoranze, bisogna lavorare per sottrazione, non per addizione. Togliendo il
superfluo si arriva alla sostanza, facendo il contrario si costruisce un’immagine
sfuocata». Ed in tal senso l’autore del brano appena citato marchia come «vere e
proprie nebulose» alcune coppie di parole che pure hanno goduto di ampia
diffusione sul tema: «Resistenza tradita, Resistenza mancata, Resistenza taciuta, Resistenza passiva, Resistenza disarmata, Resistenza legittimata (o delegittimata). Lo stesso esercizio si può fare con la parola “antifascismo”: antifascismo
militante, antifascismo difensivo, antifascismo esistenziale e via dicendo».6
5
“Noi ragazzi che con la storia
conquistiamo il futuro”, L’Unità,
26 gennaio 2014.
6
Cfr. Alberto Cavaglion, La Resistenza
spiegata a mia figlia, Beat, pag. 79.
Sulle testimonianze, infine, considerando che sono state raccontate prevalentemente in dialetto, si trattava di scegliere tra due opzioni (entrambe consolidate
nell’ormai lunga tradizione della “storia orale”): trascrivere con l’orecchio attento alla
lingua parlata e la “penna” attenta al formalismo sintattico e grammaticale della lingua
scritta o limitarsi alla traduzione tout court dal dialetto all’italiano ignorando gli aspetti
formali in uso nell’italiano “corretto”?
Abbiamo optato per una soluzione compromissoria: la traduzione secondo il
linguaggio corrente laddove non veniva intaccato il pensiero originale – l’unico
rischio, in tal caso, potrebbe consistere nell’attrubuzione all’intervistato di parole che
in realtà non appartengono alla sua parlata autentica – salvo applicare invece la
traduzione tout court nel caso in cui, altrimenti, potrebbe perdere di efficacia la forza
espressiva originale. Perché la frase “i me l’ea dre a noter italiani” per esempio,
potrebbe anche essere tradotta in “ci odiavano, noi italiani”, ma non ha più la stessa
efficace autenticità di “ce l’avevano dietro a noi italiani”.
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