Dr. Ivan CAVICCHI Professore di Sociologia delle Organizzazioni

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Dr. Ivan CAVICCHI Professore di Sociologia delle Organizzazioni
Dr. Ivan CAVICCHI
Professore di Sociologia delle Organizzazioni Sanitari e
Filosofia della Medicina - Università Tor Vergata
Grazie al dr. Luigi Dal Sasso per l’invito.
Devo dire che avevo preparato la scaletta del mio intervento, ma ascoltando ciò che è stato
detto, mi sono venute idee nuove.
Mi ha colpito molto la relazione della prof.ssa Baggio sulla medicina di genere. La prof.ssa
ha spiegato cosa non è la medicina delle donne medico. Spesso ha detto: “ Io non lo so”, “
Non ho dati”, “ Io qui non ci sono arrivata”.
Non è comune nel dibattito o in una discussione. In sostanza ha detto cosa non è la
medicina di genere. Io lavoro con le definizioni e mi pongo il problema di cosa essa sia l. La
mia risposta è che la medicina di genere è quella che viene agìta in modo diverso a partire
da postulati diversi. Avete notato che la professoressa ha introdotto novità di vario genere. La
professoressa ha definito la medicina di genere come un modo nuovo di concepire la
medicina, ma si tratta di quella che abbiamo, non di un’altra. Mi ha colpito questa sua frase: “
essere di genere femminile…” Oggi io voglio sostenere questo: il contributo del genere
femminile è un valore aggiunto per la medicina. In caso di malattia , essere donna è uno
svantaggio; essere donna medico è un valore aggiunto.
Vorrei spiegare perché e illustrare anche alcune contraddizioni. Per spiegarVi il mio punto di
vista, vorrei ricordare che FNOMCeO, lo scorso anno, ha riordinato il codice deontologico. Io
ho sostenuto che, secondo me, non era un’operazione congrua ai grandi problemi medici, di
cui non coglieva la drammaticità. Di ciò sono ancora convinto. Mi sono chiesto come mai il
codice deontologico, in una realtà che muta, non abbia sentito il bisogno di aggiornarsi sul
tema della femminilizzazione della medicina. Addirittura, il codice deontologico non lo
considera un fatto nuovo. Ciò mi ha colpito molto!
Ritengo che le variazioni che impattano sul soggetto professionale siano importanti e che
vadano registrate dal punto di vista deontologico. La dottoressa Chersevani,
eletta
Presidente, dice: “La femminilizzazione!”, però, quando è nella Commissione per la revisione
del Codice deontologico, si dimentica di questo tema.
Mi sono chiesto se la composizione della soggettività professionale sia differente dalla
definizione deontologica e la mia risposta è no!
Qual è il postulato di qualsiasi codice deontologico ?
“Il dovere deve essere usato per difendere il diritto”. Se faccio in modo di garantire i doveri
professionali automaticamente garantisco i diritti dei cittadini. I medici, per varie cause,
riescono a malapena a svolgere i loro doveri professionali, quindi dovrebbero lottare per poter
adempiere i propri doveri. Di solito, invece, si lotta per difendere i propri diritti. I medici
debbono essere messi in condizione di svolgere i propri doveri. Di solito, noi ragioniamo di
diritti professionali. Tutti i neoliberisti affermano : i diritti sono insostenibili e vanno
rinegoziati; forse sono insostenibili i doveri. I doveri vanno rinegoziati, perché sono una
garanzia. Ho lanciato una provocazione dicendo che, forse, dovremmo organizzare una bella
manifestazione per i doveri possibili. I medici non abbandonano nessuno, ma pagano un
prezzo molto alto.
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L’idea di concentrarsi sui doveri mi piace. Mi sono rivolto soprattutto al mondo sindacale, ma
l’ultima grande manifestazione risale al 27 ottobre 2013. Da allora, la nostra condizione
professionale è andata peggiorando.
Torniamo al Codice deontologico. Il quesito che un filosofo si pone è questo: il genere del
medico può influenzare la definizione del dovere? Secondo me, tutta la letteratura
internazionale dimostra, con evidenze scientifiche, che c’è una grande differenza tra il lavoro
del medico donna e il lavoro del medico uomo. Nel primo caso i valori relazionali sono molto
più accentuati che nel secondo. Non voglio cadere nel luogo comune secondo cui le donne
hanno dei valori innati. Noi dobbiamo formare medici, uomini o donne che siano,
indipendentemente dalle capacità innate. Tuttavia, pensando alla mia esperienza personale
che mi ha messo in contatto con donne oncologo, ho notato che effettivamente il sesso
femminile ha qualcosa in più. Le donne medico hanno la stessa preparazione degli uomini,
ma la usano in modo diverso e giungono a risultati migliori. È un aspetto che va sicuramente
approfondito, però vi assicuro che su questo punto la letteratura internazionale concorda.
Io sono tra coloro che non ne possono più di parlare di “’umanizzazione “, e lo dico con il
cuore in mano. Io sostengo che tutti siamo capaci di avere relazione con gli altri, è
impossibile non avere per nulla questa capacità. Il problema che la società ci pone oggi è di
cambiare i modi della relazione.
Io distinguo il concetto di giustapposizione da quello di relazione. La mia idea di relazione è
che non c’entri il bon-ton, ma sia un problema di conoscenza: attraverso la relazione, il
medico conosce di più e meglio. La figura del medico è complessa, perché deve poter
padroneggiare più genere di conoscenza: biologica, clinica, sociale, relazionale, etica, perfino
quella aziendale.
La relazione permette di accrescere la conoscenza clinica. Tra breve, uscirà un libro intitolato
“Complessità che cura” in cui trova largo spazio il tema della relazione tra clinico e malato.
Noi dobbiamo confrontarci sempre con il protocollo: da una parte ci serve, dall’altra sacrifica
qualcosa, perché si tratta di un ragionamento standardizzato.
Nel corso degli anni, sono arrivato a teorizzare un nuovo tipo di clinica, quello che ho
chiamato “clinica relazionale”. Ricordo che la clinica è nata più di un secolo fa e ha bisogno di
qualche ragionamento. La nostra clinica, prevalentemente, si basa sul primato
dell’osservazione, cioè su ciò che si vede, e da qui partono la diagnosi e la cura. Se la
relazione si inserisce in questo “Congegno”, arricchisce la clinica. Sono particolarmente
attento al cambiamento che sta avvenendo nel mondo della soggettività medica e sono
giunto alla conclusione che il numero crescente di donne medico migliori la clinica, perché
esse sono portatrici di maggiori capacità relazionali e ciò aumenta l’efficacia dell’intervento
medico. Naturalmente, non si deve generalizzare: conosco medici maschi che hanno grandi
capacità relazionali e medici donne che non ne hanno . Secondo me, per troppo tempo non
è stata esaminata, come si sarebbe dovuto fare, la femminilizzazione della medicina e ciò ha
portato alle carenze presenti, riguardo alle relazioni, nel Codice deontologico che, rispetto a
questo tema, è povero.
La clinica relazionale permette di cogliere le variabili individuali e sociali del malato che con
quella tradizionale sfuggono. La positiva novità della grande presenza femminile nella Sanità
può essere appannata, secondo me, dal ricorso crescente alla medicina difensiva, che uccide
la relazione. È un pericolo da evitare. Ho esaminato molti articoli dedicati alle donne medico
in occasione dell’8 marzo. Mi ha colpito il fatto che tutti sottolineano, anche giustamente, i
problemi di tipo sindacale e contrattuale delle donne (per esempio che il 90% dei precari
sono donne e che solo il 4% di esse raggiunge posizioni apicali), trascurando, però, altri
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aspetti del lavoro femminile in Sanità. Ormai le donne costituiscono la maggioranza e questa,
in democrazia non è cosa da poco. Il valore non è solo rappresentato dal cambio di genere,
ma anche dal fatto che le donne medico rappresentano sociologicamente una maggioranza.
Apprezzo che il Presidente sia una donna, che il dirigente sia una donna, ma ce ne vogliono di
più. Il problema non è la quota rosa, non è la parità, il problema è come rappresento
effettivamente la soggettività dei medici. Mi auguro che le donne portino maggiore autonomia
e maggiore armonia. Mi colpisce che la CIMO insista sempre su questo tema: fa bene!
Inoltre, propone cambiamenti all’interno del Sindacato.
Ha fatto bene il dottor Cassi a lanciare la provocazione della Presidente donna. Non è che egli
voglia compiacere le donne. Il dottor Cassi ha capito il fenomeno. Bisogna capire la differenza
tra mutamento e cambiamento. Il mutamento è subìto e può infastidire, il cambiamento viene
deciso, è la conseguenza di una volontà. Vorrei ora parlare della crisi del medico. Il “Forum
Sanità” ha intervistato tutti i medici, compreso il dottor Cassi.
Il focus non è scientificamente rilevante, ma è politicamente interessante, perché ha chiesto
a tutti i medici che cosa pensano della Sanità. Mi ha colpito che tutti quanti abbiano detto
che il medico è in crisi. Io l’ho ripetuto per tanti anni, ed ora, dopo vent’anni, siamo tutti
d’accordo: il medico è in crisi.
Quando un Governo va in crisi, cosa si fa? Si va dal Presidente della Repubblica che apre la
consultazione e si crea un nuovo Governo. Avendo dichiarato la crisi del medico, cosa
dobbiamo fare? Dovremmo, innanzitutto, definirla e dichiararla apertamente. La crisi va
“conclamata”. Inutile dire che c’è la crisi del medico e poi fare tutto come prima, come se la
crisi non ci fosse. La crisi deve produrre un cambiamento. Mi ricordo che già negli anni 80 si
parlava di crisi dell’autonomia del medico. In uno studio si faceva il confronto tra il medico
spagnolo quello inglese, quell’italiano e altri. Già allora il medico italiano era più giù dei
colleghi stranieri. Ora, passati tanti anni, il medico italiano è andato ancora più giù. La crisi
c’è!
Noi la leggiamo, prevalentemente, in rapporto ai contenuti della Sanità. Questa lettura, per
me, è parziale. Per me c’è anche la crisi della medicina e perciò dovremmo completare
l’analisi, affrontando sia i problemi della medicina che quelli della sanità, dal momento che
sono due mondi complementari e contigui.
Per essere più chiari, io definisco la medicina “il mondo dei contenitori”, dove io mi approprio
delle conoscenze e imparo come applicarle. Il mondo della sanità è “il mondo dei contenuti”.
Io ho i contenuti e con dei mezzi, li applico. Noi , in genere, trattiamo male il problema del
contenitore e del contenuto. Lo dimostra la trasandatezza del Codice deontologico. Gli studi
che ho condotto sul cambiamento deontologico della figura del paziente, inducono per forza
ad aggiornare medicina e medico. I pazienti di una volta non ci sono più. Il paziente buono,
che moriva tranquillo, che ti ringraziava, morendo, non c’è più. Devo fare i conti con questa
realtà. Non è esigente solo il paziente, è la società che vuole infilarsi sempre di più nelle
nostre decisioni, ci condiziona e , in alcuni settori, mostra grande diffidenza verso l’approccio
scientifico. Un dato che mi colpisce molto, per esempio, è che in America l’omeopatia è
applicata alla pediatria molto più che dalla nostra società scientifica. La medicina non può
essere messa fuori dal contesto sociale. È come una spugna che assorbe tutto, quindi è
continuamente sollecitata ad adeguarsi e , se non riesce a farlo, torna indietro. Il solo fatto
di stare fermi, mentre intorno tutto cambia, è un regresso.
Non adeguarsi, tra l’altro, costa un sacco di soldi: le coperture assicurative costano, la
medicina difensiva costa e non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto solo di
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vista sociale ed etico . Non voglio dire che saranno le donne medico, in quanto maggioranza,
a risolvere il problema, dico, però, che, tra le tante soluzioni da mettere in campo, devo
considerare anche il ruolo delle donne, da cui può venire un valore aggiunto .
Mi sono scontrato con Angelo Bianco a proposito del Codice deontologico, laddove sembra
che la relazione sia più tra medico legale e consulente che tra medico e malato. Ciò ci
delegittima. Si passa più tempo con il consulente legale che con il malato. Sono dell’idea che
il contenzioso legale possa diminuire con una buona relazione. Mi piacerebbe che qualcuno
facesse una ricerca per stabilire se il contenzioso legale agisce alla stessa maniera con i
medici maschi e con i medici donne.
Intervento della dr.ssa Itala Corti: Il buon rapporto tra medico e paziente riduce di
molto il contenzioso legale.
Dott. Cavicchi: Esatto! Vorrei sapere se c’è una differenza di genere.
Intervento: Dipende dall’ambito specialistico. Bisogna fare una grande distinzione tra
l’ambito internista e quello chirurgico. In quest’ultimo, le donne sono estremamente
penalizzate, sia nei rapporti professionali che nel rapporto con il paziente. Nell’ambito
internista, invece, la situazione è diversa. Le donne, in genere, sono molto penalizzate, ma
non c’è molta differenza di genere.
Dott. Cavicchi: Se io ammetto che esiste una maggioranza e questa maggioranza è foriera
di un valore aggiunto sul piano relazionale, è legittimo supporre che l’uso di questo valore
aggiunto riduca la medicina difensiva. È un ragionamento logico.
Di recente, ho scritto che la crisi del medico non è un problema corporativo e che non è
riducibile a un discorso sindacale. Ha la stessa importanza dell’impatto ambientale, la stessa
gravità del dissesto idrogeologico, è un fenomeno preoccupante come la disoccupazione e ,
come tutti questi problemi, ricade sulla collettività. Non ci si può rinchiudere nella
corporatività, perché la crisi del medico ricade sulla gente. Finché, però, non si configura
come problema, non ci sarà nessuno che se ne occuperà. Ricordate i tagli alla polizia? hanno
minacciato, hanno fatto “ bau “, mettendo quasi in discussione l’ordine pubblico e, in 24
ore, si sono trovate le risorse.
Come uscire dall’attuale crisi medica? Qui vengo a toccare “l’atto medico”.
Da tempo lavoro ad un’idea “nuova” per creare un “nuovo” medico. Riordinare i codici
precedenti non serve: se sto sempre a riordinare i codici, non cambia niente. Oggi, sento
molto l’urgenza di un cambiamento. Sintetizzo la mia idea di “nuovo” medico, in due o tre
parole. La prima è “autore”. Vorrei che il nuovo medico fosse de burocratizzato, come figura
professionale e considerato un “autore”, cioè detentore di tutta l’autonomia di cui ha bisogno
. Chiedo in cambio, la “responsabilità”.
Oggi non funziona più l’idea di un operatore che fa quello che gli viene ordinato, perché il
mondo è diventato complesso e sono richieste capacità interpretative di situazioni che
presentano molte variabili. Siete convinti che, a parità di merito, di Laurea, di formazione,
alla presenza di complesse varianti, tutti facciano il medico allo stesso modo? Non ci credo! I
fattori i esterni influenzano eccome la professione. Fare il medico in un ospedale
“sgangherato” non è la stessa cosa che farlo in un ospedale “organizzato”. Fare il medico in
una cultura della programmazione è diverso che farlo laddove tale cultura manca. Eppure il
medico è sempre quello!
L’autore, quindi, è una figura nuova che ha caratteristiche particolari.
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La questione che manderà sempre più in crisi il medico è questa: chi decide sulle necessità
dell’ammalato? Oggi, la tendenza non è quella di avere medici bravi che raggiungono gli
scopi terapeutici ( il Codice deontologico è caduto in questa trappola ). Oggi, l’ideale dei
manager è di avere un medico che utilizzi bene i mezzi, perché i mezzi sono pochi.
Il mezzo diventa prioritario rispetto allo scopo.
Il bravo medico è quello che spende poco. Quest’idea è emersa da tanto tempo. L’idea di
“autore” deve sostituirsi a questa, altrimenti il medico non è medico. Il vero medico è libero di
scegliere ciò di cui ha bisogno il malato.
Tanti anni fa, ho scritto “La medicina della scelta” in aperta polemica con Rosy Bindi,
impregnata di una logica amministrativa. Io chiamai la sua idea di medicina “ amministrata”:
si esagerava con l’uso del DRG e ciò in una logica puramente amministrativa. Senza
l’autonomia, il medico è poco medico. L’autonomia ha dei contrappesi in quella che ho
chiamato “responsabilità”. È un’idea non accolta da tutti, ma, del resto, le idee nuove si fanno
strada in tempi lenti. È importante capire quali riferimenti utilizzare per definire un medico o
un infermiere, in modo da far emergere quello che io chiamo “’impegno professionale”. Il
medico esegue dei compiti, come tutti, ma, nel mondo della sanità, questi compiti sono vari.
Finora, storicamente parlando, non si è mai posto il problema di chi sia un medico e cosa
debba fare. Nella situazione attuale, con gli infermieri che vogliono un “pezzo dell’orto” e
altre figure che avanzano le proprie richieste, è molto importante definire la figura del
medico. Oggi come oggi, ho bisogno come il pane di sapere cosa sia un medico, perché, se
noi non definiamo i confini di questa professione, ci rimettiamo.
Mi ricordo che mio padre aveva un orto, diviso da quello del vicino da un canaletto. Quando
il vicino lo puliva, ne approfittava per prendersi un po’ di terra.
Lo stesso sta succedendo ai medici.
Secondo me, essi svolgono attività improprie che potrebbero essere espletate da altri, però
non si può neanche accettare che, sulla base della divisione tra specialisti del complesso,
tutto ciò che implicitamente tu consideri semplice, me lo devi. Ma tu sei matto! Non lo posso
accettare e non perché difendo i medici, ma perché difendo i malati. Secondo me, l’impegno
è l’idea nuova. Definire l’atto medico significa definire l’intera attività del medico. Non si può
ridurre quella che io chiamo “l’opera professionale” del medico a un atto.
Quando una situazione è anomica, cioè senza definizione, è aggredibile.
Non possiamo accettare di non essere chiamati al tavolo della concertazione per iniziare
questo cammino, avanzando le nostre proposte. Uno dei grandi limiti della legge 42, che
definisce il ruolo professionale dell’infermiere, è che la relazione di ausiliarità con il medico è
stata rotta e non ne è stata creata una nuova.
Ha ragione il presidente Cassi quando dice che non si può “spacchettare” la cura
dall’assistenza, il medico dall’infermiere. La relazione di ausiliarità va sostituita con un’altra
relazione, più complessa. Dobbiamo ripensare la cooperazione tra medico e infermiere, anche
se non è facile, nell’interesse nostro e del malato, affinché non ci sia guerra nelle corsie, con
medici e infermieri che sembrano separati in casa.
Cos’è l’atto medico?
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Dal punto di vista dei contenuti delinea un profilo professionale che non è per nulla diverso
da quello degli infermieri. Io dico che l’operazione definitoria non è circostanziata, ma
“circoscrivente”. “Profilo” “atto” sono funzioni circoscriventi, cioè individuano ciò che è
dell’infermiere e ciò che è del medico. Con le definizioni generiche, non si definisce una
professione. Quando si dice che il medico ha potestà su prevenzione, diagnosi, terapia, non
si dice niente, se non si entra nei contenuti.
Intervento: Per superare la situazione, secondo me, il medico deve ottenere la
responsabilità del percorso di cura”.
Dottor Cavicchi: Sono d’accordo! Se non vogliamo finire male, dobbiamo arrivare a una
transazione tra professioni su confini e poteri. La potestà del medico deve essere chiara.
Non è possibile definire un atto senza definire l’agente, cioè chi lo fa. Anche in un atto
tecnico c’è quello che abbiamo “dentro”, quello che siamo, quello che siamo diventati. Io,
perciò, credo che più che definire l’atto, si debba definire l’agente, medico o infermiere che
sia, secondo le sue capacità e abilità. L’approccio universitario, che consiste nel riempire la
testa di nozioni, deve essere cambiato. A me interessa ridefinire il soggetto che opera sia
giuridicamente che contrattualmente. La battaglia della CIMO sull’area contrattuale e,
soprattutto, sulla specificità, è sacrosanta. In conclusione, una volta definito l’agente, si
definiscono tutti gli atti di cui è responsabile. È l’agente che garantisce l’atto, non il contrario!
Una volta che ho un bravo comandante, la nave va, ma la buona nave non assicura che sia
un bravo capitano.
Oggi, abbiamo un valore aggiunto: la presenza delle donne che arricchiscono la medicina.
Non si tratta di contrapporre genere e genere. Nelle lingue antiche esisteva il genere neutro.
Ecco, la medicina è un’impresa scientifica di genere neutro e tale deve rimanere.
Vi ringrazio.
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