cpd6-Sergio Belardinelli-la Rerum novarum oggi

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cpd6-Sergio Belardinelli-la Rerum novarum oggi
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INTRODUZIONE
Fra le molteplici iniziative che il Centro Culturale «Giovanni Cazzani» ha preso per commemorare il
Centenario dell’enciclica «Rerum Novarum» di Leone XIII, un posto di rilievo va indubbiamente assegnato
alla conferenza che il prof. Sergio Belardinelli ha tenuto presso il salone Bonomelli del nostro Centro
Pastorale la sera del 17 maggio di quest’anno. Ne pubblichiamo integralmente il testo, gentilmente rivisto
dall’Autore, perchè riteniamo che esso sia un necessario strumento interpretativo, non solo per la corretta
lettura dell’enciclica leonina, ma anche per la comprensione profonda del senso della dottrina sociale della
Chiesa, del suo carattere storico e dottrinale ad un tempo, delle sue variabili e delle sue costanti.
Don Alberto Franzini
Direttore del Centro Pastorale Diocesano «Maria Sedes Sapientiae»
Cremona, 1.1 luglio 1991, festa di S. Benedetto, abate e patrono d ‘Europa
N.B. : Il testo è stato digitalizzato e pertanto non mantiene l’impaginazione originaria
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In questo mio intervento mi propongo di tratteggiare il contesto socio- economico e dottrinale nel
quale la «Rerum Novarum» prende corpo e di fare poi un paragone con il contesto socio-economico
e dottrinale nel quale ci troviamo oggi.
Un’opinione largamente diffusa vuole che la Chiesa sia arrivata molto tardi a prendere coscienza
della questione operaia. Tra il 1848, anno in cui Marx pubblica insieme a Engels “Il manifesto del
Partito Comunista”, e il 1891, anno in cui Leone XIII pubblica l’enciclica «Rerum Novarum»,
trascorre in effetti quasi mezzo secolo, e certamente le date contano.
Se però conta qualcosa anche il contenuto degli scritti, allora credo non ci sia poi tanto da
rammaricarsi per il presunto ritardo, il quale è per altro assai relativo se si considera la necessità da
parte di Leone XIII di avere il più possibile chiari gli aspetti sociali, economici e ideologici di una
rivoluzione, la rivoluzione industriale, che non fu un evento improvviso e omogeneo, ma un
processo caratterizzato da diverse fasi e da diverse intensità e che, a parte l’Inghilterra e il Belgio,
cominciò a dilagare soltanto dopo il 1890.
Non a caso, Paul Jostock, uno dei commentatori più acuti della Rerum Novarum, potè dire che
questa enciclica arrivò più presto che tardi e oggi siamo forse in grado meglio di ieri di capire
perchè, specialmente se consideriamo la fine che ha fatto l’ideologia comunista, rispetto alla quale
per tanto tempo anche molti cattolici hanno come sentito una specie di complesso di inferiorità.
Leone XIII era ben consapevole del fatto che nel momento in cui prendeva posizione su una
«questione difficile e pericolosa» come quella operaia, la Chiesa non poteva limitarsi ad una
denuncia generica della miseria dei lavoratori e magari a un appello alla carità, occorreva
piuttosto confrontarsi con problemi quali la divisione del lavoro, il salario, il capitale, il mercato, la
concorrenza, la dinamica dei prezzi, le leggi della domanda e dell’offerta. Bisognava, in altre parole
prendere posizione rispetto all’idealismo e al socialismo non soltanto in quanto concezioni del
mondo, ma anche e soprattutto in quanto specifiche dottrine socio-economiche, alfine di stabilire se
e in che misura queste erano conciliabili con i principi della dottrina sociale cristiana.
*
La considerazione del lavoro umano come una merce è conciliabile con i principi cristiani?
*
La divisione del lavoro e il cosiddetto rapporto salariale, sono eticamente legittimi?
*
In che cosa consiste il giusto salario?
*
In che misura lo Stato deve intervenire nell’economia?
*
Perchè non è accettabile la soluzione che propone l’abolizione della proprietà privata?
1. LA QUESTIONE OPERAIA:
LE RISPOSTE
SOCIALISTA
DELL’INDIVIDUALISMO
LIBERALE
E
DEL
COLLETTIVISMO
In breve si trattava di approfondire perchè l’individualismo liberale, allora dominante, non era stato
in grado di impedire che esplodesse la questione operaia, e perchè il collettivismo socialista non
sarebbe stato in grado di risolverla e tutto questo senza che si potesse contare sullo aiuto da parte
della scienza economica del tempo, per lo più indaffarata in cattive ripetizioni dei classici inglesi.
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Dico «cattive ripetizioni» perchè a leggere oggi la «Ricchezza delle nazioni» di Smith, si ha la
sensazione che egli fosse ben consapevole della questione sociale. Il suo sistema di libertà naturale
è il modello di una società futura nella quale le forze di mercato tendono ad aumentare i redditi e ad
abbassare i prezzi e quindi a realizzare gli interessi della grande maggioranza della popolazione.
Smith insomma era critico nei confronti di una società nella quale «le persone che vestono il mondo
devono vestire di stracci», e non lasciava dubbi circa il fatto che una politica intesa a impedire ai
lavoratori la possibilità di guadagnare salari più alti fosse per lui «una evidente violazione della
libertà naturale e della giustizia. Tutto per noi e niente per gli altri sembra essere stata in qualsiasi
periodo la massima vile dei padroni dell’umanità». Non a caso nella “Ricchezza delle nazioni”
nessun gruppo, neanche la tradizionale lite improduttiva, viene criticato con tanta frequenza e
durezza come quello dei mercanti e manufatturieri, i quali per via del loro numero esiguo e dei loro
mezzi finanziari, del loro vivere in città e vicino ai centri di potere, sono, secondo Smith, in grado di
interferire con le forze di mercato e di influenzare la politica a vantaggio dei loro interessi
particolari.
Questa breve disgressione sui pensiero di Adam Smith ha soltanto lo scopo di mostrare, tra le altre
cose, quanto poco egli influenzasse l’economia liberale della seconda metà del 19’ secolo.
La linea allora dominante secondo la quale, come per una legge naturale, il salario dell’operaio
doveva essere destinato a rimanere al limite del necessario alla sopravvivenza, era infatti una legge
di Ricardo, non di Smith. Orbene sulla linea di Ricardo non era facile cogliere la questione operaia
come un vero e proprio problema, non era facile cercarne le cause, formulare proposte di soluzione.
Tale questione si presentava piuttosto come una sorta di destino; era un destino che i salari
dovessero rimanere al limite della sopravvivenza.
Nè è da pensare che allo scopo potesse servire la Critica dell’economia politica di Carlo Marx, che
allora andava prendendo piede all’interno dell’internazionale socialista fondata nel 1864. Oltre tutto
è bene chiarire che Marx era interessato alla questione operaia non certo perchè avesse
principalmente a cuore una maggiore giustizia sociale, il proletariato lo interessava quasi
esclusivamente come soggetto storico di un evento salvifico che necessariamente avrebbe cambiato
il destino di tutta l’umanità: la rivoluzione. In questa prospettiva Marx non mancava di esaltare la
borghesia, come la classe che più di ogni altra stava preparando questo evento, «trascinando nella
civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare».
E qui forse è il caso di precisare che quando Marx parla di nazioni più barbare, pensa in modo
particolare alla Russia, considerata il baluardo della conservazione europea.
«I bassi prezzi delle merci — si legge nel Manifesto del Partito Comunista — sono l’artigianeria
pesante con la quale essa (la borghesia) spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla
capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari». Non soltanto non venne da Marx nessuna
proposta concreta riguardo al modo di alleviare la dura condizione dei lavoratori, ma egli fece anche
di tutto per screditare e offendere coloro che con successo tentavano di farne.
Ferdinand Lasalle, fondatore delle associazioni dei lavoratori tedeschi, era per lui un «cretino», una
«bestia», una «scimmia».
Wilhelm Liebknecht, il primo rappresentante del Partito Socialdemocratico venne indicato come
una «bestia da spiedo», «piccolo sputa
sentenze», dotato di «stupida spudoratezza» e «incapace». Inoltre, quando dall’unione di queste due
associazioni, nacque nel 1875 la prima forma di SPD, il Partito socialdemocratico tedesco, Marx
non ebbe altro commento che una critica beffarda, la famosa Critica al programma di Gotha.
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2. I PRODROMI DELL’ENCICLICA
In questo contesto, Leone XIII poteva certo servirsi di quanto in merito alla rivoluzione industriale
si andava producendo in molti circoli cattolici di tutta Europa, ma bisogna dire che tra questi circoli
esistevano divergenze d’opinioni sia riguardo al modo di produzione capitalistico, sia riguardo
all’eventualità che lo Stato intervenisse in materia economica a vantaggio dei più deboli.
Specialmente in certi ambienti conservatori era ad esempio piuttosto forte la nostalgia per l’antica
società dei ceti e delle corporazioni, per cui veniva rifiutata in blocco non soltanto la società
capitalistica divisa in classi, ma la stessa divisione tra lavoro e capitale, e il cosiddetto rapporto
salariale. Si pensi soltanto a Karl Von Vogelsang.
Riguardo poi a uno stato che potesse intervenire direttamente in questioni socio-economiche, alcune
esperienze piuttosto negative, come la Kulturkampf birmarckiana in Germania, l’anticlericalismo
della terza repubblica francese e la questione romana in Italia, avevano indotto molti cattolici a
guardare con una certa preoccupazione a una tale eventualità. Lo stato liberale non sembrava molto
affidabile, meglio dunque far fronte alle necessità sociali con le opere di carità che con riforme
istituzionali.
Diverso era invece l’atteggiamento del gruppo cattolico francese, raccolto intorno alla rivista Ere
nouvelle, fondata nel 1848 da Federico Ozanam insieme a Charles Maret e a Henri Dominique
Lacordaire, o del gruppo che, sempre in Francia, si raccolse intorno a Patrice De la Tour Du Pin.
I primi, specialmente il Maret esortavano i cattolici a farsi promotori di una politica sociale che
facesse proprie certe istanze socialiste.
«Sulla linea della tradizione dottrinale della Chiesa — scriveva Maret
— potremmo costruire una grandiosa dottrina sociale con la quale poter togliere agli pseudosocialisti l’influsso che esercitano sul popolo e su giovani generosi. Non è triste vedere
come i cattolici siano sempre sulla difensiva, mentre dovrebbero prendere l’iniziativa di
ogni movimento progressista? Come possiamo confutare gli pseudo-socialisti? ».
Riguardo al gruppo del De la Tour Du Pin, vanno sottolineate alcune sue importanti prese di
posizione:
* rifiuto del collettivismo in materia di proprietà, ma anche inserimento di quest’ultima nell’ottica
del bene comune;
* rivendicazione di un giusto salario, tale che servisse non soltanto al sostentamento dignitoso
dell’operaio, ma anche della sua famiglia.
Pensieri questi che entrano nell’enciclica di Leone XIII.
Non entrò invece l’idea di una partecipazione dei lavoratori ai guadagni dell’impresa, che pure
faceva parte del patrimonio del gruppo.
Aggiungo inoltre che proprio il De La Tour Du Pin concepì l’idea della famosa «Union de
Fribourg» patrocinata dal Card. Mermillod, vescovo, il quale informava regolarmente Leone XIII
dell’attività del centro e lo sollecitava a prendere posizione sulla questione dei diritti e della dignità
del lavoro.
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Per ultimo nomino colui che avrei dovuto nominare per primo, il vescovo Von Ketteler di Magonza,
colui che venne definito da Leone XIII come il suo vero «precursore».
Nel 1844 Ketteler pubblica Die Arbeiterfrage und das Christentum, (La questione dei lavoratori e il
cristianesimo).
Più tardi, nel ‘69, di fronte a diecimila lavoratori cattolici, legge quella che divenne poi la «magna
charta» del cattolicesimo sociale tedesco. Ketteler prende decisamente le distanze dal vecchio
ordine economico, quello dei ceti e delle corporazioni, e si fa promotore di una politica sociale
dinamica all’interno del nuovo ordine capitalistico: maggiori salari, diritto di sciopero, diminuzione
dell’orario di lavoro, rispetto dei giorni di riposo, divieto di far lavorare in fabbrica i minori,
assicurazione di invalidità e disoccupazione, partecipazione dei lavoratori agli utili e alla proprietà
dell’impresa. Questi molto sinteticamente i temi che grazie soprattutto al vescovo Ketteler,
diventano motivo di riflessione tra i cattolici nella seconda metà del 190 secolo.
3. L’ENCICLICA «RERUM NOVARUM»
Con questo spero di aver dato un’idea del contesto socio-economico nel quale nasce la «Rerum
Novarum». E’ tempo dunque di dare una occhiata a quelli che sono gli aspetti principali di questa
enciclica. Dico soltanto un’occhiata perchè nessuno meglio di Giovanni Paolo Il poteva riassumere
quegli aspetti, e nella «Centesimus annus» è tutto ben riassunto.
A) La cornice dottrinale.
Un primo aspetto riguarda, per così dire, la cornice dottrinale.
Non è certo senza significato che nel primo punto della «Rerum Novarumx’, non appena impostata
la questione operaia, Leone XIII richiami le sue encicliche sui poteri pubblici, sulla libertà e sulla
costituzione cristiana degli Stati, con le quali la Chiesa aveva continuato a fare i conti con il mondo
moderno, prendendo chiaramente posizione sia contro quei regimi — e si pensava allora ai regimi
liberali — «che mettono lo Stato come padrone assoluto e onnipotente» «e che vogliono procedere
come se la Chiesa non esistesse» («Libertas» n. 20,21), sia contro lo scardinamento della libertà
umana dalla verità divina. Ritengo anzi che la «Rerum Novarum» sarebbe incomprensibile nella sua
ispirazione di fondo, se non si tenesse conto di questa cornice, nella quale si va al cuore della
questione della libertà umana, una libertà che, secondo la dottrina della Chiesa, o è incardinata sulla
verità o rischia veramente di dissolversi in puro arbitrio.
A dire il vero, forse mai come oggi dovremmo essere in grado di capire e di apprezzare questa
posizione. Il corso stesso degli eventi ha mandato infatti in frantumi il sogno illuministico della
totale autonomia dell’individuo, e dall’euforia della libertà incondizionata siamo passati al timore
che i frutti di questa libertà si rivolgano contro l’uomo. Le preoccupazioni ecologiche, i problemi
connessi all’energia nucleare e all’ingegneria genetica rappresentano il fallimento della pretesa
«autonomia» di questi ambiti rispetto a criteri morali. Non tutto ciò che è tecnicamente realizzabile
è giusto che venga realizzato.
Sul piano strettamente economico, fino ad oggi tutti abbiamo pensato in fondo che qualsiasi cosa
fosse lecita purchè producesse profitto. Ma anche in questo caso la dottrina sociale della Chiesa ci
mette in guardia. Non perchè il profitto sia un male, non perchè la genetica sia un male, bensì per
ricordare che nè l’economia, nè la scienza sono da considerarsi totalmente «autonome»; per
ricordare cioè che la loro «verità» profonda, se così si può dire, va cercata altrove. Comunque sono
aspetti, questi, sui quali non possiamo dilungarci in questa sede.
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B) Il «falso rimedio del socialismo».
Un secondo aspetto dell’enciclica da sottolineare riguarda il falso rimedio del socialismo.
Su questo punto Leone XIII prende di mira soltanto la richiesta socialista dell’abolizione della
proprietà privata, ma certo si tratta di un aspetto fondamentale, L’enciclica difende il diritto alla
proprietà privata, non certo perché intendeva garantire i grandi capitalisti o i grandi proprietari
terrieri, ma per un motivo che ancora oggi appare d’una lungimiranza fuori del comune: perchè ogni
uomo, anche il lavoratore, deve poter diventare, grazie al lavoro, proprietario.
Al n.4 della «Rerum Novarum» Leone XIII scrive: «Con l’accumulare ogni proprietà particolare,
togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli, rapiscono il diritto e la speranza
di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato e ne rendono perciò più
infelice la condizione».
Come si vede siamo ben lontani dal socialismo, ma anche da quella legge naturale di certo
liberalismo, secondo la quale i salari sarebbero dovuti rimanere sempre al livello minimo necessario
alla sussistenza dell’operaio.
Siamo insomma alla presenza di una dottrina che è critica e realistica insieme, caratteri questi che
risultano anche dall’esame di quello che nell’enciclica viene definito il vero rimedio della
questione. Su questo punto i capisaldi del discorso di Leone XIII sono un po’ i seguenti:
In primo luogo il carattere personale del lavoro (n. 34), dal quale si deduce l’impossibilità di
considerarlo una merce qualsiasi.
* In secondo luogo l’appello alla concordia, un altro nome per dire
solidarietà, tra le classi: «il capitale non può stare senza il lavoro, nè il lavoro senza capitale» si
legge al n. 15. Condizione indispensabile di questa concordia è il riconoscimento da parte degli
imprenditori e dei lavoratori dei loro reciproci doveri. Soprattutto occorre che l’operaio riceva il
giusto salario per il suo lavoro. Al n. 17 si legge: «Le umane leggi non permettono di opprimere per
utile proprio i bisognosi e gli infelici e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare la dovuta
mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio».
Tale riconoscimento del giusto salario rappresenta un’ulteriore prova di realismo da parte di Leone
XIII, il quale mette così da parte qualsiasi utopia riguardo al superamento dell’economia
capitalistica o industriale che, come ho già detto, allora non ammaliava soltanto i socialisti, ed
assume, è bene sottolinearlo, con questa dottrina del giusto salario, una posizione molto avanzata
anche riguardo alla discussione circa la misura del giusto salario. Esplicitamente nella enciclica
Leone XIII dice soltanto che esso «non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale
s’intende e di retti costumi» (n. 34). Siccome però si dice anche che l’operaio ha la responsabilità di
allevare i propri figli e che addirittura il salario deve servire affinchè l’operaio possa diventare a sua
volta proprietario
di qualcosa, è chiaro che Leone XIII intende parlare di giusto salario in riferimento a tutti questi
elementi insieme, e non certo soltanto in riferimento al solo lavoratore. Ma quanto poco fosse
scontata questa opinione lo dimostra il parere sull’argomento sollecitato dallo stesso Papa al
Cardinale Zigliara, il quale riteneva in fondo che il padrone che paga il salario sufficiente soltanto al
sostentamento dell’operaio ma non della famiglia, non pecca contro giustizia, ma semmai contro la
carità o «l’onestà naturale».
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C) Il ruolo dello Stato
Un altro aspetto dell’enciclica, che non può essere taciuto, anche perchè suscitò forse la più viva
impressione, riguarda il ruolo dello Stato. In sintonia con la dottrina cristiana, la quale ha sempre
considerato lo Stato non soltanto come garante dell’ordine e del diritto, ma del bene comune, Leone
XIII invita tra l’altro i governi «a interessarsi dell’operaio facendo sì che egli partecipi in qualche
misura a quella ricchezza che esso medesimo produce. Si favorisca dunque al massimo ciò che può
in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza anzichè nuocere a
qualcuno gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui
provengono vantaggi di tanto rilievo» (n. 27).
E si garantisca soprattutto agli operai il «diritto di associazione», in modo che questi possano
elaborare liberamente «i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in
questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggiore aumento possibile del benessere fisico,
economico, morale» (n. 42).
Per molti sostenitori di un sistema economico che deve essere lasciato alle sue leggi naturali, alla
concorrenza dei tanti singoli individui, tutto ciò poteva sembrare una pericolosa ingerenza, per il
Papa invece si trattava di un diritto che lo Stato, in quanto garante del bene comune, ha il dovere di
tutelare.
4. L’ENCICLICA LEONINA, OGGI
A questo punto, prima di passare alla seconda parte di questo intervento, mi si consenta di leggere
ciò che George Bernanos nel «Diario di un curato di campagna» fa dire dal vecchio curato di Torcy
al suo giovane collega: «Rerum Novarum, voi oggi la leggete tranquillamente con l’orlo delle
ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca, giovanotto, ci è parso di sentirei
tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! Questa idea così semplice che il lavoro non è una
merce sottoposta alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla
vita degli uomini come sui grano, lo zucchero e il caffè, metteva sottosopra le coscienze. Lo credi?
Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente, sono passato per un socialista».
Francamente non so se oggi a cento anni dalla pubblicazione della enciclica, possiamo davvero
permetterci il lusso di leggerla sott’occhio come una qualsiasi pastorale di quaresima, come dice il
vecchio curato. A giudicare da quanto abbiamo intorno credo piuttosto che essa ci interpelli ancora
e con urgenza accresciuta. Non è un caso che Giovanni Paolo TI si proponga oggi di «mostrare che
la ricca linfa che sale da quella radice non si è esaurita coi passare degli anni, ma è anzi diventata
più feconda».
Cerchiamo allora di tratteggiare a grandi linee il contesto socio-economico col quale la dottrina
sociale della Chiesa è chiamata oggi a fare i conti.
A) La crisi delle ideologie.
In primo luogo possiamo dire che questo contesto è caratterizzato dalla crisi delle due grandi
ideologie che si sono contese l’egemonia nel nostro secolo, quella liberistico-borghese e quella
marxista. Al di là di un’assoluta apparente opposizione queste ideologie condividevano in fondo il
sogno di poter costruire un «regno della libertà» su questa terra, grazie al lavoro di uomini concepiti
esclusivamente come lavoratori-consumatori. Ma oggi tale sogno sta naufragando ovunque. E’
naufragato clamorosamente nei paesi dove l’ideologia marxista divenuta ideologia di Stato ha
umiliato gli uomini del lavoro privandoli di ogni libertà — e a proposito dei fatti dell’89, Ralf
Dahrendorf ha parlato non a caso di una «tragedia senza compensi», e Giovanni Paolo II offre
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un’analisi mirabile di quei fatti in un apposito capitolo della «Centesimus annus» e naufraga anche
nei paesi del cosiddetto capitalismo avanzato, dove pure ha trovato la sua massima espressione. Nel
1983 in occasione del centenario della morte di Marx, scrissi che Marx stava diventando vero nei
paesi industriali dell’occidente, proprio in ciò che aveva pensato di peggio: l’economia esaltata
come il vero elemento strutturale della storia, sulla base di un lavoro senza soggetto, volto al
semplice mantenimento del «genere» e quindi al consumo. Ebbene, quando mai il versante
oggettivo dell’economia, la ricchezza accumulata, ha condizionato la storia degli uomini come
oggi? Quando mai l’economia è stata tanto strutturale nella società? Persino il crollo dei cosiddetto
comunismo reale tende ad essere spiegato con motivazioni prevalentemente economiche, con la
conseguenza curiosa e solo apparentemente paradossale di dover dire che i regimi comunisti poco o
niente avevano a che fare con Marx, mentre molto ha a che fare con Marx la loro fine.
Ne «I lineamenti dell’economia politica», un’altra opera di Marx, sempre per fare qualche esempio,
leggiamo: «La società non consiste di individui, ma esprime la somma delle relazioni, dei rapporti,
nei quali questi si pongono l’uno di fronte all’altro».
Siamo di fronte a un altro aspetto del pensiero di Marx che sembra abbia atteso i nostri giorni per
manifestare la sua portata.
In effetti credo che mai come oggi ci siamo sentiti tanto sociali e abbiamo vissuto questa socialità
come dipendenza. L’esperienza di essere membri di una società nella quale ogni ambito si intreccia
con l’altro, e nella quale la crescente mobilità e complessità sembrano mettere in crisi ogni ordine
possibile, appartiene ormai al sentimento comune. L’ardente brama di novità che agitava i tempi di
Leone XIII sembra aver lasciato il posto a un diffuso senso di torpore e di decadenza, come se tutto,
anche se le vicende e i progressi più esaltanti, avvenga non grazie agli uomini, ma grazie a un
meccanismo del quale siamo soltanto un piccolo ingranaggio.
Il lavoro è sempre meno il nostro lavoro e sempre più un lavoro senza soggetto, nel cui processo
siamo inevitabilmente assorbiti come per una sorta di necessità naturale. Ci sentiamo talmente
inseriti in un complicato sistema di rapporti sociali che non riusciamo più neanche ad immaginare
di essere pur sempre i principali responsabili di ciò che facciamo.
In breve, il cittadino della nostra società capitalistica, sempre più sradicato com’è da tutto, anche
dalla casa dov’è nato, tende veramente a diventare un individuo storico mondiale (ein
weltgeschichtliche Individuum) proprio come pensava Marx. Non c’è quindi da stupirsi più di tanto
per il fatto che la nostra società sembri ormai fagocitare tutto, esorcizzando la tragedia in un grande
gioco di simulazione, di retorica o di spettacolo. L’uomo, come ha scritto Niklas Luhmann, il più
grande sociologo vivente, «non è più il metro con il quale misurare la società». Quest’ultima si è
liberata dal vecchio retaggio umanistico e lascia ormai giocare liberamente i tanti sottosistemi che
in essa si sono differenziati, autonomizzati: così l’etica o la politica, secondo questa concezione,
non possono dire nulla alla scienza o all’economia. Ogni sottosistema, questo vale anche per la
religione, deve soltanto pensare ad assolvere la sua specifica funzione.
Preoccupazioni ecologiche, guerre, mancanza di rispetto della vita dei non-nati, sono questi gli
elementi che l’enciclica «Redemptor hominis» adduce per mettere in guardia dalla caducità di
questo stato di cose. «L’uomo — scrive Giovanni Paolo Il non può rinunciare a se stesso, nè al
posto che gli spetta nel mondo visibile, non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi
produttivi, schiavo della produzione, schiavo dei suoi stessi prodotti» (n. 16).
Così nel mondo economico, tanto per stare nel tema di questo intervento, si parla con crescente
insistenza di «malessere generale» che affliggerebbe il mondo del lavoro. Caduta di professionalità,
mancanza di motivazioni, disaffezione dal lavoro, bassa produttività, sono soltanto alcuni sintomi di
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questo malessere che preoccupa non poco imprenditori, sindacati, esperti di relazioni industriali, e
al quale si tenta di porre rimedio studiando nuove forme di organizzazione del lavoro, nuovi
incentivi professionali ed economici, o cosa di questo genere. Tutti provvedimenti questi che
certamente si impongono con urgenza, con altrettanta urgenza però occorre domandarsi se il
malessere che affligge il mondo del lavoro non significhi anche la fine di una concezione
materialistica dell’economia, la fine cioè di quella concezione del lavoro come semplice merce o
semplice forza lavoro, già denunciata da Leone XIII 100 anni or sono, e magari il segno della
impossibilità che l’uomo venga concepito come lavoratore e basta.
Occorre domandarsi insomma, e uso le parole della «Sollicitudo Rei Socialis>, se la realtà così
triste di oggi non sia almeno in parte il risultato di una concezione troppo limitata ossia
prevalentemente economica dello sviluppo (n. 15).
B) Il lavoro, espressione della persona umana.
Un altro aspetto che mi pare caratteristico dell’odierna «questione sociale» è dato dal fatto che il
lavoro da diritto-dovere sembra stia diventando una specie di lusso. La vecchia lotta tra coloro che
dovevano lavorare per sopravvivere e coloro che potevano permettersi il lusso di non farlo tende a
mutare i suoi connotati. I primi diventano sempre più coloro che vorrebbero ma non trovano da
lavorare e i secondi quelli che possono appunto permettersi questo privilegio. In questo contesto,
anche in considerazione delle enormi masse di poveri disperati che premono e varcano le frontiere
dei cosiddetti paesi ricchi, cresce il numero dei disoccupati, riprende quota il lavoro nero e certi
imprenditori ne approfittano proponendo addirittura l’abolizione del riposo festivo. Per non dire poi
della sterminata e scandalosa miseria diffusa su gran parte del nostro pianeta. La «Sollicitudo Rei
Socialis» parla in proposito di «un fatto sconcertante e di proporzioni immense, un fatto che senza
dubbio sta ad attestare che sia all’interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse
sui piano continentale e mondiale, per quanto concerne l’organizzazione del lavoro e della
occupazione, c’è qualcosa che non funziona e proprio nei punti critici e di maggiore rilevanza
sociale» (n. 18).
Fortemente critica nei riguardi dell’esistente ma senza rinunciare al necessario realismo, la dottrina
sociale della Chiesa rilancia oggi come sempre il paradigma della persona umana, consapevole che
la promozione di una vera civiltà del lavoro costituisce la chiave di tutta la questione sociale.
Giovanni Paolo II insiste non a caso sulla dimensione soggettiva del lavoro, sul fatto cioè che un
qualsiasi lavoro vale non tanto e non solo per ciò che con esso viene prodotto, ma prima di tutto
perchè a produrre è appunto l’uomo. Di qui «la priorità del lavoro sui capitale», l’idea che il
sacrosanto diritto alla proprietà privata non è concepibile senza doveri rispetto al bene comune e
quindi il diritto di ogni uomo ad avere un lavoro.
La Chiesa sa bene che non esiste sviluppo di nessun tipo senza capitale (sourplus accumulato e
impiegabile a fini produttivi); che non esiste capitale senza questo sourplus, che noi chiamiamo
profitto; che non esiste sourplus senza impegno costante per la migliore utilizzazione dei fattori
produttivi, dei talenti, che ci sono stati affidati, e che possiamo chiamare efficienza. Ma, esperta in
umanità, la Chiesa sa altrettanto bene che soltanto un profondo orientamento al bene dell’uomo,
della sua dignità, può rendere tutti questi principi, principi di una imprenditorialità e di uno sviluppo
veramente umani.
Una «prassi cristiana di liberazione» è possibile soltanto a condizione che, sempre nel rispetto
dell’uomo, si sappia tener conto con realismo della molteplicità dei fattori in gioco nel sistema
sociale. Senza fossilizzarsi in nessuna «legge naturale» dello sviluppo, la dottrina sociale della
chiesa guarda con diffidenza sia coloro che riducono tutto ai prodotto interno lordo, sia coloro che
si aggrappano ad un esasperato garantismo, e ci invita invece a riscoprire la responsabilità
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personale, il desiderio di intraprendere, di lavorare «in proprio», come si legge nella «Laborem
exercens», la solidarietà, la sussidiarietà.
Siamo insomma in presenza di una proposta di riforma radicale della società che parta dal basso,
dagli uomini dei lavoro, imprenditori e lavoratori.
Spesso in effetti anche noi cristiani abbiamo forse trascurato la centralità del lavoro nella vita
umana, l’abbiamo magari sminuito a semplice attività strumentale, a semplice mezzo di
sopravvivenza o arricchimento materiale. Da cento anni almeno la dottrina sociale della Chiesa ci
ricorda che nessuna attività umana può essere considerata meramente strumentale.
Se è vero come insegna S. Paolo che i cristiani debbono sempre pensare a Dio, qualunque cosa
facciano, allora ciò vuoi dire che anche lavorando, anche svolgendo cioè una funzione strumentale,
noi siamo chiamati ad attualizzare, a realizzare un significato non meramente strumentale. La
grande dignità soggettiva del lavoro umano è tutta qui e dobbiamo in primo luogo riscoprirla, in
secondo luogo tutelarla.
Se sapremo avviare a questo livello un’azione liberatrice nella libertà, per dirla con quel grande
documento che è stato la «Libertatis coscientiae», ci sono buoni motivi per sperare che questa
azione si estenda a tutto il sistema della comunità politica. In quel documento si legge:
«Poichè il rapporto tra la persona umana e il lavoro è radicale e vitale, le forme e le modalità
secondo le quali sarà regolato questo rapporto, eserciteranno un’influenza positiva in vista della
soluzione del complessi dei problemi sociali e politici che si pongono a ciascun popolo» (n. 83).
Questa la proposta che la dottrina sociale della Chiesa rivolge al nostro tempo. Richiamando di
continuo la verità del mondo e di noi stessi rivelataci da Gesù Cristo (è sintomatico che la stessa
dottrina sociale della Chiesa viene definita nella «Centesimus annus» come «strumento di
evangelizzazione»), la dottrina sociale intende farsi carico dei concreti bisogni dell’uomo e invita
tutti a fare altrettanto in un continuo esercizio di fantasia creatrice, di preghiera, questa sorta di
supplemento di azione che forse troppo spesso dimentichiamo.
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