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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
cover_Layout 1 21/05/2010 19.22 Pagina 1
CRISTINA VALLARO
EDUCatt
Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215
e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)
web: www.educatt.it/librario
ISBN: 978-88-8311-757-2
Euro 13,00
CRISTINA VALLARO
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Momenti di storia romana
in William Shakespeare
CRISTINA VALLARO
Julius Caesar
e Antony and Cleopatra
Momenti di storia romana in William Shakespeare
Milano 2010
© 2010
EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215
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Questo volume è stato stampato con tecnologia digitale nel mese di maggio 2010 presso
Prontostampa negli stabilimenti di Fara Gera d’Adda (BG)
copertina: progetto grafico Studio Editoriale EDUCatt
Indice
INTRODUZIONE ........................................................................5
ELISABETTA I E GIULIO CESARE: SOVRANI E TIRANNI ..............21
ELISABETTA I E CLEOPATRA: DUE DONNE AL POTERE ..............67
SHAKESPEARE, PLUTARCO E LE VITE PARALLELE ..................113
1. Julius Caesar..................................................................120
2. Antony and Cleopatra .....................................................139
CESARE, MARC’ANTONIO, CLEOPATRA
E I TESTI ELISABETTIANI .......................................................159
Il Cesare (1594)....................................................................175
The Tragedie of Antonie (1595) ..............................................195
The Tragedie of Cleopatra (1594) ...........................................221
BIBLIOGRAFIA ......................................................................245
3
Introduzione
In un suo volume sui Roman plays shakespeariani apparso nel
1963, Derek Traversi introduce così l’argomento che si appresta
a trattare:
Shakespeare’s major plays on Roman history span between them
the supremely creative years of his dramatic career1.
Non è un segreto, infatti, che nel periodo che intercorre tra la
composizione del Julius Caesar2 e quella del Coriolanus sia stata
scritta buona parte della produzione drammaturgica più significativa di questo Autore: a parte qualche commedia, gli anni tra
la fine del XVI secolo e la prima decade del secolo successivo
vedono la creazione di tutte le grandi tragedie e, di conseguenza,
rivelano un’evoluzione nello stile e nel linguaggio, e presentano
un eroe tragico, il quale negli ultimi plays acquista maggiore consistenza, la stessa dei grandi eroi tragici come Hamlet, King Lear, Macbeth e Othello.
Quanto allo stile, afferma ancora Traversi, esso “shows a unique combination of narrative lucidity, achieved through the easy,
almost conversational use of spoken rhythms and vernacular
phrases, with poetic intensities that flow effortlessly from the
foundation whenever the state of the action so requires”3:
l’unione tra il linguaggio colloquiale e l’alta espressione delle
emozioni raggiunge qui altezze difficilmente toccate in altri testi,
1
D. TRAVERSI, Shakespeare: The Roman Plays, London, Hollis and Carter,
1963, p. 9.
2
W. SHAKESPEARE, Julius Caesar, ed. by David Daniell, The Arden
Shakespeare, Third Series, London, Thomson, 2006. In tutto il volume, ogni
citazione dal Julius Caesar è tratta da questa edizione.
3
D. TRAVERSI, Shakespeare: The Roman Plays, p. 10.
5
Introduzione
anche dello stesso Autore. Buona parte di questo effetto è dovuta
a Plutarco e al suo traduttore, sebbene questi abbia commesso
nella versione inglese alcuni grossolani errori4, i quali forniscono
a Shakespeare una narrazione scorrevole e fluente, da cui si intravede come l’Autore originario di Cheronea scrivesse avendo
ben chiari in mente i propri obiettivi ed i materiali ai quali attingere per le proprie storie. Quando si leggono i drammi romani,
fatta eccezione per il Julius Caesar che, essendo stato composto
presto rispetto agli altri, non presenta appieno tutte queste caratteristiche formali e stilistiche, ci si accorge che gli avvenimenti si
susseguono l’un l’altro, dando alla sequenza tragica un’unica traiettoria, senza ripensamenti né ripetizioni.
Da Plutarco, dunque, Shakespeare non eredita solo la Storia e
la successione cronologica degli eventi che la compongono, ma
anche il modo di renderla drammatica, adatta alla rappresentazione teatrale. Dalle pagine plutarchiane emerge, inoltre, la convinzione che la Storia possa e debba trasmettere attraverso i modelli del passato, esempi e modelli di moralità utili alle nuove generazioni, e alla posterità in generale.
E questo è proprio ciò che succede con il Julius Caesar, nel
quale Shakespeare rappresenta il soggetto più conosciuto
dell’intera storia di Roma, che, non a caso, suscitava grandi dibattiti attorno alla sua vicenda tra coloro che ne approvavano
l’eliminazione e coloro che, al contrario, ne aborrivano
l’assassinio. Entrambe le posizioni avevano implicazioni universali rilevanti all’epoca del Nostro, tanto più che riguardavano un
4
A sostegno di questa affermazione si veda quanto riportato nel saggio
sulle fonti, in particolare la parte introduttiva alle Vite Parallele di Plutarco:
PLUTARCH of Cheronea, Selected Lives from the Lives of the Noble Grecians and
Romans. Compared together by that grave learned Philosopher and Historiographer
Plutarch of Cheronea: translated out of Greek into French by James Amyot and out
of French into English by Thomas North Now selected, edited and introduced by
Paul Turner, vol. 1, ed. by P. TURNER, 2 vols, Fontwell, Centaur Press
Limited, 1963. Ogni citazione dalle Vite di Cesare, Bruto e Antonio è tratta
dal secondo volume di questa edizione.
6
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
fatto, l’uccisione di Cesare, che aveva cambiato la storia di Roma. Scritto senza scadere in semplificazioni fastidiose ed inopportune, il Julius Caesar è ancora vicino alle Histories, ossia ai
drammi che videro impegnato il drammaturgo fino alla fine degli
anni Novanta del XVI secolo; in particolare, condivide con quelli
sulla storia inglese la necessità di un ordine che sia garanzia di
pace e prosperità nella vita pubblica e politica del Paese. Durante
la rappresentazione, infatti, lo spettatore assiste alla dissoluzione
di un ordine precostituito e alla ricostituzione dell’ordine stesso
in seguito all’assassinio di Cesare e alla battaglia di Filippi contro
Bruto e Cassio.
Nell’Antonio e Cleopatra5, composto intorno al 1607-1608, tutto questo assume un ruolo ancor più rilevante all’interno del
dramma, dove si assiste allo sgretolamento delle ambizioni descritte nel testo precedente: nella lotta tra due diverse realtà,
quella della corrotta Alessandria e quella della pragmatica Roma,
ha la meglio quest’ultima; il vero trionfatore è Ottaviano e lo
spettatore sa che non potrebbe essere diversamente, poiché ha
imparato la lezione che l’ordine è un bene indispensabile al buon
governo e alla prosperità di uno Stato, e riconosce in Ottaviano il
personaggio che nel dramma incarna meglio di chiunque altro
l’idea di ordine. Questo, a ben vedere, è anche lo stesso messaggio che Shakespeare lascia nei drammi storici inglesi, dove è espressa con chiarezza la convinzione che ribellione e guerra civile
possono solo nuocere allo Stato.
Infine, il Coriolano, dove il drammaturgo mette in scena “the
most balanced and complete of all his political conceptions”6.
Qui, tutte le divisioni intestine di Roma si trovano all’interno di
una unità, sono viste come i diversi volti di un’unica situazione
ben più grande di ogni singola parte che la compone. Su questo
5
W. SHAKESPEARE, Antony and Cleopatra, ed. by John Wilders, The Arden
Shakespeare, Third Series, Methuen, London, Thomson, 2002. In tutto il
volume, ogni citazione dall’Antony and Cleopatra è tratta da questa edizione.
6
D. TRAVERSI, Shakespeare: The Roman Plays, p. 13.
7
Introduzione
sfondo si muove un eroe, le cui contraddizioni si inseriscono in
un mondo già diviso e tendente all’autodistruzione, un mondo
filtrato da una visione superiore, che è il frutto della rielaborazione personale del realismo delle fonti da parte dell’Autore7.
La relazione tra l’eroe e la realtà circostante accompagna tutti
i drammi romani e culmina in personaggi come Antonio e Coriolano. In particolare, Antonio è al centro del suo mondo e della
sua tragedia: egli è chiamato ad operare una scelta, poiché oscilla
tra Roma, che rimane sullo sfondo e Cleopatra, i cui capricci
d’amore occupano gran parte del dramma; la scelta, dunque, riguarda, da una parte Cleopatra d’Egitto, una combinazione di
corruzione e dissolutezza, e dall’altra Ottaviano, che rappresenta
Roma e ricorda la posizione che Antonio potrebbe occupare se
non fosse irretito dal fascino della Regina. Antonio farà la sua
scelta e finirà tragicamente i suoi giorni, dopo aver abdicato alle
sue responsabilità ed aver interrotto la sua relazione con il mondo circostante per un amore funesto.
I temi affrontati da Shakespeare in questi drammi erano attuali alla sua epoca, non solo perché si inserivano nel quadro di rivalutazione dei classici introdotto dall’Umanesimo, ma perché
proponevano modelli importanti, che avevano molto da insegnare ai suoi contemporanei, suggerivano riflessioni sulla storia del
loro Paese ed indicavano la strada da seguire per diventare signori del mondo.
L’ambientazione in Italia non costituiva una novità per il
drammaturgo, che all’epoca del Giulio Cesare aveva già deciso di
situare le vicende di alcuni drammi nel nostro Paese, in particolare nel Veneto dove sono ambientati The Taming of the Shrew,
The Two Gentlemen of Verona, The Merchant of Venice, Romeo and
Juliet ed altri ancora. In Lombardia, anche se composta negli ultimi anni della sua vita, è collocata la prima parte della Tempesta,
ed in Sicilia la commedia Much Ado about Nothing e il romance
7
Ibidem.
8
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
play A Winter’s Tale. L’Italia, perciò, affascinava Shakespeare,
proprio come affascinava tutti gli abitanti dell’Inghilterra elisabettiana: la sua storia e il suo patrimonio culturale erano la culla
del Rinascimento e del rifiorire delle arti, grazie alla presenza di
importanti uomini politici e di personaggi della levatura di Leonardo, Michelangelo, Raffaello... Il nostro Paese era, dunque, un
punto di riferimento fondamentale nel risveglio della cultura europea.
Di certo, nel panorama complesso ed articolato dell’Italia delle
Signorie accanto alla Firenze medicea, alla Ferrara estense, alla
Milano sforzesca e viscontea si stagliava la presenza minacciosa
della Roma papale: collocato geograficamente al centro dell’Italia,
lo Stato Pontificio era in grado di controllare non solo i propri
possedimenti, ma anche quelli che si estendevano oltre i suoi confini e comprendevano le terre di signorie più piccole, ma comunque ricche e floride. La figura del papa nell’Italia rinascimentale
era tutt’altro che di secondo piano: da Roma egli esercitava una
politica egemonica, di tipo temporale sui suoi territori, sull’Europa
e sui suoi regnanti, e di tipo spirituale su tutti coloro che erano di
fede cattolica. E allora perché Shakespeare non colloca nessuno
dei suoi drammi nella Roma dei Papi? Perché sembra completamente ignorare l’esistenza dello Stato Pontificio e del suo reggente? Le risposte stanno, ovviamente, nella storia dell’Inghilterra,
che va dall’Act of Supremacy del 1534 alla storia elisabettiana più
recente, e contemporanea a Shakespeare medesimo.
Dal momento in cui la storia religiosa dell’Italia e
dell’Inghilterra si scinde Roma può solo essere considerata lo
specchio della corruzione papale e della falsità della sua parola.
9
Introduzione
Fig. 1. Pieter van der Heyden, Queen Elizabeth I as Diana and Pope Gregory XIII as Callisto, ca. 15858.
Come si può vedere dall’incisione di Pieter van der Heyden,
Queen Elizabeth I as Diana and Pope Gregory XIII as Callisto (ca.
1585), chiara parodia del famoso dipinto di Tiziano, in cui Diana risulta vincitrice sulla sventurata Callisto, le due figure principali sono Elisabetta I e Gregorio XIII che, nelle vesti rispettivamente di Diana e Callisto, consentono agli Elisabettiani una rilettura attuale. Zeus si era innamorato della fanciulla, che, giovane vergine al seguito di Artemide, non aveva avuto il coraggio
di svelare alla dea di aver perduto la propria virtù. La dea, adirata per l’accaduto, la trasformò in orsa. Nell’incisione di van der
Heyden il mito non è che il pretesto per poter parlare ancora una
volta di Elisabetta, che, nei panni della dea severa e giusta, punisce il Pontefice romano per la sua immoralità. La superiorità di
Elisabetta è resa evidente dal numero di persone del suo seguito
e dal fatto che l’artista la collochi su un piano leggermente rialza8
L’immagine è presa da Women Who Ruled. Queens, Goddesses, Amazons in
Renaissance and Baroque Art, A. Dixon (ed.), Mervell Publishers, London,
2002, p. 142.
10
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
to rispetto a quello del rivale. Lo spazio scenico, infatti, è diviso
equamente tra i due schieramenti, ma la linea della verticalità
mette in maggior risalto la figura di Elisabetta rispetto quella del
Papa. Inoltre, il gesto della Sovrana, che con la mano destra addita il Pontefice come ad attribuirgli la colpa di qualche misfatto,
dà ragione della sua superiorità anche in termini di ragione e di
ruolo. Il Papa che compare davanti ad Elisabetta è completamente privato della sua dignità: è svestito, ma porta la tiara sul
capo; è in atteggiamento di supplica nei confronti della Regina
inglese e dalla postura sembra pure malfermo sulle proprie gambe. A sorreggerlo, ci sono le allegorie della Vergogna e della
Morte, due prerogative che la Riforma anglicana gli ha sempre
attribuito. Lo scudo e il bastone che Elisabetta tiene nella mano
sinistra sono, invece, chiare espressioni del suo potere, che rimane inattaccabile e, confrontato con quello del Papa e le sue condizioni, acquista anche un’enfasi maggiore.
La contrapposizione tra la Regina e il Papa significa, dunque,
la contrapposizione tra il bene e il male, la Verità e la falsità,
l’onestà e la corruzione; indica l’incompatibilità di due mondi,
che sono ormai destinati a percorrere strade diverse e, in molti
casi e per diverse ragioni, opposte l’una all’altra.
Detto questo, Shakespeare aveva numerose ragioni per non
dover parlare della Roma dei Papi e per sorvolare sulla loro vita
dissoluta e corrotta. Egli sceglie, perciò, di portare in scena la
Roma dei Cesari che, per molti aspetti, richiamava la Londra dei
suoi tempi. Prima di analizzare gli elementi comuni alle due città, è però indispensabile spiegare perché, nonostante i secoli che
separavano il mondo romano da quello elisabettiano, ci fosse un
interesse così vivo per quel periodo di storia.
Ancora una volta la risposta va cercata nei volumi pubblicati
nell’Inghilterra elisabettiana e, soprattutto, nel dibattito che riguardava la figura di Giulio Cesare, il suo assassinio e la dissoluzione del sogno imperiale di Antonio a causa del suo smisurato
amore per Cleopatra. La figura di Giulio Cesare suggestionava i
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Introduzione
contemporanei del drammaturgo, perché rappresentava da sempre l’immagine del potere e della lotta per conquistarlo,
dell’ambizione sfrenata e dell’arroganza, che coesistono geneticamente in ogni tiranno. L’Inghilterra della fine del XVI secolo
era governata da una donna ormai vecchia e malandata, che non
aveva eredi, ma che il potere avere reso vanitosa, eccentrica ed
intoccabile: di certo non mancavano i complotti contro di lei, né
le congiure per sottrarle il trono e impossessarsi della corona. Per
tutta la vita Elisabetta aveva dovuto stare in guardia e diffidare
della gente che la circondava, ma negli ultimi anni i rischi si erano concretizzati in una serie di complotti, che si erano conclusi
con la condanna alla pena capitale di coloro che li avevano orditi.
Ma non finisce qui. Elisabetta, come Cesare, era riuscita a
rendere eterna la propria immagine, proponendo di se stessa
un’icona che la rendesse semper eadem, immortale, e la consegnasse immutata alla posterità. Lo stesso fa Giulio Cesare che
diventa un divus, sublimando la sua natura terrena. Queste due
figure storiche condividono, quindi, la stessa situazione politica
di incertezza e di timore per il futuro, ma anche un’analoga condizione di governanti la cui esistenza è stata assimilata al mito.
Tutto ciò rendeva il dibattito su Giulio Cesare e il suo tirannicidio estremamente attuale e, per sua complementarità con Elisabetta, ancor più intrigante. Complementarità che aveva le proprie basi nel mito delle origini dei Tudor, i quali, da semplici gallesi, erano arrivati ad occupare i luoghi del potere. Tutto aveva
avuto origine quando Brut, congiunto di Enea, aveva raggiunto
le isole britanniche e dato origine alla dinastia regnante
sull’Inghilterra per tutto il XVI secolo: l’analogia tra Elisabetta e
Cesare dipendeva perciò anche da una lontanissima parentela
che li voleva entrambi discendenti di Enea.
Gli argomenti di cui Shakespeare tratta nei suoi drammi e i personaggi che vi ritrae sono di una scottante attualità e proprio per
questo riscuotevano successo presso la folla che assisteva alle rappresentazioni al Globe e nelle playhouses elisabettiane in genere.
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Come se non bastasse, a questa molteplicità di analogie e somiglianze si deve aggiungere che Londra e Roma avevano parecchi elementi in comune. Per i motivi già ricordati, Shakespeare
non poteva parlare della Roma rinascimentale, di una città, cioè,
che sul piano urbanistico rispondesse ai progetti di Filarete, Alberti ed altri grandi architetti del Rinascimento italiano, ma
dell’Urbe a capo di buona parte del mondo allora conosciuto.
Fig. 2. Tudor London e Roma antica9.
Come si può notare dalle immagini, ciascuna delle quali è una
fedele riproduzione delle due città nell’epoca di cui si occupa il
presente lavoro10, i punti in comune non sono pochi. Intanto, entrambe le città erano attraversate da un fiume: per la Londra elisabettiana, ‘attraversata’ è forse un termine improprio, ma si sa
per certo che sulla sponda meridionale del Tamigi sorgevano
comunque delle propaggini della città: lì si trovavano i teatri del
Globe e del Rose, ad esempio, per non parlare di case da gioco,
bordelli, lazzaretti che, pur essendo fuori dal controllo giuridico
e religioso della città, erano comunque parte della città stessa. Il
fiume, poi, costituiva una parte integrante della vita cittadina,
9
Le immagini sono prese dal sito www.museumoflondon.org.uk, per
quanto riguarda la Londra dell’epoca Tudor, e dal sito www.robinurton.com/
history/ancient/rome.htm, per quanto riguarda l’antica Roma.
10
A tale proposito è opportuno fare una precisazione. Mentre l’immagine
di Londra è una riproduzione da una piantina esistente della città, quella di
Roma è una ricostruzione moderna in plastico.
13
Introduzione
non solo perché consentiva di raggiungere l’altra sponda e, quindi, l’altra parte della città, ma perché era una fonte di vita per
buona parte della popolazione. Sul fiume c’erano imbarcazioni,
che avevano anche la funzione di abitazione per gente che traeva
dal proprio lavoro sul fiume una sicura fonte di sostentamento o
gente che lavorava al porto, dove approdavano le navi dal Nuovo
Mondo e da dove partivano le galee verso terre lontane. Il Tamigi era al centro della vita commerciale di Londra e, in molti casi,
della vita mondana. Le cronache dell’epoca riportano come durante l’inverno i Londinesi andassero a pattinare sulle acque
ghiacciate del Tamigi, descrivono come la Regina si spostasse da
un palazzo all’altro via fiume e come, ogni volta che
l’imbarcazione reale era avvistata, la gente corresse sulle rive a
salutarla. Ovviamente, gran parte di tutto questo vale pure per il
Tevere e Roma: il fiume agevolava i traffici commerciali della
città e contribuiva al benessere economico di molti dei suoi abitanti. Quanto al divertimento, c’è un passo nel Julius Caesar in
cui Cassio ricorda che una volta egli e Cesare si erano sfidati
nell’attraversata a nuoto del Tevere in piena: performance che avrebbe potuto ripetere chiunque, proprio a dimostrazione di come i Romani considerassero il fiume parte integrante della loro
vita cittadina.
Dalle due immagini si vede anche come il nucleo cittadino
fosse costituito da una quantità di vie e viuzze molto strette e
buie sulle quali si affacciavano le abitazioni dei ceti meno abbienti, il che dimostra che le due città accoglievano al loro interno
una società fortemente stratificata e connotata attraverso
l’abbigliamento, l’abitazione, il lavoro e molti altri aspetti ancora.
Infatti, se il centro cittadino ospitava le case dei più poveri, la periferia era caratterizzata, invece, dalla presenza delle abitazioni
dei ceti più benestanti, di coloro che avevano a che fare con il
governo della città e che appartenevano all’aristocrazia. Il palazzo reale di Whitehall non sorgeva nella City, così come non vi
sorgevano le residenze dei nobili, per i quali era un segno di di14
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
stinzione sociale l’abitare lontano dal fetore di tutte quelle viuzze
ammassate attorno alla cattedrale di Saint Paul’s. Lo stesso dicasi per Roma, nel cui centro sorgevano le caratteristiche case a più
piani che ospitavano molte famiglie, mentre nella periferia si trovavano le case gentilizie di personaggi come Cesare e Ottaviano.
Detto questo, è opportuno ricordare che il nucleo cittadino era,
però, anche il fulcro della vita politica della città e dello Stato: lì
sorgevano i palazzi del governo e c’erano i simboli del potere.
Le due città, poi, erano sede della Corona e dell’amministrazione
dello Stato, il che vuol dire che erano anche la sede degli intrattenimenti ufficiali organizzati in periodi particolari e in occasione di festività e/o ricorrenze speciali. A tal proposito si pensi a Roma e alle
celebrazioni dei Lupercali, come è raccontato nel Julius Caesar: la
festa cadeva il 15 di febbraio di ogni anno e per quella data si organizzava una corsa durante la quale le donne sterili si facevano toccare dai corridori nella speranza di poter avere presto un figlio e,
quindi, risolvere i loro problemi di sterilità. Per quanto riguarda
Londra, si può ricordare il rituale cui il futuro sovrano era sottoposto prima di essere incornato: egli doveva attraversare la città dalla
Torre a Whitehall ed assistere a tutti i pageants allegorici e benauguranti allestiti dalla popolazione, per auspicare un lungo e prospero
regno. Erano circostanze, queste, alle quali la città partecipava nella
sua totalità, per dimostrare il suo affetto nei confronti di chi la governava.
Tra i festeggiamenti più significativi, e di tipo ufficiale, si possono menzionare le processions attraverso Londra di Elisabetta,
quando ella doveva aprire la sessione di lavori del Parlamento o
quando partiva per i suoi progresses nella campagna inglese e verso le residenze dei suoi sudditi aristocratici; per Roma, basti richiamare alla mente i trionfi con cui si celebravano le vittorie dei
grandi generali che avevano combattuto in modo esemplare nel
nome della città, ampliandone i confini ed accrescendone la supremazia.
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Introduzione
Infine, dal punto di vista geografico, sia Londra sia Roma erano sì il centro e la sede del potere, ma la loro posizione non era
equidistante rispetto alle varie zone dello Stato.
Obiettivo di questo volume è quello di fornire materiale integrativo alla bibliografia essenziale del corso di Lingua e Letteratura Inglese, che affronta la lettura e il commento di due dei
drammi più significativi dell’opera shakespeariana. Il motivo per
cui si è scelto di lavorare sul Julius Caesar e sull’Antony and Cleopatra è riconducibile ad un interesse particolare di chi scrive e,
soprattutto, alla necessità di far conoscere agli studenti due
drammi che sono rimasti un po’ nell’ombra, lasciando maggior
spazio alle grandi tragedie e ad alcune commedie, tornate in auge
anche grazie ad interessanti trasposizioni cinematografiche.
Il lavoro è composto da quattro capitoli, che intendono affrontare aspetti importanti contenuti nei drammi succitati e sui
quali la critica si è esercitata nel corso dei secoli, confermandone
così la centralità e l’importanza.
I primi due capitoli esaminano le figure di Giulio Cesare e di
Cleopatra, messe a paragone con quella della Regina inglese dei
tempi di Shakespeare. In particolare, il primo propone un confronto tra Giulio Cesare ed Elisabetta I, basato sul concetto di
tirannia e sulla figura del tiranno. Ovviamente, il confronto non
riguarda solo una questione di ruolo, e di manifestazione e realizzazione dello stesso, ma soprattutto l’idea che della tirannia
avevano le due epoche, la romana e l’elisabettiana. Da qui il dibattito, molto in voga nel Rinascimento, sulla forma di governo
che meglio si addicesse ad uno stato e, quindi, attraverso la lettura del dramma, le deduzioni sulla posizione di Shakespeare.
Il secondo capitolo, invece, prospetta un parallelo tra Cleopatra ed Elisabetta, in quanto donne di potere e sovrane. Chi conosce l’età rinascimentale sa bene in quale considerazione fossero
tenute le donne e sa pure come in Inghilterra non mancassero le
proteste di predicatori protestanti contro la loro presenza sul
16
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
trono. Il capitolo prende anche in considerazione l’interessante
questione della regina e della donna racchiuse in un solo corpo
ed indaga su come Cleopatra ed Elisabetta vivessero la propria
femminilità.
I due capitoli successivi analizzano le fonti che Shakespeare
consultò o ebbe a disposizione per la stesura dei due drammi. Il
primo dei due, terzo di questo volume, riguarda interamente
Plutarco e le sue Vite Parallele. A tale proposito, però, è opportuno fare una precisazione sull’impostazione che si è voluta dare a
questo e al capitolo seguente: invece di proporre una sintesi tra
ciò che Shakespeare mantiene delle fonti e ciò che, invece, cambia, si è preferito proporre una sorta di lettura parallela tra il testo del drammaturgo e quello dello storico in modo che chi legge
possa toccare con mano il criterio adottato dall’Autore inglese.
Di alcuni episodi si riportano entrambi i passi, quello drammatico e quello narrativo, così che se ne possa constatare in modo diretto ed immediato la vicinanza. Le Vite di Plutarco sono relative
a Cesare, Bruto ed Antonio, motivo per cui è stato necessario
suddividere il capitolo in due parti, la prima su Julius Caesar e la
seconda su Antony and Cleopatra.
Il quarto ed ultimo capitolo riguarda le fonti, per così dire minori, e, quindi, la traduzione della Contessa di Pembroke, il
dramma di Daniel complementare a questa traduzione e la tragedia italiana di Orlando Pescetti, della quale, però, non è sopravvissuta nessuna versione inglese. Inoltre, prima di presentare
questi testi con le modalità riferite sopra, si è inserito un rapido
excursus sul panorama letterario elisabettiano dedicato alle figure
di Cesare, Antonio e Cleopatra. Per quanto riguarda questi testi,
si precisa che essi sono stati riportati rispettando il loro spelling
originale.
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Introduzione
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
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Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Quando si legge il Julius Caesar di Shakespeare è facile rimanere colpiti dalla maestria con cui il dramma è stato scritto e dalla sottile serie di collegamenti che si possono notare tra il grande
uomo di Roma e la Regina inglese contemporanea di Shakespeare. Entrambi hanno segnato la storia del proprio Paese, costituendo una tappa significativa nella corsa verso l’Impero e consegnando ai posteri un’immagine di ambizione, potere e trionfo.
L’obiettivo del seguente lavoro è proprio quello di mettere in
evidenza le analogie tra questi due illustri nomi della Storia e di
vedere in che modo il Giulio Cesare shakespeariano, pur essendo
vissuto prima dell’era cristiana, condivida molti aspetti del suo
potere e del suo valore con Elisabetta Tudor. Infatti, oltre ad essere stati due punti di svolta nel governo dei propri Paesi, entrambi hanno saputo coniugare la grinta del comandante e del
soldato con la passione per le Lettere, lasciando ai posteri significative testimonianze della storia di Roma e delle sue conquiste
(vedi De bello gallico e De bello civili) e, nel caso di Elisabetta, poesie, preghiere e lettere che rivelano la fragilità di una donna sola
chiamata a svolgere un ruolo di responsabilità e di rilievo in un
mondo ancora decisamente patriarcale. Ma di questo avremo
modo di trattare più avanti nel corso del lavoro.
Il primo punto su cui è necessario soffermarsi è l’immagine
che i due grandi personaggi storici hanno lasciato ai posteri.
Un’immagine celebrativa, che gioca con i simboli del potere nel
rispetto delle convenzioni artistiche in voga nelle rispettive epoche. Dell’aspetto fisico di Giulio Cesare Shakespeare non dice
nulla, ma la sua figura ci è nota grazie ad alcune statue che si sono conservate fino ad oggi e che suggeriscono “experimentation
21
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
with the Hellenistic style of portraiture”1. Il punto di partenza,
nonché il modello di riferimento per questi ritratti scultorei erano le statue di Alessandro Magno, il cui carisma e la cui forza di
giovane coraggioso erano considerati basilari nelle battaglie da
lui combattute e nelle conquiste da lui riportate. Oltre all’enfasi
sulla sua eroica giovinezza, spiega Miles nell’articolo sopra citato, i suoi ritratti lo rappresentavano in quei momenti che meglio
di altri comunicavano la vitalità e l’intensità di uno sguardo,
spesso diretto al di sopra dell’osservatore, al regno degli dei2.
Tuttavia, nel caso di Giulio Cesare si è parlato di sperimentazione proprio perché i ritratti che lo riguardano presentano elementi peculiari della scultura romana del periodo della Repubblica:
Typically these figures present an appearance that is formal and
self-conscious, with lips compressed, gaze straightforward, expression stern. Also typical are wrinkles, receding hairlines,
baldness, and other signs of age3.
1
G.B. MILES, How Roman are Shakespeare’s ‘Romans’?, in Shakespeare
Quarterly, vol 40, n.3 (Autumn 1989), p. 267.
2
Ibi, p. 262.
3
Ibidem.
22
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Fig.1. Anonimo, Julius Caesar4.
Non mancano, cioè, i segni dell’avanzare dell’età, delle battaglie combattute e della mortalità umana. Le statue di Giulio Cesare, quindi, hanno queste caratteristiche e talvolta, come
nell’immagine che segue, lasciano trasparire dal freddo volto
marmoreo tutto l’interesse dell’uomo e tutta la sua preoccupazione per lo Stato, il che emerge del resto anche dai testi che egli
stesso scrisse, o, piuttosto, la sua ambizione per il potere, come
ricordano altri autori quali Cicerone (Filippica, II, 45, 116):
Cesare aveva un’intelligenza innata, avvedutezza, memoria, cultura, abnegazione, ponderatezza, scrupolosità; si era reso autore
4
F. SAMPOLI, Giulio Cesare. Uno sguardo da dominatore, in I volti del potere.
Cesare, Augusto, Costantino, Archeo Collection, anno LXXI, n. 1, febbraio 2008,
p. 65.
23
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
di imprese militari dannose sì per lo Stato, ma nondimeno insigni; dopo aver covato per molti anni il progetto di farsi signore
assoluto, grazie ad un’attività incessante ed al prezzo di grandi
pericoli, aveva realizzato quanto si era prefisso; con le lusinghe
dei giochi, dei monumenti, delle distribuzioni di denaro, dei
banchetti, si era accattivato l’animo ingenuo delle masse; i suoi li
aveva conquistati con le ricompense, gli avversari con
l’ostentazione di clemenza. Perché dilungarmi? Facendo conto
in parte sulla paura ed in parte sulla rassegnazione, aveva inculcato in una cittadinanza libera l’abitudine alla schiavitù5,
e Sallustio (De Catilinae coniuratione):
Dunque, per la nascita, l’età, l’eloquenza, più o meno si equivalevano. Eguale la grandezza dell’animo e la gloria; ma nelle altre
cose diversi: Cesare tenuto in gran conto per la generosità, la larghezza, Catone per l’integrità della vita; il primo salito alla celebrità per la mitezza e la clemenza, il secondo per il rigore. Cesare
ha raggiunto la fama a forza di donare, soccorrere, perdonare,
Catone con il non concedere mai nulla a nessuno. L’uno, il rifugio dei poveri, l’altro, il flagello dei malvagi; di uno era lodata la
condiscendenza, dell’altro la fermezza; Cesare, infine, s’era proposto di lavorare, vigilare e, per tener dietro agli interessi dei
suoi amici, trascurare i propri e non rifiutare mai nulla che valesse la pena di regalare; ambiva ad un comando importante, a un
esercito, a una guerra nuova, nella quale potesse emergere il suo
valore. Catone era incline alla modestia, al decoro e, soprattutto,
all’austerità. Non gareggiava di lusso con i ricchi, d’influenze
con gli intriganti, ma di valore con il prode, di riserbo con il
modesto, d’integrità con l’onesto. Preferiva essere virtuoso che
parerlo e, di questo passo, quanto meno inseguiva la gloria ogni
tanto più essa lo seguiva6.
5
CICERONE, Marco Tullio, Filippica II, in R. CRISTOFOLI, Cicerone e la II
Filippica. Circostanze, stile e ideologia di un’orazione mai pronunciata, Roma,
Herder Editrice, 2004, p. 97.
6
SALLUSTIO Crispo, Gaio De Catilinae coniuratione, a cura di L. STORNI
MAZZOLANI, La congiura di Catilina, Milano, Rizzoli, 1976, p. 183.
24
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Per quanto riguarda il suo aspetto fisico è, però, necessario
osservare i ritratti incisi sulle monete, che costituiscono un elemento essenziale nello studio dell’iconografia cesarea:
Fig. 2. Monete con l’effigie di Giulio Cesare7.
I tratti che lo distinguono sono
A bushy laurel-wreath and straggling locks of hair combed forward partly disguise his obvious baldness. His massive brow is
deeply wrinkled; his eyes are large, with 'crow's feet' at their corners; his nose is long and pointed; his mouth is wide, with thin,
tense lips; his cheeks are heavily gashed with creases; his cheekbones and his chin stick out8.
Tutti elementi in buona parte confermati anche da Svetonio
nel suo Divus Iulius
He is said to have been tall of stature (excelsa statura), with a
fair complexion (colore candido), shapely limbs (teretibus mem7
J.M.C. TOYNBEE, Portraits of Julius Caesar, in Greece and Rome, Second
Series, vol 4, n.1, (March 1957), p. 5.
8
Ibidem.
25
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
bris), a somewhat disproportionately large mouth (ore paulo
pleniore), and keen black eyes (nigris vegetisque oculis).... His
baldness was a disfigurement that worried him greatly (calvitii
vero deformitatem iniquissime ferret).... Because of it he used to
comb forward his scanty locks from the crown of his head (ideoque et deficientem capillum revocare a vertice solebat); and of
all the honours that were voted him by Senate and People there
was none that he accepted or made use of more gladly than the
privilege of wearing a laurel-wreath on all occasions (ius laureae
coronae perpetuo gestandae)9,
e, da quanto ci viene detto di lui, nel Mirour for Magistrates del
1587:
I was accounted comely of my grace,
I had by natures gift a Princely face,
And wisedome high to wey and deeme of euery case,
Of stature high and tall, of colour fayre and white,
Of body spare and leane, yet comely mabe to see.
(vv. 54-58)10
È lo stesso Cesare che parla di se stesso, fornendo una descrizione sommaria della propria persona e rimandando poi a Plutarco come fonte attendibile ed autorevole per la sua biografia.
Ovviamente, dietro alla voce di Cesare si cela l’autore del Mirour, che conferma, quindi, come le Vite Parallele di Plutarco sia-
9
Ibi, pp. 3-4.
How Caius Iulius Caesar which first made this Realme tributary to the
Romaynes, was slayne in the Senate house, about the yeare before Christ, 42, in The
Mirour for Magistrates, wherein may bee seene, by examples passed in this Realme,
with how grievous plagues vices are punished in great Princes and Magistrates, and
how fraile and unstable worldly prosperity is found, where Fortune seemeth most
higly to favour, ed. by J. HIGGINS, printed by Henry Marsh, London, 1587,
folio 78. Si precisa qui che tutti i testi del XVI e XVII secolo citati in questo
volume sono stati trovati su E.E.B.O. (Early English Books Online), del
catalogo Chadwyck-Healey, 2006.
10
26
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
no state un testo conosciuto e letto nella seconda metà del XVI
secolo.
Ben più complessa ed articolata risulta, invece, l’immagine di
Elisabetta I, poiché in essa è contenuta la narrazione del lungo regno di una sovrana che Horace Walpole, vissuto nel XVII secolo,
ricorda ironicamente con queste parole: “A pale Roman nose, a
head of hair loaded with crowns and powdered with diamonds, a
vast ruff, a vaster fardingale, and a bushel of pearls, are features by
which everybody knows at once the pictures of Queen Elizabeth”11. Anche nel suo caso ci sono statue e medaglie che ne conservano la figura, ma è soprattutto attraverso il ritratto pittorico
che la sua immagine è sopravvissuta alla morte avvenuta nel 1603.
Si tratta di tele in quantità non ancora precisata, depositate in musei, gallerie d’arte, esposizioni private e depositi dove, in molti casi, giacciono dimenticate. È difficile poter dire quale fra questi ritratti sia il più emblematico, poiché ognuno di essi mette in evidenza un aspetto piuttosto che un altro della Sovrana, ma quasi
sicuramente si può ritenere che il Sieve Portrait sia senza dubbio
uno di quelli che ci dicono di più di Elisabetta I.
11
H. WALPOLE, Anecdotes of Painting in England, London, 1849, vol. 1, p.
151.
27
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Fig. 3. Quentyn Metsys, The Sieve Portrait, ca. 158312.
Dipinto intorno al 1583 da Quentin Metsys, questo ritratto è
un vero e proprio testo, che può essere diviso ed analizzato in sequenze. Se ne distinguono tre e più precisamente: la figura della
12
R. STRONG, Gloriana, The Portraits of Queen Elizabeth I, London,
Thames and Hudson, 1987, p. 100.
28
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Regina che occupa il primo piano della tela e lo sfondo, a sua
volta suddiviso in due parti dal corpo di Elisabetta I.
Come sopra affermato, la Sovrana occupa i due terzi della tela
e la sua figura si erge di fronte agli occhi dello spettatore con
l’imponenza di una piramide, la cui base poggia su una superficie
esterna al perimetro della tela. Elisabetta indossa un abito nero,
elegante e raffinato, che mette bene in risalto il suo corpo magro
e sottile e contrasta con il pallore del volto e con il bianco del
mantello, dei ricami sulle maniche e della gorgiera: l’aspetto austero dell’abito nero è così alleggerito da questo mantello, la cui
fattura completa la solennità dell’abito e ne evidenzia meglio il
contorno. Del resto, il netto contrasto tra bianco e nero è mediato dall’oro rossastro dei capelli, dalla cintura che divide il corpetto dalla gonna e dal setaccio nella mano sinistra di Elisabetta, attorno al quale ruota il significato dell’intero quadro13.
La presenza del setaccio è un chiaro rimando al Petrarca e al
Trionfo della Castità, dove viene spiegato come la vestale Tuccia
avesse dimostrato la propria intaccata virtù trasportando acqua
in un setaccio:
Fra l’altre la vestal vergine pia
Che baldanzosamente corse al Tibro,
e, per purgarsi d’ogni forma ria,
portò del fiume al tempio acqua col cribro.
(vv. 148-151)14
13
Per quanto riguarda la spiegazione di questo ritratto, si vedano, oltre al
volume da cui è stata presa l’immagine: C. HULSE, Elizabeth I, Ruler and
Legend, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2003; A. ZANNI-A.
DI LORENZO (a cura di), Giovanni Battista Moroni, Il Cavaliere in nero.
L’immagine del gentiluomo nel Cinquecento, Milano, Skira editore, 2005; K.
HEARN ed., Dynasties. Painting in Tudor and Jacobean England 1530-1630,
London, Tate Publishing, 1995.
14
F. PETRARCA, Triumphi, a cura di M. ARIANI, Milano, Mursia, 1994,
pp. 218-219.
29
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Il quadro vuole, dunque, parlare della Regina e sottolineare
come ella abbia deciso di conservare intatta la propria verginità.
Se questo è quanto suggerisce la figura in primo piano, lo sfondo
racconta come una tale scelta avvicini la Sovrana alle vicende di
Didone, la regina di Cartagine, e di Enea che, pur amandola, è
costretto ad abbandonarla quando Mercurio lo esorta a proseguire il suo viaggio verso l’Italia e il suo destino glorioso.
Il rimando all’Impero ed alla sua fondazione è il secondo elemento importante del ritratto e il pittore lo affronta nelle due sezioni dello sfondo del quadro medesimo. La storia di Didone e di
Enea è raccontata nella serie dei medaglioni che impreziosiscono
la colonna dietro al braccio destro di Elisabetta. La colonna, infatti, compare nel motto di Carlo V e proprio per questo motivo
le grandi dinastie europee del Rinascimento ne hanno fatto il
simbolo imperiale. Lo sfondo a sinistra di Elisabetta, invece, ci
dice che la Sovrana, novella Enea, intraprenderà il proprio viaggio verso il Nuovo Mondo, dove colonizzerà nuove terre e getterà le basi del suo Impero. Le isole britanniche sono in piena luce
e il sole che bacia il mare calmo circostante non è che un segno
beneaugurate di successo e dominio sui mari.
Analizzando il ritratto, abbiamo avuto modo di individuare
due elementi condivisi dai due grandi personaggi storici:
l’Impero e il legame con Enea, elementi che poi, a ben vedere,
sono a loro volta strettamente collegati, visto che al pio Enea la
mitologia assegna la fondazione di Roma e del suo vasto Impero.
Ce lo dicono Virgilio ed Ovidio, nelle cui Metamorfosi Enea è descritto come il capostipite della Casa Giulia, la stessa di Caio
Giulio Cesare, nel cui cielo, in quanto ‘padre’ di Augusto, era
anticipato un destino di gloria, potere e fama:
Ma Cesare è dio nella propria città. Eccelso in guerra, eccelso
con la toga: ma più ancora che le sue trionfali campagne e le sue
opere in patria e la sua fulminea e gloriosa vicenda, è stata la sua
progenie a convertirlo in stella nuova, in cometa. E in verità, tra
le gesta di cesare, nulla è più grande del fatto che è stato padre
30
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
di Augusto. Aver domato i Britanni attorniati dal mare, aver
spinto le navi vittoriose su per le sette foci del Nilo su cui cresce
il papiro, avere assoggettato al popolo di Quirino anche i Nùmidi ribelli e Giuba re delle regioni del Cìnife e il Ponto tronfio
della sua serie di Mitridati, aver meritato tanti trionfi e averne
celebrati alcuni: davvero tutto questo vale più dell’aver generato
un uomo così grande? Dando ad Augusto il governo del mondo,
voi siete stati più che buoni col genere umano, o dèi. Ma perché
Augusto non fosse di stirpe umana, Cesare doveva essere fatto
dio15.
Tra i discendenti di Enea, vi era anche un certo Brut che la
leggenda, questa volta inglese, vuole vedere giunto in tempi remoti nelle isole britanniche, dove avrebbe dato inizio alla gloriosa discendenza dei Tudor. Brut come Enea, Elisabetta come Cesare e l’Inghilterra come Roma: un vasto Impero oltre i confini
del mondo allora conosciuto e sotto la guida giusta e saggia della
Sovrana inglese.
Inflessibili con i nemici, Cesare ed Elisabetta, condividono
l’ambizione del potere e la forza di coloro che hanno un destino
di grandezza dalla propria parte. Il loro sguardo fermo e sicuro
sfida chi li guarda, il loro piglio freddo e distaccato intimorisce
chi li osserva, la loro tempra spaventa l’avversario, che si lascia
presto convincere della loro superiorità. Cesare ed Elisabetta sono due esseri umani che hanno in comune anche una natura non
esclusivamente terrena. Elisabetta è Diana, Cinzia, Astrea, insomma una dea dal fascino smisurato che ammalia qualunque
interlocutore; Cesare è divus, anch’egli una creatura entrata nel
mito subito dopo la morte. O, almeno, questo è quello che succede nella tragedia di Shakespeare dove lo spirito di Cesare, ormai mito e leggenda di Roma, non si decide a lasciare l’Urbe.
Durante la lettura del suo testamento, Marc’Antonio comunica
15
OVIDIO Nasone, Publio, Metamorfosi, a cura di P. BERNARDINI, Torino,
Einaudi, 1994, p. 641.
31
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
alla folla riunita davanti al Campidoglio che Cesare ha lasciato
parte dei suoi averi agli abitanti della città:
Here is the will, and under Caesar’s seal.
To every Roman citizen he gives,
To every several man, seventy-five drachma […]
Moreover, he hath left you all his walks,
His private arbours, and new-planted orchards,
On this side Tiber. He hath left them you,
And to your heirs for ever: common pleasures,
To walk abroad and recreate yourselves.
(III, ii, 233-235 / 238-248)
Convinta dalle parole di Antonio, la moltitudine lo trasforma
in una sorta di creatura divina e propone di bruciarne il corpo
con tutti gli onori:
1Pleb.: Never, never! Come, away, away!
We’ll burn his body in the holy place,
And with the brands fire the traitors’ houses.
Take up the body.
(III, ii, 244-247)
Ora Cesare non è più il potente ucciso ingiustamente dai congiurati, non è più il grande conquistatore di terre e popoli, non è
più l’uomo che si preoccupa delle parole dette dall’indovino, debole e indifeso: egli è già diventato il mito di se stesso, una sorta
di dio, che reclama vendetta e nel cui nome si stringono e si
sciolgono alleanze.
E tutto questo è racchiuso nel nome ‘Cesare’, il titolo che
qualifica i grandi uomini alla guida di Roma e la cui immagine si
identifica con il ruolo che esso rappresenta. Si tratta del ruolo di
monarca che l’ambizioso Giulio Cesare di Shakespeare vorrebbe
ricoprire sin dall’inizio del dramma, quando Casca spiega come
egli abbia rifiutato con riluttanza la corona offertagli da Antonio
per ben tre volte:
32
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
I sawe Marke Antony offer him a crown – yet 'twas not a crown
neither, 'twas one of these coronets – and as I told you, he put it
by once; but for all that, to my thinking, he would fain have had
it. Then he offered it to him again; then he put it by again: but
to my thinking, he was very loth to lay his fingers off it. And
then he offered it the third time; he put it the third time by, and
still as he refused it, the rabblement hooted, and clapped their
chopped hands, and threw up their sweaty nightcaps, and uttered such a deal of stinking breath, because Cæsar refused the
crown, that it had almost choked Cæsar: for he swooned, and
fell down at it. And for mine own part, I durst not laugh, for fear
of opening my lips, and receiving the bad air.
(I, ii, 235-249)
Il resoconto dettagliato di Casca introduce direttamente nel
cuore del problema, che costituisce l’ossatura dell’intero dramma: la figura di Cesare come monarca e potenziale tiranno di
Roma.
L’intera tragedia di Shakespeare, infatti, è orchestrata attorno
alla decisione di Cassio e dei congiurati di ucciderlo per il bene
di Roma e della Res Publica: la presenza di un monarca alla guida
del vasto Impero equivarrebbe a minare le fondamenta
dell’Impero stesso e il governo assoluto nelle mani di un unico
uomo non farebbe che alimentare malcontento, rivolte e, quindi,
la guerra civile. Tutte queste paure compaiono subito all’inizio
del dramma, nella Prima scena del Primo atto, in cui i due tribuni Flavio e Marullo si rivolgono malamente alla ‘marmaglia’,
termine più volte utilizzato nel dramma per indicare la plebe, e
mettono in evidenza come la sua lealtà a Cesare abbia cancellato
la precedente devozione a Pompeo. In realtà, i due tribuni “del
regime di Cesare criticano soltanto la possibilità della sua degenerazione in dispotismo, alla quale essi sperano di potersi oppor-
33
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
re con successo, combattendo contro il ruolo che Cesare incarna
per l’opinione pubblica” 16:
These growing feathers plucked from Caesar’s wing
Will make him fly an ordinary pitch,
Who else would soar above the view of men,
And keep us all in servile fearfulness.
(I, i, 73-76)
Flavio e Marullo sono, infatti, increduli di fronte alla facilità
con cui la folla ha concesso i propri favori a Cesare che, proprio
all’inizio del dramma ‘comes in triumph over Pompey’s blood’
(I, i, 51). Ed è attraverso il rimando a Pompeo che Shakespeare
ci parla di Cesare, rendendolo imponente nel suo trionfo contro
l’avversario e quasi sminuendolo nella sua morte ai piedi della
statua dell’avversario stesso: si scrive così una sanguinosa tappa
nella lotta per il potere, quella lotta che aveva avuto inizio con la
guerra civile e che ora proseguiva nel nome dell’ambizione e della gloria di Cesare stesso.
Il fatto che Shakespeare decida di mettere in evidenza un imperator ambizioso di potere ed irremovibile nelle sue decisioni,
porta il lettore e lo spettatore ad affrontare un altro aspetto importante del dramma, quello dell’uccisione del tiranno. È ovvio
che muovendo da questa chiave di lettura, bisogna chiedersi se
Giulio Cesare fosse un tiranno o, almeno, risultasse tale agli occhi del pubblico elisabettiano.
Secondo la mentalità Tudor contemporanea di Shakespeare,
spiega Irving Ribner, “an absolute ruler without God’s sanction
and thus without the check of responsibility to God – as Caesar
would be if he were crowned – would be a tyrant and thus not
entitled to the unquestioning obedience reserved for lawful
16
E. KRIPPENDORFF, Shakespeare politico. Drammi storici, drammi romani,
tragedie, trad. di R. Bonatti e F. Materzanini, Roma, Fazi Editore, 2005, p.
172.
34
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
kings”17. Per Cesare, quindi, non c’era via di scampo, poiché non
essendo stato prescelto da Dio, ma essendo un uomo come gli
altri, non avrebbe mai potuto ambire al titolo di re: nel suo destino c’era solo la tirannia. E che Cesare fosse un tiranno lo dice
indirettamente anche Fulke Greville in un suo lavoro pubblicato
postumo nel 1670, intitolato The Remains of Sir Fulke Greville
Lord Brooke: being Poems of Monarchy and Religion. Nel capitolo
dedicato alla Declination of Monarchy, l’Autore spiega come le
virtù che guidano la fondazione e l’inizio di un regime monarchico possano scadere nell’eccesso e, quindi, portare al declino della
monarchia ed alla nascita della tirannia:
Hence Thrones grew Idols, Man their Sacrifice,
And from the Earth to the Sun above
Tributes of Dew and exhalations rise;
So humane Nature yields up all but Love,
Having this strange transcendency of Might,
As Child of no mean vice, but Infinite.
Whereby these strengths which did before concurre
To build, invent, examine, and conclude,
Now turn disease, bring question and demur,
Oppose, dissolve, prevaricate, delude,
And with opinions give the State unwrest
To make the new still undermine the best.
(Part 2, stanzas 68-69)18
E Cesare è l’esempio più significativo di quello che succede a
coloro che, vittime della propria ambizione, diventano tiranni:
Cesar was slain by those that objects were
Of Grace, and Engines of his Tyranny,
Brutus and Cassius work shall witness bear,
17
I. RIBNER, Political Issues in ‘Julius Caesar’, in The Journal of English and
Germanic Philology, vol. 56, n. 1, 1957, p. 13.
18
F. GREVILLE, The Remains of Sir Fulke Greville Lord Brooke: being Poems
of Monarchy and Religion, London, Henry Herringman, 1670, pp. 18-19.
35
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Even to the Comfort of posterity,
That proud aspirers never had good end;
Nor yet excess of Might a constant friend.
So that although this Tyrant usurpation
Stood peaz’d by humours from a present fall;
Thoughts being all forc’d up to adoration
Of wit and pow’r (which such Thrones work withal)
Yet both the Head and Members finite are
And must still by their miscreating marre.
The nature of all over-acting might,
Being to stirre offence in each Estate,
And from the deep impressions of despight
Enflame those restless instruments of Fate,
Which as no friends of Duty, or Devotion
Easily stirre up Incursion, or Commotion.
(Part 2, stanzas 70-72)19
La descrizione e la definizione del tiranno e delle sue peculiarità hanno, però, radici antiche, che vanno rintracciate nelle opere dei grandi pensatori greci. In un famoso passo della Politica
Aristotele definisce la figura del tiranno, enumerando una serie
di cose che egli è tenuto a fare:
The tyrant must do away with the nobility. He must eliminate
intellectuals, bar public banquets. […] He must guard against
close frienships and good relations between his subjects that
might lead to mutual trust. […] He should not squander public
money on his favourites, but present accounts outlining income
and expenditure. […] But at the same time he must develop an
extensive network of secret police, spies must inform him of everything said and done. […] He must reduce his subjects to poverty, cripple them with taxes. […] He should wage a war, to
make his subjects aware of his leadership. He should never trust
19
Ibi, p. 19.
36
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
his immediate entourage. He is anyway surrounded by flatterers,
and they always have it in mind to overthrow him. […] He
should appear god-fearing and conscientiously observe all religious rites20.
Alla luce di queste affermazioni è facile comprendere le parole
dei congiurati, che avevano letto nell’atteggiamento di Cesare la
volontà di avere un regnum: e questo è un ulteriore elemento a
loro favore, perché essi, attraverso la testimonianza di Casca, avevano interpretato il rifiuto di Cesare come dettato da falsità ed
ipocrisia. Egli era, dunque, un tiranno e il tirannicidio era l’unico
modo per liberarsi di lui: il gesto dei congiurati è così giustificato
e la loro azione, eseguita per il bene di Roma, non li rende dei
carnefici.
Tuttavia, poiché essi non avevano un piano politico chiaro e
ben programmato, sapevano solo che, raggiunto il suo zenith, la
stella di Cesare avrebbe cominciato a spegnersi, che il suo assassinio non avrebbe causato particolari reazioni e che il Senato avrebbe saputo governare anche senza di lui. Ma così non fu e i
congiurati divennero vittime del loro stesso gesto: la morte di
Cesare non era stata un problema solo per una ridotta minoranza, poiché la grande maggioranza dei Romani non aveva mai interpretato il governo del dictator come tirannia.
Eppure la parola tyrant compare diverse volte nel dramma ed
è un termine chiave per la sua stessa interpretazione. Nel Primo
atto Cassio chiede “Why should Caesar be a tyrant?” (iii, 103),
nel secondo Bruto incita a lottare contro “high-sighted tyranny”
(i, 18), mentre nel terzo, dopo l’assassinio, i congiurati proclamano: “Liberty! Freedom! Tyranny is dead!” (i, 78). Infine, la
folla, attraverso due plebei, si dichiara convinta che Cesare sia
stato un tiranno:
20
Z. YAVETZ, Julius Caesar and His Public Image, London, Thames and
Hudson, pp. 185-186.
37
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
1Pleb.: This Caesar was a tyrant.
3 Pleb.: Nay, that’s certain.
(III, ii, 70)
A questo punto del dramma domina ancora il punto di vista
dei congiurati, che vedono in Giulio Cesare una seria minaccia al
bene di Roma.
Ma come poteva essere condiviso dagli Elisabettiani un simile
atteggiamento? E, soprattutto, anche per i contemporanei di
Shakespeare Cesare meritava di morire? Nell’Inghilterra di Elisabetta Tudor il termine tyrant aveva diverse sfumature di significato, ma, come spiega Armstrong in un suo articolo, pur mantenendo l’accezione di absolute ruler, esso “was most frequently
employed with the hostile connotation of usurpation, or cruel or
unjust rule”21, e per estensione indicava anche il “perpetrator of
any remarkable wickedness or excess”22. Nell’ottica dei contemporanei di Shakespeare il tiranno era da considerarsi tale anche
sulla base di connotazioni morali negative, presenti in un atteggiamento egoista ed impietoso:
But generally we may call that a tyrannie, when the prince accounteth all his will as a just law, and hath no care either of piety, justice, or faith, but doth al things fo his own profit, revenge
or pleasure23.
Così si esprime Pierre de la Primaudaye nel suo French Academie, pubblicato in Inghilterra nel 1586 e poi di nuovo nel
1589, volume in cui egli mette a confronto il principe buono e
giusto ed il tiranno ambizioso, irrispettoso della legge, pronto ad
incutere terrore pur di veder rispettata la propria volontà. Il tiranno dell’epoca elisabettiana è, dunque, una creatura malefica,
21
W.A. ARMSTRONG, The Elizabethan Conception of the Tyrant, in The
Review of English Studies, vol. 22 n. 87 (July 1946), p. 163.
22
Ibidem.
23
P. DE LA PRIMAUDAYE, The French Academie (1589), in ibi, p. 168.
38
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
che incarna i maggiori vizi capitali al punto che lo si può definire:
“pre-eminently proud, wrathful, lecherous and avaricious”24.
E Giulio Cesare? Stando a quanto riportato sopra, il protagonista del dramma si collocherebbe a metà strada tra la figura del
monarca e quella del tiranno. In un passo del Richard III il principe Edoardo commenta con queste parole il personaggio storico
That Julius Caesar was a famous man:
With what his valour did enrich his wit,
His wit set down to make his valour live;
Death makes no conquest of this conqueror,
For now he lives in fame, though not in life.
(III, i, 84-88)25
ed Antonio ricorda come Cesare fosse “the noblest man that
ever lived in the tide of times” (III, i, 256-257). Antonio è
l’unico a riconoscere la forza e la potenza di Cesare che, corrotto
dalla sua stessa grandezza, diventa vittima delle proprie ambizioni. I contemporanei di Shakespeare, infatti, non mettevano in discussione la natura benevola e generosa dell’eroe romano, ma
condannavano il fatto che egli non avesse saputo frenare la sua
sete di potere e avesse quindi trascurato il bene comune.
La convinzione che Cesare fosse una vittima è rintracciabile
anche in Montaigne e nei suoi Essais, in cui l’eroe romano compare in balia di forze più potenti di lui:
But all these noble inclinations were stifled and corrupted by
that furious passion of ambition which he was so forcibly carried
away, that we may safely declare that it held the rudder and
steered all his actions. It turned a generous man into a public
robber to provide for that profusion and liberality, and made
him utter that vile and most iniquitous saying, ‘that if the most
wicked and degraded men in the world had been faithful in ser24
Ibi, pp. 168-169.
W. SHAKESPEARE, Richard III, a cura di V. GABRIELI, Milano, Garzanti,
1988.
25
39
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
ving him towards his aggrandizement, he would cherish and advance them to the best of his power, as well as the most honourable’. It intoxicated him with so excessive a vanity that he dared
to boast, in presence of his fellow-citizens, ‘that he had made the
great Roman Republic a name, without shape and without
body’, to declare that his answer must henceforth be taken as
laws, to remain seated when he received the Senate in a body in
his house, and to allow himself to be worshipped, and divine
honours to be paid him in his own presence.
To sum up, this single vice, in my opinion, destroyed in him the
richest and most beautiful nature that ever was, and made his
memory abominable to all good men, since it led him to seek his
glory in the ruin of his country and the subversion of the most
powerful and flourishing Republic the world will ever see26.
È sulla scia di Montaigne che si inserisce anche il Giulio Cesare del Mirour for Magistrates. Pubblicato nel 1587, questo testo
mirava ad arricchire la cultura degli Elisabettiani attraverso una
serie di personaggi storici le cui biografie fossero esemplari modelli di moralità oppure servissero da monito a coloro che avessero intrapreso una cattiva strada. Le pagine dedicate a Cesare
muovono dal racconto autobiografico della sua nascita e degli inizi della sua carriera militare, per giungere al tentativo di conquistare la Britannia, alla rivalità con Pompeo e, quindi, alle Idi
di Marzo. Gli eventi vengono riportati bene e con dovizia di particolari, in modo da convincere il lettore della loro autenticità e
da mantenerne viva l’attenzione anche là dove, prima di chiudere
il racconto, Cesare riconosce i propri errori ed insegna a diffidare
delle ambizioni troppo grandi:
You Princes all, and noble men beware of pride,
And carefull will to warre for Kingdomes sake:
By mee, that set my selfe aloft the world to guide,
26
M. de MONTAIGNE, Essays, translated by E.J. Trechman, in I. RIBNER,
Political Issue in ‘Julius Caesar’, p. 15.
40
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Beware what bloodsheds you doe undertake.
Ere three and twenty wounds had made my hart quake,
What thousands fell for Pompeys pride and mine:
Of Pompeys life that cut the vital line,
My selfe have told what fate I found in time.
Full many a noble men, to rule alone, I slewe,
And some themselves for griefs of hart did slay:
For they ne would mine Empyre stay to beme.
Some I did force to yeelde, some fled away
As loth to see theyr Countyes quite decay.
The world in Aphrike, Asia, distant far,
And Europe knew my bloodsheds great in war,
Recounted yet through all the world that ar.
But sith my whole pretence was glory bayne,
To have renowne and rule abov the rest,
Without remorce of many thousands slayne,
Which, for their owne defence, their warres addrest:
I deeme therefore my stony hart and brest
Reciev’d so many wounds for iust revenge, thy stood
By iustice right of Iove, the sacred sentence good,
That who so slayes, hee payes the price, is bloud for bloud27.
L’uomo che troviamo in Shakespeare richiama da vicino il
narratore autobiografico del Mirour: il Cesare di Shakespeare, infatti, è plasmato con il richiamo alla sua grandezza, al suo valore
militare e alla dimensione mitica in cui la morte prematura lo ha
collocato, ma a completare il quadro concorre anche il suo atteggiamento prepotente e distaccato nei confronti di chi lo circonda:
in una parola egli è superbo, e la superbia è un tratto distintivo
del tiranno. Parla di sé e di “his Senate” (III, 1, 32), il che vuol
27
How Caius Iulius Caesar which first made this Realme tributary to the
Romaynes, was slayne in the Senate house, about the yeare before Christ, 42, in The
Mirour for Magistrates, in Early English Books Online (EEBO), ChadwyckHealey 2006.
41
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
dire che ha già assunto su di sé una sorta di dominio su Roma e
sul suo corpo legislativo e giuridico. Di fronte alla richiesta di richiamare il fratello di Metello Cimbro dall’esilio, è impietoso,
noncurante di mostrare mancanza di clemenza e di dar credito
all’immagine di sé come tiranno. A questo si aggiunge il fatto che
teme complotti contro la sua persona e guarda a Cassio con timore e sospetto:
Yond Cassius has a lean and hungry look;
He thinks too much: such men are dangerous.
(I, ii, 193-194)
E, infatti, sarà proprio Cassio ad insinuare tra i concittadini
l’idea della congiura e a ricordare un altro tirannicidio nella storia di Roma:
O, you and I have heard our fathers say
There was a Brutus once that would have brooked
Th’eternal devil to keep his state in Rome
As easily as a king.
(I, ii, 157-160)
L’allusione è a Giunio Bruto e alla rivolta contro Tarquinio, il
re che a suo tempo aveva cercato di concentrare dispoticamente
il governo di Roma nelle proprie mani:
My ancestors did from the streets of Rome
The Tarquin drive, when he was called a king.
(II, i, 53-54)
Questa è la risposta che Bruto dà a Cassio poche scene prima
dell’uccisione di Cesare e fa chiaramente capire che la legge di
Roma non prevede il governo nelle mani di un solo uomo. Dunque la posizione dei congiurati, che compiono un’azione tollerata
solo per il bene comune, diventa accettabile. Lo stesso concetto
è espresso anche nei trattati rinascimentali sull’argomento, dove
l’uccisione di un tiranno è considerata giustificabile da uno di
questi due punti di vista:
42
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
In Renaissance treatises the right to resist or slay the tyrant
rested precariously on two ideological foundations: 1) on the religious conception or earthly authority as divinely granted and,
therefore, subject to the will of God; 2) on the secular conception of earthly authority as popularly granted and, therefore,
subject to the will of the people28.
Il caso di Giulio Cesare, così come Shakespeare lo propone
nel suo dramma, rientrerebbe in entrambi i due punti di vista e,
quindi, sarebbe ampiamente condivisibile. Del resto i congiurati
invocano spesso gli dei, affinché approvino le loro decisioni, e
Bruto identifica l’uccisione di Cesare come un’offerta agli dei di
Roma:
Let’s kill him boldly, but not wrathfully;
Let’s carve him as a dish fit for the gods,
Not hew him as a carcass fit for hounds.
(II, i, 171-173)
Ma il loro volere non è facile da interpretare: il temporale eccezionale che si abbatte sulla città la notte prima delle Idi di
Marzo dà adito a spiegazioni contrastanti. Casca teme una lotta
tra gli dei o addirittura una punizione per il mondo, mentre Cassio ritiene di vedervi il disappunto divino nei confronti di Cesare
e quindi l’ approvazione della congiura.
Accanto all’ombra misteriosa degli dei, c’è concretamente la
folla dei plebei che, lasciatisi guidare dalle parole di Bruto, salutano la morte del tiranno. Eppure, di lì a poco, ascoltato Antonio, la folla muterà opinione e lascerà i congiurati al loro destino
di fuga dalla città.
Infatti, è proprio con l’orazione funebre di Antonio che Shakespeare introduce un punto di vista diverso, il risvolto della medaglia per così dire, che porta alla condanna della congiura e di
chi l’ha ordita. L’affidabile Antonio smonta ad uno ad uno i pun28
R.S. MIOLA, Julius Caesar and the Tyrannicide Debate, in Renaissance
Quarterly, vol. 38, n. 2 (Summer, 1985), p. 284.
43
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
ti su cui si basava il complotto di Cassio e Bruto, e fa conoscere
un Cesare pronto a sacrificare se stesso per il bene di Roma. E
così, l’interpretazione di Casca su come Cesare abbia ipocritamente rifiutato la corona riceve un duro colpo, poiché adesso
l’accento viene posto sul triplice, e non singolo, rifiuto: nessun
uomo arriverebbe a tanto se volesse veramente la corona:
Ant.: You all did see, that on the Lupercal
I thrice presented him a kingly crown,
Which he did thrice refuse. Was this ambition?
(III, ii, 96-98)
L’ambizione che egli dimostrava non era rivolta a soddisfare
interessi personali, ma ad assicurare fama e gloria a Roma e al
suo impero; il suo amore per i Romani lo aveva portato a lasciar
loro benefici di varia natura, affinché essi riconoscessero in lui
una guida onesta e saggia. Cesare è ricordato nei suoi aspetti migliori e le sue virtù ne fanno un sovrano modello, il migliore che
l’Urbe abbia mai avuto:
Ant.: Here was a Caesar: when comes such another?
(III, ii, 243)
La tragedia di Shakespeare, quindi, non risolve il problema di
Giulio Cesare tiranno o no, ma lascia che il lettore e lo spettatore
formulino il loro giudizio. Giudizio che logicamente si baserebbe
sul confronto con un monarca che Shakespeare e i suoi contemporanei conoscevano bene: Elisabetta I, figlia della Riforma Anglicana, nata dal matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena.
L’infanzia difficile e lontana dalla corte, l’adolescenza e la giovinezza tribolate dal rapporto tumultuoso con la sorellastra maggiore Maria, avevano fatto di Elisabetta una donna provata dalla
vita, ma determinata a conservare nelle proprie mani il ruolo che
il diritto divino le aveva assegnato. Durante il suo lungo regno
non mancarono i complotti contro la sua persona e la parte cattolica del Paese non rimase mai inattiva, organizzando ribellioni
ed attentati con il fine di ucciderla e riportare l’Inghilterra sotto il
44
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
controllo dell’influenza papale. Dopo la decapitazione di Mary
Stuart nel 1587 e la vittoria su Filippo II di Spagna nel 1588, gli
ultimi anni di regno furono caratterizzati da un proliferare di
complotti, alimentati dalla mancanza di un erede diretto indicato
dalla Sovrana medesima. Nonostante la sconfitta umiliante del
1588 Filippo di Spagna non abbandonò mai l’idea di invadere
l’Inghilterra e di riportarla sotto la guida spirituale del pontefice;
infatti nel 1594 venne pubblicato un pamphlet che, come dimostra il suo titolo ampolloso, A True Report of sundry horrible Conspiracies of late time detected to have (by Barbarous murders) taken
away the life of the Queenes most excellent Maiestie; whom Almighty
God hath miraculously conserved against the treacheries of her Rebelles, and the violences of her most puissant Enemies29, aveva
l’ambizione di rivelare al mondo come Sua Maestà fosse costantemente in pericolo a causa dei numerosi complotti contro la sua
persona:
That the life of the Queens Maiestie hath beene heretofore oftentimes attempted to be in a murdering sorte taken away, cannot be denied, because divers such offenders have been taken,
and iustly condemned, and publicly executed by death, & of
some of their attempts there hath been participant, some of the
King of Spaines ministers, as Bernardine Mendoza and such
like30.
L’autore di questo true report accusava esplicitamente la
Spagna di voler uccidere Elisabetta I e ricordava in particolare i
due complotti scoperti nel 1593: il primo di questi vedeva coinvolti tre Portoghesi, tra cui un certo Roderigo Lopez, “favoura29
A True Report of sundry horrible Conspiracies of late time detected to have (by
Barbarous murders) taken away the life of the Queenes most excellent Maiestie;
whom Almighty God hath miraculously conserved against the treacheries of her
Rebelles, and the violences of her most puissant Enemies, London, Charles
Yetsweirt Esq, 1594, in Early English Books Online (EEBO), ChadwyckHealey, 2006.
30
Ibi, pp. 5-6.
45
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
bly retained in the Queenes Maiesties house of long time, as one
of her Phisitians”31, un certo Stephano de Ferrera de Gama,
“one that had beene of good estimation and wealthe heretofore
in Portingale”32, e un Manuell Lewis Tinoco, “one conversant
and in good credite with the King of Spaines Counsellers in
Bruxels”33. Il loro obiettivo era quello di uccidere la Sovrana “by
poyson” e, quindi, incassare una somma di cinquantamila corone34. L’attentato fu, però, sventato e i tre malfattori vennero giustiziati. La stessa sorte toccò anche ai membri del secondo complotto: questa volta erano tutti Inglesi, che, sfruttando il libero
accesso a corte di cui godevano, avevano l’obiettivo di avvicinare
la Regina in un luogo appartato e, quindi, assassinarla; ma vennero scoperti, condannati e giustiziati.
Il risultato fu che lo stesso Tinoco, come tutti gli altri, rilasciò
una confessione completa, il cui paragrafo conclusivo era un
chiaro monito al mandante di tutti questi attentati, Filippo di
Spagna:
God graunt by his divine mercie all those thinges that are machined and framed by the king of Spaine against the Maiestie of
the Queene, may never take any effect, & God grant through his
divine goodnesse that all these treasons which are wrought may
be discovered, and prolong for manie large yeares the life of the
Maiestie of the Queene, with increase of greater kingdoms, as
she deserves, and as hir faithfull subiects doe desire35.
Le parole di Tinoco, però, non intimorirono il Re spagnolo
che, sentendosi chiamato a combattere una sorta di crociata santa contro gli infedeli, aveva deciso di tentare nuovamente
l’invasione delle isole britanniche. Nel 1595 la flotta spagnola
raggiunse la Cornovaglia, ma neppure questa volta Filippo II riu31
Ibi, p. 6.
Ibi, p.7.
33
Ibidem.
34
Ibi, p. 8.
35
Ibi, p. 14.
32
46
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
scì a sbaragliare la potente difesa inglese: fu l’ennesima sconfitta,
ma non l’ultima, visto che gli attacchi proseguirono, seppur senza successo, anche l’anno successivo36.
Comunque, nonostante i ripetuti tentativi di invasione, la
Spagna non costituiva più una minaccia seria per l’Inghilterra
degli anni Novanta. L’ultimo decennio del secolo, infatti, conosce un pericolo di natura diversa: Elisabetta non deve più affrontare una guerra santa, ma far fronte all’ambizione di coloro che,
nobili per nascita, vantano diritti ad occupare il trono inglese,
soprattutto a causa della mancanza di un erede diretto. Sono gli
anni di Essex, l’ultimo in ordine cronologico dei favoriti della
Regina, che era stato affidato alle sue cure sin dalla tenera età.
Con il passare degli anni la donna si lasciava ammaliare da quel
giovane uomo che, discendendo dai Plantageneti ed essendo un
fervido protestante, avrebbe un giorno rappresentato per lei un
serio pericolo.
Tale pericolo divenne particolarmente concreto nel 1597,
quando il Richard II di Shakespeare fu portato sulle scene. Dunque, due anni prima della rappresentazione del Julius Caesar,
questo dramma, detto anche ‘della deposizione’, insinuava il
dubbio che Essex potesse essere un secondo Henry Bolingbroke
e cacciare Elisabetta, come Henry aveva fatto con il suo re37. Fallito ogni tentativo di uccisione, Elisabetta poteva solo essere deposta da un sovrano più abile e scaltro di lei. Eppure, nonostante
i pericoli, la Sovrana riuscì a mantenere per sé il trono, toltole
solo dalla morte naturale, che sopravvenne a età ormai avanzata.
La vicinanza nel tempo tra questo primo tentativo di Essex e
la composizione del Julius Caesar fa pensare che in qualche modo
il primo avesse influito sul secondo e, soprattutto, che il tirannicidio di Cesare evocasse il reale pericolo vissuto da Elisabetta
stessa. Ma allora, data la comunanza di elementi, si dovrebbe
36
37
A. WEIR, Elizabeth the Queen, London, Pimlico, 1999, p. 421.
Ibi, p. 441.
47
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
dedurre che anch’ella fosse considerata una tiranna, almeno da
una parte dei suoi contemporanei. Infatti, agli occhi della minoranza cattolica sopravvissuta alla Riforma, Elisabetta aveva usurpato un trono che non era destinato a lei, nata da un matrimonio
fasullo e non benedetto dal Pontefice. Essendo la figlia bastarda
di un eretico e di una whore, termine con cui si indicava la Bolena, finita sul patibolo tra accuse di stregoneria ed incesto, si
scorgeva in Elisabetta una creatura macchiata dal peccato e senza possibilità di redenzione. Quindi, in base alla mentalità
dell’epoca, e come si è già avuto modo di ricordare sopra, la Regina poteva essere considerata una tiranna, la cui deposizione o il
cui assassinio non avrebbe turbato l’anima e la coscienza di nessuno.
Così si spiegherebbe anche il fiorire di una serie di rappresentazioni della Sovrana in cui era messo in risalto l’aspetto distorto
della sua natura. “These negative representations of Elizabeth
were”, afferma Julia Walker, “often deliberately outrageous and
provocative, and even the more subtle forms of criticism drew
Energy from the existence of the more overt and vulgar documents and artifacts”38. Una delle rappresentazioni più significative a tal riguardo si trova in un testo di William Wodwall del
1600 circa, The Actes of Queen Elizabeth Allegorized, e consiste
nell’immagine di un uccello con un piumaggio particolarmente
folto e ricco attorno al collo.
38
Dissing Elizabeth. Negative Representations of Gloriana, ed. by J.M.
WALKER, Durham and London, Duke University Press, 1998, p. 2.
48
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Fig. 4. William Wodwall, Queen Elizabeth Allegorized, ca. 160039.
Basta guardarla per essere d’accordo con Rob Content che, in
un suo contributo sulle rappresentazioni negative di Elisabetta,
commenta le caratteristiche di questo pennuto e spiega:
The fantastically large and layered rufflike plumage, which extends entirely around the bird’s neck and is distributed in three
distinct layers, corresponds to the elaborate multiply tired ruffs
of late Elizabethan fashion. Indeed, this plumage seems to parody the multiplication of sharply tipped layers of ruffs, decorated
with slashes and spots, in portraits of the queen and other
women beginning about 1585. Through the use of starch and
setting-sticks, ruffs of this period could be stacked up in as many
39
Ibi, p. 238.
49
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
as three tiers and could be made wide enough to seem fanning
wings40.
Dunque, si stabilirebbe anche un collegamento con il demonio, che si sarebbe impadronito dell’Inghilterra.
Una simile allegoria di Elisabetta, rimanda alla ritrattistica
tradizionale e ad una serie di abiti ricamati con uccelli, creature
marine e mostri: si potrebbe considerare, ad esempio, lo Hardwick Portrait, qui non riportato e databile intorno al 1599, in cui
la regina indossa un abito con analoghi ricami, o alla presenza
frequente di fenici e pellicani nei ritratti regi.
Nel complesso linguaggio simbolico ed allegorico dell’epoca, il
messaggio che si voleva lasciare all’osservatore era, forse, quello
di una Sovrana in grado di conciliare nelle proprie mani anche
creature strane e mostruose, forte e dispotica, capace di sottomettere ai suoi piedi l’intero mondo, anche quello creato dalla
fantasia degli artisti.
Eppure, per la stragrande maggioranza dei suoi sudditi, Elisabetta era la Regina delle Fate, una donna bellissima dal fascino
incontenibile e dall’essenza ultraterrena, un’icona, quindi, che
concentrava in se stessa tutte le virtù necessarie ad un principe
per essere buono e giusto. Ella incarnava la Prudenza, la Giustizia, la Pudicizia ed il suo regno, sinonimo di abbondanza, prosperità e pace, era una seconda Età dell’Oro. Il legame fortissimo
con il suo popolo, la vedeva come la fenice, disposta a sacrificare
se stessa per amore dei sudditi.
40
R. CONTENT, Fair Is Fowle. Interpreting Anti-Elizabethan Composite
Portraiture, in ibi, p. 240.
50
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Fig. 5. Nicholas Hilliard, The Phoenix Portrait, 1570-157341.
Il ritratto venne eseguito da Nicholas Hilliard agli inizi degli
anni Settanta del XVI secolo e la fenice che dà il nome al quadro
si trova in un ricamo all’altezza del petto, da sempre considerato
sede del cuore e dei sentimenti: l’amore che unisce la Sovrana al
popolo ha trovato nel suo cuore la propria roccaforte. Questo
uccello, spiega Roy Strong, indica la natura del suo governo ed
enfatizza “the uniqueness and sanctity of Elizabeth’s governement and her care for her people”42. La fenice è uno dei simboli
legati alla Sovrana che ricorre con maggior frequenza in tutto il
suo regno e, oltre all’amore che ella nutre per i suoi sudditi, è
soprattutto “a vehicle rich in dynastic mysticism asserting the
perpetuity of hereditary kingship and royal dignity”43. La capaci41
R. STRONG, Gloriana, p. 81.
R. STRONG, Gloriana. The Portraits of Queen Elizabeth I, p. 82.
43
Ibidem.
42
51
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
tà di morire ogni cinquecento anni per poi rinascere di nuovo
giovane non è solo una peculiarità della fenice, ma suggerisce “il
diritto ereditario di regalità e la dignità reale”, l’eterna giovinezza
di Elisabetta e allo stesso tempo la sua capacità di rigenerarsi”44.
Ella è una sovrana giovane e unica, proprio come sembrava lasciar intendere, anche se in tempi ancora non sospetti, il motto
che Claude Paradin aveva attribuito alla fenice nel suo libro di
imprese, le Devises Héroiques del 1557: “But always one Phoenix
in the world at once”45. Volendo applicare questo motto al ritratto di Hilliard, Elisabetta diventa l’unica fenice sulla terra, l’unica
Sovrana che sacrifica il proprio corpo per l’Inghilterra. Pertanto,
nessun assassinio potrebbe mai cancellarla definitivamente: il suo
corpo fisico morirebbe, ma solo per rinascere più giovane e forte
di prima in un altro corpo, quello dello spirito e
dell’immaginazione.
E così Elisabetta e Cesare condividono anche la sorte dei congiurati, che il fato vuole avversa: vittoriosi sul corpo mortale, essi
risultano, però, perdenti nella lotta con il suo spirito e con il corpo politico, emblematico. Una cosa, infatti, è certa: Shakespeare
decide di realizzare il personaggio di Cesare giocando sulla sua
immagine di uomo pubblico e privato. Egli è Cesare e, per buona parte del dramma, l’uomo privato si identifica con l’uomo
pubblico e con il suo ruolo politico, traendo da quel nome la forza per nascondere e combattere le proprie debolezze. Ma, in
fondo, “What’s in a name?”, o per citare le parole che Cassio rivolge ad un Bruto ancora indeciso e lontano dalla congiura,
“What should be in that ‘Caesar’?” (I, ii, 141). Il nome viene su44
C. VALLARO, La simbologia lunare nei canzonieri elisabettiani, Milano, ISU
Università Cattolica, 2004, p. 166.
45
L’edizione qui consultata è la seguente: The Heroicall Devises of M
Claudius Paradin Canion of Beaulieu Whereunto are added the Lord Gabriel
Symeons and others. Translated out of Latin into English by P.S., London,
Imprinted by William Kearney, 1591, p. 110, in Early English Books Online
(EEBO), Chadwyck-Healey, 2006.
52
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
bito esaminato, soppesato ed analizzato sotto più aspetti e, confrontato con il nome di Bruto, non rivela qualità migliori:
Write them together: yours is as fair a name:
Sound them, it doth become the mouth as well.
Weigh them, it is as heavy: conjure with ‘em,
‘Brutus’ will start a spirit as soon as ‘Caesar’.
(I, ii, 143-146)
Il paragone costruito tra Cesare e Bruto si basa su comparativi
di uguaglianza, che pongono i due termini sullo stesso livello di
grafema, fonema, consistenza e scherzosità. ‘Cesare’, perciò, è
un nome vuoto, un “‘Colossus’, a huge, artificial, and empty
construction”46. Benché Cassio dimostri come in quel nome non
ci sia nulla, in realtà esso è gravido di un significato fondamentale, determinante per l’ordine e l’armonia del cosmo. In quanto
capo politico Cesare non è altro che il Cosmo Simbolico, ossia la
figura che incarna l’ordine cosmico e ne garantisce l’armonia ed
il funzionamento.
In tal senso il ruolo rappresentato da Cesare come monarca e,
quindi, come capo di un ordine cosmico, è molto vicino, se non
identico, a quello di Elisabetta, sovrana per diritto divino, alla fine del XVI secolo. Benché vissuto prima della nascita di Cristo,
il Giulio Cesare del dramma omonimo è un eroe creato dalla
penna di un uomo del Rinascimento, la cui cultura comprende
Aristotele, Dante, Machiavelli, ma concepisce la figura del monarca anche con gli strumenti offertigli dall’esperienza quotidiana. Ecco perché la figura di Cesare richiama da vicino quella di
Elisabetta ed ecco perché anch’ella incarna l’ordine cosmico di
cui si diceva prima.
Cesare è ‘Cesare’ nel momento più alto della sua ascesa, proprio
come la sovrana Tudor è in cima al mondo nell’anno che sancisce il
suo trionfo sul nemico invasore. Di entrambi conosciamo il corpo
privato di uomo e di donna, e il corpo pubblico di Cesare di Roma e
46
R.S. MIOLA, Julius Caesar and the Tyrannicide Debate, p. 275.
53
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
di Elisabetta regina d’Inghilterra. Il condottiero romano, infatti, teme le parole dell’indovino che lo invita a fare attenzione alle Idi di
Marzo, ma allo stesso tempo, come egli dice nella Seconda scena
del Secondo atto, “Danger knows full well / That Caesar is more
dangerous than he” (vv. 44-45). E la stessa situazione si presenta
più avanti nella medesima scena, quando lo spaventoso sogno di
Calpurnia è interpretato in modo positivo da Decio:
This dream is all amiss interpreted.
It was a vision, fair and fortunate.
Your statue spouting blood in many pipes,
In which so many smiling Romans bathed,
Signifies that from you great Rome shal suck
Reviving blood, and that great men shall press
For tinctures, stains, relics, and cognizance.
This by Calphurnia’s dream is signified.
(vv. 83-90)
All’ottimismo convincente del congiurato Cesare può solo rispondere immedesimandosi nel proprio corpo politico, e lasciando da parte le paure e le fragilità dell’uomo:
How foolish do your fears seem now, Calphurnia!
I am ashamed I did yield to them.
Give me my robe, for I will go.
(vv. 105-107)
Eppure sono fragilità evidenti, fragilità che ogni uomo, in quanto
creatura terrena ha e rende manifeste. Per sua stessa ammissione
Cesare è sordo da un orecchio (“Come on my right hand, for this
ear is deaf”, I, ii, 212) e soffre di attacchi epilettici, come viene ricordato da Casca e Bruto nella Seconda scena del Primo atto:
Casca: He fell down in the market-place, and foam’d at
mouth, and was speechless.
Brutus: ‘Tis very like. He hath the falling sickness.
(I, ii, 251-253)
54
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
A parte questi versi ed un paio di episodi riportati da Cassio in
cui Cesare compare come ‘vittima’ della propria durezza e severità, di lui come uomo non sappiano nulla: “l’uomo scompare
dietro la facciata del dominatore che ha forgiato la propria persona a immagine di Dio”47. In un certo modo, egli è divenuto vittima della propria funzione, della propria posizione di potere, allontanando e reprimendo quanto in lui vi fosse di privato. “Si è
trasformato nella propria ‘immagine’, pagando infine questa scelta con la vita”48. L’idea di sé come eccezionale ed invulnerabile
gli impedisce di vedere che cosa gli stia succedendo intorno e
non gli consente di prestare attenzione ai segnali che il destino gli
manda per metterlo in guardia. E così Cesare parla di sé come
[…] constant as the northern star,
Of whose true-fixed and resting quality
There is no fellow in the firmament.
(III, i, 60-62)
una stella unica per splendore e fissità, capace di occupare
quell’unico posto nell’universo. ‘So in the world’, prosegue Cesare che, stabilita la propria somiglianza con la stella polare, può
riconoscere la propria eccezionalità anche nel mondo degli uomini:
‘tis furnished well with men,
And men are flesh and blood, and apprehensive.
Yet in the number I do know but one
That unassailable holds on his rank
Unshaked of motion; and that I am he
Let me a little show it even in this.
(III, i, 66-71)
Cesare mostrerà di essere fermo nelle proprie convinzioni,
non tornerà sui suoi passi né riconsidererà le decisioni prese.
47
E. KRIPPENDORFF, Shakespeare politico. Drammi storici, drammi romani,
tragedie, p. 173.
48
Ibidem.
55
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Eppure, tutto questo succede poco tempo dopo la scena in cui
egli, nell’intimità della sua casa, in vestaglia di fronte alla moglie
terrorizzata, chiede che vengano consultati gli àuguri e decide di
non andare in Senato. La fragilità che emerge da questa scena è
in netto contrasto con la sicurezza e la prepotenza ostentate nella
Prima scena del Terzo atto. Tuttavia, Cesare è sempre Cesare e
Shakespeare ci mostra come l’uomo insicuro sia complementare
all’uomo di potere, al soldato che ha conquistato terre e sottomesso popoli nel nome di Roma. L’immagine dell’uomo politico
ha la meglio su quella dell’uomo privato, che nel dramma risulta
priva di una dimensione umano-caratteriale vera e propria. Come spiega Krippendorff, “egli è prima di tutto la sua stessa funzione, che a sua volta è una sua creazione, infatti questo ruolo,
quello del ‘Cesare’, non era mai esistito prima, ma, una volta
plasmato, sarebbe sopravvissuto al proprio creatore”49. E così è
stato, poiché la Storia ci insegna che i suoi successori porteranno
il nome ‘Cesare’ come titolo onorifico e come simbolo di autorità e di potere.
Il Giulio Cesare shakespeariano, quindi, nasconde le proprie
fragilità dietro a questo titolo, fino a lasciarsene sopraffare e condizionare anche nella vita. L’esempio più significativo in tal senso è il fatto che egli parli di sé sempre in terza persona, non solo
in Senato (ex: ‘Know, Caesar doth not wrong’, III, i, 47), ma
anche a casa con la moglie Calpurnia:
Calp.: What mean you, Caesar? Think you to walk forth?
You shall not stir out of your house today.
Cae.: Caesar shall forth. The things that threatned me
Ne’er looked but on my back; when they shall see
The face of Caesar, they are vanished.
(II, ii, 8-12)
49
Ibi, p. 175.
56
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Egli vive nella sua immagine e questo è ciò che dà maggiormente fastidio ai suoi rivali, tra cui Cassio, che non rinuncia ad
esprimere il proprio disappunto al riguardo:
Why, man, he doth bestride the narrow world
Like a Colossus, and we petty men
Walk under his huge legs, and peep about
To find ourselves dishonourable graves.
(I, ii, 134-137)
È interessante notare che pochi versi prima questo colosso è
stato descritto come una creatura con i piedi di argilla, tremante
nella sua tenda, vittima di una febbre violenta contratta durante
la campagna di Spagna. Nelle parole di Cassio Cesare aveva allora supplicato Titinio, uno dei suoi uomini, di portargli dell’acqua
come una sick girl (I,ii, 127). Ed è sempre Cassio che, nel concludere la sua battuta, mette davanti agli occhi di Bruto il paradosso di come l’uomo più potente di Roma sia una persona fragile e bisognosa dell’aiuto degli altri:
Ye gods, it doth amaze me
A man of such a feeble temper should
So get the start of the majestic world
And bear the palm alone.
(I, ii, 128-131)
L’essere debole, malato ed indifeso che compare agli occhi del
perfido ed invidioso Cassio è pur sempre il trionfatore su Pompeo e sui suoi nemici: la sua duplice natura è chiaramente spiegata al pubblico, che riconosce a quell’uomo il difficile ruolo di
monarca.
Duplice natura, si diceva, che investe completamente anche
Elisabetta I, come donna e come regina. Creatura immortale e
semper eadem, Elisabetta è come appare nella Sphaera Civitatis,
che John Case tratteggiò nel 1588, per celebrare la vittoria su Filippo II di Spagna.
57
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Fig. 6. John Case, Sphaera Civitatis, 158850.
In questo diagramma51 Elisabetta ha lasciato la terra ed appare
in una posizione di predominio sull’intero universo, qui raffigurato secondo il sistema tolemaico, nel cui centro è collocata la
Terra, abbinata alla Iustitia Immobilis. Poi ci sono le sfere dei sette corpi celesti, riconoscibili dai rispettivi simboli astronomici ed
identificabili nella corrispondente virtù regale. Al di sopra e al di
fuori di questo sistema si trova la figura della Regina inglese, che
sembra abbracciare l’intero cosmo: Elisabetta è in cima al mondo ed occupa il posto del Primo Mobile, è l’ ‘Amor che move il
50
R. STRONG, Gloriana, p. 133.
Per la spiegazione di questo ritratto si vedano, oltre al testo da cui è stata
tratta l’immagine e C. HULSE, Elizabeth I, Ruler and Legend, già citato sopra,
L. GENT – N. LLEWELLYN, Renaissance Bodies; F. YATES, Astraea: The
Imperial Theme in the Sixteenth Century, London, Routledge and Kegan Paul,
1975.
51
58
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Sole e l’altre stelle’ (XXXIII, v. 145)52. Eppure, la sphaera civitatis è anche la rappresentazione dello Stato inglese, che si compone del globo al centro del diagramma, delle sfere della Camera
Stellata, della sfera in cui la Sovrana agisce come regina di Inghilterra, Francia e Irlanda, ed infine della Sovrana stessa, che
qui occupa le regioni oltre le sfere. Il disegno rispetta la tradizione secondo la quale ci sarebbe un forte legame fra micro – e macro – cosmo, come conseguenza del fatto che entrambi sono stati
creati da Dio. Inoltre, l’essere umano, essendo creato ad immagine e somiglianza di Dio, è in grado di comprendere la natura e
le sue leggi e metterle, quindi, in pratica per il beneficio
dell’umanità. In qualità di monarca, Elisabetta incarna alla perfezione questo legame con il Dio che l’ha creata e rappresenta
quella creatura unica e singolare, garanzia di buon governo e giustizia, di cui Dante tanto parlò nel suo De Monarchia: ella incarna la figura unica che Dante poneva a capo del mondo e diventa
così, nella complessa simbologia del suo tempo, colei che è destinata a governare da sola l’intero mondo. L’unità garantita dalla sua presenza sarebbe, rifacendosi a Dante, la fonte di quella
pace e di quell’armonia che sono necessarie alla vita
dell’universo e, quindi, dello Stato, che qui è concepito come un
universo in miniatura. E così, come esiste un solo Dio, garante di
amore e vita, si deve postulare l’esistenza di un unico sovrano
che, attraverso la propria unicità, incarni il disegno divino
sull’uomo. “È evidente che al benessere del mondo si addice la
Monarchia o Impero”53. Con queste parole si giustifica anche il
‘diritto divino’ di cui i sovrani Tudor tanto parlavano e che l’Europa del Rinascimento ben conosceva.
E la donna? La donna la ritroviamo nelle lettere personali,
nelle poesie e nelle preghiere scritte in momenti diversi della sua
52
D. ALIGHIERI, Divina Commedia. Paradiso, a cura di C. SALINARI, S.
ROMAGNOLI, A. LANZA, Milano, Editori Riuniti, 1980.
53
D. ALIGHIERI, Monarchia, introduzione di G. Petrocchi, a cura di M.
PIZZICA, Milano, BUR, 2001, p. 177.
59
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
vita; è quella creatura sola ed indifesa, che chiede a Dio l’aiuto
per un governo saggio ed onesto del suo Paese, e che piange la
propria solitudine:
When I was fair and young, and favor graced me,
Of many was I sought unto, their mistress for to be.
But I did scorn them all, and said to them therefore,
“Go, go, go seek some otherwhere; importune me no more”.
But there fair Venus’ son, that brave, victoriuous boy,
Said, “What, thou scornful dame, sith that thou art so coy,
I will so wound thy heart, that thou shalt learn therefore”;
“Go, go, go seek some otherwhere; importune me no more”.
But then I felt straightaway a change within my breast:
The day unquiet was; the night I could not rest,
For I did sore repent that I had said before,
“Go, go, go seek some otherwhere; importune me no more”54.
Composta negli anni Ottanta del XVI secolo, questa poesia
dal tono amaro e che sa di rimpianto, è un flashback sugli anni
della giovinezza, quando non gravavano ancora sulle sue spalle le
responsabilità di governo. Sofferenza e solitudine sono i temi
principali dei testi di Elisabetta I che, seguendo la moda petrarchesca dell’epoca, descrive un amore sofferto ed impossibile:
I grieve and dare not show my discontent,
I love and yet am forced to seem to hate,
I do, yet dare not say I ever meant,
I seem stark mute but inwardly do prate.
I am and not, I freeze and yet am burned,
Since from myself another self I turned.
My care is like my shadow in the sun,
Follows me flying, flies when I pursue it,
54
ELIZABETH I, Collected Works, ed. by L.S. MARCUS, J. MUELLER, M.B.
ROSE, Chicago, University of Chicago Press, 2000, pp. 304-305.
60
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Stands and lies by me, doth what I have done.
His too familiar care doth make me rue it.
No means I find to rid him from my breast,
Till by the end of things it be supprest.
Some gentler passion slide into my mind,
For I am soft and made of melting snow;
Or be more cruel, love, and so be kind.
Let me or float or sink, be high or low.
Or let me live with some more sweet content,
Or die and so forget what love ere meant55.
On Monsieur’s Departure, questo è il titolo della poesia riportata sopra, ci introduce, attraverso il gioco di contrasti nella prima
quartina, ad una desolazione interiore causata dall’ennesima rinuncia alla felicità. La poesia fu scritta all’inizio degli anni Ottanta ma, a differenza di quella precedente, non rimanda al tempo
della sua giovinezza. Il Monsieur che compare nel titolo è il duca
d’Anjou, corteggiatore di sua Maestà e con il quale si erano intavolate trattative matrimoniali. Dopo un lungo soggiorno alla corte inglese il duca era tornato in Francia, deluso dalla decisione di
Elisabetta di non volersi sposare. Il tono mesto e triste che trapela da questi versi convince il lettore di come la donna abbia rinunciato alla propria felicità per il bene della Regina e del suo
popolo. Ella ha compreso che, allontanando Cupido da sé, ha
bandito per sempre l’amore dalla sua vita ed in questi versi rivela
tutta la fragilità di chi è in balia di un potere superiore. La donna
si è sacrificata per la Sovrana, e l’immagine che ne deriva è quella di una creatura contesa tra il desiderio di un amore rassicurante e la necessità di dover dare di sé un’immagine pubblica forte,
autorevole e, soprattutto, indipendente da vincoli coniugali e da
legami affettivi.
55
Ibi, p. 302.
61
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
Le fragilità che in Giulio Cesare erano quelle dell’essere umano qui coincidono con l’essere donna e con tutte le debolezze di
questo sesso. Prima che dei nemici che la vogliono privare del
trono, Elisabetta si deve preoccupare della sua condizione di
donna, di come il destino l’abbia chiamata a svolgere un ruolo
maschile in un mondo ancora patriarcale, di come Dio l’abbia
innalzata sul trono inglese e le abbia chiesto di farsi avanti su una
scena politica dominata da soli uomini.
Ella sa tutto questo, conosce le proprie debolezze e le sfrutta
nei momenti difficili del suo regno, trasformandole in veri e propri punti di forza. “I know I have the body but of a weak and feeble woman” 56, sostiene poco prima di iniziare la guerra contro
l’Armada spagnola, consapevole del fatto che la sua condizione di
donna sia ancora a questo punto del suo regno, la sua principale
fragilità.
I grandi riformisti del secolo sostenevano che “government by
a woman was a deviation from the original and proper order of
nature, and therefore among the punishments humanity incurred
for original sin”57. Tuttavia, illustri pensatori come Calvino ammettevano che ci potessero essere eccezioni e citavano, ad esempio, il caso di Deborah, giudice di Israele, come prova del fatto
che Dio stesso scegliesse di fare un’eccezione all’ordine naturale
ed elevare una donna alla posizione di regnante.
Pertanto i riformisti del tempo guardavano a Deborah con occhi favorevoli e per questo tolleravano la presenza di donne su
alcuni troni europei. Ed è proprio a Deborah che rimanda
l’ultimo dei cinque pageants allestiti a Londra nel lontano 1559,
quando Elisabetta attraversa le vie della città in una processione
56
ELIZABETH I, Tilbury Speech, in Elizabeth. An Exhibition at the National
Maritime Museum, Ed. by S. DORAN-D. STARKEY, Tapescripts of key
documents, London-Greenwich, Chatto and Windus/National Maritime
Museum, 2003, p. 25.
57
R.M. HEALEY, Waiting for Deborah: John Knox and Four Ruling Queens,
in The Sixteenth Century Journal, vol. 25, Summer 1994, p. 372.
62
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
che la porterà a Whitehall. Nel complesso gioco delle corrispondenze simboliche, e dei rimandi al mondo classico e alle Sacre
Scritture, Elisabetta è chiamata Deborah, ed è come lei
l’immagine dell’onestà e della giustizia.
Pur essendo una figura così carismatica e tollerata dai riformisti contemporanei, Elisabetta non è, però, accettata da John
Knox, che con il suo First Blast of the Trumpet against the Monstruous Regiment of Women (1558) si scaglia contro tutte le sovrane e le reggenti del tempo. Dio ha stabilito che la donna serva
l’uomo e che questa sia la punizione da lei meritata in quanto discendente di Eva: quindi, sostiene Knox, la presenza di donne
sui troni europei può solo significare la punizione di Dio per i
peccati che il mondo ha commesso58.
Elisabetta si trova in un’impasse e la matassa è difficile da districare per lei che, Regina Vergine, ha sacrificato la maternità
per potersi unire in un casto abbraccio con il suo popolo: ella
non ha figli, non ha marito e non vuole essere seconda a nessuno.
Il desiderio e l’ambizione di occupare un posto importante nel
mondo e, soprattutto, la necessità di garantire una discendenza
regolare e sicura al trono del proprio Paese è un altro elemento
comune ad Elisabetta I e a Giulio Cesare, con l’unica differenza
che la prima si sacrifica per non sottomettere il suo popolo ad un
sovrano straniero, mentre il secondo vorrebbe un erede capace di
rendere più sicura e certa la sua posizione alla guida di Roma. È
Cesare stesso, infatti, che, durante la corsa in onore del dio Luperco, chiede ad Antonio di toccare Calpurnia per scongiurarne
la sterilità:
Forget not, in your speed, Antonio,
To touch Calphurnia; for our elders say,
The barren touched in this holy chase
Shake off their sterile curse.
58
Ibi, p. 376.
63
Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
(I, ii, 6-9)
Eppure, tutti sapevano che Cesare aveva avuto dei figli da
Cleopatra, la regina d’Egitto, che aveva vissuto con lui
un’intensa storia d’amore e che gli aveva dato, tra gli altri, il figlio Cesarione. Nonostante il nome e la somiglianza con il padre
Cesarione non venne mai riconosciuto da Roma come figlio legittimo di Cesare, il quale si vide attribuita la paternità, seppur
non biologica, di Bruto ed Ottaviano. Il primo era figliastro della
sorella di Cesare59, che ne aveva avuto cura sin dalla tenera età, il
secondo un suo congiunto che, per carattere e tempra, era stato
indicato come il giusto e degno successore di Cesare stesso.
Ed è proprio su Ottaviano che è necessario soffermarsi, tanto
più che la sua figura presenta tratti interessanti anche per questo
saggio. Come fa notare Robert Kalmey in un suo articolo60, la
positività di Ottaviano ha fortune alterne, dipendenti dal momento della sua vita preso in considerazione. La fase che precede
la definitiva ascesa al potere ne offre un’immagine nettamente in
contrasto con quella della fase successiva; infatti, il freddo e razionale Ottaviano che vendica la morte di Giulio Cesare, forma il
triumvirato per poi scioglierlo e sconfiggere Marc’Antonio ad Azio, non sarebbe altro che un efferato calcolatore in grado di manipolare anche il Senato di Roma per portare gli eventi a proprio
vantaggio. Agli occhi degli storici elisabettiani egli era un tiranno
che, noncurante del popolo, compiva scelte mirate al proprio
successo e alla propria affermazione. La fase successiva, invece,
che lo vede legittimo Imperatore di Roma, ci tramanda
l’immagine di un principe ideale, giusto ed onesto, amorevole
verso la sua gente:
59
Gli storici riportano che Bruto fosse figlio di Cesare e di Servilia, donna
con la quale egli aveva avuto una relazione.
60
R.P. KALMEY, Shakespeare’s Octavius and Elizabethan Roman History, in
Studies in English Literature 1500-1900, vol. 18, n. 2, 1978, pp. 275-287.
64
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
the distinction made in Elizabethan histories of Rome, […]
holds that Octavius is to be honoured as positive example of the
ideal prince only after he is crowned Emperor in Rome after the
defeat of Antony; before this precise occasion, the same Elizabethan histories of Rome characterize Octavius as a vicious tyrant
who foments bloody civil war and a reign of terror solely for his
persona gain61.
Ma quale di queste due immagini emerge dai lavori di Shakespeare? È difficile dirlo, dal momento che l’Autore sa impastare
versioni diverse, per fornire una lettura che si propone spesso
come alternativa alle già esistenti. Ottaviano compare nel Julius
Caesar e nell’Antony and Cleopatra, le cui vicende si collocano
prima della sua elezione ad imperatore. Di lui si conoscono il valore militare, la determinazione ed il coraggio, che lo oppongono
alla malvagità dei congiurati prima e alla dissolutezza di Antonio
poi, in una girandola di scelte finalizzate alla tutela del bene di
Roma e delle sue leggi.
Shakespeare, dunque, non ne fa un tiranno, ma ne anticipa la
figura di principe ideale, che nella storiografia romana degli Elisabettiani nasce quando egli diventa imperatore, creando un personaggio dalla carica positiva, dai tratti ben delineati e netti, dalla tempra decisa e dalla grinta determinata; non gli nega né carattere, né carisma, né tanto meno un lato umano, come traspare
nel rapporto con la sorella Ottavia. Per il drammaturgo, Ottaviano è un riflesso di Elisabetta e del suo governo illuminato:
l’Inghilterra, in fondo, aveva bisogno di modelli forti e positivi,
che mantenessero vivo il ricordo della Regina vergine, a scapito
del breve, ma già deludente, regno di Giacomo Stuart.
61
Ibi, p. 278.
65
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
La presenza della figura di Cleopatra nella letteratura inglese
risale al tempo di Riccardo II Plantageneta, quando, nel 13851386, poco prima di dedicarsi ai Canterbury Tales, Geoffrey
Chaucer compose The Legend of Good Women1. Collocata tra il
Prologo e la storia di Tisbe, Cleopatra è la prima delle good women ad essere presentata da Chaucer, il quale, nel narrare la sua
sofferta storia d’amore con Marcantonio, la descrive come una
martire, che, per amore, ha sacrificato se stessa e il proprio regno. L’immagine di Cleopatra come ‘lovely as a bud of May’ (v.
613), perché è così che Chaucer la definisce, si modifica con il
passare del tempo e la dolcezza che queste parole le attribuiscono si trasforma in spregiudicatezza: come se il germoglio di
Chaucer fosse cresciuto ed avesse lasciato la scena ad un fiore
aggressivo, quasi malsano, pronto a minare le fondamenta
dell’Impero romano.
Questa è l’immagine di Cleopatra che prevale nel XVI secolo,
questa è l’affascinante e testarda regina d’Egitto che Shakespeare
ci descrive nel dramma che porta il suo nome, l’amante capricciosa e viziosa che colora la vita di Antonio e che, come nella migliore tradizione petrarchesca, lo fa soffrire, ingelosire e spasimare d’amore per lei. Questa è la Cleopatra che il pubblico shakespeariano conosce e che domina il palcoscenico delle playhouses
elisabettiane: una donna senza scrupoli, che vuole mantenere il
trono e garantire potere sicuro alla sua discendenza.
Agli occhi dei contemporanei di Shakespeare Cleopatra è
l’insaziabile amante di Antonio, una donna a capo di un regno
1
G. CHAUCER, Love Visions, ed. by B. STONE, London, Penguin Books,
1983, p. 153.
67
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
vasto e potente, abile ed astuta nel districarsi tra i molti complotti orditi attorno a lei; ma, soprattutto, ella è uno dei tanti termini
di paragone di Elisabetta Tudor, la regina che, a differenza di
Cleopatra, ha sacrificato la felicità della vita privata per la fama e
la gloria della vita pubblica, ma che con lei condivide diversi aspetti del carattere e del ruolo regale. A colmare la distanza che
le divide nel tempo e nello spazio concorre la maestria di Shakespeare, nelle cui opere spesso accade che il presente sfumi nel
passato e che le due dimensioni si confondano fino a sovrapporsi, che la geografia del mondo diventi l’Inghilterra ed i suoi abitanti siano uomini del Rinascimento, combattuti tra le intense
passioni del cuore e dilaniati dai grandi interrogativi della vita.
Ma, quando si parla di Roma e del suo Impero, il passato diventa il mito e la leggenda che si intrecciano con gli albori
dell’Inghilterra e le radici del suo Impero. I Cesari sono un punto di riferimento per i grandi sovrani Tudor, tra i quali Elisabetta
occupa il posto d’onore, poiché ella è la donna che ha dettato le
regole del gioco, che ha messo a tacere i nemici e ha dato l’avvio
ad una autentica politica espansionistica. Una donna in un mondo di uomini, proprio come Cleopatra lo era stata nell’Egitto del
suo tempo.
Il nome di Cleopatra accanto a quello di Antonio nel titolo
della tragedia che li riguarda incuriosisce lo spettatore, abituato a
leggere il mondo con gli occhi di Amleto, Otello, Macbeth, Re
Lear e ad interpretarlo con la mentalità di una società ancora patriarcale. Ma, quando si parla di Cleopatra, il baricentro
dell’universo si sposta verso la metà femminile che lo compone,
lasciando così intravvedere una sensibilità diversa in un mondo
ugualmente complesso ed articolato, che oscilla tra la dolcezza
ingenua di Giulietta Capuleti, la perfidia sottile di Lady Macbeth, la generosità amorevole di Cordelia e la pazzia mortale di
Ofelia. Le donne del mondo shakespeariano non sono affatto
delle figure secondarie, poiché guidano le azioni dell’eroe tragico, ne manipolano i sentimenti e ne condizionano i pensieri:
68
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Macbeth non ucciderebbe mai Duncan, se l’ambizione di sua
moglie non lo convincesse del successo, Otello non si lascerebbe
influenzare da Iago se non fosse morbosamente geloso della bella
Desdemona, senza Cleopatra Antonio non vivrebbe né la sua parabola discendente, né l’umiliante confronto con Ottaviano, che,
quindi, non diventerebbe il primo Imperatore di Roma. Dunque,
le donne contribuiscono al farsi della Storia, imponendosi in un
mondo patriarcale che le relega ad un livello inferiore di quello
dell’uomo e le confina nella dimensione domestica tra l’amore
per i figli e i doveri verso il marito. D’altro canto, però, come avrebbe potuto Shakespeare negare questa importanza alle donne,
quando il suo mondo era governato da una donna, la secondogenita di Enrico VIII? Se il teatro di Shakespeare è lo specchio
del suo mondo, allora nei suoi drammi deve esserci spazio anche
per una Regina che, prossima alla fine di un lungo regno, lascia
ai sudditi un ricordo che fonde l’amore devoto per il popolo con
una tirannia provocata dalla vecchiaia e da un trono sempre più
malfermo, vista la mancanza di un erede diretto. Negli ultimi
anni della sua vita, Elisabetta diventa più che mai la donna dalle
molte contraddizioni e dai mille volti, pur nella costante invariabilità del mask of youth.
Il primo elemento che accomuna Elisabetta I e la Cleopatra di
Shakespeare è sicuramente l’appartenenza al genere femminile e,
quindi, ad una categoria, quella delle donne regnanti, che si
muove a disagio in un mondo maschile, fatto da e per soli uomini. L’Europa dell’epoca, infatti, era nelle mani di ricchi e potenti
signori, che concedevano alla proprie consorti e/o madri la reggenza temporanea del loro regno: Isabella di Castiglia, Caterina
de’ Medici e anche Caterina d’Aragona erano state grandi esempi di capacità di governo, ma pur sempre consorti dei re di Spagna, Francia ed Inghilterra. Alla fine del XVI secolo Elisabetta è
l’unica donna in Europa a sedere sul trono come regina e non
come reggente. A parte il caso di Maud, che l’Inghilterra aveva
conosciuto nei tempi bui della sua storia, quando il Paese versa69
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
va nell’anarchia, la corona inglese era contesa in una guerra senza fine e dalle sorti alterne tra la figlia di Enrico I (Matilde o
Maud, per l’appunto) e il cugino Stefano2, l’Inghilterra non aveva mai avuto regine prima dell’incoronazione di Maria Tudor,
che, come riportano le cronache, era stata incoronata regina ricevendo l’unzione completa, per così dire, “on the shoulders, on
the breast, on the forehead and on the temples”3. La presenza di
una donna sul trono era, dunque, un’anomalia e, nel caso
dell’Inghilterra, anche senza precedenti: Maria era una donna
sposata e, quindi, in che modo avrebbe potuto conciliare due
ruoli così impegnativi quali quello di moglie e quello di regina
che, secondo la mentalità dell’epoca, erano antitetici? La legge
inglese prevedeva che la donna fosse sottomessa all’uomo e che
venisse esclusa dalle cariche pubbliche, al punto che il dibattito
etico-filosofico in voga in quel periodo tendeva a mettere in discussione anche la presenza delle donne nella linea di successione al trono4. Il problema era stato parzialmente risolto con
l’emanazione di un atto parlamentare del 1554, in cui Maria veniva confermata come legittima ed unica sovrana inglese, anche
se fino a quel momento il potere regale era sempre stato nelle
mani di un king e non di una queen5. Mary, di conseguenza, era
tenuta a governare con la stessa autorità che i re suoi progenitori
avevano esercitato prima di lei:
shoulde have… and use suche royal aucthoritie… as the kynges of
thys realme her moost noble progenitours, have heretofore done…
…Be it declared… that the lawe of thys realme is, and ever hath
bene… that the kingely or regal office of the realme… being in2
G.M. TREVELYAN, Storia di Inghilterra, trad. di G. Martini – E. Panicieri,
Milano, Garzanti, 1981, pp. 169 e 183.
3
J.M. RICHARDS, Mary Tudor as ‘Sole Queene’?: Gendering Tudor
Monarchy, in The Historical Journal, Vol. 40, n. 4 (Dec. 1997), p. 902.
4
Ibidem.
5
Ibi, pp. 903-4.
70
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
vested eyther in male or female, are, and be, and ought to be, as
fullye, wholye, absolutelye and enteerelye demed, iudged, accepted, invested and taken in those as in thother.6
A questo punto, sistemata la questione politica, rimaneva da risolvere la ben più ingarbugliata questione etica, che, per essere affrontata e compresa, impone di spostare l’attenzione sulla condizione femminile dell’epoca. Dal punto di vista storico la situazione era
particolarmente delicata e la politica anti-riformistica di Maria di
certo non era a favore delle donne in un ruolo per tradizione maschile. I cinque anni del suo regno sono ancora oggi ricordati tra i
peggiori della storia inglese: persecuzioni, martiri, esili e carestie erano, secondo i suoi contemporanei, tutti dovuti alla presenza di
una donna alla guida del Paese. Infatti, come poteva una donna discendente da Eva e, quindi, colpevole del peccato originale occupare un posto che la collocava al di sopra di qualsiasi uomo del regno?
Per poter rispondere a questa domanda è necessario collocare la
questione all’interno del dibattito esploso agli inizi del Cinquecento
sul ruolo della donna nella società dell’epoca, e che era nato proprio
dall’ambiguità della figura femminile. Tale ambiguità era dovuta al
fatto che si riconosceva alla donna una natura doppia e che, quindi,
ella andava considerata come persona mixta7. La Genesi I insegna che
la donna è una creatura di Dio, concepita uguale all’uomo e, di conseguenza, forgiata a somiglianza della divinità:
E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.
(Gen.I, 27)8
6
Ibi, p. 904.
C. JORDAN, Woman’s Rule in Sixteenth-Century British Political Thought, in
Renaissance Quarterly, Vol. 40, n. 3 (Autumn, 1987), p. 421.
8
La Bibbia, Via Verità e Vita, a cura della Conferenza Episcopale Italiana,
Milano, Ed. Paoline, 2009, p. 32 e p. 34.
7
71
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
il che la rende non solo spiritualmente uguale all’uomo, ma
anche degna della salvezza eterna. Eppure, nonostante queste
premesse, la gerarchia stabilita da Dio, e riportata in Genesi II e
III, la descrive come una creatura destinata ad essere sottomessa
all’uomo e, di conseguenza, ad occupare una posizione a lui inferiore nella società:
Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo,
una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta.
(Gen.II, 22-23)
Alla donna disse:
“Moltiplicherò i tuoi dolori
e le tue gravidanze,
con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ed egli ti dominerà.
(Gen.III, 16)9
E questo è bastato a vedere la donna come creatura inferiore
tout court, sia in famiglia, sia in tutti gli altri spazi sociali. Del resto, come la famiglia si regge sulla forza del capofamiglia, che si
ripromette di averne cura e di proteggerla da ogni male, così anche lo Stato deve essere retto da una figura maschile, che sia garante di ordine e armonia fra i suoi membri. Ergo, accettare la
presenza di una donna sul trono significava andare non solo contro le leggi del buon governo, ma anche contro la legge divina;
significava essere blasfemi e meritarsi la vendetta giusta, ma impietosa ed implacabile di Dio. Si spiega così il forte astio tra Maria e i suoi sudditi, prima ancora che iniziassero le persecuzioni
9
Ibidem.
72
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
contro i Protestanti e che carestie ed epidemie si abbattessero
sull’Inghilterra, aggravando i danni che una politica sbagliata ed
un’economia avventata avevano prodotto con l’ascesa al trono di
Maria la Sanguinaria.
Sicuramente la presenza di una donna sul trono era un fatto
imbarazzante per tutti coloro che avrebbero voluto veder rispettate le parole della Genesi, parole che con l’avvento
dell’Umanesimo e l’apertura del Rinascimento venivano ristudiate e reinterpretate. Alla luce della Riforma e della Controriforma
era, dunque, necessario rileggere le Scritture, perché la presenza
di donne potenti ai vertici dei più importanti Stati europei richiedeva ulteriori riflessioni sul ruolo che la figura femminile doveva avere nella società degli uomini. Ne nasce quindi un dibattito dove, accanto alle teorie conservatrici ed estremistiche, si affermano le posizioni tolleranti di alcuni pensatori a favore della
donna. Tra i più moderati si colloca Tommaso Moro, che
nell’Utopia spiega come una donna possa svolgere diverse mansioni maschili ed occupare anche incarichi di rilievo nel Paese in
cui vive. Ella, come sostengono Cornelius Agrippa e Thomas Elyot, ha peculiarità assenti nell’uomo, proprio come l’uomo ha
doti che la donna non può avere. In un suo articolo su Historian
la Scalingi fa notare che nel De Nobilitate & Praecellentia foeminei
Sexus del 1529 Agrippa riconosce alla donna una superiorità intellettuale, morale e fisica, ed aggiunge che ella è “the most perfect of all goddis workes… It is not nedeful for a woman, to handle these partes of her body, in the workes of Nature”10. Undici
anni più tardi, anche Elyot ribadisce nella sua Defence of Good
Women (1540) che le donne possono essere poste alla guida dei
propri Paesi e rifiuta, così, di relegarle in una posizione subalterna rispetto a quella degli uomini.
10
P.L. SCALINGI, The Scepter or the Distaff: the Question of Female
Sovereignty, 1516-1607, in Historian, vol. 41, n. 1 (Nov. 1978) p. 61.
73
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
Quasi tutti gli altri umanisti concordano sul fatto che una
donna non debba ricoprire incarichi importanti nello Stato e che,
quindi, non possa ambire alla posizione di monarca. Le voci più
interessanti e feroci di questo dibattito, infatti, emergono dalla
schiera di coloro che si dichiarano decisamente contro la figura
di una donna forte e potente. Tra questi la storia assegna maggior importanza a John Knox, che nel 1558 scrisse un trattato in
cui prendeva chiaramente posizione contro Maria Tudor:
To promote a woman to beare rule, superioritie, dominion or
empire aboue any realme, nation, or citie, is repugnant to nature, contumelie to God, a thing most contrarious to his reueled
will and approved ordinance, and finallie it is the subversion of
good order, of all equitie and iustice11.
Qualche pagina dopo, rifacendosi a quanto Aristotele aveva
sostenuto a suo tempo, Knox spiega che “wheresoever women
beare dominion, there must nedes people be disordered, livinge
and abounding in all intemperancie, geuen top ride, excesse, and
vanitie”12. Una tale creatura non può essere messa al comando di
uno Stato, proprio perché è Dio a volere che ciò non accada. A
sostegno della sua posizione Knox cita la Genesi, la prima Lettera
a Timoteo e la seconda Lettera ai Corinzi di San Paolo, dove
viene detto a chiare lettere che l’ira di Dio per il gesto di Eva si
abbatte su tutto il genere femminile. La donna, quindi, non è in
grado di governare e, richiamando le parole dell’Apostolo, Knox
ribadisce “I suffer not a woman to teche, nether yet to usurpe
authoritie aboue man”13. Inoltre, dichiara che la “woman in her
greatest perfection was made to serve and obey man, not to rule
and command him”14 ed afferma “Man is not of the woman but
11
J. KNOX, The First Blast of the Trumpet against the Monstruous Regiment of
Women, 1558, p. 9.
12
Ibi, p. 12.
13
Ibi, p. 15.
14
Ibi, p. 13.
74
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
the woman of the man”15. In altre parole l’incapacità della donna
di governare e la sua subordinazione all’uomo sono spiegate nelle
Scritture e nei lavori dei grandi filosofi dell’antichità, il che consente a Knox di esprimere esplicitamente ciò cui alcuni suoi contemporanei avevano solo alluso: “for a woman to step out of her
subordinate place in the creational hierarchy is tantamount to an
act of tyranny”16. La presenza di Maria Tudor sul trono, quindi,
non è solo sinonimo di blasfemia per il mondo celeste, ma è anche di tirannia per quello terreno.
La feroce schiettezza di Knox assume toni più pacati negli
scritti di altri predicatori suoi contemporanei i quali, pur definendosi conservatori, considerano il governo di una donna come
una deviazione dall’ordine naturale. Così pensa anche Calvino,
che, tuttavia, ammette l’esistenza di donne eccezionali destinate
da Dio a ruoli di comando: egli accetta l’idea che Dio concepisca
disegni importanti per donne da lui scelte e riconosce valido il loro governo in quanto voluto dalla divinità17. Sulla stessa linea di
interpretazione si colloca anche John Aylmer, che, nel suo trattato del 1559 (Harborowe for Faithfull and Trewe Subjectes), ritiene
insolito ciò che Knox chiama blasfemo ed accetta il governo di
una donna perché, se ogni monarca è sostenuto da Dio nello
svolgimento delle sue mansioni18, tale legge è valida anche per un
monarca donna.
Il fatto che Aylmer precisi quest’ultimo punto riporta all’idea
iniziale della donna come creatura mista, espressione della natura maschile e femminile racchiuse in un’unica persona. La teoria
della duplice natura del monarca viene adottata in tutte le corti
europee ed aiuta a conferire al monarca stesso un’aura di sacrali15
Ibidem.
C. JORDAN, Woman’s Rule in Sixteenth-Century British Political Thought,
p. 434.
17
J. CALVIN, The Zurich Letters, ed. by R. HASTINGS, Cambridge, The
Parker Society, 18, 1845, in ibi, p. 437.
18
Ibi, p. 439.
16
75
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
tà, inserendolo in una dimensione a metà strada tra il terreno e il
divino e riconoscendo al suo corpo la sacralità e l’inviolabilità. Il
sovrano, in questo modo, è uomo e dio, ed il suo governo è benedetto dal Signore e dalla Sua protezione.
Tale criterio di concepire il monarca è la soluzione ideale alla
presenza scomoda di una donna sul trono ed è la soluzione altrettanto ideale anche per Elisabetta Tudor, che vi ricorrerà per
difendere il suo regno: “This is the Lord’s doing: it is marvellous
in our eyes”19. Sono queste le parole che Elisabetta pronunciò in
latino quando il duca di Norfolk, datale la notizia della morte di
Maria, la nominò nuova sovrana d’Inghilterra. Con questa affermazione la Regina precisava che Dio era dalla sua parte, che
sarebbe stato la sua guida e che ella era uno strumento nelle Sue
mani; era il 17 novembre 1558 e l’Inghilterra si apprestava a conoscere una delle regine più amate ed acclamate della sua storia.
Il fatto che Elisabetta fosse la figlia protestante del grande Enrico VIII la rese immediatamente apprezzata dalla metà protestante del Paese, compreso Knox che, pur restando fermo nelle
sue convinzioni, iniziò a manifestarle con toni meno accesi e
sferzanti. Tutti riconobbero in lei una di quelle donne eccezionali per le quali Dio aveva in serbo grandi cose. Del resto, anche
nella Bibbia, accanto a re come Davide e Salomone, spiccano
donne capaci di guidare e proteggere il proprio popolo, diventando riconosciuti esempi di virtù ed ammirevoli modelli di governo giusto e saggio. In particolare, gli Inglesi scelgono la figura
di Deborah per accostarla alla loro Regina. La prima occasione
in cui ciò avviene è nel gennaio 1559, quando Elisabetta, qualche
giorno prima della sua incoronazione, attraversa Londra diretta a
Whitehall. Il pubblico saluta la nuova regina con dei pageants in
punti diversi del suo percorso, l’ultimo dei quali parla di Deborah, la donna posta da Dio alla guida di Israele per ben quarant’anni. È chiaro che la popolazione vede in Elisabetta “a Pro19
A. WEIR, Elizabeth the Queen, p. 1.
76
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
testant savior sent to bring harmony and peace to a nation exhausted by discord”20, e ne legittima il potere in nome di
quell’ordine pubblico che era mancato durante il regno di Maria.
Deborah, l’unica donna nella Bibbia a ricoprire il titolo di Giudice della Casa di Israele, è il pretesto per celebrare la ginecocrazia
elisabettiana e per rafforzarne l’autorità21. Persino John Knox accetta la figura di Deborah come eccezionale, ma tiene a precisare
che, a differenza di Elisabetta, ella non ha ereditato la sua posizione attraverso una dinastia reale, ma per decisione di Dio22. Il
suo esempio è contro natura e soprattutto lo sono le sue qualità
maschili di prudenza, forza e leadership, che tradizionalmente
mancano in una donna. Ciò che caratterizza il genere femminile,
infatti, è la debolezza, quella debolezza che, però, spiega Aylmer
con riferimento ad un passo della seconda Lettera ai Corinzi,
conferisce ancora più forza a Dio:
Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si
manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben
volentieri delle mie debolezze, perciò dimori in me la potenza di
Cristo.
(2Corinzi, 12,9)23
E così, se l’identificazione di Elisabetta con Deborah serve a
codificare l’idea che la Regina inglese sia una creatura straordinaria, il suo essere donna la rende quel weaker vessel attraverso il
quale Dio manifesta ancora di più la sua potenza. E di questo
sono convinti tutti gli Inglesi, soprattutto quando nel 1588 la loro Sovrana sconfigge definitivamente la Spagna di Filippo II. In
quell’occasione, avvistato il nemico nelle acque della Manica, E20
E.C. WILSON, England’s Eliza, Cambridge Mass., Harvard University
Press, 1939, p. 65.
21
C. BLESSING, Elizabeth I as Deborah the Judge: exceptional women of power,
in Goddesses and Queens: the iconography of Elizabeth I, ed. by A. CONNOLLY and
L. HOPKINS, Manchester, Manchester U.P., 2007, pp. 23-24.
22
Ibi, p. 24.
23
La Bibbia, Via Verità e Vita, p. 2404.
77
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
lisabetta incontra i suoi soldati a Tilbury, dove tiene un breve discorso ricco di informazioni importanti sul suo ruolo bifronte di
donna e regina:
I know I have the body of a weak and feeble woman, but I have
the heart and stomach of a king and a king of England too24.
Con queste parole ella attribuisce a se stessa due corpi: uno
debole e fragile, l’altro forte ed impavido, quello della donna e
quello del monarca. La sua natura mista, come la definivano i
predicatori contemporanei, si palesa anche nell’abbigliamento
che, come ci raccontano le fonti dell’epoca, era manifestazione di
un linguaggio fortemente codificato ed un ottimo mezzo di comunicazione attraverso il quale raggiungere la popolazione e i
sovrani di altri Paesi.
Intorno al 1625, parecchi anni dopo la morte, Thomas Cecil
raffigurò Elisabetta in una stampa che voleva essere un’ulteriore
celebrazione della vittoria sulla Spagna.
24
ELIZABETH I, Tilbury Speech, in Elizabeth. An Exhibition at the National
Maritime Museum, p. 25.
78
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Fig. 1. Thomas Cecil, Truth Presents the Queen with a Lance, (cc. 1625)25.
Come si vede dall’immagine, la Regina siede sul suo cavallo al
centro della scena e domina l’intero disegno. Ella indossa un abito lungo che le copre le gambe, rispettando così il buon gusto e
serbando il pudore richiesto dalla moda femminile dell’epoca, e
che culmina in un bustino che in realtà è una corazza. Porta i
lunghi capelli sciolti sulle spalle ed ha in testa un elmetto con alla
base una corona d’alloro ed in cima dei fluenti rami con rose.
Per chi conosca l’iconografia elisabettiana, non è difficile leggere
ed interpretare la simbologia di questa immagine: qui la Sovrana,
una Tudor, come le rose suggeriscono, è una creatura androgina,
25
L’immagine è presa da R. STRONG, Gloriana, p. 165.
79
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
poiché racchiude in sé l’essenza femminile, resa evidente dal seno che emerge dalla corazza, e quella maschile, evocata dal serto
d’alloro che la mitologia attribuisce ad Apollo. Ma non solo, poiché i due sessi confluiscono in un significato ulteriore, collocabile
ad un livello di lettura superiore. Il virgineo fascino femminile,
suggerito anche dalla collana di perle e dalla postura da Amazzone, incontra la virilità forte e determinata di un re che si accinge alla battaglia. Il monarca protestante qui raffigurato riceve
dalla Verità la forza per sconfiggere il nemico cattolico, che ha la
forma del mostro dell’Apocalisse, calpestato dagli zoccoli del cavallo di Sua Maestà. Sullo sfondo, l’Invincible Armada sconfitta.
Il ritratto, come il Tilbury Speech citato sopra, conferma chiaramente che la Sovrana inglese aveva fatto proprio il dibattito sul
suo ruolo in voga nel XVI secolo ed aveva assunto e manifestato
la propria interpretazione: la donna e il re convivono in un corpo
solo e, insieme, si affidano a Dio e alla Sua saggezza:
I have so behaved myself that under God I have placed my
chiefest strength and safeguard in the loyal hearts and goodwill
of my subjects26.
L’amore per i suoi sudditi e la dichiarata fiducia in Dio concedono alla donna la forza con cui riscattare la regina e lasciare definitivamente alle spalle il ricordo della sorellastra Mary.
Ma, chiarita in questo modo la questione etica, adesso è possibile
volgere lo sguardo a Elisabetta e a ciò che l’accosta maggiormente
alla Cleopatra shakespeariana. La prima cosa da precisare è che
buona parte dei testi che si occupano di lei nel XVI secolo la descrivono come l’amante di Antonio e danno ragione a coloro che non
concepivano la presenza di una donna alla guida di uno Stato. Solo
con Shakespeare alla donna viziosa e lussuriosa si aggiunge anche la
regina determinata e senza scrupoli: il personaggio che abbiamo di
26
Elizabeth I, Tilbury Speech, in Elizabeth. An Exhibition at National
Maritime Museum, p. 25.
80
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
fronte è una miscela di studiato savoir-faire erotico e di innata volontà di successo su rivali e nemici.
Tuttavia, la Cleopatra che calca il palcoscenico del Globe ha
una peculiarità che è squisitamente shakespeariana e che consiste
nell’essere il punto in cui passato e presente confluiscono, forgiando una creatura che conserva i tratti originali, ma adeguandoli, però, alla Londra di inizio Seicento. La Cleopatra di Shakespeare, infatti, mantiene il suo ruolo di egiziana affascinante e fascinosa, ma con le vesti, il portamento e la mentalità di una regina elisabettiana. È per questo motivo che non mancano analogie
e possibilità di confronto con la Sovrana che era morta solo da
qualche anno quando l’Antony and Cleopatra venne rappresentato. Con Elisabetta, la Cleopatra di Shakespeare condivide elementi importanti, che riguardano soprattutto la condizione di
donna nel XVI secolo, come è stato brevemente illustrato nelle
pagine precedenti di questo saggio. Infatti, i predicatori riformisti
e i trattatisti dell’epoca associavano la donna ad un’immagine di
debolezza e meschinità, dovuta soprattutto all’incapacità di governare i propri istinti e passioni.
Il destino volle che questo fosse anche il caso di Cleopatra,
amante lasciva ed insaziabile di Giulio Cesare prima e di Marcantonio poi, senza contare i flirts che il suo atteggiamento da
femme fatale avrebbe potuto garantirle. La donna che s’incontra
nella tragedia di Shakespeare è costruita dando spazio a questo
aspetto, che domina le scene di vita privata a palazzo in Alessandria e che suscita aspre critiche e schietta disapprovazione nel
mondo romano. E così Shakespeare ci insegna come il contrasto
tra Roma e l’Egitto potesse essere letto anche come il contrasto
tra un re e una regina. Ottaviano incarna quelle doti di saggezza,
prudenza e decisione, che lo faranno diventare imperatore: è il
princeps che richiama alla memoria il Principe di Machiavelli, colui che si sa imporre alla sua gente, che sa riconoscere ed affrontare il nemico quando questi lo sfida. Ottaviano è un uomo e,
come forse è giusto che sia, avrà la meglio sulla sua rivale, la
81
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
quale, se non decidesse di uccidersi, sarebbe stata ridotta a poco
più di una schiava umiliata nel corteo trionfale di Ottaviano a
Roma. Il genio di Ottaviano si scontra con la sregolatezza di
Cleopatra, che conferma, così, l’impossibilità per una donna di
affermarsi con la forza in un mondo retto da uomini. Nella sua
ottica di femmina audace e provocante gli uomini che cadono
nella sua rete di ammaliatrice diventano strumenti per raggiungere il successo e farsi strada nel mondo.
Eppure, stando alla Storia, Cleopatra avrebbe avuto solo due
storie d’amore importanti, entrambe con due Romani che le diedero anche dei figli. Il primo in ordine cronologico fu Giulio Cesare, con il quale ebbe il figlio Cesarione; il secondo fu Marcantonio, che le diede due gemelli.
Ma chi fu questa donna nella realtà? Il suo vero nome era
Cleopatra VII ed era figlia di Tolomeo XII Aulete, così chiamato
“per la sua mania di accompagnare i cori con il flauto”27. Di lei si
sa che nacque nel 69 a.C. da una donna d’alto rango, probabilmente della famiglia dei sommi sacerdoti di Menfi, che spesso si
autoindicavano come “i grandi nobili dell’Egitto”28. Se questa
ipotesi fosse vera, Cleopatra sarebbe nata da una unione illegittima dal punto di vista del diritto greco29 e questo potrebbe in
parte spiegare la sua lotta per conquistare il trono d’Egitto. Pur
di raggiungere il suo obiettivo, sposò il fratello Tolomeo XIII
che, poi, divenne suo acerrimo rivale e nemico nell’affermazione
al trono. Per quanto riguarda il suo aspetto fisico, le fonti sono
quasi tutte concordi nell’affermare che non era particolarmente
bella, ma che aveva un fascino indiscutibile. Tra le varie descrizioni giunte fino a noi, quella tracciata da Plutarco nella Vita di
Antonio è forse la più famosa ed attendibile,
27
M. CLAUSS, Cleopatra, Roma, Carocci, 2002, p. 17.
Ibi, p. 18.
29
Ibidem.
28
82
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Now her beauty (as it is reported) was not so passing, as unmatchable of other women, nor yet such, as upon present view
did enamour men with her: but so sweet was her company and
conversation, that a man could not possibly but be taken. And
besides her beauty, the good grace she had to talk and discourse,
her courteous nature that tempered her words and deeds, was a
spur that pricked to the quick. Furthermore, besides all these,
her voice and words were marvellous pleasant: for her tongue
was an instrument of music to divers sports and pastimes, the
which she easily turned to any language that pleased her
(The Life of Antony, pp. 120-121)
anche se, per quanto riguarda la bellezza, non sembra concordare con quanto Dione Cassio riporta nella sua Storia di Roma:
Era veramente una donna bellissima, e trovandosi allora nel fiore
della giovinezza, era in tutto il suo fulgore; aveva una dolcissima
voce e sapeva conversare con chiunque con grande amabilità.
Per questo era affascinante per chi la vedeva e l’ascoltava, e poteva soggiogare qualunque uomo, anche chi fosse stato restio
all’amore e un po’ avanti negli anni. Riponendo tutti i suoi diritti sulla bellezza, pensò che sarebbe stato conforme al suo ruolo
incontrarsi con Cesare30
(XLII, 34, 4-5)
Le due descrizioni citate fanno riferimento a due momenti diversi della vita di Cleopatra: la prima, quella di Plutarco, ritrae la
Cleopatra di cui si innamora Marcantonio, mentre la seconda,
quella di Cassio Dione, va indietro nel tempo e propone
l’immagine della Cleopatra che amò Giulio Cesare. In entrambi i
casi, però, gli elementi che emergono sono quelli di un fascino
particolare aiutato, più che dalla sua bellezza, dalla capacità di
intrattenere gli interlocutori che si presentavano davanti a lei.
30
DIONE CASSIO, Storia romana, a cura di G. NORCIO, vol. II, Milano,
Rizzoli, 1995.
83
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
A sostegno delle parole dei due storici si può considerare anche una delle poche immagini sopravvissute allo scorrere dei secoli, e che propongono una Cleopatra nel pieno delle sue funzioni di Regina d’Egitto.
Fig. 2. Anonimo, Cleopatra, data ignota31.
Si tratta di un calco del busto originale, che si trova a Roma
nei Musei Vaticani e che la ritrae come la giovane donna bella ed
31
L’immagine è presa da F. SAMPOLI, Giulio Cesare. Uno sguardo da
dominatore, p.64.
84
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
affascinante di cui si innamorò Giulio Cesare. I capelli raccolti
sulla nuca in un’acconciatura elaborata e tenuti da un nastro che
le cinge la testa rispecchiano la moda del tempo, e contribuiscono a tramandarne un ricordo indelebile, al punto che, dopo la
battaglia di Azio, Ottaviano Augusto bandirà questo tipo di acconciature in nome della sobrietà che caratterizzerà il suo Impero. Se si esamina attentamente l’immagine, si nota come poco
sopra la fronte, in origine dovesse esserci un diadema, che molto
probabilmente legava Cleopatra ad Iside, la dea nella quale ella
si identificò per tutto il suo lungo regno.
Inutile dire che la Regina egiziana era consapevole del suo potenziale e del suo potere sugli uomini, legati a lei da un fascino
magnetico. Come tutte le donne, anch’ella era una donna vanitosa, gelosa della bellezza delle altre donne che erano viste come
concorrenti spietate. Infatti, c’è un passo nell’Antonio e Cleopatra
di Shakespeare in cui la Regina lascia la scena alla donna che, infastidita dalla notizia del recente matrimonio di Antonio con Ottavia, chiede informazioni sulla rivale:
Didst thou behold Octavia?
Ay, dread queen.
Where?
Madam, in Rome.
I looked her in the face, and saw her led
Between her broche and Mark Antony.
Cleo: Is she as tall as me?
Mess: She is not, madam.
Cleo: Didts hear her speak? Is she shrill-tongued or low?
Mess: Madam, I heard her speak; she is low-voiced.
Cleo: That’s not so good. He cannot like her long.
Charm: Like her? O Isis! ‘Tis impossibile.
Cleo: I think so, Charmian. Dull of tongue and dwarfish.
What majesty is in her gait? Remember,
If e’er thou look’dst on majesty.
Mess:
She creeps.
Her motion and her station are as one.
Cleo:
Mess:
Cleo:
Mess:
85
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
She shows a body rather than a life,
A statue than a breather.
Cleo:
Is this certain?
Mess: Or I have no observance.
Charm:
Three in Egypt
Cannot make better note.
Cleo:
He’s very knowing;
I do perceiv’t. There’s nothing in her yet.
The fellow has good judgement.
Charm:
Excellent.
Cleo: Guess at her years, I prithee.
Mess:
Madam,
She was a widow –
Cleo:
Widow? Charmian, hark!
Mess: And I do think she is thirty.
Cleo: Bear’st thou her face in mind? Is’t long or round?
Mess: Round, even to faultiness.
Cleo: For the most part, too, they are foolish that are so.
Her hair, what colour?
Mess:
Brown, madam, and her forehead
As low as she should wish it.
Cleo:
There’s gold for thee.
Thou must not take my former sharpness ill.
I will employ thee back again; I find thee
Most fit for business. Go, make thee ready;
Our letters are prepared.
(III, iii, 7-37)
In questo passo della Terza scena del Terzo atto Cleopatra sta
interrogando un messaggero, per avere notizie su Ottavia, la
donna con cui Antonio si è di recente sposato. Le domande rivolte al povero sventurato che si trova davanti a lei e che, per averle comunicato la notizia del matrimonio di Antonio, ha rischiato di morire in uno scoppio d’ira della Regina riguardano
l’aspetto fisico di Ottavia e, soprattutto, alcuni particolari del suo
corpo: l’altezza, la voce, l’età, il volto, i capelli…, elementi utili a
86
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Cleopatra per conoscere la sua rivale e per rassicurarsi che il suo
aspetto fisico è del tutto insignificante.
Questo episodio, in cui vanità e gelosia dominano la scena ed
animano il personaggio di Cleopatra, non è stato sicuramente inventato da Shakespeare, il quale non avrebbe fatto altro che riadattare un episodio realmente accaduto a corte nel 1564 tra Elisabetta I ed un messaggero di Maria di Scozia32. A quel tempo le
due cugine-rivali stavano portando avanti un importante gioco
diplomatico, che nascondeva, da parte di Maria, una serie di
complotti contro Elisabetta e, da parte di Elisabetta, una stretta
rete di spionaggio, che doveva scoprire e vanificare i complotti
della cugina. Inutile ricordare che tanta diplomazia servì a ben
poco, visto che nel 1587, esasperata dai continui tentativi della
cugina di sottrarle la corona, Elisabetta la condannò alla decapitazione nel castello di Fotheringhay, in cui Maria era tenuta prigioniera. L’episodio, cui si faceva riferimento, è riportato da Sir
James Melville nelle sue Memoirs:
One day she had the Englsih weed, another the French, and another the Italian, and so forth. She asked me which of them became her best. I answered, In my judgement, the Italian dress:
which ansie I found pleased her well; for she delighted to show
her golden coloured heir, wearing a caul and bonnet as they do
in Italy. Her hair was more reddish than yellow, curled in appearance naturally. She destre to know of me, what colour of
hair was reputed best; and which of the two [Queens] was fairest. I answered, The fairness of them both was not their worst
faults. But she was earnest with me to declare which of them I
judged fairest. I said, She was the fairest Queen in England, and
mine the fairest Queen in Scotland. Yet she appeare earnest. I
answered, They were both the fairest ladies in their countries;
that her Majesty was whiter, but my queen was very lovely. She
inquired which of them was of highest stature. I said, My
32
K. RINEHART, Shakespeare’s Cleopatra and England’s Elizabeth, in
Shakspeare Quarterly, vol. 23, no. 1 (Winter 1972), p. 83.
87
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
Queen. Then, saith she, she is too high; for I myself am neither
too high nor too low. Then she asked what kind of exercises she
used. I answered that […] sometimes she ricreated herself in
playing upon the lute and virginals. She asked if she played well.
I said, reasonably for a Queen.
That same day after dinner my Lord Hunsdean drew me up to a
quiet gallery, that I might hear some music […] where I might
hear the queen play upon the virginals. […] She inquired
whether my Queen or she played best. I that I found myself
oblie to give her the praise. […] yet I was stayed too days longer,
till I might see her dance, as I was afterward informed. Which
being over, she inquired of me, whether she or my Queen
danced best. I answered, The Queen danced not so high, and
disposedly as she did33.
Le parole di Melville non lasciano dubbi sulla vanità di Elisabetta I, né sulla sua gelosia per la potenziale bellezza di donne
che considerava rivali, soprattutto se queste erano parte di un disegno diplomatico molto importante. Infatti, uno degli obiettivi
della presenza di Melville alla corte inglese era una proposta di
matrimonio che riguardava la giovane e vedova regina di Scozia.
Elisabetta le stava proponendo di sposare il suo protetto, Robert
Dudley che sarebbe diventato Conte di Leicester proprio durante la visita di Melville a Londra. La posta in gioco era, dunque,
molto alta per una donna che, a trentun’ anni, questa era l’età di
Elisabetta quando l’incontro appena riportato ebbe luogo, non
aveva ancora conosciuto l’affetto autentico di una famiglia. Allontanata da corte ancora molto piccola, Elisabetta aveva perso
la madre quando aveva solo tre anni e da allora la sua vita non
era stata altro che una lotta per difendersi contro male intenzionati ed arrivisti senza scrupoli: il Seymour affair, infatti, è un
chiaro esempio di come, adolescente in balia degli eventi, Elisabetta non avesse riconosciuto le intenzioni subdole del suo amante e vi avesse letto solo l’amore di cui aveva disperato biso33
Sir J. MELVILLE, Memoirs, in ibi, pp. 82-83.
88
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
gno. L’unico uomo che forse l’amò veramente, ma anche in questo caso intrighi di corte e mire di potere potrebbero cambiare le
carte in tavola, fu Robert Dudley, che nel 1564 si trovò ad essere
proposto come marito per la cugina scozzese. La gelosia in questo caso è ampiamente giustificata, così come lo è anche il tono
amaro con cui Elisabetta rivolse le sue domande al messaggero.
Comunque, la risolleva sapere di essere migliore della rivale e
questo è quanto le basta, per poter proseguire con le decisioni
del suo governo.
Più o meno la stessa cosa accade a Cleopatra, gelosa di Ottavia e della sua bellezza; ma anche in questo caso, dopo le dovute
indagini, Cleopatra si consola nell’apprendere che Antonio ben
presto si stancherà di quel poco che la moglie ha da offrire e si
rallegra del fatto che egli tornerà da lei, dalla sua bellezza e dal
suo amore appagante.
A parte l’evidente somiglianza tra questi due episodi a dimostrazione dell’irascibilità di queste donne nei confronti delle persone di corte e a conferma che la vita di Elisabetta I, in ogni minimo particolare, apparteneva completamente alla sua gente, ciò
che emerge di interessante nelle due scene è la rappresentazione
della bellezza femminile secondo il Canone in voga nel Cinquecento. Le parti del corpo prese in considerazione sono, infatti,
quelle più ricorrenti nei trattati di estetica femminile del XVI secolo, perché sono indicativi della bellezza di una donna34. La venustà femminile nel Rinascimento è quella che gli artisti italiani
riproducono nelle loro opere d’arte e che fa riferimento a grandi
modelli letterari. Il primo per importanza è, sicuramente, Laura
di Petrarca: i lunghi capelli biondi, la carnagione chiara, per non
dire pallida, gli occhi luminosi come stelle sono punti di riferimento imprescindibili per legittimare un’autentica bellezza femminile nel Rinascimento europeo. A completare il quadro, poi,
34
Per approfondimenti si rimanda a R. LEVI PISETZKY, Storia del costume
in Italia. Il Cinquecento, Milano, Istituto Editoriale Italiano, Fondazione
Giovanni Treccani degli Alfieri, 1964-1967.
89
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
concorre anche una ricca trattatistica35, che prescrive come la
donna si debba atteggiare, vestire, parlare e relazionare con gli
altri, in particolare in questioni d’amore. La ritrosia femminile,
di cui tanto parlano i petrarchisti e di cui è imbevuta la letteratura europea del Rinascimento, conosce anche la propria parodia
nell’immagine di una donna che, al contrario di Laura e delle altre, non è alta, non ha i capelli biondi e nemmeno la carnagione
pallida. È la donna che con i suoi colori scuri diventa l’immagine
sinonimica del male, mentre il suo comportamento trasforma in
cattiveria la ritrosia ingenua, anche se calcolata, della donna petrarchesca.
L’Inghilterra, forse più di altri Paesi del vecchio continente,
ha modo di conoscere una figura femminile siffatta: è la dark
lady, cui Shakespeare dedica una parte dei suoi sonetti, ponendola in netto contrasto con la figura del youth che, essendo fair,
incarna appieno i valori petrarcheschi:
My mistress' eyes are nothing like the sun;
Coral is far more red than her lips' red:
If snow be white, why then her breasts are dun;
If hairs be wires, black wires grow on her head.
I have seen roses damask'd, red and white,
But no such roses see I in her cheeks;
And in some perfumes is there more delight
Than in the breath that from my mistress reeks.
I love to hear her speak, yet well I know
That music hath a far more pleasing sound.
35
In un’epoca in cui tutto è fortemente codificato in nome di ordine e
armonia a garanzia di protezione e sicurezza, anche la questione dell’estetica
femminile occupa uno spazio importante nel dibattito culturale del tempo.
Basta leggere i testi scritti fra Quattrocento e Cinquecento e vedere le opere
d’arte compiute per rendersi conto della portata di questo dibattito e
dell’impatto che ebbe nella cultura dell’Europa rinascimentale. Tra i testi che
affrontano questo argomento bisogna ricordare: Il libro del Cortegiano di
Castiglione, il Dialogo delle bellezze delle donne di Firenzuola, il Dialogo della
bella creanza delle donne di Piccolomini, il Libro della bella donna di Luigini.
90
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
I grant I never saw a goddess go:
My mistress, when she walks, treads on the ground.
And yet, by heaven, I think my love as rare
As any she belied with false compare36.
È il sonetto 130 della raccolta shakespeariana, che fu pubblicata pirata da Thomas Thorpe nel 1609. In questi versi la donna
ha perduto completamente la dimensione angelica e le sue fattezze, grezze e volgari, la indicano come una creatura terrena
che, in quanto tale, è perfida e maligna. L’idea di una bellezza di
questo tipo, che non corrisponde ai canoni delle mode coeve, è
appropriata, invece, ad una donna come la Regina d’Egitto: scura di carnagione, con lunghi capelli neri, spesso raccolti in complicate e sofisticate acconciature sulla nuca, perfida e maligna
nelle sue trame contro Roma e il suo nascente Impero. Dalla
Storia sappiamo che Cleopatra si avvaleva magistralmente delle
proprie armi di donna con gli uomini che cadevano nei suoi tranelli amorosi, innamorandosi perdutamente di lei. La Cleopatra
che Shakespeare ci presenta nel dramma omonimo condivide,
dunque, con la dark lady dei sonetti una femminilità ‘distorta’,
‘stonata’ rispetto ai canoni stabiliti dalla tradizione.
Questo tipo di confronto diventa particolarmente interessante
quando i termini di paragone sono Cleopatra da una parte, ed
Elisabetta I dall’altra. La prima, ormai è chiaro, di una bellezza
fuori dalla norma, la seconda di una bellezza dubbia, ma comunque più vicina alla tradizione letteraria e filosofica
dell’epoca: come se il confronto fosse tra un demonio e un angelo, tra vizi e virtù, tra bene e male. E alla fine, che cosa resta?
Un’immagine ancora più forte di colei che incarna il bene e la
virtù, un ricordo che impedisce alla morte di cancellare una Sovrana così grande e così magnanima dalla mente e dal cuore dei
suoi sudditi in un periodo in cui l’Inghilterra è retta da un sovra36
W. SHAKSPEARE, Sonetti, a cura di A. SERPIERi, Milano, Rizzoli, 1991,
p. 326.
91
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
no scozzese. Giacomo I Stuart è fuori dai giochi di questo confronto fra donne, ma nella sua immagine di re, si protrae, in
qualche modo, l’immagine della Sovrana che lo ha preceduto:
“La regina è morta. Lunga vita al re”. Non c’è interruzione tra i
successori dello stesso regno e il corpo politico di Giacomo I è il
proseguimento di quello di Elisabetta: non importa se sia uomo
o donna; il sovrano è una creatura asessuata, che si identifica con
il suo ruolo pubblico di regnante per diritto divino.
Ma torniamo alle due donne, che sono il soggetto di questo
saggio e cerchiamo di analizzare altri elementi che le accomunano. Cleopatra fu una donna dal fascino irresistibile e con una
straordinaria capacità di comunicazione; sapeva parlare molte
lingue, scrisse diversi testi e fu anche amante delle arti37. Data la
sua posizione di regina di un Paese importante, era anche molto
corteggiata dai suoi rivali e dagli uomini del suo stesso regno, aveva un seguito numeroso che l’accompagnava nei suoi spostamenti e che si divertiva con lei nelle feste di corte. Ma tutte queste caratteristiche sono vere anche per Elisabetta d’Inghilterra, la
quale, a sua volta, non era una donna di straordinaria bellezza,
ma poteva contare su un fascino difficilmente uguagliabile, che
ammaliava tutti coloro che entravano in contatto con lei.
Anch’ella sapeva parlare correttamente e fluentemente molte lingue, ed era amante e protettrice delle arti, nonché autrice di famose poesie e preghiere scritte sia in inglese, sia in francese.
Come si è già avuto modo di dire, le due donne hanno molti elementi in comune, ma in queste pagine ci si occuperà solo di
come esse abbiano trovato modo di garantirsi vita eterna, identificandosi in una divinità pagana e di come questa loro aura di sacralità si concretizzasse in manifestazioni pubbliche, che le mettevano a contatto con i prprio sudditi. In particolare, due sono i
momenti nella tragedia shakespeariana che hanno attirato la mia
attenzione e che qui verranno affrontati in un confronto con si37
M. CLAUSS, Cleopatra, p. 18.
92
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
tuazioni analoghe nell’epoca elisabettiana. Si tratta del passo in
cui Enobarbo racconta l’arrivo di Cleopatra a Tarso, dove incontra per la prima volta Antonio, e del passo in cui ci viene riportato come Cleopatra e Antonio si presentino alla folla riunita davanti al palazzo reale di Alessandria vestiti negli abiti simbolici di
Luna e Sole.
Cominciamo dal primo di questi due passi:
Enob: The barge she sat in, like a burnished throne,
Burned on the water; the poop was beaten gold;
Purple the sails, and so perfuse that
The winds were love-sick with them; the oars were silver,
Which to the tune of flutes kept stroke, and made
The water which they beat to follow faster,
As amorous of their strokes. For her own person,
It baggered all description: she did lie
In her pavilion, cloth-of-gold of tissue,
O’erpicturing that Venus where we see
The fancy outwork nature. On each side her
Stood pretty dimpled boys, like smiling cupids,
With divers-coloured fans, whose wind did seem
To glow the delicate cheeks which they did cool,
And what they undid did.
Agr:
O, rare for Antony!
Enob: Her gentlewomen, like the Nereides,
So many mermaids, tended her i’th’ eyes,
And made their bends adornings. At the helm
A seeming mermaid steers. The silken tackle
Swell with the touches of those flower-soft hands
That yarely frame the office. From the barge
A strange invisible perfume hits the sense
Of the adjecent wharfs. The city cast
Her people out upon her, and Antony,
Enthroned i’th’ market-place, did sit alone,
Whistling to th’air, which, but for vacancy,
Had gone to gaze on Cleopatra, too,
93
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
And made a gap in nature.
(II, ii, 201-228)
Questi versi, resi famosi anche dalla parodia che T.S.Eliot ne
fece in A Game of Chess, la seconda sezione della Waste Land
(1922), descrivono, come già detto, il primo incontro di Antonio
e Cleopatra, avvenuto a Tarso nel 42 a.C.. Cleopatra arriva
all’appuntamento su una ricca imbarcazione e, ad aspettarla, trova una folla che accorre a salutarla sulle sponde del fiume Cidno;
Antonio, invece, attende nella piazza del mercato con
l’indifferenza di chi si ritiene superiore. Le parole di Enobarbo
non lasciano dubbi sul fascino che Cleopatra esercita sin
dall’inizio su Antonio, il quale, essendo sensibile alla bellezza
femminile, si lascia facilmente convincere ad essere ospite sulla
sua galea e lì paga abbondantemente pegno per l’errore commesso.
Tuttavia, ciò che più interessa di questa scena è il modo in cui
Cleopatra viene descritta e portata in trionfo: questi versi, infatti,
la rappresentano trionfante tra il suo seguito, immersa nel fasto e
sicura del suo potere di donna ammaliatrice e di Regina d’Egitto.
Il Paese, infatti, era stato ridotto a poco più di una provincia romana quando Cleopatra era salita al trono, grazie a lei aveva assunto un ruolo chiave nella politica romana in Oriente38. Quindi,
se Antonio ostenta la sicurezza di chi ha conquistato e sottomesso, ella deve mostrare di non essere da meno e di rappresentare
una terra ricca e prospera, non solo dal punto di vista politico ed
economico, ma anche culturale e scientifico.
La descrizione di Enobarbo è ben strutturata e fornisce una
chiara immagine al suo interlocutore, che è informato prima del
vascello che la trasporta, poi di Cleopatra stessa ed infine del seguito che l’accompagna. Il barge sul quale ella si trova è una “large ornamental rowing-boat for ceremonial occasions”39, che in38
39
Ibi, p. 26.
Oxford Advanced Learners Dictionary, O.U.P., Oxford, 1990.
94
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
troduce in una dimensione mitologica o, comunque, altra dalla
quotidianità del mondo reale. L’imponenza e la maestosità di
questo evento sono rafforzati dalla similitudine iniziale, ‘like a
burnished throne’ (v. 201), che comunica la funzione di questa
imbarcazione: Cleopatra arriva su un vascello che, in realtà, è un
trono e, come tale, è caratterizzato da elementi che evocano la
regalità. Il primo di questi è la poppa che ‘was beaten gold’ (v.
202), poi ci sono le vele color purple (v. 203) e i remi che ‘were
silver’ (v. 203): oro, porpora e argento sono le peculiarità che
Enobarbo elenca e che, a livello simbolico, rimandano all’idea di
regalità. L’oro è il metallo nobile per eccellenza e, proprio perché
il più prezioso, è abbinato al Sole, che nel Rinascimento non solo
indicava il pianeta più importante, ma era collegato ad Apollo ed
era un modo per indicare il sovrano. In questa descrizione, però,
all’oro si aggiunge l’argento che, da sempre, è il colore della Luna. La Luna, a sua volta, non è che un altro nome di Diana, la
sorella gemella di Apollo e, in Inghilterra, il nome che i poeti attribuivano ad Elisabetta. La questione, ne consegue, è ben più
complessa di quanto non possa sembrare ad una prima lettura:
oro e argento, Sole e Luna costruiscono la regalità di Cleopatra,
che qui appare nelle connotazioni di una regina elisabettiana, ossia di un’unica creatura, che racchiude in sé i principi mascolino
(Apollo) e femminino (Diana) dell’umanità. Cleopatra diventa
l’ennesima evocazione di Elisabetta I, la cui immagine era ben
nota al drammaturgo di Stratford e che la tradizione letteraria
dipingeva spesso come sintesi delle migliori qualità di tutti gli dei
pagani: ella poteva contare sulla “giustizia di Astrea, la regalità di
Giunone, la saggezza di Minerva, la tempra di Marte, la bellezza
di Venere, la castità di Diana e lo splendore di Apollo.”40 Elisabetta è tutte queste cose, ma soprattutto è la sintesi dei due principi fondamentali del mondo: essendo una donna ingabbiata in
un ruolo maschile, ella è contemporaneamente Diana e Apollo,
40
C. VALLARO, La simbologia lunare, p. 115.
95
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
compresa in una unicità che è senza tempo e tipica di ogni monarca. Per gli uomini del Rinascimento era quasi impossibile non
vedere lo stretto legame tra un sovrano e il dio Apollo: egli era a
capo del suo Stato proprio come, secondo la catena dell’essere e
la rigida struttura dell’universo medievale, il Sole, il pianeta cui il
dio era sempre abbinato, era il pianeta più importante
dell’universo. Esso illumina la terra confortandola con il suo calore e protegge la vita dei suoi abitanti: questi ultimi sono legati
al sole come i sudditi lo sono al loro sovrano, poiché entrambi
vedono in chi li protegge la fonte e la garanzia della propria esistenza. Senza il sole e il suo percorso nel cielo non ci sarebbero
le stagioni e, quindi, la terra non darebbe frutti; così accade nello
Stato, quando manca il capo del corpo politico, cioè il re. Elisabetta, dunque, in quanto regina, Unta del Signore, non può fare
a meno di vedere la propria immagine inseparabile dal Sole, ma
allo stesso tempo, nemmeno dalla Luna, che del Sole è sorella.
Essi sono i luminari della volta celeste, si susseguono giorno dopo notte e notte dopo giorno in un ritmo senza fine, che scandisce la vita terrena. I due fratelli sono legati anche nella mitologia
classica, che li vuole figli gemelli di Latona, abbinati, come si è
già avuto modo di dire, ai principi mascolino e femminino
dell’universo. E così, nella fase conclusiva del Rinascimento, chi
meglio di Elisabetta poteva incarnare questa lezione e farsi portavoce di un’immagine che, proprio perché collegata a due corpi
celesti, avrebbe superato la prova del tempo?
Ma torniamo alla scena Seconda del Secondo atto della tragedia e procediamo con il discorso di Enobarbo. Degli elementi da
lui menzionati, rimane ancora il colore porpora, che nel XVI secolo era tradizionalmente associato all’idea di dignità politica41 e
regalità. Ad Enobarbo e, quindi, a Shakespeare, bastano pochissimi versi per presentare Cleopatra nel suo ruolo di regina, prima
41
D.C. ALLEN, Symbolic Color in the Literature of the English Renaissance, in
Philological Quarterly, 15, 1936, p. 89.
96
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
che di donna, conferendole quell’aura di sacralità che avvolgeva
il monarca rinascimentale.
Stabilita questa premessa, il narratore procede con il suo
flashback e passa alla descrizione della Regina, ‘her own person’
(V. 207), con la premessa che ‘it baggered all description’ (v. 208).
Cleopatra compare sdraiata nel suo baldacchino dorato e colpisce per la sua bellezza, di gran lunga superiore a quella di Venere. Molto probabilmente ella vestiva abiti antichi e preziosi che,
come prevedeva la moda del tempo e del luogo, lasciavano scoperta buona parte del suo corpo, mettendone in risalto la sensualità. A parte questo ultimo particolare, che una lettura elisabettiana avrebbe interpretato come conferma della sua lascivia, Cleopatra è inserita in una dimensione mitologica, che vuole accostarla a Venere e sembra richiamare la nascita di questa dea, così
come Botticelli l’aveva raffigurata nella sua famosa tela di fine
Quattrocento. Con questo non si vuole dire, né insinuare, che
Shakespeare conoscesse questo capolavoro, ma si cerca solo di
dimostrare come la descrizione di Cleopatra rimandi alla dimensione mitologica e, in particolare, possa essere avvicinata a Venere per femminilità e bellezza. L’artista fiorentino raffigura Venere
atteggiata a Venere pudica 42, in piedi su una conchiglia spinta a
riva da Zefiro ed Aura che, soffiando alla sua destra, la conducono verso l’approdo.
42
Botticelli, a cura di C. BO, in I Classici dell’arte, n. 6, Milano, SkiraRizzoli, 2003, p. 134.
97
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
Fig. 3. Sandro Botticelli, La nascita di Venere, 148443.
Benché la Venere rinascimentale incarni un ideale di bellezza
ispiratrice di nobili ed elevati pensieri44 ed abbia fattezze rispondenti ai canoni estetici dell’epoca e, quindi, fosse l’opposto di
Cleopatra, le parole di Enobarbo ed il quadro di Botticelli raffigurano due scene simili. Anche Cleopatra come Venere è prossima all’approdo, dove c’è qualcuno che l’attende premurosamente; il suo vascello è fortemente allusivo della sua regalità così
come la conchiglia lo è della femminilità intima; il vento la spinge verso la riva proprio come accade a Venere. Il vento, e quindi
l’aria, è il primo elemento che queste due figure condividono.
Nel quadro, infatti, il dolce alito di Zefiro, unito ad Aura in una
sorta di tautologia pittorica, soffia su Venere, mentre ella sta per
toccare la terra ferma; nel dramma il vento che gonfia le vele
43
Ibidem.
Botticelli, a cura dell’Istituto Geografico De Agostani, I grandi pittori. La
vita, le opere, la tecnica, n. 32, Novara, Istituto Geografico de Agostini, 1997,
p. 236.
44
98
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
(vv.203-204 nella battuta di Enobarbo) solletica i sensi di chi assiste alla scena, diffondendo i dolci ed inebrianti profumi di cui
l’intero corteo è intriso. Entrambe le figure sono sospese tra aria
e acqua nel loro viaggio verso la terra, che costituisce il loro punto di arrivo. L’unico elemento, tra i quattro fondamentali, che
non appartiene loro è il fuoco, che è escluso dalle due descrizioni. La leggerezza dell’aria allude alla loro essenza celeste e, quindi, alla loro natura semi-divina, mentre l’acqua è il simbolo esplicito della loro femminilità: Venere e Cleopatra sono le due
facce della stessa medaglia, la perfezione e la non-perfezione della donna nei confronti di Dio e dell’uomo, proprio come la vedevano i trattatisti e i predicatori ricordati nella prima parte di questo capitolo. Le due figure, quindi, arrivano seguendo la corrente
del mare e del fiume, corsi d’acqua sotto l’influenza di DianaLuna, il corpo celeste che sovrintende alle sorgenti d’acqua e regola il flusso delle maree. L’acqua, perciò, è l’elemento che domina la scena e che esalta Cleopatra come donna. Il concetto è
ribadito nella terza parte del racconto di Enobarbo, là dove
l’attenzione passa alle gentildonne vicino a lei. Esse sono a loro
volta introdotte da una similitudine che le accosta alle Nereidi, le
mitologiche ninfe del mare, facendone ‘so many mermaids’ (v.
217). E le sirene pur essendo donne solo per metà, hanno una
voce soave che, come ben sapeva Ulisse, irretisce gli uomini che
l’ascoltano. Cleopatra è circondata da sirene e cupidi che, nella
loro sessualità incompleta, mettono maggiormente in risalto la
sessualità netta, ben definita e prorompente di Cleopatra.
Letto in questo modo, lo scambio di battute fra Enobarbo e
l’incredulo Agrippa non è altro che la descrizione di un corteo
trionfale, uno dei tanti che Shakespeare doveva aver visto a Londra verso la fine del XVI secolo. Nel suo caso, però, al centro
della scena non c’è una donna dal fascino esotico, ma una regina
ambiziosa e vanitosa: Shakespeare non doveva aver dimenticato
“Elizabeth arriving at St Paul’s in her ‘chariot-throne’, or travelling from her palace of Whitehall to her city of London in her
99
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
royal barge, with its gilt prow, its cushions of cloth of gold, its
tapestries – and ‘with a band of music, as usual when the Queen
goes by water’”45. L’acqua è, dunque, un elemento ricorrente anche nell’immaginario che riguarda Elisabetta I, la quale, come la
letteratura dell’epoca insegna, vede esaltata la propria femminilità nell’associazione con Diana, Cinzia ed altre divinità che, pur
non essendo legate direttamente all’acqua, incarnano aspetti diversi del principio femminino.
Ma, per tornare alla scena del corteo trionfale, c’è un quadro
eseguito intorno al 1600 ed attribuito a Robert Peake dal titolo
Queen Elizabeth Going in Procession to Blackfriars in 160046. Come
dice Roy Strong, “This is Gloriana in her sunset glory, the mistress of the set piece, of the calculated spectacular presentation
of herself to her adoring subjects”47: è la regina non lontana ormai dalla propria morte, che vuole regalare ai suoi sudditi un’
immagine di se stessa come semper eadem, costante nella bellezza
fredda e distaccata del mask of youth.
45
H. MORRIS, Queen Elizabeth I “Shadowed” in Cleopatra, in The
Huntington Library Quarterly, vol. 32, n. 3 (May 1969), p. 277.
46
R. STRONG, The Cult of Elizabeth. Elizabethan Portraiture and Pageantry,
London, Pimlico, 1999, p. 25. Si rimanda a questo testo per una spiegazione
esauriente ed esaustiva del dipinto.
47
Ibi, p. 17.
100
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Fig. 4. Robert Peake, Queen Elizabeth going in Procession to Blackfriars in 1600, c. 160048.
In questo quadro Elisabetta siede su un trono posto sotto ad
un baldacchino ed anche questo particolare l’avvicina alla Cleopatra nella battuta di Enobarbo: il baldacchino, in realtà, è un
canopy of state, oggetto piuttosto ricorrente nella ritrattistica elisabettiana e rinascimentale in genere. Simbolo della monarchia
esso ha la funzione di indicare il sovrano e di coprirne e proteggerne la persona non solo nelle sedute ufficiali di corte, ma anche
e soprattutto nelle manifestazioni e processioni all’aperto. “She
did lie in her pavilion, cloth-of-gold of tissue” (vv. 208-209): il
pavilion in tessuto dorato cui fa riferimento Enobarbo non è altro
che un canopy of state, ad ulteriore conferma della regalità di
Cleopatra.
Mentre in altri ritratti Elisabetta compare da sola, in questo si
trova circondata dalle dame del suo seguito e da una serie di per48
L’immagine è presa da R. STRONG, The Cult of Elizabeth. Elizabethan
Portraiture and Pageantry, pp. 18-19.
101
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
sonaggi della corte. Proprio come Cleopatra nel suo vascello, la
Sovrana è qui al centro della scena ed occupa la parte centrale della tela: ella non è sospesa tra aria a acqua, come succedeva nella
descrizione della Regina d’Egitto, ma è tra la sua gente, probabilmente in un momento di festa, o in una delle tante occasioni in
cui amava farsi vedere dalla folla dei suoi sudditi, le cui ricche vesti
tradiscono l’appartenenza ad un alto rango sociale: Elisabetta è
portata in trionfo da alcuni personaggi che probabilmente stanno
festeggiando qualche importante e festosa ricorrenza. La parte più
interessante di tutto il quadro, infatti, è proprio quella della procession, di cui qui è ritratto il segmento più importante, quello della
Regina preceduta dai cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera49.
Benché l’occasione di questo corteo non sia un fatto che riguardi
direttamente Elisabetta, ciò che si vede sulla tela è la versione elisabettiana di un trionfo imperiale romano50, come quello di Cesare
raffigurato da Mantegna, dove l’eroe romano è circondato da uomini che portano le sue insegne e ne ricordano il valore militare. Il
corteo si snoda per le vie di una città reale, riconoscibile dai suoi
monumenti, proprio come il trionfo elisabettiano si muove su uno
sfondo che riproduce i possedimenti del Conte di Worcester, il vero protagonista della tela.
Elisabetta portata in trionfo come Cleopatra e come Cesare:
l’Inghilterra di fine Cinquecento emula la Roma dei Cesari e si
impossessa dei suoi trionfi in una sorta di continuità senza tempo. Passato e presente si fondono un’altra volta e il loro accordo
ha il sapore dell’Impero di cui, per tradizione, i Tudor si ritenevano i legittimi fondatori. Il rimando ad un destino così importante nella storia dell’Inghilterra è evidente sin dall’inizio del regno di Elisabetta ed in particolare dal giorno in cui ella aveva fatto il suo ingresso a Londra prima dell’incoronazione. In
quell’occasione, come si è già visto, Elisabetta assistette anche a
49
50
R. STRONG, Gloriana, p. 154.
Ibi, p. 155.
102
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
delle rappresentazioni teatrali beneauguranti, che la salutarono
come nuova regina. L’idea del trionfo, però, è ancora più evidente nel corteo che animò Londra proprio in occasione della sua
incoronazione a Westminster nel mese di gennaio del 1559:
Fig. 5. Coronation Procession of Queen Elizabeth I, 155951.
51
L’immagine è presa da C. HULSE, Elizabeth I, p. 37.
103
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
L’immagine non riguarda che un segmento del lungo corteo,
ma è quanto basta per lo scopo che ci siamo prefissi in queste
pagine. Elisabetta è comodamente seduta su un trono posto sotto un baldacchino, che è trainato da cavalli parati a festa. Il corteo regale passa per le vie della capitale, proprio come la barca di
Cleopatra risaliva la corrente del fiume Cidno: sul ciglio della
strada, così come sulle rive del fiume, la gente si assiepa curiosa,
per vedere il personaggio principale dello spettacolo. Vestita nei
lussuosi e preziosi abiti dell’incoronazione, Elisabetta ha il fascino di una creatura che, seppur vicina alla gente, è lontana dalla
dimensione quotidiana di questa: è la donna che Dio ha scelto
per governare il Paese, è l’Unta del Signore, il che fa di lei una
sorta di essere asessuato, un archetipo che ha nelle proprie mani
il destino del suo popolo.
Quando venne allestito questo pageant, Shakespeare non era
ancora nato e, quindi, doveva averne sentito parlare nei racconti
di chi aveva vissuto quell’esperienza, oppure di chi poteva permettersi la possibilità di confrontare quel primo corteo trionfale
di Deborah, Diana con quelli più recenti, gli ultimi del lungo regno di Elisabetta: le occasioni di vedere la Regina e il suo numeroso seguito non furono di certo poche. Oltre alle occasioni ufficiali, Elisabetta si muoveva volentieri in lunghi cortei per le vie di
Londra o sul Tamigi, per non parlare dei molti progresses compiuti durante il suo regno, e che la portarono in zone diverse del
Paese. Come Cleopatra, ella poteva viaggiare via terra, e questa
era la soluzione più rischiosa data la precarietà delle strade, o via
fiume; infatti, il Tamigi ed i suoi affluenti erano tutti navigabili
ed agevolavano gli spostamenti tra una residenza reale e l’altra,
rendendoli più sicuri.
Gli ultimi decenni del secolo sono i più interessanti anche sul
piano letterario, iconografico e mitologico. Il legame di Elisabetta con la Luna è, infatti, una prerogativa di questo periodo, soprattutto dopo la sconfitta della Spagna e i tanti traguardi raggiunti in politica interna, estera ed economica. I ritratti in cui ella
104
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
condivide con Diana le sue fattezze peculiari, sono come delle
scene statiche di un pageant, scene sempre diverse, ma pur sempre uguali, in cui Elisabetta è la regina vergine che guida, da sola, l’Inghilterra e il suo nascente, vasto impero coloniale.
Fig. 6. Cornelius Vroom, Elizabeth as Diana, data ignota52.
Del dipinto qui riprodotto si conosce ben poco, ma lo sguardo
fisso sull’osservatore, quasi a volerlo sfidare, e i lineamenti in52
L’immagine è presa dal sito www.sundown.pair.com/Sharp/Fair%2520Woman/Photo10.jpg&imgrefurl.
105
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
confondibili del volto non lasciano dubbi sul fatto che si tratti di
Elisabetta Tudor. Munita di arco e frecce proprio come vuole la
tradizione, la Sovrana inglese è ritratta come Diana, la vergine
dea della caccia e dei boschi. Accompagnata dal suo segugio, il
cui sguardo dolce e mansueto sembra contrastare con la determinazione che emerge dallo sguardo e dalla postura della dea,
Diana compare seduta su un trono e le sue vesti disordinate lasciano intendere che, forse, si è appena conclusa un’importante
battuta di caccia. Sullo sfondo, un velo svolazzante che, come
spesso accade nella ritrattistica elisabettiana, serve a delineare
una cornice attorno alla figura di Elisabetta e a farle assumere significati diversi.
Ma torniamo alla Coronation Procession e al fatto che possa essere letta come un pageant, la rappresentazione allegorica
dell’incoronazione del sovrano. In effetti, a ben vedere, tutte le
cerimonie che riguardano o toccano la persona del re hanno un
importante significato simbolico e allegorico, proprio come succedeva nel teatro medievale con i morality plays. La stessa cosa
vale per un passo dell’Antony and Cleopatra, il secondo scelto per
questo saggio e di cui si è già trattato sopra. È il passo in cui, ancora una volta, viene raccontato come Antonio trascorresse la vita ad Alessandria e come egli fosse non solo il conquistatore di
quelle terre, ma anche il padrone del cuore di Cleopatra.
Cæs. Contemning Rome, he has done all this, and more,
In Alexandria. Here's the manner of't:
I' th’ market-place, on a tribunal silvered,
Cleopatra and himself in chairs of gold
Were publicly enthroned. At the feet sat
Cæsarion, whom they call my father's son,
And all the unlawful issue that their lust
Since then hath made between them. Unto her
He gave the stablishment of Egypt; made her
Of lower Syria, Cyprus, Lydia,
Absolute Queen.
106
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Mæc. This in the public eye?
Cæs. I' the common showplace, where they exercise.
His sons he there proclaimed the kings of kings:
Great Media, Parthia and Armenia,
He gave to Alexander; to Ptolemy he assigned
Syria, Cilicia and Phoenicia. She
In th’ habiliments of the goddess Isis
That day appeared, and oft before gave audience,
As 'tis reported, so.
(III, vi, 1-19)
Le parole di Cesare Ottaviano aprono la scena introducendo
lo spettatore nel discorso che è ormai iniziato: l’argomento della
conversazione tra Ottaviano e Mecenate sono, una volta di più,
Antonio e Cleopatra, il cui comportamento è sinonimo di scandalo per la fredda e calcolata razionalità di Roma e di chi la rappresenta. Ottaviano descrive il rivale in un momento particolare
della sua vita: Antonio ha appena riportato un’importante vittoria sui Parti e sta gustando il sapore del successo, nominando i
figli avuti da Cleopatra sovrani delle terre conquistate. La scena
descritta è, come si diceva, la scena statica di un pageant, in cui i
personaggi sono tutti vestiti allegoricamente e sono l’immagine
di Iside e del Sole. Antonio e Cleopatra siedono l’uno al fianco
dell’altra su troni dorati, a loro volta collocati su un palco
d’argento: la coppia incarna quell’idea di regalità che nel Rinascimento andava per la maggiore e che i trattatisti e predicatori
protestanti concepivano come l’unica accettabile. È evidente, infatti, che Antonio ha qui il ruolo principale di sovrano assoluto,
che, davanti alla consorte compiacente, distribuisce terre a lei
stessa e ai loro figli. Egli è l’immagine della virilità: bello, forte e
potente, vittorioso sul nemico, che adesso vede sbriciolarsi i propri possedimenti, equo nella distribuzione dei suoi domini e saggio nell’assegnarli a persone di sua fiducia. È Apollo, il dio che
meglio di tutti sa incarnare questi aspetti maschili e che, meglio
di tutti, sa rappresentare un grande re. Cleopatra, invece, è la
107
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
donna che, come vuole la tradizione di John Knox, accetta la sua
subordinazione al vero e solo sovrano, che è il marito. Antonio e
Cleopatra erano sì marito e moglie secondo il rito egizio, ma agli
occhi di Roma e delle sue leggi il loro matrimonio era assolutamente privo di validità giuridica, e quindi nullo. Agli occhi
dell’Egitto e della popolazione di Alessandria, invece, la loro unione non solo aveva un senso ed era stata benedetta dagli dei
con una numerosa prole, ma aveva anche un significato simbolico, che rimandava allo sposalizio di Sole e Luna.
Per la religione egizia questi due luminari, che in realtà si
chiamano Osiride ed Iside, sono fratelli uniti da un profondo legame di affetto e di destino, e corrispondono, come nella mitologia greco-romana, alle figure del re e della regina. Quindi, non
stupisce che compaiano di nuovo l’oro e l’argento a sottolineare
il ruolo che i nostri personaggi stanno recitando: l’oro è il metallo del Sole e, quindi, di Osiride-Antonio, l’argento lo è della Luna e, quindi, di Iside-Cleopatra. Questa volta, a differenza della
scena ricordata prima, la figura della regalità si sdoppia nelle due
metà che la compongono: il principio mascolino e il principio
femminino, infatti, non sono più compresi in un unico corpo,
quello di Cleopatra.
Ma torniamo alla scena nel suo insieme: scena che, come si è
detto, è evocativa della mise-en-scène elisabettiana. Gli attori recitano su un palcoscenico, che è posto tra terra e cielo e che rappresenta, esso medesimo, la terra dei mortali. I personaggi sono
figure allegoriche, che stanno comunicando qualcosa agli spettatori: questi non sono solo gli Egiziani, che stanno ascoltando le
decisioni di Antonio, ma gli Elisabettiani, che assistono alla performance e che, sebbene consapevoli di come lo spazio del palcoscenico rappresenti una realtà simbolica e altra da quella della
Londra di fine XVI secolo, intuiscono che l’intricata storia rappresentata deve avere qualche cosa a che fare con la storia del
proprio Paese. Ora, se Cleopatra è fuor di dubbio Elisabetta I,
chi è Antonio? Chi potrebbe essere, se non uno dei favoriti di
108
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Sua Maestà? Quando Shakespeare scrisse l’Antonio e Cleopatra,
Elisabetta era già morta da qualche anno, ma la sua travagliata
vicenda con Essex non era stata di certo dimenticata. Il conte di
Essex, l’ultimo dei favoriti di Sua Maestà, era stato decapitato
per non averne saputo rispettare gli ordini: aveva cercato di sedare le ribellioni in Irlanda e di garantire al governo inglese un dominio tranquillo in quelle terre, ma aveva peccato di ambizione e
non aveva accettato i propri limiti. Disobbediente ed insubordinato, Essex sembra ricordare, anche se un po’ alla lontana,
l’Antonio della tragedia shakespeariana, irrispettoso delle leggi di
Roma, ambizioso nella sua corsa verso il potere e la fama. Entrambi subiranno una triste battuta d’arresto: Essex verrà chiuso
nella Torre ed Antonio finirà i suoi giorni sconfitto ed umiliato
dalla milizia di Ottaviano ad Azio.
La congiura ordita da Essex contro Elisabetta e che mirava a
mettere Giacomo VI di Scozia sul trono inglese, sembra richiamare i tranelli ideati da Antonio per far cadere Ottaviano nelle
sue reti: ma il destino non era dalla loro parte ed ebbe la meglio.
Alla fine restano l’immagine di un uomo, sia egli Essex o Antonio, che è lo zimbello di se stesso, deriso com’è dal fato e dalla
sua smoderata sete di successo, e l’immagine di una donna, Elisabetta o Cleopatra, capace di tenere a bada il suo uomo, che è
una pedina nella partita decisiva da lei condotta. Elisabetta sopravvive ad Essex, proprio come Cleopatra sopravvive, seppur
per poco, a Marcantonio: ferme entrambe nel loro ruolo di regine e di donne determinate.
Nonostante queste somiglianze siano sorprendenti, ciò che
colpisce ancora di più è il fatto che sia Cleopatra sia Elisabetta si
identifichino nella stessa divinità, la Luna, che in tempi remoti
era la Madre Terra, colei che dava la vita alle creature viventi e le
proteggeva dalle avversità. Ma una regina, in fondo, cosa deve
fare, se non proteggere i suoi sudditi dalle invasioni del nemico e
dalle avversità che la Storia porta con sé? Elisabetta e Cleopatra
incarnano anche quella femminilità, che è fatta di sofferenze e
109
Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
tribolazioni, ambizioni e devozione verso i figli: per Cleopatra,
Cesarione e tutti quelli che l’unione con Antonio le ha dato, per
Elisabetta, i suoi sudditi e il suo popolo.
Tuttavia, l’equazione Elisabetta-Cleopatra non basta a completare la lettura di questa tragedia, che potrebbe essere intesa
come una celebrazione della defunta sovrana Tudor. Il pubblico
che assisteva alla rappresentazione dell’Antonio e Cleopatra intuiva la figura di Elisabetta in più di un personaggio e, se uno era
Cleopatra, l’altro doveva per forza essere maschile. Di certo non
poteva essere la contegnosa ed insipida Ottavia che, pur essendo
molto vicina al canone di bellezza stabilito dalle teorie estetiche
del tempo, non aveva la tempra della regina inglese: infatti, aveva
rinnegato se stessa in nome della ragion di Stato, aveva dato ad
Antonio dei figli, era stata, insomma, una moglie singolare, che
aveva difeso il marito, pur sapendo che la tradiva pubblicamente
e senza ritegno. Né avrebbe potuto essere Antonio, alla mercè di
Cleopatra ed infedele alle leggi di Roma. L’unico che poteva avere qualcosa in comune con Elisabetta era Ottaviano che, per come ce lo descrive Shakespeare, era un sovrano saggio e giusto,
che sapeva punire i nemici del suo Paese e proteggere la sua gente. Ottaviano è un uomo e, condividendo il ruolo di Elisabetta,
permette ancora una volta alle due metà del mondo di riunirsi in
un’unica creatura e dare voce ad aspetti diversi e complementari.
Se Cleopatra richiama Elisabetta, perché è una donna, e come
tale è la parte debole ed imperfetta che compone l’umanità, Ottaviano è l’uomo, la parte che maggiormente assomiglia a chi lo
ha creato, dotato di freddo raziocinio e in grado di controllare la
sfera dei sentimenti. È proprio per questo che la sua figura rimanda a quella della Regina Vergine e alla sua capacità di tenere
a bada le proprie passioni e di saper distinguere la sfera privata
della propria vita da quella pubblica. Ottaviano ed Elisabetta sono l’immagine del principe giusto e saggio, di cui tanto si era
parlato nell’Italia delle Signorie e nell’Europa rinascimentale.
Concentrato nel suo mondo di calcoli e strategie, Ottaviano sarà
110
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
il primo Cesare di Roma, proprio come Elisabetta sarà il primo
monarca inglese a capo di un Impero coloniale.
Ma allora, la lezione di Shakespeare non è poi così lontana da
quanto le Sacre Scritture hanno sempre tramandato: l’uomo e la
donna sono creature complementari e la loro unione è la chiave
di lettura della Storia, e di tutto quello che accade in questo
mondo.
111
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Come ogni studioso in materia shakespeariana ben sa, tutti i
drammi del bardo di Stratford poggiano sulle solide basi di lavori
pre-esistenti che, in qualche modo avevano riscosso il favore del
pubblico per il quale erano stati composti e, in molti casi, rappresentati. Non deve stupire se buona parte di questi testi erano di origine italiana e, di traduzione in traduzione, erano arrivati in Inghilterra, dove avevano incontrato un pubblico colto e sofisticato, affascinato dalla cultura del Paese di provenienza, curioso di conoscerne meglio e apprezzarne la grandezza artistica e letteraria. Tra i vari
esempi che si potrebbero citare a sostegno di questa affermazione, la
tragedia di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi costituisce sicuramente il caso più emblematico. La storia originale appartiene ad
una raccolta di novelle di Da Porto, comparsa per la prima volta a
Verona nel 1530, che fu poi ampliata qualche decennio più tardi da
Matteo Bandello con l’aggiunta di dettagli significativi, rintracciabili
anche nel testo di Shakespeare. Evidentemente, la storia dei due
star-crossed lovers fu così apprezzata da essere tradotta in francese da
Boaistuau nel 1559 e, infine, in inglese da Arthur Brooke nel 1562.
Questi trasformò l’originario racconto in prosa in un lungo poema
in versi, infarcito di intromissioni moraleggianti; il suo obiettivo era
condannare l’amore sacrilego di due giovani irresponsabili, nonché
biasimare pubblicamente l’aiuto che un vecchio frate avrebbe dato
loro, celebrando il matrimonio in gran segreto nella propria cella.
Certo, il caso del Romeo and Juliet è significativo, come si è
detto, di quello che si nota leggendo le opere di Shakespeare, il
quale, in molti casi, non si limita a prendere spunto da lavori italiani, ma estende la propria curiosità a testi classici, di autori greci e latini tradotti in inglese grazie alla diffusione del sapere avviata dall’Umanesimo. Sicuramente, lo small Latin and less Greek,
113
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
di cui Ben Jonson parla ironicamente nella sua lettera introduttiva al First Folio del 1623, erano sufficienti al drammaturgo per
muoversi agilmente e senza difficoltà nei meandri delle complicate costruzioni greche e latine di Plutarco, Plauto, Seneca…
Molti dei testi che compongono il sostrato culturale e fontistico
dei drammi shakespeariani furono tradotti da autori elisabettiani,
che con la loro competenza e il loro stile agevolarono la circolazione di questi testi in un mondo assetato di modelli da imitare,
curioso di far propria la storia del mondo allora conosciuto e di
rintracciare le proprie origini in un passato lontano, ma ancora
vivo nelle gesta di grandi condottieri e stimati politici.
La presenza di fonti classiche è, ovviamente, fondamentale per
lo studio dei cosiddetti drammi romani, che Shakespeare compose in un arco di tempo piuttosto ampio, tra gli anni ’90 del XVI
secolo e il primo decennio del secolo successivo. I due drammi
di cui ci si deve occupare nelle pagine che seguono furono scritti
in due momenti distanti all’interno di questo arco temporale,
ma, nonostante questo, dimostrano continuità nelle trame che li
costituiscono e nelle vite dei personaggi che vi prendono parte. Il
Julius Caesar, rappresentato per la prima volta nel Settembre del
1599, fu il dramma che inaugurò il Globe Theatre di Burbage e
dei Lord Chamberlain’s Men, mentre l’Antony and Cleopatra vide la luce nel 1608 e fu l’ultima delle grandi tragedie composte
durante i primi anni del nuovo secolo. La situazione politica instabile, una Sovrana vecchia e bersaglio di complotti che miravano a sostituirla sul trono, un re giovane e straniero, intrighi e
congiure sono sicuramente alcune delle motivazioni che spinsero
Shakespeare a comporre questi drammi negli anni a cavallo tra i
due secoli e che imposero la necessità di vedere rappresentato sul
palcoscenico il destino di un sovrano potente, ma troppo ambizioso e desideroso di fama e gloria. La storia di Giulio Cesare e
di Antonio e Cleopatra insegnò sicuramente qualcosa agli Inglesi
dell’epoca, mettendo sotto i loro occhi il destino crudele di chi il
114
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
potere lo aveva conquistato con la lotta e lo spargimento del sangue dei propri nemici.
Tra i testi che circolavano all’epoca, la storia delle guerre civili
di Roma raccontata da Appiano di Alessandria nel suo An Auncient Historie and exquisite Chronicle of the Romanes warres, both Ciuile and Foren, tradotto da un autore sconosciuto, che lo dedicò a Sir
Christopher Hatton, Capitano della Guardia Reale, e che fu pubblicato da Henry Bynneman a Londra nel 1578, ottenne
l’attenzione di drammaturghi e letterati in genere. Nelle pagine di
Appiano sono narrate le vicende belliche di Giulio Cesare, le sue
lotte per ottenere il potere e sconfiggere i nemici, la sua forza per
affermarsi a Roma e il suo lato più umano e privato, noto a mogli,
amanti ed amici. Calpurnia, Cleopatra, Marc’Antonio ed Ottaviano prendono vita in queste pagine e descrivono la storia di Roma e
la nascita del suo Impero. Appiano è un narratore che non si dilunga molto sui particolari, ma offre una lettura scorrevole e precisa sui fatti che videro Cesare e Pompeo, la congiura delle Idi di
marzo, la morte di Bruto e Cassio, l’intricata storia d’amore di
Antonio e Cleopatra e, quindi, l’affermazione di Ottaviano a Cesare di Roma dopo la battaglia di Azio.
Quasi sicuramente anche Shakespeare conosceva Appiano: nei
suoi drammi ci sono, infatti, echi della Storia di questo Autore
del suo modo di tratteggiare i personaggi.
Tuttavia, le fonti che egli aveva a disposizione erano parecchie e, in buona parte, in traduzione inglese. Ciò significa che
l’Età elisabettiana poteva contare su una serie di testi, scritti
sovente in epoca romana, che proponevano descrizioni
dell’aspetto sia fisico, sia caratteriale dei protagonisti dei
drammi romani di Shakespeare.
Secondo Geoffrey Bullough, autore di interessanti volumi sulle fonti dei drammi shakespeariani1, Cicerone fu uno tra i primi a
1
Narrative and Dramatic Sources of Shakespeare, vol. V, The Roman Plays,
ed. by G. BULLOUGH, London, Routledge and Kegan Paul, 1964.
115
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
parlare di Giulio Cesare nelle sue opere, ad ammirare nel complesso “the younger man’s active genius”, ma ad accusarne anche l’ambizione politica2. Questo diverso modo di porsi nei confronti di Cesare è evidente pure nel dramma shakespeariano, dove i congiurati chiedono a Bruto, loro punto di riferimento, se
coinvolgere Cicerone oppure no:
Cassio: But what of Cicero? Shall we sound him?
I think he will stand very strong with us.
Casca: Let us not leave him out.
Cinna:
No, by no means.
Metellus: O, let us have him, for his silver hairs,
Will purchase us a good opinion,
And buy men’s voices to commend our deeds.
It shall be said his judgment ruled our hands;
Our youths and wildness shall no whit appear,
But all be buried in his gravity.
Brutus: O, name him not; let us not break with him;
For he will never follow any thing
That other men begin.
Cassio:
Then leave him out.
Casca: Indeed he is not fit
(II, i, 141-153)
E così, nel dramma come nella Storia, Cicerone non prese
parte alla congiura, anche se salutò la morte del dittatore come
necessaria per il bene della Res publica romana.
Catullo, in qualità di rappresentante della nobiltà che assisteva
all’ascesa di Cesare e che temeva la perdita dei propri privilegi, non
sembra esprimere opinioni favorevoli alla sua politica, se non verso
la fine della propria vita, quando i toni nei confronti del grande
condottiero romano si erano smorzati. Al contrario, Sallustio rimase
fedele a colui che lo aveva nominato governatore della Numidia,
dopo essere caduto in disgrazia ed essere stato allontanato dal Sena2
Ibi, p.5.
116
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
to per condotta disdicevole. Tra gli altri autori si potrebbero menzionare Livio, sostenitore della Repubblica; Lucano, che nel Bellum
civile rappresenta Cesare come un eroe negativo; Tacito che negli
Annales ripercorre la storia dei Cesari di Roma e dei loro crimini
nella lotta per il potere; Svetonio, Cassio Dione e tanti altri.
Ciò detto, obiettivo di questo saggio è prendere in esame le
Vite parallele3 di Plutarco, e di vedere in che modo abbiano potuto influire sulla composizione dei drammi di William Shakespeare, gentleman.
3
L’immagine riportata sotto è presa da Plutarch of Cheronea, Selected
Lives, p. 4.
117
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Tutta la critica shakespeariana è ormai concorde nel riconoscere in Plutarco e nelle sue Vite Parallele la fonte principale dei
cosiddetti Roman plays, e nel considerare la traduzione di Thomas North come il testo che Shakespeare lesse per la composizione dei suoi drammi. Quando il drammaturgo si mise all’opera
per la stesura del Julius Caesar, in circolazione vi erano due edizioni dello storico greco nella traduzione del North: la prima risaliva al 1579 e la seconda era del 1595. Stando a Tucker Brooke e alla sua edizione del 1909 delle Vite plutarchiane, le due
versioni del North si differenzierebbero solo per una serie di scelte lessicali, che non inciderebbero sul risultato finale del testo. È,
dunque, difficile dire con certezza quale delle due edizioni fosse
stata nelle mani di Shakespeare verso la fine degli anni Novanta.
In un articolo del 1943 Robert Adger Law sosteneva che con ogni probabilità Shakespeare si era avvalso della prima versione,
quella del 1579, chiaramente consultata per la composizione del
Sogno, di qualche anno precedente il Julius Caesar4. In conclusione, se Shakespeare conosceva già quella versione, non aveva nessun motivo di cambiarla con una versione che, sebbene più recente, non aveva differenze sostanziali dalla prima.
Figlio minore di un Barone, Thomas North era nato nel 1535
e, dopo aver studiato a Cambridge, divenne studente di Legge al
Lincoln’s Inn nel 1557. Combatté in Irlanda, nei Paesi Bassi e
nel 1588 prese parte alla difesa del suo Paese, comandando una
truppa di 300 soldati al suo servizio. Venne nominato cavaliere
nel 1596 e morì nel 1603. Il suo interesse per la cultura classica
si manifestò sin dalla sua giovane età e la traduzione delle Vite
Parallele di Plutarco fu il suo terzo lavoro5.
La versione che Shakespeare aveva consultato per i suoi
drammi, però, non era la traduzione diretta da Plutarco, ma,
come era già successo anche con il Romeo and Juliet, la traduzio4
R.A. LAW, The Text of “Shakespeare’s Plutarch”, in The Huntingdon
Library Quarterly, vol. 6, n. 2, 1943, p. 203.
5
Plutarch of Cheronea, Selected Lives, vol. I, p. XVI.
118
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
ne da una versione francese del 1559 di Jacques Amyot. A giudicare dagli errori presenti nel testo, North non doveva sapere
molto bene nemmeno il francese: infatti, sbaglia la traduzione di
alcuni pronomi, confonde omonimi, non riconosce alcuni giochi
di parole e, infine, non avendo una conoscenza approfondita del
mondo classico, non comprende la sottigliezza di alcune espressioni che, di conseguenza, vengono tradotte nel modo sbagliato.
L’omissione di parole, per non dire di intere frasi, conferma che
North aveva eseguito il suo lavoro in fretta e gli aveva dedicato
scarsa attenzione6.
Il testo a sua volta maneggiato da Shakespeare proponeva,
dunque, delle differenze rispetto all’originale greco, differenze
che, però, non risultarono significative nella stesura dei suoi
drammi.
Detto questo, che cosa raccontavano le Vite di Plutarco e in
che modo furono utilizzate dal drammaturgo? In primo luogo,
Plutarco racconta la biografia dei grandi personaggi, mentre
Shakespeare si concentra solo su un aspetto della medesima,
quella che descrive la disfatta e la morte dell’eroe. I suoi obiettivi
lo portano ad attingere a più di una Vita per ognuno dei drammi
romani, prendendo ciò che lo aiuta a delineare in modo più incisivo i tratti di un personaggio, a definire meglio un contesto e a
descrivere con maggior precisione una determinata situazione.
Le tragedie di Shakespeare, perciò, dimostrano una confidenza
con il progredire del tempo che in Plutarco non c’è, poiché nei
drammi la Storia si deve adeguare alla vicenda rappresentata:
Giulio Cesare festeggia il suo trionfo su Pompeo solo il giorno
prima della sua morte, la battaglia di Filippi sembra avere luogo
poco dopo l’uccisione di Cesare, l’amore di Antonio e Cleopatra
si colloca in un arco di tempo che non è definito, il cui inizio fa
addirittura parte di un passato ormai quasi mitico. La dimestichezza con il tempo è un elemento che si incontra in tutta la
6
Ibi, p. XII.
119
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
produzione teatrale di Shakespeare: essa indica la sua padronanza delle regole del teatro, ma non il rispetto dell’unità di tempo
teorizzata da Aristotele nella Poetica. La sua genialità lo porta ad
adattare le unità di luogo tempo e azione alle esigenze di drammaturgo e così, da una parte abbiamo il Giulio Cesare, che è ambientato a Roma, Sardi e Filippi, e dall’altra l’Antonio e Cleopatra, che si divide tra Roma, Alessandria ed Azio; da un lato il
corso della Storia è adeguato alle regole del teatro, dall’altro c’è
un doveroso rispetto per l’ordine cronologico dei fatti che vengono raccontati. Shakespeare, dunque, non stravolge la Storia,
ma la adegua ai tempi di una rappresentazione teatrale in una
playhouse elisabettiana, tra il chiasso di un pubblico irriverente e
la luce naturale del sole in una Londra caotica e maleodorante;
ma, soprattutto, l’adatta alla struttura del suo dramma che, come
voleva la tradizione classica, era costruito su cinque atti e doveva
contenere il punto cruciale della vicenda nel terzo atto, quello
centrale. L’epilogo della vita di Cesare, dunque, ha bisogno di
essere introdotto dal trionfo scomodo di questo personaggio, odiato da numerosi rivali invidiosi, poi richiede di raggiungere il
suo clou, che coincide appunto con l’assassinio, infine esige una
conclusione che è costituita dal messaggio del drammaturgo alla
sua audience.
Dal momento che i due drammi presi in esame sono complementari, e il secondo è la continuazione del primo, si è ritenuto
meglio procedere, distinguendoli ed affrontandoli uno alla volta.
Si comincia, quindi, con il Julius Caesar e si prosegue con
l’Antony and Cleopatra.
1. Julius Caesar
Tre sono le Vite sicuramente consultate da Shakespeare per la
composizione del Julius Caesar: le Vite di Cesare, Bruto e Antonio, utilizzate solo in parte rispetto alla fonte. Alessandro Serpie-
120
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
ri7 spiega come le Vite di Cesare e Bruto siano una narrazione,
spesso parallela, degli stessi eventi fino ai primi sviluppi politici
seguiti all’uccisione di Cesare, ed aggiunge che di certo Shakespeare lavorò su entrambe, anche quando si trovò di fronte a sequenze del tutto parallele8.
Per quanto riguarda la Vita di Cesare, Shakespeare lavorò sostanzialmente sull’ultima parte, ma non ci sono dubbi sul fatto
che egli dovette comunque leggerla tutta per poter delineare bene il personaggio e il suo carattere, negli aspetti positivi e negativi. Come dice Serpieri, Cesare è
la figura di un uomo legato al popolo e ai suoi soldati, grande
condottiero, attore e regista ispirato del mito personale che va
costruendo negli anni, politico capace e interessato al benessere
di tutti; ma anche individuo dominato da una ambizione insaziabile, da un vero e proprio démone che lo fa vivere sempre nel
segno della fama, insoddisfatto del già compiuto e teso a nuove
imprese e a nuovi conflitti, ossessionato dalla vita di Alessandro
Magno che per lui è il paradigma dell’eroico, da imitare e superare9.
La vita di Cesare è fatta di scontri militari continui, inseriti
nella grande epopea che lo vide protagonista dell’ampliamento
dei confini del dominio romano, e di scontri politici con i rivali,
che non volevano lasciargli il comando incondizionato di Roma.
Tra tutte le guerre che Cesare combattè, Shakespeare sceglie di
iniziare da quella che si concluse con la sua vittoria a Munda nel
45 a.C. e che lo portò in trionfo per le vie di Roma nell’ottobre
di quello stesso anno: il dramma, infatti, si apre sui due tribuni
della plebe, Flavio e Marullo, che, interrogando alcuni passanti
sul motivo di tanta letizia, scoprono ed informano, quindi, il
7
A. SERPIERI, K. ELAM, C. CORTI, Nel laboratorio di Shakespeare. Dalle
fonti ai drammi. Vol. IV, I drammi romani, Parma, Pratiche editrice, 1988.
8
Ibi, p. 17.
9
Ibi, pp. 17-18.
121
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
pubblico che la città di Roma si sta apprestando ad accogliere
Cesare vittorioso su Pompeo e a celebrarne il trionfo:
[…] But indeed, sir, we make holiday to see Caesar
and to rejoice in his triumph.
Murellus: Wherefore rejoice? What conquest brings he home?
What tributaries follow him to Rome
To grace in captive bonds his chariot wheels?
(I, i, 31-35)
Cobbler:
La reazione di Marullo e del suo collega non si fa attendere, e
non nasconde il disappunto per il favore che la città e il Senato
stanno accordando a Cesare. Ed è proprio in questa scena di apertura del dramma che si innesta la prima manipolazione shakespeariana delle fonti, poiché, a differenza di Plutarco, il quale
propone una narrazione cronologica degli eventi, il drammaturgo
inglese sposta il trionfo, che in Plutarco avviene nel mese di ottobre del 45 a.C., alla festa dei Lupercali, ossia al 15 febbraio del
44.
Il dramma prosegue senza menzionare l’elezione di Cesare a
dittatore a vita, la riforma del calendario, la sua ambizione sempre viva per il potere, l’aspirazione alla monarchia, per arrivare al
momento in cui egli rifiuta la corona offertagli da Antonio durante la celebrazione dei Lupercali, tutti elementi che Plutarco
descrive con dovizia di particolari. Shakespeare inserisce a questo punto, siamo nella Seconda scena del Primo atto, il profilarsi
della congiura, con Cassio che parla a Bruto del suo disagio per
l’eventualità che Roma possa cadere nelle mani di un tiranno
senza scrupoli e ricorda il timore che un uomo come lui suscita
in Cesare, il quale confida all’amico Antonio di diffidare da persone siffatte:
Caesar: Let me have men about me that are fat,
Sleek-headed men, and such as sleep a-nights.
Yond Cassius has a lean and hungry look:
He thinks too much: such men are dangerous.
122
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
(I, ii, 191-194)
Analogamente Plutarco riporta che, rivolgendosi ad Antonio,
Cesare dice “I like not his pale looks” (The Life of Julius Caesar,
p. 41) e, poche righe più avanti aggiunge: “As for those fat men
and smooth-combed heads, quoth he, I never reckon of them:
but these pale-visaged and carrion lean people, I fear them most,
meaning Brutus and Cassius” (The Life of Julius Caesar, p 41)
Interessante è notare che il drammaturgo inglese mantiene e
dà importanza alla notte che precede le Idi di Marzo:
Casca: Are you not moved, when all the sway of earth
Shakes like a thing unfirm?
(I, iii, 3-4)
Casca:
Cassius:
Casca:
Cassius:
Your ear is good. Cassius, what night is this?
A very pleasing night to honest men.
Whoever knew the heavens menace so?
Those that have known the earth so full of faults.
For my part, I have walked about the streets,
Submitting me unto the perilous night,
And thus embraced, Caska, as you see,
Have bared my bosom to the thunder-stone:
And when the cross blue lightning seemed to open
The breast of heaven, I did present myself
Even in the aim and very flash of it.
(I, iii, 42-52)
I pochi versi riportati sopra sono indicativi di come lo straordinario temporale che si era abbattuto nella notte su Roma potesse avere diverse interpretazioni. Lo sconvolgimento degli elementi è un segno del disappunto celeste per la condotta degli
uomini e dell’incapacità di questi a coglierne il significato. La
conversazione tra Cassio e Casca, entrambi congiurati contro
Cesare, verterà proprio sull’interpretazione da assegnare ai fatti
della notte. Secondo Casca il temporale è la punizione che gli dei
inviano ai congiurati per l’increscioso gesto che si apprestano a
123
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
compiere, mentre Cassio vi legge un segnale di approvazione per
quello che sta per succedere: gli dei sono dalla loro parte, poiché
anch’essi condividono la necessità della morte di Cesare per il
bene e la libertà di Roma.
Nel dramma di Shakespeare il temporale fornisce una sorta di
filo conduttore tra la fine del primo atto e l’inizio del secondo,
quando incontriamo Bruto e Cesare nelle rispettive case: il primo
a riflettere sulla proposta di Cassio, il secondo a trarre il bilancio
di una notte movimentata e tumultuosa:
Caesar: Nor heaven nor earth have been at peace tonight.
Thrice hath Calphurnia in her sleep cried out,
‘Help ho: they murder Caesar’.
(II, i, 1-3)
L’immagine di un Cesare preoccupato per la moglie e per gli
eventi che hanno avuto luogo nella notte ricorre anche in Plutarco, che descrive così l’inizio della giornata a casa del dittatore la
mattina delle Idi di Marzo:
Then going to bed the same night as his manner was, and lying
with his wife Calpurnia, all the windows and doors of his chamber flying open, the noise awoke him, and made him afraid
when he saw such light: but more when he heard his wife
Calpurnia, being fast asleep, weep and sigh, and put forth many
fumbling lamentable speeches. For she dreamed that Caesar was
slain, and that she had him in her arms.
(The Life of Julius Caesar, pp. 41-42)
È stata una notte movimentata dagli elementi stessi, che vogliono inviare a Cesare segnali del pericolo che sta correndo ed
avvertire di non andare in Senato il giorno seguente.
È la stessa notte che turba anche i pensieri di Bruto, il quale si
trova insonne nel giardino di casa sua a riflettere sulle parole di
Cassio: l’affetto filiale per Cesare si scontra con l’amore per Roma, dando voce ad un travaglio interiore che esploderà nella
convinzione che Cesare sia una reale minaccia alla libertà della
124
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
città. La scena che ritrae Bruto pensieroso nel suo giardino, la
prima del Secondo atto, è totalmente inventata da Shakespeare:
non si trova nessuna corrispondenza in Plutarco, che passa subito a parlare di come la mattina presto Cesare fosse turbato per il
proprio sonno tormentato e per quello della moglie.
Con la Seconda scena del Secondo atto il drammaturgo torna
ad attingere alla fonte principale e, descritta la messa a punto
della congiura a casa di Bruto, particolare questo che non compare nello storico greco, passa appunto ad informarci sul risveglio a casa di Cesare. Impaurita per quello che potrebbe succedere, Calpurnia chiede al marito di aggiornare la seduta del Senato. Convinto dalla moglie, che non ha mai visto così turbata
per un sogno, Cesare decide di consultare gli àuguri e, saputo il
loro responso, ritiene opportuno seguire il consiglio di Calpurnia.
L’arrivo di Decio Bruto, però, ribalta nuovamente la situazione. Egli è un congiurato che, come previsto dal piano di Bruto e
Cassio, lo va a svegliare e, sentite le sue ragioni, gli risponde facendo leva sulla sua ambizione e ricordandogli la meschina figura che egli farebbe di fronte all’intera città se decidesse di seguire
i consigli di una donna. Nel testo di Shakespeare Decio Bruto riprende il sogno di Calpurnia spiegando che è stato male interpretato e che in realtà significa non dolore e morte, ma gioia e
gloria. Il congiurato, vedendo che Cesare sta cedendo alle sue
parole, continua dicendo:
I have, when you have heard what I can say.
And know it now: the Senate have concluded
To give this day a crown to mighty Caesar.
If you shall send them word you will not come,
Their minds may change. Besides, it were a mock
Apt to be rendered, for some one to say,
“Break up the Senate till another time,
When Caesar’s wife shall meet with better dreams”.
If Caesar hides himself, shall they not whisper,
125
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
“Lo, Caesar is afraid?”
Pardon me, Caesar; for my dear, dear love
To your proceeding bids me tell you this,
And reason to my love is liable.
(II, ii, 92-104)
e convince così Cesare che, confidando troppo nel suo nome e
nella sua ambizione, si lascia convincere ad andare in Senato. Si
veda anche Plutarco:
He fearing that if Caesar did adjourn the session that day, the
conspiracy would out, laughed the soothsayers to scorn, and reproved Caesar saying: That he gave the Senate occasion to mislike with him, and that they might think he mocked them, considering that by his commandment they were assembled, and
that they were ready willingly to grant him all things, and to proclaim him king of all the provinces of the empire of Rome out of
Italy, and that he should wear his diadem in all other places both
by sea and land. And furthermore, that if any man should tell
them from him, they should depart for that present time, and return again when Calpurnia should have better dreams: what will
his enemies and ill-willers say, and how could they like of his
friends’ words?
(The Life of Julius Caesar, p 42)
I due passi, di Plutarco e di Shakespeare, sono uguali nei concetti che esprimono e simili nel tono in cui Decio Bruto si rivolge
al dittatore: entrambi fanno riferimento alla corona che il Senato
avrebbe intenzione di dargli ed alludono alla corona offertagli da
Antonio durante la festa dei Lupercali e rifiutata per ben tre volte. Con le parole di Decio Bruto i due Autori mettono bene in
evidenza la effettiva intenzione di Cesare: egli ha rifiutato la corona solo per guadagnarsi ed assicurarsi il favore della folla. Ora,
infatti, si lascia convincere da Decio Bruto, proprio perché vuole
evitare che il Senato ci ripensi e sospenda la proposta di incoronarlo re di Roma.
126
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Le due scene che seguono riguardano l’una Cesare e
l’avvertimento di Artemidoro a non uscire di casa per quel giorno, e l’altra l’angoscia di Portia, moglie di Bruto, per quello che
il marito le sta nascondendo. La prima di queste due scene trova
conferma in Plutarco, che parla di
one Artemidorus also born in the Isle of Gnidos, a doctor of
rhetoric in the Greek tongue, who by means of his profession
was very familiar with certain of Brutus’ confederates, and therefore knew the most part of all these practises against Caesar:
came and brought him a little bill written with his own hand, of
all that he meant to tell him. He marking how Caesar received
all the supplications that were offered him, and that he gave
them straight to his men that were about him, pressed nearer
him, and said: Caesar, read this memorial to your self, and that
quickly, for they be matters of great weight, and touch you
nearly.
(The Life of Julius Caesar, pp. 42-43)
Preso il messaggio di Artemidoro, Cesare non riesce a leggerlo
e così va incontro al suo destino di morte; in Shakespeare egli
non presta attenzione all’indovino perché, infastidito dalla sua
insistenza, decide di posticipare l’udienza alla fine della seduta in
Senato. L’episodio che riguarda Artemidoro è diviso in due brevi
sequenze, intervallate dalla conversazione di Portia con il giovane
servo Lucio e con l’indovino, e relative alla sua preoccupazione
per quello che sta succedendo. La prima di queste sequenze costituisce la Terza scena del Secondo atto, in cui, letto il contenuto del suo messaggio, Artemidoro spera di attirare l’attenzione di
Cesare e di convincerlo a diffidare delle persone che sono con
lui; la seconda sequenza, invece, riguarda i versi iniziali della
Prima scena dell’atto successivo, in cui Cesare sta entrando in
Campidoglio e, tutto preso dal suo ruolo importante di uomo
pubblico, sottovaluta le parole dell’indovino e lo allontana.
La scena che riguarda Portia, invece, chiude il Secondo atto
ed è completamente inventata da Shakespeare: racconta di come
127
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
la donna sia in ansia per il marito, chieda aiuto al servo Lucio e
parli con l’indovino, che vuole andare a vedere Cesare diretto in
Senato, per poterlo informare del pericolo che sta correndo.
Si arriva così al Terzo atto, quello centrale del dramma, decisivo per la conclusione della tragedia. È, infatti, nella Prima scena di questo atto che i congiurati, accalcatisi attorno a Cesare in
Senato, lo pugnaleranno a morte. La scena è costruita prendendo spunto dalla Vita sia di Cesare sia di Bruto. Plutarco racconta
che Popilio Lenate trattiene Cesare e gli parla a lungo, facendo
credere ai congiurati di rivelargli il loro piano, che Cassio tiene in
mano un’immagine di Pompeo, al quale chiede aiuto e protezione per l’impresa che sta per compiere, e che i congiurati agiscono
in base al piano messo a punto a casa di Bruto poche ore prima.
Metello Cimbro implora Cesare di richiamare il fratello
dall’esilio e, quando questi si rifiuta di ascoltarlo, gli altri congiurati intervengono ad appoggiarne la causa: è il rifiuto arrogante
di Cesare a costituire il segnale per i congiurati, che si abbattono
con i loro pugnali su di lui:
So Caesar coming into the house, all the Senate stood up on
their feet to do him honour. Then part of Brutus’ company and
confederates stood round about Caesar’s chair, and part of them
also came towards him, as though they made suit with Metellus
Cimber, to call home his brother again from banishment: and
thus prosecuting still their suit, they followed Caesar, till he was
set in his chair. Who, denying their petitions, and being offended with them one after another, because the more they were
denied, the more they pressed upon him, and were the earnester
with him: Metellus at length, taking his gown with both his
hands, pulled it over his neck which was the sign given the confederates to set upon him. Then Casca behind him strake him in
the neck with his sword, howbeit the wound was not great nor
mortal, because is seemed, the fear of such a devilish attempt
did amaze him, and take his strength from him, that he killed
him not at the first blow.
(The Life of Julius Caesar, p. 43)
128
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Nel dramma di Shakespeare essi ripassano il loro piano
d’azione proprio quando Cesare sta per entrare in Senato ed iniziano a colpirlo subito dopo la sua risposta alla richiesta di Metello Cimbro. È questo il famoso passo in cui Cesare parla di sé
in terza persona, paragonandosi alla stella del Nord per unicità e
splendore:
But I am constant as the northern star,
Of whose true-fixed and resting quality
There is no fellow in the firmament.
The skies are painted with unnumbered sparks,
They are all fire, and every one doth shine;
But there’s but one in all doth hold his place.
So in the world: ‘tis furnish’d well with men,
And men are flesh and blood, and apprehensive.
Yet in the number I do know but one
That unassailable holds on his rank
Unshaked of motion; and that I am he,
Let me a little show it, even in this,
That I was constant Cimber should be banish’d,
And constant do remain to keep him so.
(III, i, 60-73)
Il Cesare di Shakespeare si esprime come un monarca assoluto, solo ed unico uomo in grado di guidare Roma. Il paragone
con la stella del Nord non fa che accentuare questo aspetto della
sua persona, che egli stesso colloca in un empireo di unicità per
costanza e splendore. La sua battuta, essenziale nella scelta dei
termini che bene esprimono il concetto che gli sta a cuore, è la
conferma che i congiurati aspettano per dare inizio alla fase successiva e cruciale del loro piano: essi, infatti, cominciano a pugnalarlo e nel giro di pochi minuti, nello spazio di un paio di
brevissime battute Cesare si accascia a terra morto.
In entrambi i testi l’attenzione cade sul fatto che a pugnalarlo
sia anche Bruto, ma Plutarco non riporta la famosa frase pronunciata da Cesare nel vedere la mano del figlio adottivo pronta
129
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
a colpirlo. Lo storico si limita a raccontare che Bruto, incitato
dai suoi compagni, lo colpisce a morte, mentre Shakespeare,
menzionando la frase, mostra come Cesare si arrenda nel vedere
Bruto con il pugnale in mano:
Caesar: Et tu, Brute? Then fall, Caesar.
(III, i, 77)
In Plutarco si legge così:
Men report also, that Caesar did still defend himself against the
rest, running every way with his body: but when he saw Brutus
with his sword drawn in his hand, then he pulled his gown over
his head, and made no more resistance, and was driven even
casually, or purposely, by the counsel of the conspirators, against
the base whereupon Pompey’s image stood, which ran all of a
gore-blood till he was slain.
(The Life of Julius Caesar, p. 44)
Nel frattempo, tenuto lontano da un altro congiurato, Antonio
non ha assistito all’uccisione dell’amico, ma, saputa la notizia, va
a rifugiarsi a casa, dove lo raggiungerà il messo di Ottaviano,
pronto ad entrare a Roma e a vendicare la morte di Cesare. Antonio torna così sulla scena e chiede a Bruto di poter tenere un
discorso sul corpo di Cesare davanti alla folla che sta aspettando
fuori dal Campidoglio. Bruto, sempre convinto che Antonio non
rappresenti un pericolo né per lui né per la sua causa, gli dà il
permesso di parlare, ma solo dopo di lui. Questa decisione, in
realtà, sarà fatale e gli si ritorcerà contro, poiché, come si può
vedere nella scena successiva di questo atto, Antonio convincerà
la folla a vendicarsi.
Si arriva così alla Seconda scena del Terzo atto, in cui Bruto
ed Antonio, avversari sulla scena sin dall’inizio del dramma, si
battono in un duello di oratoria davanti alla salma di Cesare. Il
primo a parlare è Bruto, che chiede al popolo di ascoltarlo e di
credere nel suo onore.
130
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Romans, countrymen, and lovers, hear me for my cause, and be
salient, that you may hear. Believe me for mine honour, and
have respect to mine honour, that you may believe.
(III, ii, 13-16)
Sono, queste, le parole iniziali dell’orazione funebre di Bruto,
il quale cerca di aggiudicarsi il favore della folla, giocando sulla
sua fama di uomo d’onore, che amava Cesare e, ancor di più, la
libertà di Roma: “If then that friend demand why Brutus rose
against Caesar, this is my answer: Not that I loved Caesar less,
but I loved Rome more” (III, ii, 20-22). Bruto, dunque, difende
se stesso e i congiurati affermando di aver agito nel nome del loro amore per Roma e per la sua libertà, e di aver ucciso Cesare,
l’ambizioso Cesare, proprio per salvare tale libertà. Questa parte
della scena è completamente inventata da Shakespeare che, nel
comporla, non seguì né la Vita di Cesare, né quella di Bruto,
come ancora avrebbe fatto in altre parti della sua tragedia.
A questo punto Antonio chiede la parola, che Bruto gli accorda. Egli entra in scena con il corpo di Cesare tra le braccia e così
si rivolge alla folla:
Friends, Romans, countrymen, lend me your ears;
I come to bury Caesar, not to praise him.
(III, ii, 74-75)
L’inizio incoraggiante dell’orazione di Antonio non nasconde
l’astuzia con cui essa è condotta: Antonio si esprime in uno stile,
quello asiatico, molto più elaborato dello scarno stile attico di
Bruto, e costruisce l’intero discorso sulla capacità di affermare
un concetto partendo dalla sua negazione. Così facendo, egli non
accusa apertamente i congiurati, ma riesce a demolire punto per
punto i concetti essenziali sui quali Bruto ha costruito il suo discorso. Cesare, dunque, era ambizioso, ma nonostante questo,
aveva rifiutato la corona regale per ben tre volte; egli pensava solo a se stesso e al proprio bene, ma in realtà combatteva nel nome di Roma e si adoperava per imporre le sue leggi su popola131
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
zioni ribelli. Antonio ripercorre, quindi, l’intera parabola militare
e politica del dittatore, ma senza accusare i congiurati, che la folla, ormai, ha deciso di linciare. L’orazione di Antonio, così famosa grazie al testo di Shakepeare, compare anche in Plutarco, il
quale, però, la inserisce nella Vita di Bruto. In particolare, lo storico riporta il passo in cui Antonio chiede a Bruto di poter leggere pubblicamente il testamento di Cesare, ma Cassio, intuendone l’obiettivo, non vuole cedere alle sue richieste:
When this was done, they came to talk of Caesar’s will and testament, and of his funerals and tomb. Then Antonius thinking
good his testament should be read openly, and also that his body
should be honourably buried, and not in hugger-mugger, lest
the people might thereby take occasion to be worse offended if
they did otherwise: Cassius stoutly spake against it. But Brutus
went with the motion, and agreed unto it: wherein it seemeth he
committed a second fault.
(The Life of Brutus, pp. 173-174)
E così, si scopre che Cesare aveva lasciato i suoi beni a Roma
e ai suoi abitanti, a dimostrazione di una generosità e di
un’ambizione rivolte non solo verso se stesso, ma verso tutto il
mondo cui egli apparteneva. Ovviamente, nel dramma questa
parte ha tutta la rilevanza che merita e fornisce il pretesto per
proseguire con la rappresentazione della fine della vita di Bruto,
di Cassio e di tutti gli altri congiurati.
Il Terzo atto, infatti, si conclude descrivendo la furia con cui
la folla si appresta a vendicare la morte del suo beniamino. Entità volubile ed incostante, essa è ormai dalla parte di Antonio e ha
decretato la morte di tutti coloro che hanno alzato il pugnale
contro Cesare. Tutti, compreso il povero poeta Cinna che, con i
congiurati c’entra solo per un disgraziato caso di ominimia: la
folla, interrogatolo e scoperto che il suo nome è uguale a quello
di un congiurato, lo lincia sulla pubblica via. L’episodio è presente anche in Plutarco, che lo racconta così:
132
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Now Cinna hearing at that time, that they burnt Caesar’s body
in the market-place, notwithstanding that he feared his dream,
and had and ague on him besides: he went into the market-place
to honour his funerals. When he came thither, one of the mean
sort asked him what his name was? He was straight called by his
name. The first man told it to another, and that other unto another, so that it ran straight through them all, that he was one of
them that murdered Caesar: […] wherefore taking him for
Cinna the murderer, they fell upon him with such fury, that they
presently despatched him in the market-place.
(The Life of Julius Caesar, p. 45)
La furia della moltitudine costringe Bruto e Cassio a lasciare
Roma e a rifugiarsi altrove.
Si arriva così al Quarto atto, dove incontriamo Antonio, Ottaviano e Lepido schierati contro Bruto e Cassio: essi stanno rifinendo i loro piani d’attacco e si apprestano a combattere la battaglia di Filippi. Shakespeare colloca la sua scena in un tempo
imprecisato rispetto alla morte di Cesare: come era già accaduto
all’inizio del dramma, egli interviene sul testo della fonte plutarchiana, adeguando il tempo alle proprie richieste ed eliminando
eventi che non ritiene importanti. Infatti, la battaglia di Filippi,
che sancisce il destino di Bruto e Cassio ha luogo solo due anni
dopo la morte di Cesare in Campidoglio, ma di tutto questo non
c’è traccia nella tragedia shakespeariana. Inutile dire che, per
quanto riguarda gli ultimi due atti del Julius Caesar, il drammaturgo fa riferimento soprattutto alla Vita di Bruto, la quale riporta
con precisione gli ultimi tempi della vita di questo famoso congiurato.
La Prima scena del Quarto atto si apre con il Triumvirato costituito da Antonio, Ottaviano e Lepido, ed impegnato nella
compilazione delle liste di proscrizione: i tre uomini procedono
con distacco e freddezza nella compilazione del loro elenco. I
nomi di amici e familiari non sono di ostacolo al loro lavoro, il
133
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
che non li rende meno violenti della folla, né meno efferati dei
congiurati.
Uscito di scena Lepido, Antonio si permetterà anche di esprimere un giudizio su di lui:
Antony: This is a slight unmeritable man,
Meet to be sent on errands: is it fit,
The threefold world divided, he should stand
One of the three to share it?
(IV, i, 12-14)
Giudizio che suona come un allarme: i Triumviri non sono un
gruppo coeso e i dissapori che emergono dalle parole di Antonio
anticipano il naufragio dell’efficacia politica del triumvirato.
Shakespeare anticipa qui quello che riuscirà a mettere in scena
solo qualche anno dopo con l’Antonio e Cleopatra.
La Seconda e la Terza scena dell’atto costituiscono un continuum e rappresentano quello che succede nell’accampamento
nemico: Bruto e Cassio si scontrano per una offesa che il primo
avrebbe arrecato al secondo e tornano con la memoria al giorno
dell’uccisione di Cesare. La parte più interessante di questa lunga scena, però, riguarda l’apparizione di uno spirito a Bruto10:
Brutus:
How ill this taper burns! Ha! Who comes here?
I think it is the weakness of mine eyes
That shapes this monstruous apparition.
It comes upon me. Art thou any thing?
10
A questo proposito è opportuno inserire una precisazione. Stando
all’originale greco di Plutarco, Bruto avrebbe avuto la visione di uno spirito
che nella religione cattolica corrisponderebbe all’angelo custode. Come voleva
la tradizione del teatro medievale inglese, e come Marlowe dimostra nel suo
Doctor Faustus, accanto ad un angelo buono ne esiste anche uno cattivo,
angelo, quest’ultimo, che appare, come riportato nel testo citato, a Bruto nella
sua tenda durante la notte. Tuttavia, è opportuno precisare anche che
l’identificazione di questo spirito con il fantasma di Cesare è resa esplicita
dalle didascalie del dramma, in cui viene riportato a chiare lettere: Enter the
Ghost of Caesar.
134
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Art thou some god, some angel or some devil,
That mak’st my blood cold, and my hair to stare?
Speak to me what thou art.
Ghost: Thy evil spirit, Brutus.
Brutus: Why com’st thou?
Ghost: To tell thee thou shalt see me at Philippi.
(IV, iii, 273-281)
La visione del fantasma turba Bruto, che sveglia i suoi uomini,
ignari dell’accaduto, e chiede loro di inviare un messaggio a Cassio. Questa stessa scena si trova anche in Plutarco, dove viene
detto che, durante il viaggio di Bruto e Cassio verso l’Europa,
circolava voce che uno strano segno premonitore si fosse rivelato
a Bruto:
So, being ready to go into Europe, one night very late (when all
the camp took quiet rest) as he was in his tent with a little light,
thinking of weighty matters: he thought he heard one come in to
him, and casting his eye towards the door of his tent, that he saw
a wonderful strange and monstruous shape of a body coming
towards him, and said never a word. So Brutus boldly asked
What he was, a god or a man, and what cause brought him
thither. The spirit answered him, I am thy evil spirit, Brutus:
and thou shalt see me by the city of Philippes. Brutus being no
otherwise afraid, replied again unto it: Well, then I shall see thee
again. The spirit presently vanished away: and Brutus called his
men unto him, who told him that they heard no noise, nor saw
anything at all. Thereupon Brutus returned again to think on his
matters as he did before: and when the day brake, he went unto
Cassius, to tell him what vision had appeared unto him in the
night.
(The Life of Brutus, p. 185)
Leggendo le due scene, una in versi e l’altra in prosa, si può
constatare l’effettiva vicinanza del testo shakespeariano a quello
plutarchiano: Shakespeare ha ricreato lo stesso contesto, collo-
135
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
cando Bruto nella sua tenda alla luce di una piccola candela11, ha
ripreso le medesime parole del dialogo tra lui e il fantasma, e ha
riproposto uguale anche la sua reazione nel chiedere ai suoi uomini se avessero visto niente di particolare.
Il Quinto atto, infine, è tutto incentrato sulla battaglia di Filippi e sulla conclusione tragica della vita dei due congiurati. La
Prima scena riguarda i preparativi della battaglia da parte degli
schieramenti in campo: come Ottaviano aveva previsto, l’esercito
avversario non si è disposto sulle colline della piana di Filippi,
ma è sceso a valle a dar battaglia; l’erede legittimo di Cesare non
ascolta la richiesta di Antonio, sceglie di guidare il lato destro
dell’esercito, generalmente affidato al comandante più abile, e
dichiara, quindi, la sfida ai suoi nemici: egli combatterà fino a
quando non avrà vendicato le trentatré ferite inflitte al dittatore.
Dall’altra parte del campo, invece, Bruto e Cassio sono preoccupati a causa di alcuni presentimenti di morte; è il compleanno di
Cassio, che confessa qui di essere sempre stato un epicureo e di
essere pronto ad affrontare i pericoli della battaglia. Bruto, da
parte sua, dice all’amico di non credere nell’efficacia del suicidio,
per uscire da una situazione difficile, ma afferma anche di non
voler essere portato a Roma in catene. I due si congedano con il
presentimento di non rivedersi mai più.
La Seconda scena, composta da soli sei versi, indica l’inizio
della battaglia, che si svolgerà per tutta la restante durata
dell’atto. La Terza scena, dunque, racconta le fasi del combattimento e si concentra sul tragico errore di Cassio nella valutazione degli eventi militari. Egli, infatti, non si rende conto che gli
uomini del suo schieramento stanno esultando, perché hanno
avuto la meglio sul nemico: è convinto di sentire urla di dispera11
Anche in questo caso è necessario chiarire l’inesattezza della traduzione
del North. Nel testo inglese del 1579, infatti, North traduce con ‘candela’ il
termine greco che in realtà significa ‘lucerna’: è cosa nota a tutti, infatti, che i
Romani non potevano usare le candele che, la storia insegna, sono una
invenzione introdotta nel Medioevo.
136
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
zione e di disfatta e, temendo che Titinio, suo carissimo amico,
sia stato fatto prigioniero, crede di aver perso la battaglia:
Come down, behold no more.
O, coward that I am, to live so long,
To see my best friend ta’en before my face!
(V, iii, 33-35)
Pronunciate queste parole, si uccide. L’episodio è riportato
anche da Plutarco che lo racconta così:
For Cassius thinking indeed that Titinius was taken of the enemies, he then spoke these words: Desiring too much to live, I
have lived to see one of my best friends taken, for my sake, before my face.
(The Life of Brutus, p. 190)
La descrizione della morte di Cassio avviene, in entrambi i testi sotto gli occhi di Pindaro, che porta la notizia agli altri. Il suicidio di Cassio è seguito a breve distanza da quello di Titinio
che, vedendo l’amico morto, si uccide a sua volta; la notizia, ovviamente, raggiunge Bruto, che onora la morte dell’amico ed alleato.
La Quarta scena descrive gli sviluppi della seconda battaglia e
Bruto, che sprona i suoi; la scena immediatamente successiva è
l’ultima dell’atto e del dramma. In essa viene comunicato il risultato della battaglia, la morte di Bruto suicida e la vittoria dello
schieramento cesariano. La prima sequenza della scena riguarda
in particolare Bruto e la sua disfatta: circondato da pochi amici
fedeli, ai quali confessa di essere stato visitato per ben due volte
dal fantasma di Cesare che, indirettamente, gli ha fatto intuire il
suo inevitabile destino, egli chiede ad un amico fidato di reggere
la spada sulla quale si butterà, andando così incontro al proprio
fato:
Having said so, he prayed every man to shift for themselves, and
then he went a little aside with two or three only, among the
which Strato was one, with whom he came first acquainted by
137
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
the study of rhetoric. He came as near to him as he could, and
taking his sword by the hilts with both his hands, and falling
down upon the point of it, ran himself through.
(The Life of Brutus, p. 196)
La stessa scena si ripete in Shakespeare:
I prithee, Strato, stay by thy lord.
Thou art a fellow of a good respect:
Thy life hath had some smatch of honour in it.
Hold then my sword, and turn away thy face,
While I do run upon it. Wilt thou, Strato?
(V, v, 44-49)
Stratone accetta a malincuore e così anche il Bruto shakespeariano finisce i suoi giorni. Sulla scena rimangono i vincitori, i
Triumviri, che celebreranno il loro trionfo; quando Ottaviano ed
Antonio compaiono sulla scena, trovano Bruto disteso a terra ed
Ottaviano, offertosi di prendere con sé i suoi uomini, ordina che
gli venga fatto un funerale solenne:
This was the noblest Roman of them all:
All the conspirators save only he
Did that they did in envy of great Caesar.
He only, in a general honest thought
And common good at all, made one of them.
His life was gentle, and the elements
So mixed in him, that nature might stand up
And say to all the world, “This was a man!”
Octavius: According to his virtue let us use him,
With all respect and rites of burial.
Within my tent his bones tonight shall lie,
Most like a soldier, ordered honourably.
So call the field to rest, and let’s away,
To part the glories of this happy day.
(V, v, 69-82)
Antony:
Leggermente diversa è la conclusione dello storico greco, per
il quale, Ottaviano, saputa la notizia della morte di Bruto, dichia138
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
ra di voler accogliere gli uomini del rivale, mentre Antonio ordina che il corpo venga rivestito nella sua armatura più pregiata;
tuttavia, scopertone il furto, ordina la condanna a morte del ladro che l’ha sottratta:
Now, Antonius having found Brutus’ body, he caused it to be
wrapped up in one of the richest coat-armours he had. Afterwards also, Antonius understanding that this coat-armour was
stolen, he put the thief to death that had stolen it, and sent the
ashes of is body unto Servilia his mother.
(The Life of Brutus, p. 196)
Si conclude così il Julius Caesar di Shakespeare e, dovremmo
dire, anche la Vita di Cesare e di Bruto di Plutarco: due testi diversi per genere e forma, che, però, hanno saputo fornire ai reciproci spettatori e lettori un quadro esaustivo della vicenda umana di due dei personaggi più importanti della storia di Roma.
Plutarco si è limitato a raccontare gli eventi del condottiero;
Shakespeare ha proposto la sua morte come monito ai sovrani
troppo ambiziosi per accorgersi dei rischi e dei pericoli sempre
incombenti su di loro. Ma, di questo aspetto e dello Stato retto
da un tiranno ingiusto ed assoluto, si è già avuto modo di parlare
nel primo capitolo.
2. Antony and Cleopatra
Come si è già ricordato più volte, le Vite Parallele di Plutarco
sono la fonte principale anche di Antony and Cleopatra, la tragedia che Shakespeare scrisse qualche anno più tardi del Julius Caesar. Nel periodo di tempo intercorso tra i due drammi, ossia il
1599 anno della prima rappresentazione del Julius Caesar e il
1607-1608, data della composizione di Antony and Cleopatra,
Shakespeare è alle prese con le grandi tragedie.
In quest’opera Shakespeare drammatizza tutta la parte della
Vita di Antonio da lui selezionata, escludendo la vicenda della
lunga guerra contro i Parti; il lavoro è complementare al prece139
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
dente, ma mentre quello racconta l’ascesa al potere di Antonio,
questo ne rappresenta la parabola discendente, fino al triste epilogo. La tragedia che riguarda Antonio e Cleopatra, però, non
tocca solo Antonio: come dice il titolo, i protagonisti sono due,
anzi tre, perché Antonio diventa qui una sorta di marionetta, che
si muove al comando della bella Cleopatra, deludendo il freddo e
calcolatore Ottaviano, che diventerà, così, il vero ed unico vincitore nella lotta per il dominio del mondo.
Lo spettatore è subito posto di fronte ad un Antonio vincitore
sui Parti ed innamorato della bella Cleopatra; il drammaturgo
convoglia l’attenzione del pubblico sul contrasto tra Roma e Alessandria attraverso la figura di Antonio, la cui particolare predisposizione alla vita dissoluta e al divertimento ne mette in risalto
il cambiamento ai limiti del decoro:
Caesar: You are to indulgent. Let’s grant it is not
Amiss to tumble on the bed of Ptolemy,
To give a kingdom for a mirth, to sit
And keep the turn of tippling with a slave,
To reel the streets at noon, and stand the buffet
With knaves that smells of sweat. Say this becomes him
As his composure must be rare indeed
Whom these things cannot blemish – yet must Antony
No way excuse his foils, when we do bear
So great weight in his lightness. If he filled
His vacancy with his voluptuousness,
Full surfeits and the dryness of is bones
Call on him for’t. But to confound such time
That drums him from his sport, and speaks as loud
As his own state and ours, ‘tis to be chid
As we rate boys who, being mature in knowledge,
Pawn their experience to their present pleasure
And so rebel to judgement.
(I, iv, 16-33)
140
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Il tono con cui Ottaviano parla a Lepido esprime tutto il
rammarico che egli prova nei confronti dell’antico amico e alleato, poiché quest’ultimo non solo si è innamorato di una ‘schiava’
di Roma, ma trascura i suoi doveri di soldato e dimentica le sue
responsabilità di triumviro.
L’Antonio che viene presentato nel Primo atto, però, rivela
quegli aspetti del suo carattere, cui Giulio Cesare aveva accennato nel paragonarlo a Cassio, e che Plutarco riporta in questo
modo:
For he was a plain man, without subtlety, and therefore over late
found out the foul faults they committed against him: but when
he heard of them, he was much offended, and would plainly
confess it unto them whom his officers had done injury unto, by
countenance of his authority. He had a noble mind, as well to
punish offenders, as to reward well-doers: and yet he did exceed
more in giving, than in punishing.
Now for this outrageous manner of railing he commonly used,
mocking and flouting of every man: that was remedied by itself.
(The Life of Antony, p. 119)
A questi aspetti già di per sé discutibili, lo storico aggiunge il
terribile errore di essersi innamorato di Cleopatra:
Antonius being thus inclined, the last and extremest mischief of
all other (to wit, the love of Cleopatra) lighted on him, who did
waken and stir many vices yet ridde in him, and were never seen
to any: and if any spark of goodness or hope of rising were left
him, Cleopatra quenched it straight, and made it worse than before.
(The Life of Antony, p. 119)
Il risveglio dei vizi latenti costituisce il quadro di partenza ben
definito sul quale si inserisce l’opera di Shakespeare, che si apre,
appunto, con le critiche al comportamento di Antonio e con la
dolorosa constatazione della sua trasformazione da valoroso
guerriero a schiavo di una sgualdrina:
141
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Nay, but this dotage of our general’s
O’erflows the measure. Those his goodly eyes,
That o’er the files and musters of the war
Have glowed like plated Mars, now bend, now turn
The office and devotion of their view
Upon a tawny front: his captain’s heart,
Which in the scuffles of great fights hath burst
The buckles on his great breast, reneges all temper,
And is become the bellows and the fan
To cool a gipsy’s lust. […]
Look, where they come!
Take but good note, and you shall see in him
The triple pillar of the world transformed
Into a strumpet’s fool.
(I, i, 1-13)
Con queste parole Filone, amico di Cesare, dà inizio alla tragedia di Antonio e Cleopatra e, descrivendo la situazione da
un’ottica interamente romana, presenta un Antonio vittima di
una Cleopatra sgualdrina, un Antonio non più riconoscibile.
L’apertura del dramma si concentra, dunque, sull’idea del deterioramento della persona di Antonio che, da pilastro del mondo,
si ritrova ad essere un folle irresponsabile nelle mani di una
strumpet.
A differenza di quanto succedeva nell’opera presa in esame
prima, qui Shakespeare rispetta la sua fonte, ma stravolge
l’ordine cronologico di alcuni fatti: ad esempio, egli posticipa la
descrizione del primo incontro tra i due amanti, collocandola in
un momento del dramma in cui è più funzionale a rendere l’idea
dello sfarzo dell’Egitto confrontato con la fredda razionalità e
misura di Roma.
Tutto il Primo atto, dunque, è giocato sulla descrizione della
situazione di partenza, situazione che consentirà ad Ottaviano, al
momento opportuno, di prendere provvedimenti e richiamare
Antonio all’ordine. Le scene che si susseguono in tutto questo
142
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
atto si propongono come uno specchio fedele della vita ad Alessandria, con Antonio e Cleopatra che trascorrono le giornate a
parlare del loro smisurato amore, che si divertono inscenando la
sofferenza di Cleopatra che gioca a fare l’amante ritrosa, quando
il suo uomo è vicino a lei, e che simula sdegno, quando egli le è
lontano; una Cleopatra, infine, gelosa della moglie di Antonio,
Fulvia, ed infastidita dal fatto che egli, raggiunto dalla notizia
della sua morte e dal messaggero di Ottaviano, sia costretto a
tornare a Roma.
Anche Plutarco racconta come Cleopatra riuscisse ad ammaliare il suo Antonio e come si divertisse ad averlo “at commandment, never leaving him night or day, nor once letting him go
out of her sight. For she would play at dice with him, drink with
him, and hunt commonly with him, and also be with him when
he went to any exercise or activity of body” (The Life of Antony,
p. 122). Lo storico afferma che spesso essi si divertivano a correre per le vie di Alessandria travestiti da schiavo e da serva, e che
il Romano le faceva degli scherzi anche davanti ai membri della
sua corte. Plutarco si sofferma poi sui messaggeri che arrivavano
da Roma e che portavano messaggi di Ottaviano e della sua famiglia, e ricorda che Fulvia era morta proprio durante un viaggio, che avrebbe dovuto riconciliarla con il marito.
Le scene che seguono, e che riguardano la gelosia di Cleopatra e la sua ipotetica sofferenza per la lontananza di Antonio sono
state interamente inventate da Shakespeare, che arriva così
all’atto successivo del suo dramma.
Il Secondo atto si apre con una scena che sposta l’obiettivo su
Roma e sui criteri di attuazione del programma politico dei
Triumviri. Di particolare rilevanza è la riconciliazione tra Antonio e Ottaviano, che viene descritta nel testo sia di Plutarco sia di
Shakespeare. L’Autore greco, infatti, spiega come Ottaviano,
perdonato Antonio, gli avesse proposto di sposare la sorella Ottavia, consiglio che Antonio aveva colto di buon grado in segno
di un’amicizia ricambiata e rinnovata:
143
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Thereupon every man did set forward this marriage, hoping
thereby that this lady Octavia, having an excellent grace, wisdom, and honesty, joined unto so rare a beauty, that when she
were with Antonius (he loving her so worthy a lady deserveth)
she should be a good mean to keep good love and amity betwixt
her brother and him.
(The Life of Antony, p. 123)
Lo stesso dicasi per Shakespeare che, tramite Agrippa, amico
di Ottaviano, ci informa dell’esistenza di Ottavia e di come ella
potrebbe rafforzare il legame tra Ottaviano e Antonio, diventando la moglie di quest’ultimo:
To hold you in perpetual amity,
To make you brothers, and to knit your hearts
With an unslipping knot, take Antony
Octavia to his wife; whose beauty claims
No worse a husband than the best of men;
Whose virtue and whose general graces speak
That which none else can utter. By this marriage
All little jealousies which now seem great,
And all great fears which now import their dangers
Would then be nothing. Truths would be tales,
Where now half tales be truths. Her love to both
Would each to other and all loves to both
Draw after her.
(II, ii, 132-144)
Poco dopo questi versi, pronunciati a casa di Lepido, Enobarbo narra ad un incredulo Agrippa il primo incontro tra Antonio e
Cleopatra: il passo, molto famoso, è riportato anche da Plutarco,
che lo racconta così:
Therefore when she was sent unto by divers letters, both from
Antonius himself, and also from his friends, she made so light of
it and mocked Antonius so much, that she disdained to set forward otherwise, but to take her barge in the river Cydnus, the
poop whereof was gold, the sails of purple, and the oars of silver,
144
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
which kept stroke in rowing after the sound of the music of
flutes, howboys, citherns, viols, and such other instruments as
they played upon in the barge.
And now for the person of her self: she was laid under a pavilion
of cloth of gold of tissue, apparelled and attired like the goddess
Venus, commonly drawn in picture: and hard by her, on either
hand of her, pretty fair boys apparelled as painters do set forth
god Cupid, with little fans in their hands, with the which they
fanned wind upon her. Her ladies and gentlewomen also, the
fairest of them were apparelled like the Nimphs Nereides (which
are the mermaids of the waters) and like the Graces, some steering the helm, others tending the tackle and ropes of the barge,
out of the which there came a wonderful passing sweet savour of
perfumes, that perfumed the wharf’s side, pestered with innumerable multitudes of people. Some of them followed the barge
all alongst the river-side: others also ran out of the city to see her
coming in. So that in the end, there ran such multitudes of people one after another to see her, that Antonius was left post
alone in the market-place, in his imperial seat to give audience:
and there went a rumour in the people’s mouths, that the goddess Venus was come to play with the god Bacchus, for the general good of all Asia.
(The Life of Antony, p. 120)
I particolari riguardanti la bellezza di Cleopatra e lo sfarzo con
il quale ella si presenta compaiono in entrambi i testi, come il
fatto che, invitato a cena sull’imbarcazione della Regina d’Egitto,
Antonio sia subito attratto dalla sua bellezza e dal suo fascino.
In Shakespeare la descrizione ha luogo nel bel mezzo dei festeggiamenti per il riavvicinamento di Antonio e Ottaviano,
quando, usciti i personaggi principali, rimangono sulla scena Enobarbo, Mecenate e un paio di altri uomini. Il racconto assume
ora una sfumatura di pettegolezzo, che sembra anticipare la decadenza morale di Antonio, la sua rottura con Roma e, quindi, la
sua rovina. Enobarbo, infatti, non tarda a precisare che, pur sposandosi con Ottavia, Antonio non ha nessuna intenzione di la145
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
sciare la bella regina d’Egitto, le cui arti ammaliatrici riusciranno
a tenerlo lontano dalla virtuosa e timida Ottavia.
La scena prosegue con l’incontro di un indovino, presente anche in Plutarco, che predice ad Antonio che egli temerà Ottaviano e che la sua vita sarà breve.
Il resto del Secondo atto sposta l’attenzione, dopo una breve
scena sulla gelosia di Cleopatra alla notizia del matrimonio di
Antonio, sulle questioni politiche e sull’incontro di pace dei
Triumviri con Sesto Pompeo a Capo Miseno: questi è alquanto
risentito nei confronti di Antonio, dimostratosi, a suo dire, poco
grato, allorché egli aveva interposto i suoi buoni uffici presso la
madre di Antonio al tempo dello scontro con Ottaviano, ma stipulata la pace e date a Sesto la Sardegna e la Sicilia, l’incontro
prosegue con una cena sulla galea di Sesto, dove tutti si lasciano
trascinare dalla rinnovata atmosfera di distensione: alla fine si
vedono Lepido ubriaco che scherza con Antonio, Ottaviano che
si pente di avere bevuto troppo e Sesto Pompeo che, trattenuto
da Mena, si rifiuta di permettere al servo di tagliare le corde della
nave dei Triumviri.
A questo punto in Plutarco segue una lunga parentesi sui successi di Antonio contro i Parti, vicenda che Shakespeare confina
in una scena molto breve, la Prima del Terzo atto, in cui Ventidio, generale al comando del Triumviro, racconta come il suo signore si sia distinto in battaglia:
Ventidius: Now, darting Parthia, art thou struck, and now
Pleased Fortune does of Marcus Crassus’ death
Make me revenger.
(III, i, 1-3)
La scena si conclude con la constatazione che, senza i loro subordinati, neppure i grandi generali potrebbero conseguire vittorie sui nemici:
146
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Ventidius: I could do more to do Antonius good,
But ‘twould offend him, and in his offence
Should my performance perish.
(III, i, 25-27)
Il senso dell’onore ed il rispetto per il proprio signore fanno di
Ventidio un uomo semplice e ligio alla gerarchia militare: ancora
una volta, l’ordine che governa Roma brilla sul caos e sulla dissolutezza dell’Egitto.
La Seconda e la Terza scena sono quasi interamente inventate
da Shakespeare, che si sofferma sulla partenza di Antonio ed Ottavia, e sulla descrizione di quest’ultima: siamo ad Alessandria
ed un messo, sventurato ed indifeso, deve informare Cleopatra
del matrimonio di Antonio ed Ottavia e, come se non bastasse,
deve rispondere alla domande che la Regina, furiosamente gelosa
della sua rivale, gli pone. Shakespeare, però, non indugia sulla
riconciliazione di Antonio e Cleopatra, non descrive come il
Triumviro nel rivederla si sia lasciato nuovamente irretire dal suo
fascino e torni a commettere gli errori di prima, ma passa subito
a rappresentare gli effetti di questa vita dissoluta sul suo riannodato legame con Ottaviano; pone, invece, l’accento
sull’irritazione di quest’ultimo per l’umiliazione subita dalla sorella Ottavia, ormai dimenticata ed abbandonata. Durante una
conversazione con la moglie, Antonio si lamenta di come Ottaviano sia sceso nuovamente in guerra contro Sesto Pompeo, di
come abbia criticato lui e non gli abbia fornito la quantità di materiale promesso. Il ruolo di Ottavia è quello di intermediaria: infatti, è mandata dal fratello a parlare con il marito, affinché questi riveda la sua condotta e, lasciata Cleopatra, torni a Roma, alla
sua famiglia e ai suoi doveri. Ottaviano, dunque, comincia a meditare una ripresa delle ostilità con Antonio e nella Sesta scena
del Terzo atto racconta come Antonio si atteggi a re d’Egitto e
distribuisca terre ai figli di Cleopatra:
147
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
I’ th’ market-place, on a tribunal silvered,
Cleopatra and himself in chairs of gold
Were publicly enthroned. At the feet sat
Caesarion, whom they call my father’s son,
And all the unlawful issue that their lust
Since then hath made between them. Unto her
He gave the stablishment of Egypt; made her
Of lower Syria, Cyprus, Lydia,
Absolute Queen. […]
His sons he there proclaimed the kings of kings:
Great Media, Parthia and Armenia
He gave to Alexander; to Ptolemy he assigned
Syria, Cilicia and Phoenicia. She
In th’habiliments of the goddess Isis
That day appeared, and oft before gave audience,
As ‘tis reported, so.
(III, vi, 3-11 / 13-19)
Allo stesso modo Plutarco racconta:
For he assembled all the people in the show-place, where young
men do exercise themselves, and there upon a high tribunal silvered, he set two chairs of gold, the one for himself, and the
other for Cleopatra, and lower chairs for his children: then he
openly published before the assembly, that first of all he did establish Cleopatra queen of Egypt, of Cyprus, of Lydia, and of
the lower Syria, and at that time also, Caesarion king of the
same realms. […] Secondly he called the sons he had by her, the
kings of kings, and gave Alexander for his portion, Armenia,
Media, and Parthia, when he had conquered the country: and
unto Ptolomy for his portion, Phoenicia, Syria, and Cilicia. […]
Now for Cleopatra, she did not only wear at that time, (but at
all other times else when she came abroad) the apparel of the
goddess Isis, and so gave audience unto all her subjects, as a new
Isis.
(The Life of Antony, p. 140)
148
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Raggiunta da queste notizie e soprattutto dai venti della guerra che Ottaviano sta per dichiarare ad Antonio, Ottavia apprende
che il marito è tornato da Cleopatra, che l’ha nominata erede del
suo Impero e che ha riunito i Re delle terre orientali contro il fratello. A questo punto le manovre politiche di Antonio e la pubblica umiliazione che questi impone ad Ottavia fanno sì che la
battaglia sia inevitabile e che le due parti rivali comincino a mettere a punto le loro strategie militari. Il Triumviro non vuole che
Cleopatra partecipi alla guerra, ma ella non accetta di essere
messa da parte e lo persuade a combattere la battaglia per mare.
Nel descrivere la fase preparatoria della battaglia di Azio,
Shakespeare non si attiene completamente alla sua fonte greca;
infatti, non dice che i due amanti si erano diretti a Samo, dove
trascorrevano le giornate tra un banchetto e l’altro, non racconta
che Ottaviano si era visto costretto ad imporre nuove tasse per
finanziare la sua impresa, non spiega come i due eserciti fossero
organizzati. Egli mantiene solo i passi che risulteranno fondamentali da quel punto del testo fino alla conclusione del dramma, sovente interpolando le idee e gli eventi narrati da Plutarco:
episodi come la defezione di Enobarbo, ad esempio, e la fuga di
Cleopatra durante la battaglia vengono dislocati rispetto al testo
originale. Inoltre le scene che riguardano il combattimento vero
e proprio non hanno un effettivo riscontro in Plutarco, ma vengono inventate da Shakespeare, che sposta continuamente la sua
attenzione da Antonio ad Ottaviano e viceversa.
I due episodi riportati sopra sono, a ben vedere, i due momenti più significativi delle scene di lotta. Nel testo shakespeariano la
defezione di Enobarbo avviene quando ormai è chiaro che la fortuna ha cessato di sorridere al Triumviro: questi ha già perso la
battaglia della prima giornata e, in seguito ad una serie di segni
premonitori, lo spettatore diviene consapevole del fatto che nulla
lascia pensare che la sorte di Antonio possa cambiare. La decisione di Enobarbo è rivelata nella conversazione tra Antonio e un
suo soldato:
149
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Antony: Who’s gone this morning?
Soldier:
Who?
One ever near thee. Call for Enobarbus,
He shall not hear thee, or from Caesar’s camp
Say ‘I am none of thine’.
Antony:
What sayest thou?
Soldier:
Sir,
He is with Caesar.
(IV, v, 6-10)
La paura della sconfitta e dell’umiliazione incita Enobarbo a cambiare bandiera e a passare dalla parte del vincitore: decisione, questa,
che si rivelerà fatale per lui. Antonio, deluso, ma consapevole del fatto
che rimanere con lui vuol dire morire, si rassegna alla scelta
dell’amico ed ordina che gli vengano recapitati tutti i suoi averi nel
nuovo campo. Di fronte a tanta generosità Enobarbo comprende il
significato del proprio gesto: ha abbandonato il suo signore ed amico
nel momento del bisogno, lo ha tradito quando aveva bisogno più che
mai della sua presenza e del suo aiuto. Non gli resta che una soluzione, la stessa che adotteranno anche Antonio e Cleopatra: il suicidio. A
differenza di quello che si potrebbe pensare oggi, il suicidio rientrava
nell’etica del soldato romano, che lo concepiva sia come un atto di
coraggio a salvaguardia del proprio onore, sia come la doverosa conclusione per aver mancato di rispetto alla parola data e alla persona
cui si era legati da un vincolo di lealtà. Nel momento in cui Enobarbo
si rende conto di aver commesso un terribile errore a lasciare Antonio
e a schierarsi con il suo nemico, non vede alternative, poiché il suo
codice etico di soldato romano gli impone il suicidio come ammissione della propria vergogna e del proprio torto:
O sovereign mistress of true melancholy,
The poisonous damp of night disponge upon me,
That life, a very rebel to my will,
May hang no longer on me. Throw my heart
Against the flint and hardness of my fault,
Which, being dried with grief, will break to powder
150
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
And finish all foul thoughts. O Antony,
Nobler that my revolt is infamous,
Forgive me in thine own particular,
But let the world rank me in register
A master-leaver and a fugitive.
O Antony! O Antony!
(IV, ix, 15-26):
il povero Enobarbo, dunque, conclude la propria vita invocando il perdono di Antonio ed accusando se stesso di essere un
fuggitivo che lo ha tradito.
Il secondo esempio, cui si è accennato prima, riguarda la decisione di Cleopatra di lasciare il campo di battaglia e di battere in
ritirata con le sue navi:
Howbeit the battle was yet of even hand, and the victory doubtful, being indifferent to both: when sodainly they saw the threescore ships of Cleopatra busy about their yard-masts, and hoising sail to fly. So they fled through the middest of them that
were in fight, for they had been placed behind the great ships,
and did marvellously disorder the other ships. For the enemies
themselves wondered much to see them sail in that sort, with
full sail towards Peloponnesus.
(The Life of Antony, p. 148)
Vedendola fuggire, il povero Antonio, che sta recuperando
terreno contro l’avversario, cade nel tranello e la mossa infantile
di una donna capricciosa lo trasforma da valoroso soldato in
zimbello della sorte, in trastullo nelle mani di una sgualdrina.
“All is lost”, dice quando, dopo aver inseguito Cleopatra nella
sua irresponsabile fuga, si rende conto di aver perduto non solo
la battaglia, ma molto di più:
This foul Egyptian hath betrayed me.
My fleet hath yielded to the foe, and yonder
They cast their caps up and carouse together
151
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Like friends long lost. Triple-turned whore! ‘Tis thou
Hast sold me to this novice, and my heart
Makes only wars on thee. Bid them all fly!
(IV, xii, 10-15)
Alla rabbia di Antonio si aggiunge la delusione per essere stato
abbandonato dalla sua donna: egli è convinto che lo abbia tradito, stringendo un accordo segreto con Ottaviano, un novice, così
lo definisce nei versi riportati sopra, in materia di arte militare e
combattimento. Antonio è disperato e, come se non bastasse,
deve anche fare i conti con la morte simulata di Cleopatra,
l’ennesima scaramuccia d’amore che la Regina d’Egitto ha deciso di giocare al suo amante. Dapprima, l’accusa di tradimento e
scarica su di lei la responsabilità della sconfitta, ma poi, appresa
la notizia della sua morte, la rabbia si trasforma in disperazione
e, sentendosi abbandonato, si ferisce mortalmente. La morte di
Antonio chiude il Quarto atto, lasciando la scena a Cleopatra e
Ottaviano che, fermi nei loro propositi, ripropongono quel contrasto tra Alessandria e Roma, che si era già reso evidente
all’inizio del dramma.
Il Quarto atto inscena la finta morte di Cleopatra: ella sa che
Antonio l’accusa pubblicamente della sua rovina e così decide di
punirlo, facendogli credere di essersi uccisa per il dolore arrecatogli:
Then she being afraid of his fury, fled into the tomb which she
had caused to be made, and there locked the doors unto her,
and shut all the springs of the locks with great bolts, and in the
meantime sent unto Antonius to tell him that she was dead.
(The Life of Antony, p. 154)
Anche la Cleopatra di Shakespeare si chiude nel suo mausoleo
ed ordina che venga detto ad Antonio che si è tolta la vita:
To th’ monument!
Mardian, go tell him I have slain myself.
Say that the last I spoke was ‘Antony’,
152
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
And word it, prithee, piteously. Hence, Mardian,
And bring me how he takes my death. To th’ monument!
(IV, xiii, 6-10)
A differenza di quanto è detto in Plutarco, qui Cleopatra dimostra di voler ancora giocare con il povero Antonio, senza rendersi conto del dolore e del danno che una notizia simile gli potrebbe infliggere. Rifugiatasi nel proprio mausoleo, non vuole
perdere l’occasione di far sapere ad Antonio che la sua reazione
ha provocato la morte della donna che egli ama: vuol fargli credere che, prima di vederlo soffrire, preferisce togliersi la vita. E
questa è la sfumatura che l’uomo coglie nelle parole del messaggero: Cleopatra si è uccisa per pareggiare i conti, dopo essere
stata la causa della sua disfatta.
A questo punto Antonio ha perduto davvero tutto: non solo la
fama e la gloria, il dominio sul mondo e le sue ambizioni, ma anche se stesso e l’amore di Cleopatra. Non gli resta altro che il
suicidio, poiché egli non vuole comparire schiavo nel trionfo che
accoglierà il rientro di Ottaviano a Roma. Chiama allora un suo
fidato servo e gli chiede di aiutarlo in questo passo estremo:
Now he had a man of his called Eros, whom he loved and
trusted much, and whom he had long before caused to swear
unto him, that he should kill him when he did command him:
and then he willed him to keep his promise. His man drawing
his sword, lift it up as though he had meant to have stricken his
maister: but turning his head at one side, he thrust his sword
into himself, and fell down dead at his maister’s foot. Then said
Antonius, O noble Eros, I thank thee for this, and it is valiantly
done of thee, to show me what I should do to my self, which
thou couldst not do for me. Therewithal he took his sword, and
thrust it into his belly, and so fell down upon a little bed. The
wound he had killed him not presently, for the blood stinted a
little when he was laid: and when he came somewhat to himself
again, he prayed them that were about him to despatch him. But
they all fled out of the chamber, and left him crying out and
153
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
tormenting himself: until at last there came a secretary unto him
called Diomedes, who was commanded to bring him into the
tomb or monument where Cleopatra was.
(The Life of Antony, pp 154-155)
E così muore anche l’Antonio di Shakespeare, sopravvissuto al
servo troppo fedele per uccidere il suo signore. Antonio, dice la
didascalia, falls on his sword, ma non riesce ad uccidersi:
Thrice nobler than myself!
Thou teachest me, O valiant Eros, what
I should and thou couldst not! My queen and Eros
Have by their brave instruction got upon me
A nobleness in record. But I will be
A bridegroom in my death and run into’t
As to a lover’s bed. Come then! And, Eros,
Thy master dies thy scholar. To do thus
[Falls on his sword.]
I learned of thee. How? Not dead? Not dead?
The guard, ho! O, dispatch me.
(IV, xiv, 96-105)
Infatti, per uno strano scherzo del destino non si infligge una
ferita mortale e deve chiedere aiuto ai soldati, che lo trasporteranno nel monumento di Cleopatra. Una volta giunto, è issato
con delle corde e, fatto entrare da una finestra, si ricongiunge
con la sua Cleopatra, la quale tenta invano di consolarlo chiamandolo signore, marito e imperatore: tre titoli che, in qualche
modo, contengono la parabola esistenziale di Antonio. Egli, infatti, era il marito della Regina secondo il rito greco, mai riconosciuto valido da Roma e dalle sue leggi, e per questo motivo era
anche il signore del suo cuore. Ma egli era anche il terzo pilastro
del mondo, come viene più volte chiamato nel corso della rappresentazione, e la vittoria ad Azio gli avrebbe regalato il controllo assoluto dell’Impero romano.
Morto Antonio, il Quinto atto è dominato dalla presenza degli
altri due protagonisti del dramma: Ottaviano e Cleopatra. Perdu154
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
ta la possibilità di trascinare un Antonio schiavo nel suo trionfo a
Roma, Ottaviano non vuole privarsi del piacere di far comparire
la Regina d’Egitto nel corteo organizzato per il suo ingresso a
Roma. Per tutto il Quinto atto, quindi, egli è impegnato in una
serie di trattative diplomatiche e di tranelli politici, che mirano
ad aggiudicarsi l’ambito trofeo per il suo rientro in patria. Cleopatra dal canto suo avanza pretese ambiziose: chiede che la corona d’Egitto rimanga ai suoi figli, che questi possano godere
della libertà, essendo tra l’altro figli di cittadini romani. Ottaviano promette di trattarla con gentilezza, ma non le garantisce nulla di più. La Regina, quindi, comincia a pensare al suicidio e
mette a punto un piano, per potersi togliere la vita senza destare
sospetti in Ottaviano, il quale ha prudentemente deciso di farla
sorvegliare.
Dopo essere stata portata sulla tomba di Antonio per porgergli
il suo estremo saluto, Cleopatra può finalmente concludere la
propria vita: indossati i suoi abiti ufficiali e i gioielli più preziosi,
ella si prepara per la cena:
Now whilst she was at dinner, there came a countryman, and
brought her a basket. The soldiers that warded at the gates,
asked him straight what he had in his basket. He opened the
basket, and took out the leaves that covered the figs, and showed
them that they were figs he brought. Then all of them marvelled
to see so goodly figs. The countryman laughed to hear them,
and bade them take some if they would. They believed he told
them truly, and so bade him carry them in.
After Cleopatra had dined, she sent a certain table written and
sealed unto Caesar, and commanded them all to go out of the
tombs where she was, but the two women, then she shut the
doors to her. Caesar when he received this table, and began to
read her lamentation and petition, requesting him that he would
let her be buried with Antonius, found straight what she meant,
and thought to have gone thither himself: howbeit he sent one
before in all haste that might be, to see what it was.
155
Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
Her death was very sodain. For those whom Caesar sent unto
her ran thither in all haste possible, and found the soldiers
standing at the gate, mistrusting nothing, nor understanding of
her death. But when they had opened the doors, they found
Cleopatra stark dead, laid upon a bed of gold, attired and arrayed in her royal robes, and one of her two women, which was
called Iras, dead at her feet: and her other woman called Charmion half-dead, and trembling, and trimming the diadem which
Cleopatra ware upon her head. One of the soldiers seeing her,
angrily said unto her: Is that well done Charmion? Very well said
she again, and meet for a princess descended from the race of so
many noble kings. She said no more, but fell down dead hard by
the bed.
Some report that this aspic was brought unto her in the basket
with figs, and that she had commanded them to hide it under
the fig-leaves, that when she should think to take out the figs,
the aspic should bite her before she should see her: howbeit, that
when she would have taken away the leaves for the figs, she perceived it, and said, Art thou here then? And so, her arm being
naked, she put it to the aspic to be bitten.
(The Life of Antony, pp. 159-160)
In Shakespeare Cleopatra muore alla fine della Seconda scena
del Quinto atto, sola con le sue ancelle più fidate, Ira e Carmiana, nel suo mausoleo. Anche qui ella è vestita con i suoi abiti migliori ed indossa i suoi gioielli più prestigiosi, anche qui ha appena dato l’estremo saluto al suo Antonio e anche qui ha mandato
una lettera ad Ottaviano con le sue ultime volontà. Pure ‘l’arma’
con cui ella si uccide è la stessa: un aspide nascosto in un cesto
di fichi, che un contadino le consegna di persona. La prima a
morire è Ira, alla quale seguirà Cleopatra e, per ultima, Carmiana: la profezia dell’indovino all’inizio del dramma (Atto I, scena
2) trova così compimento e Carmiana, sopravvissuta per poco
alla sua signora, può raccontare ai soldati romani sopraggiunti la
grandezza di Cleopatra, la regina d’Egitto morta suicida per non
dover sottostare al giogo di Roma.
156
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Sulla scena rimane Ottaviano che, date disposizioni per una
giusta sepoltura, si prepara ad organizzare il suo rientro trionfale
nella città eterna.
157
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra
e i testi elisabettiani
Oltre alle opere di Plutarco e di altri scrittori del mondo classico, che Shakespeare aveva a disposizione sia in traduzione sia
in lingua originale, esiste una quantità di testi composti nel XVI
secolo, che, in seguito al successo riportato sulle scene o in corrispondenza al consenso di un pubblico colto e raffinato, circolavano all’epoca in cui il drammaturgo di Stratford si apprestava a
scrivere il primo dei suoi drammi romani. Questi testi, scritti da
autori non solo inglesi, ma anche stranieri, in seguito tradotti,
costituiscono un filone di studi molto interessante, perché il pensiero dei classici vi compare mediato e filtrato da quello elisabettiano, e dall’interpretazione della Storia attraverso la volontà e il
destino di una Sovrana e della sua nazione.
Tutti gli scrittori che sono stati menzionati nel capitolo precedente rappresentarono un solido e affidabile punto di partenza
per gli autori del Medioevo che, sfruttando quel terreno comune,
proposero una propria immagine di Giulio Cesare, la quale poggiava essenzialmente su due aspetti. Uno metteva in evidenza la
straordinaria capacità dell’imperator di gestire le legioni affidategli
dal Senato romano, nonché la sua signorile cortesia nei confronti
di amici e alleati; l’altro il contrario, poiché tanta forza e tanto
potere avrebbero potuto solo nuocere all’assetto politico di Roma, alla sua armonia, al suo benessere, e all’equilibrio conquistato dalle componenti dello Stato. Cesare non era solo potente
contro i nemici e gentile con gli amici, ma anche ambizioso e desideroso di controllare il mondo come unico monarca assoluto1.
1
Narrative and Dramatic Sources of Shakespeare, vol. V, The Roman Plays,
(ed. by G. BULLOUGH), p. 18.
159
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Tra gli autori medievali si possono ricordare: Tommaso
d’Aquino, che nel De Regimine Principum parla di Giulio Cesare e
di come egli sia un esempio ora di mitezza ora di crudeltà, ma
non prospetta una visione storica della sua vita e della sua politica; Dante Alighieri, che lo colloca nel Limbo con Elettra, Ettore
ed Enea, e lo descrive con gli “occhi grifagni”, per poi riscattarlo
nel Canto VI del Paradiso dove lo mette in relazione col grande
Impero di Roma; Petrarca, che nei Trionfi ne parla come di una
vittima di Cupido e della Fama; Boccaccio, che ne ritrae la morte nell’Amorosa Visione e nel De Casibus Illustrium Virorum.
La concezione positiva o, comunque, simpatizzante nei confronti di questo personaggio, che era emersa nel Medioevo, trova
una smentita nel Rinascimento, quando torna a prevalere la visione ciceroniana e della validità del gesto di Bruto e Cassio.
Tuttavia, nemmeno il Rinascimento fu immune dal fascino di
Cesare che, come fa notare Bullough2, cominciò ad essere preso
in considerazione come modello per gli aspiranti monarchi
dell’epoca. Tra tanti esempi il più interessante per la letteratura
inglese è fuor di dubbio quello di Enrico VIII Tudor, che venne
elogiato da Erasmo da Rotterdam perché aveva la forza di volontà di Giulio Cesare, la razionalità di Augusto e numerose altre
virtù di altrettanti personaggi della Storia. L’umanista Colet, invece, consigliava al re di seguire Cristo piuttosto che Alessandro
o Cesare; Lutero considerava quest’ultimo un tiranno distruttore
della Repubblica romana e Montaigne lo riteneva nemico giurato
della libertà.
Tra i testi scritti in lingua inglese e collocabili nel XVI secolo,
il Mirour for Magistrates propone una sua visione di Giulio Cesare
che, nell’edizione del 1587 curata da John Higgins, lo spirito del
condottiero parla di sé in un lungo flashback che, partendo dalle
imprese giovanili, giunge alla conquista della Britannia, alla
sconfitta di Pompeo e alla morte. Egli si descrive affermando che
2
Ibi, p. 21.
160
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
In journey swift I was, and prompte and quiche of witte,
My eloquence was likte of all that hearde me pleade,
I had the grace to use my tearmes, and place them fitte,
My roling Rhetoricke stoode my Clients oft in steade:
No fine conveyance past the compasse of my heade.
I wan the spurres, I had the laud and prayse,
I past them all that pleaded in those dayes,
I had of warlike knowledge, Keasar, all the keyes.
(vv. 65-72)3
Inutile dire che la parte più interessante è quella che riguarda
la fine della sua vita, da cui emergono elementi comuni con il testo di Shakespeare. In questi versi, lo spirito di Cesare narra di
come la notte prima del suo assassinio avesse sognato di camminare vicino a Giove e di come sua moglie Calpurnia avesse fatto
sogni allarmanti, premonitori di un immediato futuro funesto:
The night before my slaughter, I did dreame
I caried was, and flewe the clouds aboue:
And sometime hand in hand with Joue supreame
I walkte mee thought, which might suspitions moue.
My wife Calphurnia, Caesars only loue,
Did dreame shee sawe her crest of house to fall,
Her husband thrust through breast a sword withall,
Eke that same night her chamber dores themselues flewe open
all.
(vv. 345-352)
Sebbene il racconto della notte precedente le Idi di marzo sia
qui ridotto all’essenziale, si può riconoscere quanto sarà riportato
in forma più particolareggiata nel dramma di Shakespeare. La
scena è la Seconda del Secondo atto e sul palcoscenico compare
un Cesare diverso da quello del Primo atto. Ora egli è colto nella
dimensione privata: è nella sua casa, in vestaglia, dopo una notte
3
The Mirour for Magistrates, ibi, pp. 168-173. L’edizione cui si fa
riferimento è quella curata da John Higgins, riportata nel primo capitolo.
Tutte le citazioni dal Mirour fanno riferimento a questa edizione.
161
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
tormentata dal temporale e da sogni infausti. Lo raggiunge Calpurnia, che gli racconta a sua volta i propri incubi e gli chiede
preoccupata di non andare in Campidoglio: assalito dai dubbi e
dal timore che il sogno della moglie sia un grande segno premonitore, Cesare decide di non sfidare la sorte e di rimanere in casa. Benché egli sostenga che “Danger knows full well / That Caesar is more dangerous than he” (II, ii, 44-45), alla fine cede alla
paura e dice a Decio, il congiurato giunto a casa sua per recarsi
con lui in Senato:
And you are come in very happy time
To bear my greeting to the senators
And tell them that I will not come today.
Cannot, is false; and that I dare not, falser.
I will not come today. Tell them so, Decius.
(II, ii, 60-64)
Il messaggio affidato a Decio oscilla sui termini utilizzati, che
rivelano l’indecisione di cosa sia meglio dire e di quale immagine
di sé sia più opportuno comunicare. Cesare gioca sui modali che
sfumano tra il cannot, il dare not e, quindi, il will not: alla fine la
scelta cade sul modale will e, di conseguenza, sulla sfumatura che
implica la volontà. Cesare, dunque, non andrà in Campidoglio
per un motivo legato alla sua volontà e non all’impossibilità che
deriva da presagi funesti.
La titubanza presente nelle parole del Cesare shakespeariano
appartiene anche al testo di Higgins, dove viene detto che
These thinges did make mee doubte that morning much,
And I accrazed was and thought at home to stay:
But who is hee can voyde of destnyes such,
Where so great number seekes hym to betray.
(vv. 353-356)
Ma alla fine, nonostante le raccomandazioni della moglie e il
responso degli àuguri, Cesare va incontro al suo destino e
Assoone as I was set, the traytors all arose,
162
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
And one approached nere, as to demaund some thing:
To whom as I layd eare, at once my foes
Me compast round, their weapons hid they bring.
Then I to late perceiv’d the fatall sting.
(vv. 377-381)
Egli è ucciso a tradimento dalle medesime persone che hanno
assistito al suo trionfo e che si sono recate a prenderlo a casa. Allo stesso modo anche il Cesare di Shakespeare, circondato dai
congiurati che lo pugnalano in diverse parti del corpo, muore
proprio sotto la statua di Pompeo.
A differenza della tragedia, però, il testo di Higgins offre ai
suoi lettori una lezione, che nel dramma non era possibile dare,
se non in modo indiretto, attraverso il destino dei personaggi in
scena e lo scambio di battute nei loro dialoghi. Nel caso del Mirour tale lezione è impartita dalle parole dello stesso Cesare, che
si rivolge direttamente ai regnanti, facili prede dell’ambizione:
You Princes all, and noble men beware of pride,
And carefull will to warre for Kingdomes sake:
By mee, that set my selfe aloft the world to guide,
Beware what bloudsheds you doe undertake.
(vv. 385-388)
e ancora qualche verso più sotto,
Full many a noble men, to rule alone, I slewe,
And some themselues for griefe of hart did slay:
For they ne would mine Empyre stay to vewe.
Some I did force to yeelde, some fled away
As loth to see theyr Countryes quite decay.
The world in Aphrike, Asia, distant far,
And Europe knew my bloudsheds great in war,
Recounted yet through all the world that ar.
But sith my whole pretence was glory vayne,
To have renowne and rule above the rest,
Without remorce of many thousands slayne,
163
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Which, for their owne defence, their warres addrest:
I deeme therefore my stony harte and brest
Receiv’d so many wounds for just revenge, they stood
By justice right to Jove, the sacred sentence good,
That who so slayes, hee payes the price, is bloud for bloud.
(vv. 393-408)
La vicenda di Giulio Cesare, perciò, non deve solo fornire il
modello di un condottiero, ma servire da monito a coloro che si
trovano alla guida di uno Stato, affinché non si lascino divorare
dalle loro ambizioni.
Oltre al Mirour vennero scritti negli stessi anni altri drammi
sulla figura di Cesare, drammi che poi vennero rappresentati nelle università: è il caso del Caesar Interfectus di un certo Richard
Eedes, messo in scena a Christ Church di Oxford nel 15811582. Come spiega Bullough4, di questo testo è sopravvissuto solo l’epilogo, che riguarda i fatti accaduti dopo la morte di Cesare
in Campidoglio. La parte pervenutaci comprende una breve nota, in cui si dichiara che era compito dello stesso Eedes recitare il
suddetto epilogo. Lo stile poco prolisso, ma chiaro e schietto di
questa lunga battuta in prosa ricorda da vicino lo stile
dell’orazione funebre di Bruto nel dramma di Shakespeare ed
aiuta lo spettatore a distinguere senza difficoltà il ruolo di Cesare
e quello di Bruto. “Caesar triumphed forcibly over the Republic;
Brutus over Caesar”5: l’affermazione lapidaria con cui si apre
l’epilogo indica la chiave di lettura dei fatti del dramma che si sta
concludendo. Cesare ha trionfato sulla Repubblica, ma Bruto ha
trionfato su di lui, eliminando la sua tirannia e la sua ambizione
di monarca assoluto: Bruto ha fatto bene a restaurare la libertà,
ma ha sbagliato a ritenere che avrebbe potuto farlo uccidendo
Cesare. È lo stesso concetto, qui espresso in forma sintetica, che
si trova anche nella tragedia di Shakespeare: dopo l’assassinio di
4
5
Ibi, p. 33.
R. EEDES, Caesar Interfectus, in ibi, p. 195.
164
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Cesare i congiurati si accorgono da soli, grazie alla reazione del
popolo, che l’assassinio di Cesare non ha risolto il problema e
non li ha avvicinati al loro obiettivo. Essi, infatti, hanno ucciso la
persona, ma non ciò che essa simboleggiava ed è proprio per
questo motivo che, dopo la scena dell’uccisione, il protagonista
diventa non il Cesare in carne ed ossa, ma il suo spirito. Prima
della battaglia di Filippi Bruto verrà visitato dal fantasma del suo
nemico, il che allude ad un chiaro presagio di morte.
L’attenzione di Eedes è tutta concentrata sulla questione della
tirannia e del tiranno che, come si può vedere nelle parole riportate di seguito, sono due concetti ben distinti, a partire dal fatto
che costituiscono i motivi per cui Bruto e Cassio hanno organizzato la loro congiura:
The former hated tyranny, the latter the tyrant. Caesar’s fate
seems just if we consider his tyranny, but unjust if we consider
the man he was. But the Gods do not suffer tyrants, however excellent they be; and to Caesar it was given as if in reward for so
much virtue that he might see, but not avoid, his ruin6.
Sempre a Christ Church di Oxford, ma nel 1588, venne messo in scena anche un dramma su Ottavia, mentre negli anni Novanta, al Trinity College di Oxford, fu allestita una rappresentazione di The Tragedie of Caesar and Pompey, or Caesar’s Revenge.
Il dramma, meglio conosciuto come Caesar’s Revenge, fu pubblicato solo nel 1607, e, sebbene sia diverso dalla tragedia shakespeariana, presenta alcuni elementi in comune con quest’ultima.
In primis i due lavori in questione coprono un arco di tempo ben
più lungo degli altri testi che circolavano all’epoca, in secundis entrambi ripropongono l’avvicinamento di Bruto alla congiura,
l’indecisione di Cesare, il percorso verso il portico di Pompeo,
l’assassinio e le orazioni sul cadavere dello stesso Cesare. Particolarmente significativa è anche la violenta profezia di Antonio
nel dramma di Shakespeare
6
Ibidem.
165
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Woe to the hand that shed this costly blood.
Over thy wounds now do I prophesy
(Which like dumb mouths do ope their ruby lips,
To beg the voice and utterance of my tongue)
A curse shall light upon the limbs of men;
Domestic fury and fierce civil strife
Shall cumber all the parts of Italy;
Blood and destruction shall be so in use,
And dreadful objects so familiar,
That mothers shall but smile when they behold
Their infants quartered with the hands of war:
All pity choked with custom of fell deeds;
And Caesar’s spirit, ranging for revenge,
With Ate by his side come hot from hell,
Shall in these confines with a monarch’s voice
Cry havoc and let slip the dogs of war,
That this foul deed shall smell above the earth
With carrion men, groaning for burial.
(III, i, 258-275),
che trova un suo corrispondente nella parole sanguinarie del
Caesar’s Revenge,
The balefull harvest of my joy, thy woe
Gins ripen Brutus, Heavens commande it so.
Pale sad Avernus opes his jawning Jawes,
Seeking to swallow up thy murtherous soule,
The furies have proclaym’d a festivall:
And meane to day to banquet with thy bloud,
Now Heavens array you in your cloudy weedes:
Wrap up the beauty of your glorious lamp,
And dreadfull Chaos, of sad drery night,
Thou Sunne that climest up to the easterne hill:
And in thy Chariot rides with swift steeds drawne,
In thy proud Jollity and radiant glory:
Go back againe and hide thee in the sea,
Darkenesse to day shall cover all the world:
166
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Let no light shine, but what your swords can strike,
From out their steely helmes, and fiery shildes:
Furies, and Ghosts, with your blue-burning lampes,
In mazing terror ride through Roman rankes:
With dread affrighting those stout Champions hearts,
All stygian fiendes now leave whereas you dwell:
And come into the world and make it hell.
(V, i, 2129-2149)7
Questa è la lunga battuta che Discordia pronuncia nella Prima
scena del V atto, poco prima che la battaglia di Filippi abbia inizio. La morte di Cesare non ha permesso ai congiurati di raggiungere il loro obiettivo, ma solo di privare Roma della pace che
Cesare avrebbe potuto garantirle.
Lo stesso interesse che gli Elisabettiani manifestano nei confronti di Giulio Cesare è rivolto anche ad Antonio e, soprattutto,
a Cleopatra, la cui fama di donna affascinante e senza scrupoli
aveva superato la prova del tempo. Molti dei testi menzionati per
il Julius Caesar devono essere ricordati pure per l’Antony and Cleopatra, poiché la regina d’Egitto aveva avuto un ruolo importante
nella vita e nella politica di Cesare. La Storia, infatti, tramanda
che Cesare aveva conosciuto Cleopatra e le sue doti di amante
spregiudicata ben prima che Antonio comparisse sulla scena politica e militare di Roma: egli, infatti, aveva inseguito Pompeo fino ad Alessandria, lì aveva conosciuto Cleopatra, al tempo in cui
era acerrima rivale del fratello nella lotta per il trono, se ne era
innamorato e l’aveva addirittura portata con sé a Roma, per farne pubblicamente e senza remore la sua amante. Dalla loro relazione era nato anche un figlio, Cesarione, la cui presenza ricorre
con frequenza nei drammi che furono dedicati a Cleopatra nel
XVI secolo.
Tra gli autori che si potrebbero menzionare, ci sono Orazio:
per il quale ella è una “mad Queen” che ha asservito Antonio8;
7
Ibi, p. 206.
167
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Virgilio, nel cui libro VIII dell’Eneide Enea vede riflesso sullo
scudo di Venere la battaglia di Azio con Antonio che fugge dietro
a Cleopatra; Lucano che, pur disapprovando Cesare e la sua politica, nel libro X del Bellum Civile, ricorda come Cesare avesse
conosciuto Cleopatra ad Alessandria e come quest’ultima lo avesse convinto ad aiutarla nella conquista del trono. Lucano, in
particolare, accenna alla sua bellezza demoniaca, non meno pericolosa per Roma di quanto non lo fosse stata quella di Elena per
Troia9, alla magnificenza del suo palazzo, alla ricchezza dei suoi
gioielli e allo sfarzo del banchetto offerto al suo ospite.
È una Cleopatra calcolatrice anche quella che ci viene presentata da Lucio Anneo Floro nella sua Storia di Roma, in cui si afferma che Antonio, un debole per natura, si era lasciato trascinare dalla strategia ammaliatrice della sua amante:
The furie of Antonie which ambition could not kill, was quencht
with wanton lust, and riot, for after his Parthian journey growing
into hatred with warre, he gave himselfe over to rest, and surprised with the love of Queene Cleopatra, solaced on her bosome, as freely as if all other matters had succeeded well. This
Egyptian woman did value her companie at no lesse a rate to Antonie drunken with love, then the whole Roman empire. & he
8
ORAZIO, Epode IX, in ibi, p. 218. Per quanto riguarda Orazio, si ricorda
che egli parla di Cleopatra anche nel I Libro dei Carmina, nel Carme
XXXVII, dove sostiene la tesi che ella avesse conquistato Antonio per
espandere il proprio dominio anche sull’Italia.
9
LUCANO, Pharsalia, Libro X, in ibi p. 218. Per quanto riguarda il testo di
Lucano, è necessario fare una precisazione sul titolo. Stando alla biografia di
questo autore, egli morì prima di avere concluso il proprio lavoro su Cesare,
Pompeo e la battaglia di Farsalo. Coloro che presero il lavoro e lo portarono a
compimento dopo la sua morte, non gli misero un titolo preciso, e così il
lavoro passò alla storia come Pharsalia, ossia un testo che racconta tutto
quello che storicamente portò alla conclusione della rivalità tra Cesare e
Pompeo a Farsalo. Quando era ancora in vita, però, Lucano aveva indicato
come titolo Bellum Civile. Ciò che si vuole qui precisare, quindi, è che nel
presente lavoro, il testo di Lucano verrà citato sempre come Bellum Civile,
nonostante le fonti consultate riportino il titolo Pharsalia.
168
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
promised it as if the Romans were more easily to be dealt with
then the Parthians. Therefore hee began to plot a tyrannie, nor
that covertly, but forgetting his countrey, his name, his gowne,
his fasces, hee absolutely degenerated into no lesse a monster in
his understanding, then he did in his affection, and fashion, hee
went with a staffe of gold in his hand, a Persian sword by his
side, a purple robe buttond with huge precious stones, and a
diadem in readinesse, that a king might enjoy a Queene10.
Gli aspetti positivi del fascino di Cleopatra vengono messi in evidenza, invece, da Dione Cassio che, seguendo Plutarco, spiega:
For she was a woman of surpassing beauty, and at that time,
when she was in the prime of youth, she was most striking; she
also possessed a most charming voice, and a knowledge of how
to make herself agreeable to everyone. Being brilliant to look
upon and to listen to, with the power to subjugate everyone,
even a love-sated man already past his prime, she thought it
would be in keeping with her role to meet Caesar, and she reposed in her beauty all her claims to the throne11.
(XLII, 34, 4-5)
Con il passare del tempo, la fama di Cleopatra non subisce né
alterazioni né battute d’arresto, ma si conferma tra i principali
motivi d’interesse e curiosità dei testi classici. Anche nel Medioevo, la Regina d’Egitto non viene affatto trascurata: è menzionata da Dante che la colloca nel canto V dell’Inferno con Semiramide, Didone, Elena, Tristano, Paolo e Francesca, e da Boccaccio, che ne parla come di una donna stravagante capace di irretire Antonio, a sua volta uomo crudele ed ambizioso. In Inghilter10
LUCIO ANNEO FLORO, Roman Histories, trad. di E.M.B[olton], 1619, in
Narrative and Dramatic Sources of Shakespeare (ed by G. BULLOUGH), pp. 336337.
11
DIONE CASSIO, Dio’s Roman History with an English translation by Earnest
Cary, Ph.D., on the basis of the version of Herbert Baldwin Foster, Ph.D. In nine
volumes, vol. IV, ed. by E. Cary, Cambridge (Mass.), Harvard University
Press / London, William Heinemann LTD, 1954.
169
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
ra, Chaucer riscatta la sua immagine di amante terribile e nella
Legend of Good Women ne fa una donna sventurata in amore.
Come fa notare Bullough12, con la rappresentazione rinascimentale di alcuni drammi, soprattutto italiani, la figura di Cleopatra subisce un cambiamento, che convoglia l’attenzione del
pubblico sulla pietà e l’orrore suscitati da un tale personaggio.
Ne è un esempio quanto riportato nel dramma composto da Giraldi Cinzio nel 1542, di cui Bullough propone l’edizione inglese
del 1583. La sua Cleopatra, infatti, comincia con un prologo letto
dall’Autore stesso, in cui egli non solo parla del potere purificatore della tragedia come genere teatrale rispetto alla commedia,
ma spiega come tale purificazione sia possibile attraverso la pity e
lo horror che la contraddistinguono:
In it are imitated real actions
With such solemnity and such decorum
As pity springs from them and also horror,
Purging our mortal souls from every vice
And making us towards virtue only yearn
By seeing how those persons meet their end
Who are not either wholly good or bad.
(vv.11-17)13
Inutile dire che tanto moralismo non servirebbe a nulla se
l’Autore non si congedasse dal suo pubblico senza inviargli un
messaggio importante:
Here now, Spectators, you shall see how little
True happiness can be got from Empires, Wealth,
Power and all other human attributes
When the pursuit of pleasure outruns virtue;
Pleasure which draws a man beyond his scope.
12
Narrative and Dramatic Sources of Shakespeare (ed. by G. BULLOUGH), p.
222.
13
Nel testo di G. Bullough, da cui le citazioni dal Cinzio sono tratte, non è
riportato il nome del traduttore inglese. Si specifica solo che si tratta
dell’edizione del 1583.
170
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
For greater war against imperial rule
Is made by pleasures and delights beyond
The customary rule of human reason
Than many squadrons of armed enemies,
And he alone can reign for long and well
Who, taking light of reason for his guide,
Knows to command and rule over himself.
(vv.27-38)
È evidente in queste parole il monito che accompagna molti
testi dell’epoca riguardanti la vicenda di Antonio e Cleopatra. Il
richiamo alla prudenza e al controllo delle proprie ambizioni sono elementi tipici, che si riscontrano anche nella letteratura inglese di questo tipo del XVI secolo: il movente di tanto interesse
va quasi sicuramente ricercato nel timore di guerre civili tra fazioni opposte per la conquista del trono e del potere. Tutto questo l’Inghilterra lo aveva vissuto, quando le Guerre delle Due
Rose tra Lancaster e York avevano dilaniato il Paese per quasi
tutto il XV secolo, almeno fino a quando Enrico Tudor non aveva saputo imporsi su Riccardo III, sconfiggendolo a Bosworth
nel 1485. La Pax dei Tudor era, dunque, un bene prezioso cui
l’Inghilterra non voleva rinunciare, soprattutto ora che, sul finire
del regno di Elisabetta I, destinata a lasciare questo mondo senza
un erede diretto e legittimo, all’orizzonte si alzavano nuovi venti
di guerra tra i vari contendenti al trono, e l’Inghilterra, dopo aver
ritrovato un proprio equilibrio politico e religioso, si era imposta
sullo scacchiere delle potenze europee ed aveva iniziato la grande
avventura dell’impero coloniale.
La tragedia del Cinzio si sviluppa in un arco temporale che va
dalla sconfitta decisiva di Antonio, di poco precedente
all’umiliazione della battaglia navale di Azio, e si conclude con la
morte di Cleopatra, che si uccide non con l’aspide, ma secondo
le modalità riportate da Plutarco nelle sue Vite Parallele.
Oltre ai testi italiani di Giulio Landi (Vita di Cleopatra, del
1551) e di Cesare de’ Cesari (Cleopatra, del 1552), è opportuno
171
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
ricordare altre due tragedie scritte in francese, che circolarono in
Inghilterra dove ebbero successo: la prima è la Cléopatre Captive
di Estienne Jodelle (1552) e la seconda il Marc Antoine di Robert
Garnier (1578). Il lavoro di Jodelle deve molto a Muret e al suo
Caesar, nonché a de’ Cesari, a De Baif e alla sua traduzione
dell’Hecuba di Euripide. Il testo, che comprende un arco temporale corrispondente al giorno in cui Cleopatra è ormai prigioniera
di Ottaviano e decide di togliersi la vita, è particolarmente intriso
di commenti moraleggianti, che mirano a sottolineare come la
storia della Regina sia una storia più di orgoglio che di amore.
Diverso è il caso dell’altro testo francese, di cui si parlerà più
avanti, perché fu tradotto dalla contessa di Pembroke, che in
questo modo si pose come iniziatrice del “courtly Senecan movement which led several members of her circle to write Roman
tragedies within the next ten or fifteen years”14.
Prima di concludere la disamina dei testi che costituirono un
interessante sostrato culturale al lavoro di Shakespeare, è opportuno ricordare anche la Tragicomedi of the Virtuous Octavia, che
Samuel Brandon diede alle stampe nel 1598 e dedicò alla truly
vertuous Lady Lycia Audelay. Dall’Argument si apprende che il
dramma riguarda Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio, umiliata dal comportamento del marito e dalla sua vita dissipata al seguito di Cleopatra. Le due donne, rivali in amore poiché legate allo stesso uomo, sono tra loro antitetiche: Ottavia è,
infatti, l’immagine della purezza e dell’amore muliebre devoto e
fedele, mentre Cleopatra è l’icona della perversione, e dell’amore
trasgressivo e passionale. Antonio è conteso nella lotta tra il bene
e il male e, come spesso accade in circostanze simili, il fascino
del male sottrae al bene la sua preda con estrema facilità. Nel testo di Brandon la bella ed onesta Ottavia è dibattuta tra il perdono da accordare al marito per evitare spargimenti di sangue in
suo nome, e il desiderio di vendicarsi, per essere stata trattata
14
Ibi, p. 229.
172
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
senza ritegno. Assegnandole il ruolo da protagonista, un dramma
per la prima volta non confina Ottavia in un angolo della vita di
Antonio e all’ombra di Celopatra, che nel lavoro shakespeariano,
si rivelerà addirittura gelosa di lei. Le due donne sono messe indirettamente a confronto e ciascuna delle due si fa portavoce di
convenzioni letterarie precise, poiché Ottavia è l’incarnazione
della delicata bellezza petrarchesca, mentre Cleopatra lo è
dell’esatto contrario.
L’accostamento tra due figure femminili così dissimili si propone in tutti i testi presi in considerazione in queste pagine: focalizzando l’attenzione su Cleopatra, automaticamente si innesca
un meccanismo di confronto tra colei che aveva sposato Antonio
secondo il rito romano, e quindi riconosciuto dalle leggi di Roma, e colei che, invece, aveva sottratto quell’uomo ai doveri di
marito e di padre per legarlo a sé nel vincolo del matrimonio
greco, inammissibile per Roma.
A differenza di quanto era successo con Giulio Cesare, di cui
interessavano solo la carriera militare e il pensiero politico, nonché l’atteggiamento di potenziale tiranno di Roma, con Antonio
e Cleopatra ciò che maggiormente attrae lo spettatore non è tanto la vicenda storica di Azio e della sottomissione dell’Egitto a
Roma, quanto la storia d’amore travagliata che lega i due amanti. In entrambi i casi, però, l’interesse per il mondo romano introduce gli Elisabettiani allo studio della Storia come magistra vitae, da cui apprendere le regole del buon governo, individuare gli
errori da evitare e riconoscere modelli sui quali costruire la propria epopea.
173
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
174
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Il Cesare (1594)15
Di questo testo non esistono attualmente sue traduzioni inglesi, il che induce ad alcune riflessioni. Nel corso dei secoli, e soprattutto per buona parte del XX secolo, la critica shakespeariana si è chiesta se Shakespeare fosse mai venuto in Italia, se conoscesse l’italiano e, in caso affermativo, a quale livello corrispondesse la sua fluency nel parlarlo e nel comprenderlo. A parte una
serie di teorie strampalate e sommarie, che gli attribuiscono origini italiane, non sono ancora state trovate prove soddisfacenti
per rispondere a queste domande. Il mistero si infittisce e diventa ancor più coinvolgente quando alla curiosità su questo dato
biografico si aggiunge anche quello della composizione dei suoi
drammi e della consultazione delle opere che costituirono le sue
fonti. Non trovando traduzioni in inglese del Pescetti, si possono
fare solo delle ipotesi: la prima, che esistesse una traduzione poi
andata perduta, il che non sarebbe così improbabile; la seconda,
il drammaturgo fosse in contatto con degli Italiani a Londra, i
quali gli avrebbero potuto fornire una traduzione informale; la
terza, che egli conoscesse l’italiano, e che si muovesse con disinvoltura ed autonomia nella lettura e comprensione del testo. Il
punto è che la vicinanza tra il lavoro di Shakespeare e quello di
Pescetti è così evidente che si dovrebbe escludere una qualsiasi
traduzione sommaria e grossolana: i due Autori condividono gli
stessi termini nel connotare alcuni personaggi, propongono scene
non uguali ma sicuramente molto simili e vedono nella congiura
contro Cesare e nella sua morte il motivo fondamentale della lotta alla tirannia. In conclusione, non conoscendosi traduzioni in-
15
ORLANDO PESCETTI, Il Cesare. Tragedia di Orlando Pescetti dedicata al
Serenissimo Principe Donno Alfonso II d’Este duca di Ferrara, nella stamparia di
Girolamo Discepolo, Verona, 1594. Le citazioni dal testo di Pescetti fanno
tutte riferimento a questa edizione. L’immagine riportata nella pagina
precedente è presa da questa edizione.
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
glesi del Pescetti, si può solo ricorrere a traduzioni possibili, anonime e senza riferimenti temporali, come propone Bullough16.
Come si legge sul frontespizio, Orlando Pescetti, autore della
tragedia che sicuramente contribuì alla stesura del dramma shakespeariano17, dedicò il suo lavoro al Duca di Ferrara Alfonso II
d’Este, l’ultimo di una grande dinastia di mecenati e protettori
delle arti. Ad Alfonso II, infatti, toccò la sventura di vedere il
proprio Ducato annesso allo Stato Pontificio: i due matrimoni
contratti da giovane non gli avevano dato nessun erede e così,
come egli temeva da tempo, il Ducato di Ferrara passò sotto il
controllo dell’acerrimo rivale di sempre. La lunga dedica che Pescetti antepone all’elenco degli Interlocutori del dramma e, quindi, all’inizio del Primo atto, propone un interessante parallelismo
tra Giulio Cesare, protagonista del dramma, e Alfonso II: i nobili
natali e le ancor più nobili origini, che si perdono nel lontano mito della fondazione di Roma, la stessa vita vissuta per il bene del
proprio popolo e la connaturata inclinazione alla virtù sono elementi sufficienti, secondo l’Autore, per collocare sullo stesso piano questi due famosi personaggi storici.
Il sipario si apre con una sorta di Prologo in cui Marte, Venere e Giove ripercorrono le tappe della carriera militare di Giulio
Cesare, ricordando i suoi trionfi sui Galli e sulle popolazioni
germaniche, fino ad arrivare all’amara conclusione del destino di
morte che lo aspetta, morte che, a ben vedere, lo consegnerà alla
gloria eterna, facendone una creatura mitica.
A differenza di quanto succede in Shakespeare e in altri
drammi contemporanei, la Prima scena del Primo atto porta sul
palcoscenico Bruto e Cassio che, in angoli opposti del palco, riflettono sul futuro di Roma e sui rischi che l’ascesa di Giulio Cesare potrebbe comportare. I due personaggi esprimono il proprio
16
Narrative and Dramatic Sources of Shakespeare, vol. V, The Roman Plays,
(ed. by G. BULLOUGH), p. 174.
17
Il titolo di questa tragedia, infatti, compare in tutte le edizioni del Julius
Caesar e viene annoverata tra le sue fonti.
176
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
pensiero, ma senza accorgersi l’uno dell’altro: il primo è, in realtà, già vincolato alla causa della congiura, che di lì a poco prenderà forma, mentre il secondo, che è lontano dal credere di poter
contare su Bruto, pensa a complottare contro Cesare. Finalmente i due, resisi conto della reciproca presenza, si avvicinano al
centro del palcoscenico, e cominciano a parlare e a scambiarsi i
propri pensieri. Cassio si accosta a Bruto, che ai suoi occhi è
[…] sourano pregio, e gloria della
Romana gioventù, Bruto, in cui splende
Ogni prisco valor, cui chiama il cielo
A gloriose, & immortali imprese.
(I, 88-91)
gli chiede che cosa lo stia tormentando, “Qual pensier ti molesta?” (I, 92), visto che sta passeggiando tutto solo al buio. La
risposta di Bruto è molto esplicita e lo rivela come uno dei congiurati:
Mè tien desto il dolor di veder posta
La madre nostra in misero seruaggio,
È’l gran disio, c’ho di sottrarla al graue,
Et aspro giogo; il qual cresciuto è tanto,
Che frenar più no’l posso, e son costretto
Lasciarmi trasportar, doue a lui piace.
(I, 100-105)
Più avanti egli confessa di aver sognato Pompeo, il nemico
che Cesare sconfigge prima di celebrare il trionfo che segnerà
l’inizio della sua tragica fine, il quale gli chiede di vendicare la
propria morte: la visione è così nitida che Bruto si sveglia e, preso dall’angoscia per le richieste di Pompeo, decide di uscire di
casa, per riflettere nel buio e nella quiete della notte. Questa battuta, dunque, giustifica la presenza pensierosa e melanconica di
Bruto sulla scena.
Egli, dopo essersi confrontato con Cassio sul da farsi per il
bene di Roma, decide di invocare l’aiuto degli dei, affinché pro177
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
teggano l’impresa che entrambi hanno a cuore di concludere. È
così giustificata l’apparizione sulla scena di un sacerdote che, uscendo dal tempio, invoca Giove con espressioni articolate e
complesse, costruite paratatticamente:
Quella diuina essenza, quel supremo
Motor, ch’il tutto muoue, & ei da nulla
È mosso, indipendente, incirconscritto,
Delle cose principio, mezzo, e fine,
Ond’ogni cosa nasce, oue ogni cosa
Torna, ch’il tutto in se comprende, e abbraccia,
Che prouede, e preuede, che dispone
Soauemente, & ordina, che regge,
Che mantien, che governa l’uniuerso
Ch’il tutto vede, e intende, che da nullo
È visto egli, od inteso, in cosi chiara,
E inaccessibil luce alberga, e fiele,
Benche di nulla bisognoso sia
Ma chiugga in se quanto di ben può mente
Umana, anzi egli stesso imaginare,
Benche né per gli onor, né per le lodi
Nostre cresca, né scemi per gli oltraggi.
(I, 200-216)
Le parole che egli rivolge al Re degli dei hanno uno squisito
sapore rinascimentale, al cui effetto, ovviamente, contribuisce la
cultura cristiana del Pescetti: se si leggono attentamente i versi
riportati, si avverte come la concezione della divinità sia chiaramente cristiana e, soprattutto, influenzata dal pensiero dantesco.
Il sacerdote, infatti, si rivolge a Giove chiamandolo “supremo
motor, ch’il tutto muoue”, inizio cuore e fine di tutte le cose esistenti: è il motore immobile dell’universo medievale, è l’Amor che
move il sole e l’altre stelle, che conclude l’ultimo canto del Paradiso. Questo dio, sia egli pagano o cristiano, è sorgente di vita, e
nel suo immenso amore per l’umanità e per il creato protegge la
Terra in cambio di preghiere e tributi.
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Concluso l’intervento del sacerdote, l’attenzione ritorna su
Bruto e Cassio che, convinti di poter contare sulla protezione
degli dei, mettono a punto il loro piano. Il Bruto descritto in
queste scene è diverso dal Bruto shakespeariano, il quale si presenta molto più introverso e taciturno; riflessivo, non avventato,
avvezzo a lunghe e laboriose riflessioni prima di prendere una
decisione, il suo comportamento solitario e melanconico è lo
specchio di un travaglio interiore che oscilla tra il desiderio della
libertà di Roma da una parte, e l’affetto nei confronti di Giulio
Cesare dall’altra. Alla fine Bruto decide di aderire alla congiura
di Cassio solo per il bene di Roma: infatti, più volte egli afferma
che la soluzione ideale sarebbe garantire la libertà della sua città
senza dover ricorrere al cesaricidio.
Il Bruto di Pescetti, invece, è più intraprendente e deciso: a
parte la Prima scena, in cui appare solo e pensieroso, egli diventa
subito la mente della congiura alla quale Cassio aderisce, trovandosi d’accordo con lui. Come in Shakespeare, però, egli decide di colpire solo Cesare e nessun altro. Marc’Antonio verrà,
quindi, risparmiato:
Che non è Marcantonio huom, di cui deggia
Altri temer gran fatto. Un’huomo al ventre
Dedito, e al sonno, e ne’ piacer venerei,
Nelle dissolutioni, e nell’ebbrezze
Sneruato, e rotto osarà prender l’arme
Contra color, che nulla ebber giammai
Amicizia con l’ozio, o col piacere.
(I, 369-375)
Bruto non riconosce in lui un potenziale pericolo, poiché la
sua vita dimostra come sia interessato più al divertimento che
non alla ribellione e alla vendetta, mentre Cassio, più prudente
dell’amico, sa che “di lui per contrario non si troua / Altri più
forte, e coraggioso, e delle / Fatiche, e de’ disagi paziente” (I,
385-387). Cassio ne ha intuito la forza ed il coraggio, e spera che
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
la decisione di Bruto non abbia ripercussioni su di loro e sulla loro impresa.
A questo punto non resta che definire il modo in cui Cesare
debba essere ucciso e, come nel testo del drammaturgo inglese,
si decide che l’assassinio abbia luogo in Senato; qui, rifiutata la
richiesta di Metello Cimbro di far richiamare a Roma il fratello
esiliato, Cesare viene circondato dai congiurati e, quindi, pugnalato da tutti loro:
Come giunto
In Senato egli sia, subitamente
L’ci distenderemo intorno, come
Per onorarlo, e’l chiuderemo in mezzo
Sì, che scappar non ci potrà per fiero,
E feroce ch’ei sia.
(I, 421-426)
Cesare non ha scampo ed è ucciso, dopo aver dato conferma
della sua ambizione di tiranno assoluto: infatti, negando il rientro
a Roma al fratello di Metello Cimbro, egli mette in primo piano
le sue intenzioni di governare senza ascoltare il Senato romano e
di esercitare un potere assoluto sulla città. In Pescetti succede la
stessa cosa: i congiurati agiscono dopo aver avuto la dimostrazione concreta dell’ambizione del tiranno, che, conquistata la sua
posizione a fatica, fa sfoggio del proprio potere nelle sedute in
Senato; in questo modo la loro azione acquista valore e, agli occhi del pubblico che assisteva a queste rappresentazioni, assume
anche una giustificazione, che rende meno ingiusto ed inopportuno l’assassinio.
Ora entra in scena la moglie di Bruto, Portia, che qui ha maggior spazio che nel dramma di Shakespeare. Ella discute con il
marito e Cassio, perché ha intuito che i due stanno tramando
qualcosa e non vuole essere messa da parte; concorda con loro,
vuole prendere parte alla congiura e contribuire alla causa del
bene di Roma. A differenza di quanto succede in Shakespeare,
però, Portia insiste molto sulla sua condizione di donna destinata
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
ad occupare un posto di secondo piano rispetto al marito. Nonostante discenda da una famiglia stimata e rispettata a Roma, una
famiglia che ha dato prova del suo coraggio quando le circostanze della Storia lo hanno richiesto, ella non può prendere parte attiva alla congiura, proprio perché donna:
Ah perche il sesso mio non mi permette
Vestir gonne maschili, e ne’ consigli
Mescolarmi de gli uomini, e le cose
Trattar della Repubblica, e di duro
Acciar grauando il corpo in prò di quella
L’asta, e la spada oprar?
(I, 447-452)
L’accorato appello di Portia risultava chiaro al pubblico di Pescetti che, appartenendo al XVI secolo, riconosceva in lei una figura femminile forte, equivalente a quella di tante donne importanti sulla scena del Rinascimento europeo. Figlia di Catone,
Portia si intende di politica e vuole vivere in una Roma libera dal
giogo dei tiranni, ma la sua natura femminile, così debole e delicata, le impone di tenere chiuso nel suo petto tutto l’ardore che
nutre per la decisione del marito. L’articolata conversazione di
Portia con Bruto e Cassio è tutta giocata sulla politica e sulla sua
impossibilità di prendervi parte: c’è ben poco della Portia donna,
che compare, invece, nel dramma di Shakespeare. Preoccupata
non tanto per Roma, quanto per il marito, di cui non conosce i
piani, ella lo affronta come moglie più che come potenziale alleata politica.
Si conclude così il Primo atto, che presenta al pubblico la
congiura ed i suoi affiliati. Nell’atto successivo il pubblico conosce Calpurnia, la moglie di Cesare, la quale nella battuta di apertura introduce il marito, parlando di lui e di Roma:
Ahi quando sia, che fredda tema il petto
Non mi turbi, e trauagli, e rompa il sonno?
Più non guerreggia il mio marito, domi,
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
E debellati son tutti i nemici.
Ogni cosa è pacifica, e sicura:
Roma del mondo imperatrice gode
Tranquillissima pace.
(II, 1-7)
Le parole della donna, pur descrivendo un momento di pace,
celano in realtà il timore che qualcosa possa inaspettatamente
verificarsi e rovinare la quiete e la serenità dell’Urbe: soprattutto
ella teme che la vita del marito possa essere minacciata:
Or ch’in pace riposa, e nella patria
Siede ozioso il mio consorte, temo
Più della vita sua, che quando armato
Viuea in istrane, incognite contrade,
Guerreggiando con fiere orribil genti,
E quel, ch’il mio timor più accresce è, ch’io,
Onde il timor proceda, non intendo.
(II, 12-18)
Presente che qualcosa sta per succedere, soprattutto dopo il
sogno che l’ha visitata durante la notte, e racconta di aver visto il
corpo del marito tutto cosparso di sangue: egli è “egro, e dolente, / Quanto deforme, esangue, smorto” (II, 164-165), completamente diverso dal Cesare che ha celebrato da poco il suo trionfo. E questa è l’unica menzione nel testo al trionfo che vede Cesare vincitore su Pompeo, trionfo che, al contrario, apriva il
dramma di Shakespeare. Il presagio di morte si insinua nella
mente di Calpurnia in questo momento del dramma e ne farà
parte fino alla sua conclusione.
È a questo punto che Pescetti riporta sulla scena Portia, la
quale, non paga di quanto aveva già detto e dimostrato nella scena precedente, compare davanti a Bruto, dopo essersi inflitta una
ferita alla coscia: il gesto rappresenta l’unico modo che ella ha
per manifestare il proprio coraggio e per dimostrare al marito di
essere all’altezza della sua famiglia di provenienza.
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
L’atto si avvia alla sua conclusione con una scena che coinvolge Bruto, Portia e Calpurnia, e che riguarda un tema molto caro
al Rinascimento: il potere e la predestinazione di coloro che lo
detengono. Nella sua disperazione per quello che potrebbe succedere al marito, Calpurnia denuncia la pericolosità del potere, il
modo in cui esso cambia la vita di chi lo detiene facendogli conoscere il timore ed inducendolo a vivere nel terrore di dubbie inimicizie e della morte:
Ahi che le Signorie, gli imperi, e i regni
Altro non son, ch’un ben fiorito prato,
Che cela sotto ogni suo fiore un angue,
Altro non son, ch’un sontuoso, e lauto
Conuito, ou’ogni cibo, ogni beuanda,
È d’assenzo, di fele, e di veleno
Mortifero condita.
(II, 460-466)
Calpurnia dichiara quello che è il rovescio della medaglia: il
potere è come un prato fiorito, che nasconde dietro alla bellezza
dei suoi fiori insidie di morte. Sarebbe molto meglio accontentarsi di una vita semplice, ma, come spiega la sua cameriera, il
destino non può essere scelto dai mortali:
ma i regni,
E le ricchezze, alta Signora, sono
Fattura, e doni suoi; perch’egli vuole,
Che dall’huom retta sia la terra, come
È da lui retto, e governato il Cielo.
(II, 492-496)
L’uomo, insomma, non può far altro che accettare il destino
che Dio gli assegna: pur essendo così misero ed infinitesimale rispetto all’immensità di Dio, egli ha il compito di governare questa terra proprio come Dio governa l’universo. Anche questo è
un discorso decisamente rinascimentale, poiché si occupa di una
regalità per diritto divino, cui non ci si può sottrarre e si deve
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
obbedire. Come nei drammi esaminati in seguito, anche qui
l’idea di sovranità e tirannia assolute occupa uno spazio importante all’interno dell’economia del testo, a dimostrazione di come le vicende dei grandi personaggi storici assurgano al ruolo di
importanti modelli da imitare, e le loro fortune e/o sfortune debbano essere motivo di riflessione per i regnanti europei. Il timore
di perdere tutto, continua Calpurnia, dovrebbe far desistere dal
desiderio di avere tutto e far scegliere la serenità di una vita tranquilla, lontana dalle lusinghe della politica e della vita pubblica.
La lunga discussione si conclude, ovviamente, con un accenno
a Cesare, l’uomo di potere del momento: egli, ci viene detto, è a
cena da Lepido, e Calpurnia spera di trovarlo a casa, per potergli
parlare delle proprie paure e convincerlo a non recarsi in Senato
il giorno successivo. La scena si chiude sul timore di Bruto, che
confida a Portia la speranza che Cesare non ascolti la moglie e si
presenti in Campidoglio. La conclusione del Secondo atto è diversa da quella di Shakespeare, nel cui dramma Bruto e Cesare
sono i due punti di riferimento attorno ai quali ruota l’intero atto. Le scene che lo compongono, infatti, sono quattro e riguardano Bruto e Cesare, Cesare e Bruto: la struttura a chiasmo fa
incrociare esplicitamente i loro destini di uomini sia politici sia
privati, ma anche di creature fragili e dubbiose, protette solo
dall’intimità della propria casa.
Si approda così all’atto centrale del dramma, il Terzo, interamente dedicato alla figura di Giulio Cesare, che per la prima volta compare fisicamente sulla scena: egli è con Marcantonio e, ironia della sorte, si intrattiene con lui in una conversazione sulla
brevità della vita e su come l’esistenza dell’uomo evolva secondo
tappe stabilite dalla sua età:
L’homo or cresce, or decresce, or ride, or piange,
Or spera, or teme, or si rallegra, or duolsi;
Or ama, or odia, or caldo sente, or gelo,
Or fame, or sete, or pallid’, or vermiglio,
Or sano il vedi, or egro, or stolto, or saggio,
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Or finalmente prospera, or contraria
Proua la sorte, e mille volte il giorno
Si muta, e non è mai quel, ch’era prima.
(III, 119-126)
Antonio riflette sull’evoluzione e sulla mutevolezza della vita
umana, che si conclude solo con la morte e che presenta aspetti
speculari a quelli dell’intero cosmo, dimostrandoli instabili:
Quest’instabilità, quest’incostanza
Delle cose mondane, à me ricorda,
Che lo stato presente, in che m’hà posto,
O fortuna, ò valor, non mi prometta
Perpetuo, ma, ch’io creda, e stia sicuro,
Che si debba mutar, quando, che sia.
(III, 127-132)
Con queste parole Cesare sembra voler anticipare quello che
sarà il suo destino, poiché egli è consapevole del fatto che la fortuna non può sorridere solo ad una persona e che bisogna saper
accettare le conseguenze del suo mutamento. Tuttavia, egli è
Cesare, e il mondo intero conosce il suo valore e ha avuto modo
di constatare la sua abilità sul campo di battaglia: in virtù del suo
singolare valore, lo ha posto alla guida di Roma, attribuendogli
una natura semidivina e collocandolo nella Storia mitica della
città. È poi Cesare stesso a paragonarsi al Sole dimostrando di
essere consapevole del proprio ruolo, il che di norma succedeva
con tutte le teste coronate del Rinascimento europeo:
A me basta ch’ei sappia, e legga, e narri
Le da me oprate cose in pace, e in guerra;
Onde ne resti la memoria viua
Al par del Sol, con cui gareggi, e giostri
Di chiarezza, e splendor la gloria mia.
(III, 198-202)
Come il re è il vertice del mondo politico del proprio Stato,
così il Sole lo è tra i pianeti e i corpi celesti tutti: ad entrambi
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
spetta il compito di tutelare chi si trova sotto il loro controllo e di
esercitare il dominio sulle proprie terre.
Ad interrompere il sogno di gloria di Cesare giunge il sacerdote, che in una lunga battuta spiega come gli dei non siano ancora
paghi della sofferenza di Roma e non abbiano ancora cessato di
inviare segni premonitori di immediato disordine e caos:
la spietata
Giunon non è de’ nostri strazi ancora
Sazia; il total eccidio veder vuole,
E la total distruzion di questo
Eccelso imperio. […]
Marte, che già fu tanto amico a questo
Popolo inuitto, or, per qual nostro fallo
Non sò, s’è contra noi d’ira infiammato, […]
Saturno il fiero veglio, che già tanto
Questo paese amò, l’adunco ferro
A danni nostri aguzza. Citerea
Stessa, da cui noi discendiam, congiunta
S’è contra noi con Pallade, e Giunone,
Tanto al sangue Troian nemiche, e infeste. […]
Ma la Luna eclissata, anzi di goccie
Sanguigne tutta sparsa, e’l Sol d’oscuro,
E ferrugineo vel coperto il volto…
(III, 297-301 / 308-310 / 319 / 322-324)
Dunque, gli dei di Roma si stanno coalizzando contro la città,
proprio come se la dovessero punire per aver commesso un grave
errore; anche gli elementi stessi si sono scatenati, e portentosi
tuoni e lampi si sono abbattuti in un violento temporale notturno
sulla città. Di tutto questo sconvolgimento Shakespeare menziona solo il terribile temporale abbattutosi su Roma la notte precedente le Idi di Marzo e della lunga battuta del sacerdote
sull’avversità degli dei riporta solo il verdetto sfavorevole degli
àuguri consultati da Cesare prima di recarsi in Campidoglio.
L’atto si conclude dopo un lungo ed articolato colloquio tra
Cesare e Calpurnia: ascoltato il sacerdote, Calpurnia vorrebbe
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
che il marito cambiasse idea e rinunciasse ad andare in Senato,
mentre Cesare, dapprima tronfio della propria forza e del proprio ruolo, si mostra titubante e solo alla fine accetta di soddisfare le richieste della moglie.
Si arriva così al Quarto atto. Sulla scena c’è Bruto, timoroso
che Cesare possa aver cambiato idea, vanificando così il piano
dei congiurati, ma disposto a dilungarsi con Cassio su un interessante scambio di idee sulla tirannia e sulla figura del tiranno. Anche qui, come nel dramma di Shakespeare, Cesare e la tirannia
sono posti sullo stesso livello: l’ottica in cui i due congiurati affrontano il tema è chiaramente rinascimentale, imbevuta di Machiavelli e di quello che decenni di guerre intestine avevano insegnato a filosofi e uomini di lettere in genere. Uccidendo Cesare,
si può restituire la libertà a Roma, quella libertà che è il bene più
grande per ogni uomo,
Bruto: Come cosa quaggiù non è più dolce,
Né più gioconda della libertade,
Sendo noi nati a quella, auendo Dio
L’huom libero creato, e di se donno;
Così non si ritroua huom più maluagio,
Né più di quello ingiusto, ch’altrui toglie
La libertà.
Cassio: La libertà null’altro
È ch’imperio, e dominio di se stesso:
L’huom nulla hà più di se medesmo cara:
Dunque chi toglie altrui la libertade
Della più cara, e più pregiata cosa,
Ch’auer possa lo spoglia.
(IV, 29-41)
La conversazione tra Bruto e Cassio, in effetti, tratta del concetto di tirannia nel modo in cui lo potrebbero fare due uomini
del XVI secolo ed è orchestrata attorno all’idea del monarca as-
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
soluto, che governa imponendo la propria volontà sugli altri ed
ignorando ogni principio ispiratore di buon governo18.
Il dialogo è interrotto dal sopraggiungere dei congiurati che,
come avevano stabilito, si sono recati a casa di Cesare per accompagnarlo in Campidoglio e per essere sicuri che non abbia
cambiato idea. In realtà, Cesare ha deciso di ascoltare le suppliche della moglie e, chiamati cinquanta uomini a guardia della
sua persona, si fa trovare nella sua casa, da dove invia un messaggio all’amico Antonio. Comincia, così, un lungo passo in cui
la figura di Cesare si sdoppia tra l’aspetto privato e quello pubblico. Egli sa di essere Cesare e in quel nome ripone tutta la sua
forza, proprio come succede nel dramma di Shakespeare:
Non tem’io, nò; non hà luogo il timore
In questo petto: unque il mio cuor non seppe,
Che timor fosse: e già son giunto a tale
Etade, e tali cose oprato hò in arme,
Che della morte auer non debbo tema.
Potrà ben morte, ch’ogni cosa scioglie,
Questo corpo atterrar; ma la memoria
Del nome mio non spegnerà in eterno.
(IV, 245-252)
Cesare non può provare timore, dopo tutti i rischi che ha corso combattendo contro i nemici di Roma; e non può pensare, lui,
icona del soldato forte e virile, di farsi guidare dalla moglie e di
lasciarsi convincere dalle sue parole di donna spaventata da un
sogno. Tuttavia, nei versi che seguono, egli mostra il suo lato
umano, quello più fragile ed incline alla debolezza tipica di ogni
essere:
Tuttavia credo, e sopra certi segni,
E conietture è il mio creder fondato,
18
Per quanto riguarda il concetto di tirannia e la figura del tiranno in
genere, si veda quanto scritto nel capitolo riguardante Giulio Cesare e la
figura del tiranno.
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Che si tendano insidie alla mia vita;
Dalle quai guarderommi in guisa, ch’io
Non pauenti però, né del mio petto
In parte alcuna la quiete turbi.
(IV, 253-258)
Chi parla qui è il Cesare superstizioso, che presta orecchio agli
indovini e alle loro previsioni, teme i presagi funesti e si nasconde dietro ad un’aura di finta regalità. In questo senso il Cesare
che ci propone Pescetti è molto simile a quello della tragedia inglese, dove l’alternarsi di scene di vita pubblica a scene di vita
privata ne evidenzia la natura duplice: il personaggio pubblico è
complementare a quello privato ed emerge nei momenti più inaspettati, proprio a rimarcare la fragilità che ogni uomo, Cesare
incluso, ha nel proprio codice di creatura terrena.
Sarà compito dei congiurati convincerlo del contrario e ribadire la sua forza di creatura semidivina, impavida di fronte al pericolo: Cesare non può assentarsi dal Campidoglio, perché così
sminuirebbe il suo ruolo e ridurrebbe se stesso ad un essere insignificante in balia della volontà della propria moglie. Pertanto,
ascoltate le parole di Decio Bruto,
A lui, che superat’hà la mortale
Condizione, & hà più del diuino,
Che dell’uman?
(IV, 472-74),
che lo interrogano sulla sua natura, ponendo l’accento
sull’evidente differenza tra lui e gli altri uomini, Cesare si rimangia quanto deciso e, vincendo le proprie paure, cambia idea e va
incontro al proprio destino.
Le scene successive riguardano Cesare in Senato circondato
dai congiurati che, messo a nudo il suo desiderio di governare
imponendosi alle autorità romane, lo circondano e lo pugnalano.
L’atroce assassinio non viene rappresentato, poiché la scena si
interrompe proprio nel momento in cui esso sta per essere com-
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Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
messo e l’Autore, lasciando lo spettatore al massimo della
suspense, torna da Calpurnia la quale, rimasta da sola in casa, avverte un forte dolore al petto: è così che Pescetti comunica al suo
pubblico che Cesare è morto. Non ci sono scene di sangue, né di
inaudita violenza, poiché tutto ha luogo dietro le quinte, lontano
dagli occhi di un pubblico che con quel tipo di violenza aveva,
comunque, imparato a convivere da tempo. Non è un segreto,
infatti, che la vita nelle corti rinascimentali fosse fatta di arrivismo, gelosia e invidia, spesso cause di episodi violenti e di eliminazioni di personaggi scomodi. La Ferrara di Alfonso II, cui il
dramma di Pescetti è dedicato, era di certo terreno fertile per
sfide tra contendenti al potere e per compromettenti alleanze politiche; così come lo era anche la corte elisabettiana, dove i favoriti si contendevano il favore della sovrana, macchinando alle sue
spalle e facendosi promotori di pericolosi giochi politici.
Si giunge così al Quinto ed ultimo atto: Cesare è morto, ma la
sua presenza è ancora avvertita come forte e pregnante. Sulla
scena appare Bruto che, rivolgendosi al popolo di Roma, racconta l’accaduto e la causa di tanta confusione in Campidoglio:
Cittadini, il Tiranno hà col suo sangue
Pagate lo douute
Pene, & hà soddisfatto
All’anime di tanti uomini illustri,
Che son, per colpa sua, giti sotterra.
Omai libera è Roma,
Dalle nostre ceruici è scosso il giogo,
Et ei conforme al merto suo nel proprio
Sangue, ch’in larga vena
Per cento piaghe versa,
Giace a piè della statua
Del magnanimo Duce,
Cui non vider mai quest’alte mura.
(V, 1-13)
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Sostenuto dal coro dei congiurati che gridano “Libertà, libertà,
morto è il Tiranno” (V, 51), Bruto è l’unico a tenere un discorso
dopo l’assassinio di Cesare; rivolgendosi ai cittadini di Roma parla
di Cesare come del tiranno che ha pagato con la propria morte la
morte che egli a sua volta aveva inflitto ai propri nemici. Il corpo
di Cesare giace esanime sotto la statua di Pompeo, cioè di colui
che era stato sconfitto proprio dal valore militare di Cesare e dalla
sua ambizione; ormai Pompeo non gli può più nuocere, ma quel
corpo insanguinato ai piedi della statua può solo voler dire che la
congiura è servita a pareggiare i conti tra i due grandi condottieri:
giustizia è fatta, ma, e questo Bruto non lo sa ancora, lo spirito di
Cesare, proprio perché immortale, lo tormenterà per il resto dei
suoi giorni e lo accompagnerà fino alla tomba.
Il dramma si avvia alla conclusione con la descrizione
dell’assassinio di Cesare: l’episodio viene raccontato nei particolari da un nunzio, che ha l’ingrato compito di portare la notizia a
Calpurnia, la quale apprende come il suo Cesare si sia accasciato
sfinito dalle pugnalate dei congiurati, come questi ultimi abbiano
poi lavato le loro spade nel sangue della vittima e abbiano così
inserito il loro gesto nella dimensione del sacrificio rituale.
L’uccisione di Cesare è, dunque, una sorta di rito, necessario per
riconsegnare Roma alla propria libertà. Calpurnia è sconvolta
per le modalità dell’evento e si sente tradita quando scopre che
anche Bruto ha preso parte alla congiura:
O Bruto, ò Bruto, veramente Bruto,
Non men d’animo, e d’opre, che di nome,
Come t’è dato il cuor d’uccider quello,
Ch’à te donato auea la vita, e in luogo
Preso t’auea di figlio?
(V, 495-499)
Irrispettoso della tradizione, Pescetti affida a Calpurnia la famosa frase che Cesare stesso avrebbe pronunciato quando si accorse che Bruto lo aveva pugnalato alle spalle: a lei sono attribui-
191
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
te le parole di dolore e di delusione per l’amara scoperta; a lei, e
non ad Antonio, spetta il compito, di ricordare quanto Cesare
avesse avuto a cuore il bene della sua città e si fosse sempre prodigato per garantire a tutti il benessere.
L’atto si conclude con una serie di cori che rimpiangono un
tale uomo e si lamentano per la grave perdita subita.
192
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
193
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
194
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
The Tragedie of Antonie (1595)19
Come recita il sottotitolo sul frontespizio, questa tragedia è
‘Doone into English’ dalla Contessa di Pembroke, la nobildonna
amante della letteratura e conosciuta presso gli Elisabettiani per
aver messo mano alla New Arcadia, l’edizione nuova ed ampliata
del capolavoro omonimo che suo fratello, Sir Philip Sidney, aveva dato alle stampe nel 1590. Il testo originale della tragedia era
stato scritto in francese da Robert Garnier nel 1578 e successivamente tradotto in inglese, inserendosi in quel revival della cultura classica che l’Umanesimo aveva portato con sé all’inizio del
XVI secolo.
Proprio come richiedeva la tradizione, il lavoro di Garnier e,
quindi, della Pembroke è in cinque atti, ma non propone la suddivisione in scene, alla quale noi, lettori del XXI secolo, siamo
abituati. Tale suddivisione, infatti, venne introdotta nei testi solo
molto più tardi rispetto alla loro composizione, proprio per agevolarne la lettura e soprattutto la rappresentazione. L’arrivo sul
palcoscenico di nuovi personaggi indica l’inizio di ogni scena,
mentre The Argument, tre paginette scritte in corsivo, ha
19
The tragedie of Antonie. Doone into English by the Countesse of Pembroke,
London, William Ponsonby, 1595, in EEBO (Early English Books Online),
Chadwyck-Healey, 2006. La datazione di questa tragedia necessita di un
chiarimento, poiché le date sul frontespizio e nell’ultima pagina del volumetto
non coincidono, essendo quest’ultima anteriore di tre anni alla precedente.
Dalla lettura di alcuni articoli sul lavoro di Daniel, che verrà introdotto più
avanti in queste pagine, si deduce che la data corretta sarebbe il 1592.
L’autore dell’articolo in questione, Joan Rees (Joan Rees, Samuel Daniel’s
“Cleopatra” and Two French Plays, in The Modern Language Review, vol. 47, n.
1, 1952, pp.1-10), spiega che Daniel avrebbe composto la sua tragedia solo
per compiacere la Contessa di Pembroke, che gli aveva chiesto di scrivere una
tragedia complementare alla sua. E così fu, visto che il lavoro di Daniel, come
si vedrà, apparve nel 1594 e riguarda solo la figura di Cleopatra. Ogni
citazione da The Tragedie of Antonie è tratta da questa edizione. L’immagine
riportata a nella pagina precedente è tratta da questa edizione. Si precisa
anche che alcuni passi vengono riportati in corsivo, proprio perché
nell’edizione originale sono in corsivo.
195
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
l’obiettivo di presentare il lavoro che si sta per leggere e di introdurre i personaggi principali, la trama e le fonti da cui l’autore ha
preso spunto per la composizione del suo lavoro. È in questo
modo che si viene a sapere che la vicenda della tragedia si colloca in un arco di tempo preciso della storia di Roma, quello
dell’assassinio di Giulio Cesare, della sconfitta e della morte di
Bruto e Cassio, della divisione del potere tra Ottaviano e
Marc’Antonio che, per suggellare il legame con l’amico ed alleato, ne ha sposato la sorella Ottavia. Dopo poche righe,
l’attenzione del lettore è portata subito sul personaggio principale, Antonio, di cui vengono ricordati la missione contro i Parti e
il viaggio attraverso la Siria.
E la Storia insegna che fu proprio nell’attraversare questa regione che Antonio riannodò il suo legame con Cleopatra,
l’affascinante regina d’Egitto, che ebbe un ruolo determinante
negli ultimi anni della vita del condottiero romano e
nell’evoluzione della storia di Roma. La grazia ammaliatrice di
Cleopatra, la sua eloquente favella e i deliziosi banchetti fatti allestire ad Alessandria irretirono nuovamente Antonio che, preso
da ben altre attrattive, dimenticò i suoi doveri di soldato, di cittadino romano e di marito. L’umiliazione dell’ingenua Ottavia,
moglie leale e fedele di Antonio, fu il pretesto per il fratello Ottaviano di prendere le armi contro il vecchio amico, e di infliggere
a lui e alla sua amante la disastrosa sconfitta di Azio. La tragedia
della contessa di Pembroke racconta la parabola discendente di
Antonio, dai giorni del suo apogeo e della sua felicità lussuriosa
accanto a Cleopatra fino alla sua morte e all’indiscussa superiorità di Ottaviano.
L’Argument si conclude con l’affermazione che il lettore potrà
trovare tutta la storia della vicenda nella Vita di Antonio di Plutarco.
Procedendo nel testo, il lettore incontra subito dopo l’elenco
degli Actors coinvolti nella rappresentazione ed apprende con
sorpresa che si tratta, in realtà, del Dramatis Personae: i perso196
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
naggi sono menzionati iniziando dal più importante, e quindi
Antonio, fino al meno importante, un messaggero. Nell’elenco
non compare il nome di Ottavia, che non ha spazio in un dramma che riguarda solo lo sfortunato epilogo della vita del marito.
In altre parole, la tragedia della contessa di Pembroke corrisponde solo alle ultime scene dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare,
dove si assiste, infatti, alla disfatta di Antonio e alla tragica conclusione della sua vita e del suo amore per la Regina d’Egitto.
Entrambi i lavori, poi, mettono in scena la morte di questi due
personaggi consegnandoli alla Storia come sventurate vittime del
loro infausto destino.
Il Primo atto è una lunga battuta interamente recitata da Antonio, che ripercorre gli ultimi tempi della sua storia con Cleopatra. Su di lui, racconta, si è abbattuta l’ira degli dei: un ostile destino gli ha fatto incontrare questa donna, cui si riferisce chiamandola my Queene, che è stata l’origine della sua rovina:
For her have I forgone
My Country, Caesar unto warre prouok’d
(For iust reuenge of Sisters wrong my wife,
Who mou’de my Queene (ay me!) to iealousie)
For loue of her, in her allurements caught
Abandon’d life, I honor haue despisde,
Disdain’d my freends, and of the statelye Rome
Despoilde the Empire of her best attire,
Contemn’d that power that made me so much fear’d,
Alloue become unto her feeble face.
(I, 7-16)
L’amore per Cleopatra gli ha fatto dimenticare il suo Paese, la
sua vita e sua moglie, gli ha messo contro Ottaviano che adesso
vuole vendetta. Indifferenza nei confronti degli amici e scarsa
considerazione per i valori dello Stato lo hanno reso uno zimbello agli occhi del mondo: creatura con un destino ormai segnato e
senza possibilità di riscatto, Antonio ammette la propria debolez-
197
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
za e parla di sé come di una vittima, che è rimasta irretita dallo
charme di una donna senza scrupoli:
O cruell, traitres, woman most unkinde,
Thou dost, forsworne, my loue and life betraie:
And giu’st me up to ragefull enemie,
Which soone (ô foole!) will plague thy periurye.
(I, 17-20)
Cleopatra è una crudele traditrice, che lo ha abbandonato nel
momento del bisogno, consegnandolo nelle mani del nemico assetato di vendetta: sono le ultime battute della battaglia di Azio,
quando Cleopatra decide di allontanarsi dal luogo della battaglia,
costringendo Antonio a fare altrettanto. È il momento fatidico,
in cui Ottaviano riesce ad avere la meglio e ad infliggere la storica sconfitta al suo vecchio alleato e cognato.
Da questo particolare episodio, si ricavano alcune informazioni interessanti sulla Regina d’Egitto che, pur avendo dimostrato
di essere una sovrana scaltra e molto attenta a coltivare i propri
interessi, si rivela anche una donna che sa rendersi preziosa nelle
schermaglie d’amore. Cleopatra sembra un’amante il cui comportamento rispetta le convenzioni petrarchesche: è ritrosa nei
confronti di Antonio, sa fare la preziosa e piangere, quando il
dovere chiama il suo uomo altrove, è gelosa di ogni potenziale
rivale e sa come maltrattare il suo spasimante, quando questi
non riesce a soddisfare i suoi desideri. Il suo atteggiamento di
donna innamorata e, talvolta, ingenua, ma solo agli occhi di un
amante poco accorto, nascondono un chiaro ed evidente disegno
politico, che consiste nel garantire la libertà dell’Egitto dal giogo
di Roma ed assicurarlo nelle mani dei suoi legittimi eredi. Questa
Cleopatra, così donna e così audace, è anche la Cleopatra di
Shakespeare, che non le dedica parole sdolcinate, ma la definisce
addirittura whore20.
20
La differenza con cui Ottaviano e Antonio si esprimono riguardo a
Cleopatra è da inserire nel quadro più ampio del contrasto che emerge tra
198
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Antonio ammette tristemente che ella è la vera vincitrice della
battaglia: né lui né Ottaviano possono vantarsi di essere i vincitori di Azio:
Thou only Cleopatra triumph hast,
Thou only hast my fredome seruile made,
Thou only hast me vanquisht: not by force
(For forste I cannot be) but by sweete baites
Of thy eyes graces, which did gaine so fast
Upon my libertie, that nought remain’d.
None els henceforth, but thou my dearest Queene,
Shall glorie in commaunding Antonie.
(I, 31-38)
Le sweet baites, di cui parla Antonio in questi versi, fanno capire come Cleopatra lo abbia conquistato ricorrendo alle consuete
strategie femminili: dolci parole e sensualità hanno privato il
Triumviro romano della libertà e hanno reso il suo cuore schiavo
della bella Regina d’Egitto la quale, come il testo shakespeariano
induce a pensare, sembra essere un esempio di donna petrarchesca. La sua ritrosia, i suoi capricci e le lacrime che scorrono abbondanti, quando Antonio non è vicino a lei sono complementari al complesso gioco di sguardi tra i due amanti e ai festosi momenti passati insieme. Cleopatra si esprime con gli occhi che,
come voleva la concezione amorosa dell’epoca, sono lo specchio
dell’anima e, quindi, sono annoverati tra le stelle più luminose
del firmamento per la loro lucentezza. E petrarchesco è anche
Roma ed Alessandria. Ciò che per Antonio è divertimento, per Ottaviano è
una stortura della vita quotidiana di ogni Romano. La dissolutezza che
caratterizza la vita di Antonio ad Alessandria è in netto contrasto con la vita
sobria che Ottaviano conduce, quasi a voler indicare che la razionalità di
Roma non può avere la meglio sulla sregolatezza di Alessandria. Questo
concetto è molto chiaro nella tragedia di Shakespeare e nel testo è spesso
evidente attraverso le battute dei soldati romani e, soprattutto, di Ottaviano
quando riceve notizie su Antonio e Cleopatra. Spesso il contrasto si spinge
anche all’offesa: Antonio non ne è consapevole, ma Ottaviano sì, e costruirà
anche su questo la sua vendetta.
199
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
l’amore sofferto di Antonio, che in questa sua lunga battuta esprime la propria disperazione:
So long thy loue with such things nourished
Reframes, reformes it selfe and stealingly
Retakes his force and rebecomes more great.
For of thy Queene the lookes, the grace, the words,
Sweetnes, alurements, amorous delights,
Entred againe thy soule, and day and night,
In watch, in sleepe, her Image follow’d thee:
Not dreaming but of her, repenting still
That thou for warre hadst such a goddes left.
(I, 98-106)
Le sue parole alludono ad un intenso tormento, che lo trasformano da forte soldato romano in un uomo indifeso di fronte
alle frecce di Cupido. In questi versi, infatti, egli ribadisce che le
armi usate dalla sua amata non sono altro che sguardi, gentilezze
e parole che lo hanno reso incapace di pensare se non a lei, e di
rimpiangere i momenti in cui la battaglia e la guerra li hanno tenuti lontani.
Tuttavia, le parole chiave attorno alle quali il passo è costruito
sono loue, Queene e goddess, collocate esattamente in questo ordine, quasi a voler suggerire una sorta di climax della figura e della
natura di Cleopatra. Il primo termine, amore, esprime ciò che
ella rappresenta per Antonio e la natura del legame che li unisce;
il secondo, Regina, indica lo status sociale di Cleopatra, regina
d’Egitto, e allo stesso tempo regina del cuore, della mente e delle
emozioni del suo uomo; il terzo, dea, suggerisce una sorta di sintesi dei primi due termini: Cleopatra è la regina del cuore di chi
sta parlando, è il suo amore e, come tale, non può essere che una
dea, una creatura che va oltre l’umano e che supera le sue simili
per bellezza e fascino. Una bellezza quasi ossessiva, in realtà, visto che si insinua nella mente di Antonio, impedendogli addirittura di riposare dopo una dura giornata sul campo di battaglia.
Sguardi ed immagini sono anch’essi elementi chiave, che indica200
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
no la vista come il senso privilegiato in materia d’amore per i poeti del Rinascimento21.
Antonio non può che essere un wretch, e così egli stesso si definisce più volte in questa lunga scena-monologo, per il quale il
tempo non passa mai,
Her absence thee besottes: each hower, each hower
Of staie, to thee impatient seemes an age…
(I, 113-114)
Nemmeno le conquiste nel nome di Roma riescono a distogliere il suo pensiero dalla bella ed ambigua Cleopatra, per la
quale egli ha dimenticato tutto, la moglie Ottavia e i loro figli, e
ha lasciato che Ottaviano avesse la meglio su di lui. Egli ormai ha
perduto tutto, tranne le armi che indossa e, umiliato di fronte ai
suoi uomini e alla gente di Roma, nega a Cesare la soddisfazione
di essere esibito come un prigioniero qualunque nel suo trionfo a
Roma.
Eppure, spiega Antonio avviandosi alla conclusione della sua
lunga battuta, il vero dolore non sta nell’umiliazione della sconfitta, ma nella delusione procuratagli dall’amata: Cleopatra non è
stata un’amante fedele e lo ha abbandonato, dopo aver capito
che egli non avrebbe potuto fare più nulla per i suoi ambiziosi
progetti di Regina d’Egitto:
21
In realtà, anche in questo caso i poeti del Rinascimento si affidano alla
tradizione iniziata da Petrarca con il suo Canzoniere. Nei sonetti d’amore
dedicati a Laura, tra le varie similitudini tra il corpo della donna e gli elementi
della natura, quella tra gli occhi e le stelle è sicuramente una delle più
frequenti. Gli occhi sono lo specchio dell’anima ed è attraverso la vista, senso
privilegiato nella lirica d’amore cortese, che Cupido colpisce gli amanti. A
questo si aggiunga che gli occhi danno anche luminosità al volto e, quindi, il
loro accostamento alle stelle è ampiamente comprensibile. Da qui, si sviluppa
tutto il discorso che gli occhi della donna amata, essendo luminosi come due
stelle, trasformano la notte, che è la vita del poeta, in un giorno radioso e
splendente. Tra gli esempi che si potrebbero citare al riguardo, c’è la famosa
scena del balcone, nel Romeo and Juliet, dove Romeo ammira la bellezza della
sua Giulietta e ne paragona gli occhi alle stelle.
201
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
It’s Cleopatra alas! alas!, it’s she,
It’s she augments the toment of thy paine,
(Betraies thy loue, thy life alas!) betraies,
Caesar to please, whose grace she seekes to gaine:
With thought her crowne to save and fortune make.
(I, 133-137)
Antonio non è altro che un Fortune’s fool, uno zimbello della
sorte, reso ridicolo di fronte a tutto il mondo e costretto a subire,
oltre alla sconfitta e all’umiliazione, anche l’abbandono della
donna. La sua delusione trova una ragionevole consolazione solo
nella constatazione che anche Cleopatra, come tutte le donne,
non è costante,
Iustly complaine I she disloyall is,
Nor constant is, euen as I constant am,
To comfort my mishap, despising me
No more, then when the heauen’s fauor’d me.
(I, 141-,144)
e non può esserlo per natura:
But ah! by nature women wau’ring are,
Each moment changing and rechanging mindes,
Unwise, who blinde in them, thinkes loyaltie
Euer to finde in beauties companie.
(I, 145-148)
Alla fine del lungo monologo, Antonio sostiene perfettamente
in linea con la mentalità rinascimentale, che le donne siano incostanti per natura e, quindi, non possano essere depositarie della
fiducia di un uomo. Nemmeno in amore. Antonio, dunque, recita il mea culpa; ma il suo destino di amante sfortunato viene immediatamente recepito dal Coro, che conclude il Primo atto con
un discorso più ampio, riferito all’intera umanità. All’uomo, piccolo essere insignificante in questo enorme universo senza confini, non è dato conoscere la propria sorte: la sua posizione in questo mondo basso rispetto all’altezza delle sfere celesti che lo cir202
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
condano, lo rendono lo zimbello del fato, incapace di prevedere
le disgrazie che si possono abbattere su di lui e, quindi, altrettanto incapace di porvi rimedio. “Nature made us not free” (I, Coro, 25), dice il Coro: il destino umano in questo mondo è di sottomissione e sofferenza.
Alla fine del Primo atto, dunque, lo spettatore ha avuto modo
di conoscere i protagonisti del dramma, il loro ruolo nella vicenda rappresentata e la loro personalità. Antonio appare subito
come un soldato fiero e forte, che non si lascia spaventare dal
nemico, per quanto feroce possa essere, ma si lascia ingenuamente irretire dal fascino ammaliatore di una donna, che si rivelerà poi una delusione.
Con il Secondo atto il drammaturgo introduce un altro punto
di vista sulla sconfitta di Azio e sulla relazione tra Antonio e Cleopatra. Questa volta, la scena è occupata da Cleopatra e da alcune persone del suo seguito, che lamentano la tragica sorte
dell’Egitto, ormai inevitabilmente stretto nella morsa del giogo di
Roma. Ottaviano è il rivale che ha dimostrato di essere superiore, ma non per questo Antonio merita l’umiliazione di chi è stato
sconfitto: anche Cleopatra, tuttavia, si rifiuta di essere esibita in
catene nel trionfo di Ottaviano a Roma.
L’atto si apre con Filostrato, il filosofo di corte e amico di
Cleopatra, che si interroga sulle cause che hanno portato l’Egitto
alla rovina: il Paese è sul lastrico, in balia di una horrible furie e di
una cruell rage, che lo stringono nella loro morsa e lo lasciano
senza speranza. Filostrato è un uomo del suo tempo e sa bene
che l’Egitto è stato punito dagli dei per un motivo ben preciso: la
sconfitta di Antonio e la lontananza di Cleopatra non sono altro
che la dimostrazione concreta del caos che ha colpito il territorio
dopo la battaglia di Azio. Il buon filosofo ricorda disperato come
With souldiors, strangers, horrible in armes
Our land is hidde, our people drown’d in teares.
But terror here and horror, nought is seene:
And present death prising our life each hower.
203
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Hard at our ports and at our porches waites
Our conquering foe: harts faile us, hopes are dead.
(II, 25-30)
La sua angoscia acquista una dimensione quasi cosmica nel
momento in cui egli ricorda che anche la sua Regina soffre per
l’abbandono di Antonio,
This great Emperour
Sometime (would now they did) whom worlds did fear
Abandoned, betraid, now mindes no more
But from his euils by hast’ned death to passe.
(II, 31-34)
La morte, dunque, è l’unica via d’uscita da questa situazione
di sconfitta e di umiliazione. Ormai non rimane che pregare la
dea Iside, affinché renda Ottaviano sensibile alla sofferenza
dell’Egitto e del suo popolo.
Secondo Filostrato la vera causa di tanta rovina sta nell’amore
tra Antonio e Cleopatra; la conclusione del filosofo è paradossale: come può l’amore essere causa di tanta sofferenza? Come può
distruggere la vita delle persone che esso lega ed unisce in un
vincolo immortale ed eterno? Eppure è proprio l’amore che
Hath lost this Realme inflamed with his fire.
Loue, playing loue, which men say kindles not
But in soft hearts, hath ashes made of our townes.
And his sweet shafts, with whose shot none are kill’d,
Which ulcer not, with deaths our lands haue fill’d,
Such was the bloudie, murdering, hellish loue.
(II, 44-49)
Il paradosso di un amore portatore di dolore si chiude su un
ossimoro altrettanto significativo, che scorge nell’amore qualcosa
di sanguinoso ed addirittura infernale. Filostrato ricorre a termini molto espliciti, per indicare la natura dell’amore che unisce
Antonio a Cleopatra: l’aggettivo playing, che compare nel secon-
204
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
do verso di questa citazione, indica la dimensione del gioco, della
passionalità e sensualità, che hanno reso i due amanti reciprocamente irresistibili, ma ciechi riguardo a tutto quello che succede
intorno a loro. Il filosofo, infatti, si avvia alla chiusura della sua
battuta, spiegando come l’atmosfera allegra e di festa abbia impedito a tutti di leggere ed interpretare nel modo giusto i segni
premonitori degli dei: comete fiammeggianti che attraversavano
il cielo, abbondanti piogge di sangue, spiriti di uomini morti che
si aggiravano per le vie della città. Niente di tutto questo ha aperto gli occhi sul mondo reale e ha risvegliato le coscienze. E
così gli dei, irritati per non essere stati ascoltati, hanno inflitto
questa terribile punizione all’Egitto:
So we forsaken both of Gods and men,
So are we in the mercy of our foes:
And we henceforth obedient must become
To lawes of them who haue us ouercome.
(II, 81-84)
L’amarezza con cui Filostrato conclude il suo intervento nel
segnalare l’ormai inevitabile sottomissione a Roma e alle sue leggi, è richiamato più avanti, dopo una battuta del Coro, da Cleopatra stessa, che compare adesso sulla scena per la prima volta
dall’inizio del dramma.
La Regina esordisce con parole che sembrano dette in medias
res e che si pongono come la risposta alle domande e ai dubbi di
Antonio nel Primo atto. Ella usa il verbo betraide, lo stesso,
quindi, di Antonio, che qui assume un significato più complesso
e sfumature più articolate. Il tradimento di cui parla Cleopatra,
infatti, diventa lo specchio del suo comportamento nei confronti
di Antonio, che ella ha tradito come amante, venendo meno ai
suoi voti di lealtà, ha deluso come uomo e ha consegnato al nemico come soldato: Cleopatra ha fatto tutto questo, o almeno lo
avrebbe fatto, secondo Antonio. La Regina si giustifica in questa
lunga battuta, chiamando Antonio “My life, my soule, my sun-
205
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
ne”, parole che rimandano all’universo petrarchesco ed alla tradizione della lirica amorosa. Eppure, benché si tratti di espressioni petrarchesche, esse sono sintomo del malessere e del caos
che ha colpito l’Egitto: nella tradizione iniziata da Petrarca, infatti, l’uomo parla della sua donna come vita, anima e sole della sua
stessa esistenza e non viceversa, come succede qui. La situazione
è ribaltata: le convenzioni sono rispettate, ma al contrario: gli
amanti si scambiano i ruoli e l’amore non porta pace, ma disfatta. Il risultato della battaglia di Azio, l’umiliazione di Antonio e
Cleopatra e la sospensione del loro amore indicano che
l’armonia non è più di casa in Egitto: il mondo è caduto fuor di
sesto, come direbbe Amleto, e toccherà ad Ottaviano e alle giuste leggi di Roma rimetterlo in ordine.
Nemmeno la gerarchia d’amore, quella su cui tanti poeti avevano costruito i loro sonetti, viene rispettata e colui che una volta
era Lord e King dell’amante sventurato e sofferente22, ora diventa
l’amante stesso. Cleopatra, infatti, parla di Antonio come suo
Lord e suo King, e così facendo lo trasforma da amante a soggetto del suo amore: è come se Antonio ed Amore diventassero
un’unica cosa in questo mondo dove i ruoli non sono più rispettati e la vita è in preda al caos.
Cleopatra dichiara la sua innocenza con una serie di iperboli
tese a scagionarla, ma che, in realtà, non fanno altro che collo22
Questo particolare esempio ricorda un sonetto di Surrey (Love, That doth
live and reign within my thought), traduzione del sonetto 144 di Petrarca, in cui
il poeta malato d’amore parla della propria sofferenza facendo riferimento alla
gerarchia d’amore che assegna a ciascuno degli attanti un ruolo ben preciso.
Alla donna, in cima alla gerarchia e alla quale il poeta affida il compito di
istruirlo in materia d’amore, segue Amore che ha trovato la propria sede nel
cuore e nella mente del poeta: ne condiziona passioni e pensieri e diventa
l’unica ragione della sua vita. Al povero amante sventurato spetta solo l’ultimo
gradino della piramide, risultando sottomesso sia alla donna che ad Amore al
quale egli si rivolge chiamandolo Lord e King. Il riferimento alla terminologia
medievale e al rapporto di vassallaggio tra il signore e il suo suddito indica il
rapporto di incondizionata fedeltà che lega l’amante al suo signore e padrone,
che è Amore.
206
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
carla ancora una volta nell’universo ormai distorto dell’amore
cortese ed annoverarla tra le donne deboli, incapaci di accettare
il proprio destino. Del resto, la sua disperazione ha più di un
motivo e Antonio non è che uno dei tanti, l’ultimo nell’elenco da
lei proposto in questa battuta:
And did not I sufficient losse sustaine
Loosing my Realme, loosing my libertie,
My tender of-spring, and the joyfull light
Of beamy Sunne, and yet, yet loosing more
Thee Antony my care, if I loose not
What yet remain’d? thy loue alas! thy loue,
More deare then Scepter, children, freedome, light.
(II, ii, 18-24)
Al confronto, Antonio che cosa potrebbe perdere, se non il
controllo sul mondo, la sua posizione privilegiata a Roma, la sua
libertà, la sua famiglia e i suoi figli? Ecco, allora, che cosa accomuna i due amanti: non l’amore, o almeno non solo quello, ma il
destino infame che spetta ai potenti di questa terra. È lo stesso
destino dei grandi eroi tragici elisabettiani, vittime di un fato che
ha voluto far loro pagare il prezzo di un’ambizione smodata, che
travalicava i limiti consentiti all’uomo. Antonio e Cleopatra sono
allora due eroi del Rinascimento e la loro origine antica, la loro
appartenenza a Roma e all’Egitto non fa che aumentarne la dimensione universale.
Ma la Cleopatra di questi versi è la donna sola, che testimonia
la disperazione della regina, e riconosce in se stessa e nella propria bellezza la vera causa della propria disfatta:
My face too louely caus’d my wretched case.
My face hath so entrap’d, so cast us downe,
That for his conquest Caesar may it thanke,
Causing that Antonie one army lost
The other wholly did to Caesar yeld.
(II, ii, 44-48)
207
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Ottaviano, dunque, dovrebbe esserle grato per il successo di
Azio: se ella non se ne fosse andata, Antonio non l’avrebbe seguita e ora essi sarebbero i padroni del mondo. Invece, il destino
ha voluto che l’amante inseguisse geloso e preoccupato la donna
amata che stava fuggendo da lui e lasciasse dietro alle sue spalle
la furia della battaglia, il sostegno e la fiducia dei suoi uomini, la
vittoria su Roma. “I am sole cause: I did it, only I” (II, ii, 62):
Cleopatra recita il mea culpa e sogna ad occhi aperti le ricchezze
di cui avrebbe potuto godere, se avesse ascoltato i suoi consiglieri
e non si fosse lasciata travolgere dalla gelosia nei confronti di Ottavia:
But I car’d not: so was my soule possest,
(to my great harme) with burning iealousie:
Fearing least in my absence Antony
Should leauing me retake Octauia.
(II, ii, 77-80)
Le convenzioni petrarchesche sono di nuovo distorte: la gelosia in amore è un peccato maschile e, perciò, è Othello ad uccidere Desdemona, e non il contrario. Qui Cleopatra è gelosa di
Ottavia e così uccide, metaforicamente, il suo Antonio; ora non
può che attribuirsi la colpa di essere stata troppo ostinata e di
non aver saputo correggere il proprio errore per tempo.
A questo punto si innesca un’importante discussione dal sapore tutto rinascimentale, che ricorda al pubblico come, da una
parte, gli dei abbiano reso l’uomo libero di decidere il proprio
destino e, dall’altra, come il destino degli uomini sia in realtà
stabilito dalle stelle, che governano la vita terrena. Il libero arbitrio, frutto della Riforma protestante, si scontra qui con la credenza filosofica e popolare più che teologico-cristiana, secondo la
quale la relazione tra micro e macro-cosmo sarebbe così forte,
che l’uomo nasce con un destino già ben definito:
Things here below are in the heau’ns begot,
Before they be in this our worlde borne:
208
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
And neuer can our weaknesse turne awry
The stailesse course of powerfull destenie.
Nought here force, reason, humaine prouidence,
Nolie deuotion, noble bloud prevailes.
(II, ii, 97-102)
L’essere umano, per natura debole rispetto alla forza sorprendente degli astri, non può ribellarsi a ciò che le stelle hanno deciso per lui, dal momento che lo stesso universo si muove, respira
e vive rispondendo ai comandi di chi lo ha creato. La sconfitta di
Cleopatra e la perdita del regno, dunque, non sono dipendenti
dalla sua volontà o dal suo amore smisurato, ma dal volere degli
dei:
they haue to euery thing an end ordain’d;
All wordly greatnes by them bounded is:
Some sooner, later some, as they thinke best:
None their decree is able to infringe.
But, which is more, to us disastred men
Which subiect are in all things to their will,
Their will is hid: nor while we line, we know
How, or how long we must in life remaine.
(II, ii, 125-132)
Poiché agli uomini non è dato conoscere il proprio futuro,
nelle loro mani c’è solo l’accettazione di un disegno di vita al
quale la Riforma dà il nome di Predestinazione. La speranza è
l’unica ancora di salvezza di cui poter disporre ed è proprio ad
essa che Cleopatra deve aggrapparsi, per risalire la china. Carmiana, la sua ancella più fidata, le consiglia di non darsi per vinta
e di adoperarsi, affinché la situazione non degeneri: ella deve allontanarsi da Antonio, la cui vita ormai non ha più alcun valore,
deve “with-draw you from the storme” (II, ii, 145) e farsi amica
ed alleata di Cesare. La risposta della Regina non si fa attendere:
prima che ella lasci Antonio deve avvenire la fine del mondo; con
queste parole, ribadisce la sua lealtà nei confronti dell’amato, rispondendo alle accuse di abbandono e tradimento e spiegando
209
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
come l’amore che li ha uniti abbia fatto di loro una cosa sola:
“He is my selfe” (II, ii, 202), afferma, e non può separarsi da se
stessa.
In tal caso, prosegue Carmiana, le resta una cosa sola da fare:
accettare la morte del suo amante e concentrarsi sull’amore per i
figli:
Build for him a tombe
Whose statelinesse a wonder new may make.
Let him, let him haue sumptuous funeralls:
Let graue thereon the horror of his fights:
Let earth be buri’d with unburied heaps.
[…]
Honor his memory: with doubled care
Breed and bring up the children of you both
In Caesars grace: who as a noble Prince
Will leaue them Lords of this most glorious realme.
(II, ii, 219-223 / 229-232)
Cleopatra dovrebbe, cioè, commemorare la morte di Antonio,
offrendogli una degna sepoltura, specchio della sua gloria passata, e guardare ai suoi figli, unico specchio della sua gloria futura.
Ma l’ennesima proposta di Carmiana suscita sdegno in lei, che,
per tutta risposta, parla della propria morte tra l’approvazione
delle ancelle: non le gioverebbe a nulla e non le porterebbe né
gloria presso i posteri, né guadagno per i figli.
La conversazione fra le tre donne è interrotta dal sopraggiungere di Diomede, segretario della Regina, che propone a questo
punto del dramma la prima descrizione di questa donna:
She is all heau’nly: neuer any man
But seeing hir was rauish’d with her sight.
The Allabaster couering of her face,
The corall coullor hir two lips engraines,
Her beamy eies, two Sunnes of this our world,
Of hir faire haire the fine and flaming golde,
Her braue streight stature, and her winning partes
210
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Are nothing else but fiers, fetters, dartes.
Yet this is nothing th’enchaunting skilles
Of her celestiall Sp’rite, hir training speach,
Her grace, hir maiesty, and forcing voice,
Whither she it with fingers speach consorte,
Or hearing sceptred kings embassadors
Answere to each in his owne language make.
(II, ii, 325-338)
Le parole del segretario dipingono Cleopatra con i termini
della tradizione petrarchesca e la rendono una creatura bellissima, alla quale nessun uomo saprebbe resistere. Il ritratto proposto in questi versi deriva dall’idea di armonia tra le parti che
compongono il volto di Cleopatra: una bellezza regolare sotto
tutti i punti di vista, un riflesso dell’armonia delle sfere e della
regolarità che scandisce la vita umana in un cosmo ordinato, e in
pace con chi lo ha creato. Il ritratto di qualche verso sotto, invece, ribalta completamente la situazione:
Darkned with woe her only study is
To weepe, to sigh, to seeke for loneliness.
Careles of all, hir haire disordred hangs:
Hir charming eies whence murthring looks did flie,
Now riuers grown’, whose wellspring anguish is,
Do trickling wash the marble of hir face.
Hir faire discouer’d brest with sobbing swolne
Selfe cruell she still martirith with blowes.
(II, ii, 341-348)
È quello della follia, conseguenza logica di un mondo caduto
nel caos e rimasto privo di punti di riferimento.
Sulle parole di Diomede si conclude il Secondo atto, che ha
presentato la disfatta di Azio attraverso gli occhi di Cleopatra.
Il Terzo atto, quello centrale del dramma, si apre senza una
particolare indicazione tipografica e convoglia di nuovo
l’attenzione del pubblico su Antonio, che sta riflettendo sul suo
amore sfortunato per Cleopatra: geloso dell’atteggiamento della
211
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
donna nei confronti di Ottaviano sapendola una donna intelligente ed astuta, che dietro alle sue moine ci sia un piano preciso,
per conquistare il favore del suo avversario recuperare il potere
perduto ad Azio. Cleopatra ha amato Antonio solo perché attirata dal suo successo di grande uomo di Roma e di valoroso soldato, ma una volta terminato il sogno militare, pensa di porre fine
anche all’idillio d’amore; resosi conto di come siano andate veramente le cose, Antonio attribuisce la colpa di quanto è successo a Cleopatra:
Pelusium lost, and Actian ouerthrow,
Both by her fraud: my well appointed fleet,
And trusty Souldiors in my quarrel arm’d,
Whome she, false she, in stede of my defence,
Came to perswade, to yelde them to my foe.
(III, 26-30)
Eppure, il suo vero tormento adesso non è la perdita del potere e la forzata rinuncia alla gloria, ma la gelosia per quello che
potrebbe accadere tra Cleopatra e Ottaviano: gelosia che si avvia
a diventare un’ossessione. Quello che parla qui è l’Antonio perdutamente innamorato della donna alla quale non sa rinunciare:
il suo amore è un tarlo, che gli si insinua con ostinazione nella
mente; si sente ridicolo nel constatare il suo stato e l’unica consolazione gli giunge dal ricordo di una vita ricca di glorie politiche e militari, a cominciare dalla sconfitta dei congiurati che avevano ucciso Giulio Cesare in Campidoglio. Le sue gesta non
hanno bisogno di essere ricordate, poiché la gente sa chi è stato e
chi è Marc’Antonio.
Il passato della sua vita ingloba anche il sodalizio politico con
Ottaviano e il forte legame di parentela che li unisce dopo il suo
matrimonio con Ottavia. L’amico e rivale, però, ha saputo giocare bene le sue carte e tenere a bada la propria ambizione; Antonio, invece, no: la bramosia di un potere smisurato e la gelosia
verso tutto quello che riguarda la Regina d’Egitto lo hanno por-
212
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
tato alla sconfitta totale. Ma Antonio non è un perdente di natura e tutto questo non ha ancora limitato la sua forza, poiché egli
costituisce una minaccia per Ottaviano finché vivrà. Questi, vittorioso su di lui ad Azio ed autore della sua umiliazione davanti
al mondo intero, non lo teme, lo crede innocuo e sottovaluta la
possibilità di una reazione contro di lui e i suoi uomini. Tuttavia,
passato un momento di euforia, brandello della gloria di cui un
tempo godeva, Antonio si rende conto di non poter fare nulla
contro il nemico: la sua forza militare appartiene al passato e il
presente non gli offre che l’immagine incancellabile della sconfitta. Mentre egli si perdeva in un mare di affettuose effusioni e di
piacere, Ottaviano studiava il nemico ed imparava a conoscerne i
lati deboli, calcolava i tempi e programmava la battaglia. La vera
causa della sua disfatta, dunque, è il piacere che, come insegna il
giovane Lucilio nel ruolo di amico fidato e fedele, è devastante,
quando è legato alla vita dei principi: ancora una volta siamo di
fronte alla caduta dell’uomo che, pur vantando qualità che altre
creature non hanno, rivela la sua debolezza nei momenti più impensati. È ciò che accade ad Antonio, discendente da Ercole, ed
immagine di forza e fortezza:
In onely this like Hercules am I,
In this I proue me of his lignage right:
In this himselfe, his deedes I shew in this:
In this, nought else, my ancestor he is.
(III, 369-372)
Il passato, però, è passato e ad Antonio non resta che
un’unica via d’uscita: la morte.
Si chiude così il Terzo atto, tradizionalmente centro
dell’azione e sede, nel teatro shakespeariano, del turning point
dell’intero dramma. Questa volta il turning point arriva attraverso
Antonio che, dopo un lungo travaglio interiore, decide di morire.
Il pubblico è lasciato con il ricordo di un Antonio disperato, che
medita il suicidio come unica soluzione per rimediare
213
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
all’umiliazione di Azio. Questo atto disperato è l’arma che i
grandi eroi del teatro hanno a disposizione, per sconfiggere
l’umiliazione del trionfo altrui; l’uso che ne fanno non fa che ingigantire le proporzioni del loro dolore e li consegna alla dimensione mitica dell’umanità.
Con il Quarto atto, l’audience conosce finalmente Ottaviano,
che, pur essendo stato nominato con molta frequenza fin dalle
prime battute di questa rappresentazione, entra in scena per la
prima volta. Lo troviamo circondato dai suoi uomini, probabilmente nel suo accampamento, a coronare il proprio sogno di potere e a ringraziare gli dei per l’esito fortunato della battaglia:
You euer-liuing Gods which all things holde
Within the power of your celestiall hands,
By whome heate, colde, the thunder, and the wind,
The properties of enterchaunging mon’ths
Their course and being haue; which do set downe
Of Empires by your destinied decree
The force, age, time, and subiect to no chaunge
Chaunge all, reseruing nothing in one state.
(IV, 1-8)
La sua preghiera, pur non assomigliando nel tono alle parole
di Carmiana nel Secondo atto, ricorda ancora una volta che gli
dei sono i signori del mondo e che nelle loro mani si trovano il
ciclo naturale delle cose, il destino del creato e degli imperi.
Questa volta essi hanno deciso di assegnare la palma del vincitore a Roma, che potrà governare il mondo nel nome delle sue leggi, sinonimo di violenza e di sottomissione:
Maistring the world with fearefull violence,
Making the world widdow of libertie.
(IV, 11-12)
Le parole di questi versi acquistano anche significato più pregnante, se vengono pensate in riferimento a Cleopatra: la violenza inaudita, che si è scatenata sulla sua gente in seguito alla scon214
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
fitta di Azio, la parola morte, che aleggia tra le sue ancelle e ritorna con frequenza nei discorsi di Antonio permettono al pubblico di constatare la veridicità delle parole di Ottaviano, il quale
porta immediatamente l’attenzione sulla propria vittoria e sui
suoi frutti:
Her Empire mine, her life is in my hand,
As Monarch I both world and Rome commaund;
Do all, can all, foorth my command’ment cast
Like thundring fire from one to other Pole
Equall to Ioue.
(IV, 15-19)
Al giovane rivale di Antonio gli dei hanno assegnato la gloria
del governo di Roma, ma egli dovrà essere capace di controllare
la propria ambizione e il proprio desiderio di dominio, altrimenti
il destino toccato ad Antonio prima o poi si abbatterà su di lui.
Nei pochi versi citati sopra, Ottaviano parla di se stesso da vincitore: non vede i propri lati deboli, ignora la possibilità di una reazione dei suoi nemici, si sente padrone del mondo nello stesso
modo in cui Giove lo è dell’universo: l’uomo a capo di Roma è a
capo dell’universo e il suo governo non è molto dissimile dalla
tirannia, soprattutto se attuato ricorrendo alla violenza e alla riduzione in schiavitù.
Con la presentazione che Ottaviano fa di se stesso lo spettatore impara a conoscere la storia non solo attraverso gli occhi dei vinti, ma anche dei vincitori, conosce sotto una luce
diversa i personaggi che ha visto calcare le scene e ne mette in
discussione pensieri e parole. L’Antonio conosciuto dal pubblico fino a questo punto del dramma è diverso da quello di
cui parla Ottaviano nell’apertura del Quarto atto, poiché ora
viene dichiarato che, come tutto il resto del mondo, anche
Antonio deve imparare a temere il giovane Cesare. La prospettiva di un’esistenza disperata, cui il dramma aveva abituato il suo pubblico, si trasforma nella constatazione
215
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
dell’umiliazione di Antonio, soprattutto come soldato romano, che perde la sua individualità in un mondo fatto di sconfitte: egli non è più nessuno e nemmeno il suo passato servirà
a distinguerlo dagli altri soldati, a mantenere viva la sua fama
presso i posteri. La sua vita viene ripercorsa per la seconda
volta, ma l’attenzione non cade più sulle guerre contro i Parti
e le altre popolazioni nemiche, bensì sul suo amore per Cleopatra e sulla vita dissoluta, che i due conducevano ad Alessandria:
Antony, he poore man with fire inflam’de
A womans beauties kindled in his heart.
Rose against me, who longer could not beare
My sisters wrong he did so ill intreat:
Seing her left while that his leud delights
Her husband with his Cleopatre tooke
In Alexandria, where both nights and daies
Their time they pass’d in nought but loues and plaies.
(IV, 33-40)
La presunzione di un successo facile ha guidato le sue decisioni militari ad Azio e, come puntualizza Ottaviano stesso,
For no one thing the gods can lesse abide
In deedes of men, then Arrogance and pride.
And still the proud, which too much takes in hand,
Shall fowlest fall, where best he thinkes to stand.
(IV, 66-69)
Le parole del vincitore sono lapidarie ed hanno un’unica interpretazione possibile: Antonio ha peccato di presunzione ed orgoglio,
e gli dei lo hanno punito; ha offeso loro e Roma, la città fondata per
soddisfare il loro volere. L’Urbe gode della protezione degli dei,
proprio come Ottaviano che, dopo essere stato scelto quale comandante supremo, ha l’obbligo di combattere nel loro nome e di imporre il vessillo della loro città anche nei domini orientali.
216
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Il desiderio degli dei si è compiuto, e
Now as of heau’n one onely Lord we know:
One onely Lord should rule this earth below.
(IV, 144-145)
Ancora una volta Ottaviano parla del monarca, ponendolo
sullo stesso piano di Dio, allude alla monarchia assoluta e, in
qualche modo, fa da eco al fallimento dei risvolti politici
dell’assassinio di Cesare.
Tutto il discorso sulla propria forza e superiorità, però, non fa
di lui un monarca avventato e il ricordo della furia di Antonio
nella battaglia non lo fa sentire invincibile: Antonio è un nemico
pericoloso e deve morire per il bene di Roma: e questo è accaduto, sostiene un messaggero che, venuto a portare la notizia, tiene
in mano come se fosse un trofeo di guerra, la spada che fu di Antonio, a conferma delle sue parole e della sua testimonianza. La
notizia si è ormai diffusa ad Alessandria e la gente si dispera per
la grave perdita, ma Ottaviano, dopo aver commemorato la morte dell’antico rivale, ritorna al suo progetto di trionfo e sposta la
sua attenzione su Cleopatra, che ora sostituirà Antonio e dovrà
essere esibita come schiava nel suo ingresso trionfale a Roma:
Assure hir foe, that we may wholy get
Into our hands hir treasure and her selfe.
For this of all things most I do desire
To keepe her safe untill our going hence:
That by hir presence beautified may be
The glorious triumph Rome prepares for me.
(IV, 362-367)
Con queste parole, seguite da una battuta del Coro sulla gloria di Roma e dei suoi uomini, si chiude il Quarto atto e si prepara la messa in scena della morte di Cleopatra, che occuperà
l’intero Quinto ed ultimo atto.
Appresa la notizia della morte di Antonio, la Regina si dispera, invocando la protezione degli dei e chiedendo ragione della
217
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
loro ira. Con la morte del suo uomo ella ormai ha perduto tutto,
corona, regno, futuro:
The crowne haue lost my ancestors me left,
This Realme I haue to strangers subiect made,
And robd my children of their heritage.
(V, 12-15)
Ma tutto ciò è niente al confronto della perdita dell’amato
con il quale si era sposata secondo la legge greca, ma non di
Roma, che, infatti, riteneva la loro unione nulla, oltre che sacrilega. Nella disperazione del suo dolore Cleopatra assume
su di sé tutta la responsabilità della morte di Antonio e si accusa di essere una hurtfull woman, indegna di questa vita. Si fa
strada così nella sua mente il desiderio del suicidio, che le
permetterebbe di raggiungere il suo uomo e non vedere la sorte ingrata dei suoi figli posti sotto il giogo di Roma. A questo
punto della sua vita e della storia, il vero timore di Cleopatra
è Ottaviano, che nella sua incapacità di sapersi accontentare è
disposto a tutto, pur di esibire un pregiato trofeo di guerra:
perché questo è ciò che ella rappresenta agli occhi di Ottaviano nella sua marcia trionfale a Roma.
Cleopatra, dunque, muore, ma, contrariamente a quello che
era avvenuto con Antonio, allo spettatore non viene detto come.
Le sue ultime parole sono di affetto per i figli, che non vorrebbe
lasciare sotto il giogo di Roma, e di amore per Antonio, che non
vuole venga dimenticato.
La scena si avvia alla conclusione, richiamando l’attenzione
del pubblico sull’amore sincero, e i fatti ormai lo hanno ampiamente dimostrato tale, confutando ogni possibile dubbio, che univa Antonio e Cleopatra. Il sipario si chiude con la bella Egizia
che, prima di esalare l’ultimo respiro, bacia il suo Antonio, inerme accanto a lei e bello come solo un amante petrarchesco potrebbe esserlo:
But kisse him now, what rests me more to doe?
218
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Then let me kisse you, you faire eies, my light,
Front seat of honor, face most firce, most faire!
O neck, ô armes, ô hands, ô breast where death
(o mischiefe) comes to choake up vitall breath.
(V, 200-204)
219
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
220
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
The Tragedie of Cleopatra (1594)23
Il dramma di Samuel Daniel inizia con una lunga dedica alla
contessa di Pembroke, che gli aveva chiesto di comporre una
tragedia che fosse complementare alla sua e che si occupasse,
quindi, di Cleopatra. Il testo che egli scrisse, però, non si allontanava molto da quello di Garnier, che la stessa contessa di
Pembroke aveva tradotto, e da quello di un altro autore francese
suo contemporaneo, Jodelle, intitolato Cléopâtre captive del
155224. Oltre a questi testi non si può dimenticare Plutarco e il
modo in cui egli aveva descritto Cleopatra nelle Vite Parallele. Ne
risulta, quindi, un personaggio che nasce da un coacervo di elementi raccolti dalle varie fonti, che assegna a Cleopatra la levatura di un grande personaggio. Ella è la protagonista indiscussa del
dramma, al quale conferisce l’unità che emerge dalla sua lettura
o rappresentazione: in una parola, Cleopatra è il dramma stesso.
Dall’Argument che anticipa la tragedia, si apprende che Antonio è ormai morto; pertanto, l’Autore concentra il suo interesse
su Cleopatra senza dimenticare di descrivere al suo pubblico i
particolari della sofferenza della Regina d’Egitto, che non vuole
cedere alle promesse di Ottaviano e, soprattutto, non vuole essere esibita come preziosa preda nella sua processione trionfale per
le vie di Roma. La questione, come si è visto, è presente pure nel
testo della Pembroke e lo sarà poi nella tragedia di Shakespeare.
L’attenzione è convogliata su Cleopatra che, come Regina non
vuole cedere al vincitore e come madre vuole garantire un futuro
certo di libertà ai suoi figli. La morte sarà la sola ancora di salvezza, la sua unica via d’uscita da un mondo che l’ha privata di
tutto: per questo motivo Cleopatra cura il momento del suo trapasso nei minimi particolari: a differenza di quanto succedeva
23
S. DANIEL, The Tragedie of Cleopatra, London, 1594, in EEBO (Early
English Books Online), Chadwyck-Healey, 2006. Ogni citazione dal testo di
Daniel è tratta da questa edizione. L’immagine riportata sopra è tratta da
questa edizione.
24
J. REES, Samuel Daniel’s “Cleopatra” and Two French Plays, p. 1.
221
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
nel lavoro della Pembroke, Daniel ne descrive la morte drammatica sul palcoscenico.
Dopo la presentazione dei personaggi nell’elenco degli Actors,
che vede escluso Antonio, e dopo la collocazione della scena ad
Alessandria, il sipario si alza su Cleopatra, che, disperata, piange
per la morte dell’uomo da lei tanto amato:
Yet doe I liue, and yet doth breath possesse
This hatefull prison of a loathsome soule:
Can no calamitie, nor no distresse
Breake hart and all, and end a life so foule?
Can Cleopatra liue, and with these eyes
Behold the deerest of her life bereft her?
Ah, can shee entertaine the least surmise
Of any hope, that hath but horror left her?
Why should I linger longer griefes to try?
(I, 1-9)
Con questi versi l’attenzione del pubblico si concentra su Cleopatra e sui suoi interrogativi: sono parole che contengono una
prolessi implicita di quello che succederà nel dramma e, in particolare, della sua conclusione. Il ragionar di morte aiuta lo spettatore a comprendere che la rappresentazione alla quale sta per assistere è una tragedia in cui la morte della protagonista è già annunciata fin dalle prime battute, seppur in modo allusivo ed implicito.
Cleopatra non può vivere senza il suo compagno di avventure
festose e senza la certezza costante del suo amore. La disfatta di
Azio non solo ha stroncato la carriera politica e militare di Antonio, annientato la sua personalità, fino al punto da costringerlo al
suicidio, umiliato e piegato l’Egitto sotto il giogo di Roma, ma ha
anche distrutto radicalmente l’amore che li univa. Cleopatra,
dunque, ha ben ragione di disperarsi e di compiangere l’amato;
senza regno e senza Antonio, la sua vita non ha più nessun valore:
222
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Hee on whose shoulders all my rest relyde,
On whom the burthen of my ambition lay:
The Atlas and the Champion of my pride,
That did the world of my whole fortune sway,
Lyes falne, confounded, dead in shame and dolors,
Following th’unlucky party of my loue.
(I, 13-18)
Da queste parole si intuisce che Cleopatra aveva visto in Antonio non solo la realizzazione di sè come donna, ma soprattutto
come Regina: egli era il suo lasciapassare verso la conquista del
mondo e il dominio dell’Egitto su Roma. Alla donna egli assicurava protezione, alla regina forniva il sostegno per la sua ambizione e la garanzia della realizzazione dei suoi sogni di dominatrice del mondo. In questi versi Antonio è definito anche Atlas,
Atlante, colui che è raffigurato con il globo terrestre sulle spalle e
che a fatica lo regge, chiamando a raccolta tutta la forza del suo
corpo. Agli occhi dell’Egizia Antonio era così: forte come ogni
donna vorrebbe che il proprio uomo fosse, e dominatore del
mondo, come Cleopatra avrebbe voluto che egli fosse.
Eppure, tanta forza e tanto valore non sono bastati a sconfiggere Ottaviano e ad evitare la rovina abbattutasi su tutti e due.
Cleopatra, infatti, attribuisce la propria disfatta a colui che, perdente ad Azio, ha trascinato nel fango anche lei:
Th’Ensigne of mine eyes, th’unhappy collours,
That him to mischiefe, mee to ruine droue.
(I, 19-20)
Fatta questa premessa e lasciato Antonio senza alcuna possibilità di rivalsa, l’egocentrica Cleopatra richiama l’attenzione del
pubblico su di sé, sul suo passato glorioso e sul suo futuro di miseria:
Ah, who would think that I were shee who late,
Clad with the glory of the worlds chiefe ritches,
Admir’d of all earth, and wondred at,
223
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Glittring in pompe that hart and eye bewitches:
Should thus distress’d, cast down from of that heigth
Leuell’d with low disgrac’d calamitie,
Under the waight of such affliction sigh,
Reduc’d unto th’extreamest misery.
(I, 25-32)
In questi versi c’è tutta la delusione che ella prova per l’attuale
condizione di donna povera ed infelice, c’è tutto il risentimento
nei confronti di colui che l’ha ridotta in queste condizioni. Il ritratto che propone di se stessa non riguarda il suo aspetto fisico,
ma solo il suo ruolo di regina ammirata dal mondo intero, di Sovrana di un Paese temuto da tutto il mondo. I suoi abiti, il suo
sguardo, il suo lusso, tutto contribuiva a fare di lei una donna inavvicinabile, ma ormai, il ricordo del passato glorioso è offuscato dalla realtà di un presente infelice e sfortunato, che la vede vivere sotto il peso della sventura e della sofferenza. Il culmine del
suo discorso Cleopatra lo raggiunge nei due versi immediatamente successivi a quelli appena citati:
Am I the woman, whose inuentiue pride,
(Adorn’d like Isis) scornd mortalitie?
(I, 33-34)
Qui ella propone, come si diceva, la massima espressione di
sé: infatti, si configura come Iside, una delle divinità egizie in cui
la Cleopatra storica era solita identificarsi. Questa identificazione
di un sovrano con una divinità pagana è una prassi che non appartiene solo al mondo antico, poiché la si ritrova anche in epoca
rinascimentale. È noto a tutti, infatti, che Elisabetta I si faceva
spesso ritrarre come Cinzia o Diana, entrambe dee lunari, oppure che Luigi XIV si identificava con il Sole. Tuttavia, è opportuno chiarire che, se nel mondo classico queste identificazioni avvenivano perché si credeva che il sovrano fosse tale, in quanto
discendente da una divinità, nel Rinascimento, l’espediente poggiava su basi filosofiche relative alla struttura dell’universo e
224
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
all’importanza che, ad esempio, il Sole e la Luna, i due luminari
del cielo, ricoprivano nella cosmologia universale del tempo. La
cultura di stampo classico in voga presso i ceti elevati della società rinascimentale assegnava al sovrano il ruolo che il Sole ricopriva all’interno del sistema tolemaico: esso era il pianeta più
importante per la terra, alla quale forniva calore ed energia, e garantiva prosperità e abbondanza. Allo stesso modo, un sovrano
aveva il ruolo più importante all’interno dell’organizzazione governativa del suo Stato, poiché teneva nelle proprie mani la responsabilità di un futuro pacifico e prospero per il suo popolo.
Ma torniamo ai due versi di Cleopatra riportati sopra. Il discorso della Regina d’Egitto è attuale per il pubblico elisabettiano, che sul palcoscenico vede una donna sola e disperata, proprio come lo era stata Elisabetta I negli ultimi anni del suo lungo
regno. L’immagine di Cleopatra vestita e ornata come Iside sollecita altre riflessioni interessanti, ma sempre in voga all’epoca
sia di Daniel sia di Shakespeare. Assimilandosi alla figura di Iside, Cleopatra parla di sé come di una creatura che non è solo
terrena: in quanto regina, ella ha una natura divina che il popolo
le riconosce, quando appare in pubblico vestita come una dea.
L’episodio cui Cleopatra fa riferimento ha un corrispettivo nel
dramma di Shakespeare: Daniel vi allude senza dilungarsi troppo, mentre Shakespeare vi si sofferma fornendo un’attenta e meticolosa descrizione delle circostanze del fatto. Questo è riportato
da un testimone, che ha assistito alla scena: Antonio e Cleopatra
sono su un palco di fronte alla folla e sono vestiti come Osiride e
Iside, corrispondenti ai romani Apollo e Diana. Le loro vesti sono, dorate nel caso di Antonio, e argentate, nel caso di Cleopatra: entrambi portano anche i simboli della divinità, che rappresentano e si lasciano circondare da un’aura di divinità che li eleva
rispetto alla natura bassa del popolo curioso che assiste alla scena. I due protagonisti di questo masque giocano a fare i signori
del mondo e distribuiscono tra la loro progenie le terre conquistate.
225
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
L’episodio, cui fa fugacemente riferimento Daniel non passa
inosservato e Shakespeare ne fa un momento portante nel suo
dramma, nel contrasto tra la seria e rigorosa Roma da un lato, e
la frivola e superficiale Alessandria dall’altro.
Le parole che Cleopatra pronuncia a tal proposito nascondono, però, anche un altro significato importante. In questi versi,
infatti, ella colloca la sua vicinanza ad Iside in un momento passato della sua vita, un momento ormai lontano e senza possibilità
di recupero. Il suo presente di miseria, al contrario, l’allontana
dalla dea, restituendola alla sua dimensione interamente terrena
ed annoverandola tra le donne mortali. Cleopatra, cioè, perde la
sua identità di regina e, con essa, anche la sua aura di creatura
semidivina. Di colpo, si rende conto di essere una donna come le
altre: una volta smessi i panni del successo e della gloria, non è
che un essere umano condannato allo stesso destino dei comuni
mortali.
Proprio sulla scia di queste parole, ella prosegue la sua lunga
battuta, dove, affranta, guarda che cosa le sia rimasto:
What is become of all that statelie traine,
Those troopes that wont attend prosperitie?
See what is left, what number doth remaine,
A tombe, two maydes, and miserable I.
(I, 39-42)
La miseria ha preso il posto della ricchezza: niente più soldati
né seguito reale, ma solo una tomba, due ancelle e niente altro.
L’immagine della regina caduta in disgrazia in seguito alla perdita del proprio regno è un’immagine che gli Elisabettiani conoscevano bene: quando il testo di Daniel venne pubblicato, non
erano ancora passati dieci anni dalla morte di Maria Stuart, la
cugina di Elisabetta, morta per mano di quest’ultima nel 1587.
Tradita dai suoi stessi uomini, allontanata dai suoi stessi sudditi,
Mary complotta contro la cugina protestante, che siede sul trono
d’Inghilterra, che ella vuole come suo ambito trofeo. Ma l’abile
226
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Walsingham intercetta i suoi messaggi in codice e così Mary finisce decapitata, dopo lunghi anni di prigionia, nel castello di Fotheringay, nel Northamptonshire. Le cronache dicono che era ridotta sul lastrico: le sue finanze erano sempre più scarse, anche a
causa di un figlio che non l’aveva mai voluta riconoscere come
madre, circondata da un esiguo numero di dame del suo seguito:
lei, la legittima Regina di Scozia che era stata sposa del Re di
Francia. La miseria di una sovrana senza regno era, dunque, nota al pubblico che assisteva alla rappresentazione di un dramma,
che, pur essendo costruito sulle solide basi delle fonti classiche,
non trascura l’apporto del colore del proprio tempo.
La tomba, due ancelle e la miseria sono tutto quello che resta
a Cleopatra: Ottaviano l’ha privata di tutto, del Paese, del regno
e della corona. Eppure ella sa che il suo rivale non potrà mai privarla della propria dignità:
Yet hast thou left me that which will deceiue thee.
That courage with my blood and birth innated,
Admir’d of all the earth, as thou art now:
Cannot by threates be vulgarly abated,
Te be thy slaue, that rul’d as good as thou.
Consider Caesar that I am a Queene,
And scorne the basenes of a seruile thought.
(I, 54-60)
Nonostante tutto, Cleopatra ha ben chiara in mente la propria
identità: ella sa di essere nata per essere regina e che nelle sue
vene scorre sangue regale. Ottaviano la potrà privare di tutto, ma
non della sua dignità. “I am a Queene”, dice, e con questa affermazione fa sapere al suo rivale che non ha nessuna intenzione
di sottostare alle leggi di Roma, né di contribuire al suo pieno
trionfo. A Cleopatra non manca il coraggio di morire, atto che si
appresta a compiere prima che gli uomini di Ottaviano la portino
via dal suo palazzo.
Come spesso accade nei discorsi di morte, o sulla propria
morte, tenuti poco prima del momento del trapasso, la mente si
227
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
sofferma su quegli aspetti dell’esistenza umana sui quali si è costruita la propria vita: così Cleopatra parla dei suoi figli e di come essi siano ora costretti a subire le conseguenze della vita lussuriosa della madre; di come ella non conoscesse il proprio destino, esattamente come tutti gli altri esseri umani:
But what know I, if th’heauens haue decreed,
And that the sinnes of Egypt haue deseru’d,
The Ptolomeyes should faile, and none succeed,
And that my weakenes was thereto reseru’d.
That I should bring confusion to my state,
And fill the measure of iniquitie:
Licentiousnes in mee should end her date,
Begunne in ill-dispensed libertie.
(I, 95-102)
Come già nella tragedia della Pembroke, anche qui Cleopatra
si giustifica di fronte al pubblico e, soprattutto, di fronte a se
stessa, sostenendo di non aver nessuna colpa, poichè gli dei avevano già deciso come le cose dovessero andare. “But what know
I” afferma, nel tentativo di dare una spiegazione della sua vita
sregolata e del suo comportamento di amante insaziabile: infatti,
se gli dei avevano stabilito che con lei si concludesse il Regno dei
Tolomei in Egitto, che la sua vita dissipata fosse parte di un ampio disegno divino, e che ella finisse la sua vita nella miseria e
nell’onta, come si sarebbe potuta opporre? non avrebbe mai potuto cambiare, anche avendone la possibilità, ciò che meno le
piaceva del suo destino: strumento nelle mani dei numi, aveva
vissuto una vita che non aveva scelto, ma che, ora che i giochi
erano fatti e il destino si era compiuto, voleva fosse di monito a
quei regnanti che si comportavano come lei:
To be example to such Princes good
That please themselues, and care now what become.
(I, 109-110)
228
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Se la sua vita poteva essere di esempio agli altri, allora non era
stata vissuta invano.
Il suo secondo pensiero va al legame con Antonio; anche se era
stata lei la causa della rovina dell’uomo, la loro disfatta aveva avuto origine dalla reciproca incapacità di saziare i propri desideri:
Sith both our errors did occasion giue,
And both our faults haue brought us both unto it.
I beeing first inamour’d with thy greatnes,
Thou with my vanity bewitched wholy:
And both betrayd with th’outward pleasant sweetnes,
The one ambition spoyld, th’other folly.
(I, 121-126)
È interessante notare come il possessivo our dei primi versi indichi quella complicità nella colpa che costituisce la rovina di entrambi, ma si carichi poi di una sorta di individualità, quando,
nei versi successivi, Cleopatra attribuisce a se stessa e ad Antonio
i rispettivi errori: ella si era lasciata abbagliare dalla grandezza di
lui ed egli si era lasciato irretire dalla vanità di lei. E così, in questo mondo che punisce gli amanti appassionati, gli amanti stessi
sono artefici della dissoluzione del loro amore. Dopo aver specificato il ruolo di ognuno, Cleopatra nei versi successivi torna ad
avvicinare se stessa ed Antonio al both che li raccoglie in un unico destino.
Antonio, però, ha già “duly paid” per il suo errore, mentre ella deve ancora pagare il proprio conto: diventata consapevole dei
propri sentimenti solo adesso, nel momento della morte, la Regina racconta come la gloria di Antonio non avesse fatto altro
che aggiungersi alla propria, soddisfacendo così la sua ambizione
di potere senza confini. Ammette di aver confidato parecchio
nella propria bellezza e di aver fatto innamorare molti uomini,
deboli di fronte al suo fascino di orientale: eppure, aveva giocato
a fare la preziosa e a non cedere alle lusinghe dei suoi spasimanti.
È questa la dimostrazione che anche la Cleopatra di Daniel è un
mélange di elementi classici e rinascimentali, poiché, alla storia
229
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
che parla di lei come una donna affascinante e fiera, viene aggiunto il riserbo furbo e scaltro, che all’epoca di Daniel era associato alla donna petrarchesca.
La consapevolezza della propria condizione di donna desiderata, la riporta con la mente indietro nel tempo e le fa ricordare
quando aveva conosciuto Antonio:
Thou, comming from the strictness of thy Citty,
The wanton pompe of Courts yet neuer learnedst:
Inur’d to warrs, in womans wiles unwittie,
Whilst other fayn’d, thou fell’st to loue in earnest.
(I, 149-152)
Vedendola, egli era rimasto subito affascinato dalla sua singolare bellezza e la sua serietà, il suo rigore e la sua onestà di buon
cittadino di Roma lo avevano portato ad amare senza finzione. Il
suo sentimento per Cleopatra era stato subito onesto e sincero, a
differenza di quello di altri corteggiatori, ma ella, padrona nel
proprio ruolo di femmina calcolatrice ed ingrata, aveva giocato
con i suoi affetti, fino a quando non se ne era innamorata. Allorché si erano conosciuti, Cleopatra era già una donna matura, aveva perso la freschezza della giovinezza, ma neppure questo era
valso a tenere Antonio lontano da lei:
And yet thou cam’st but in my beauties waine,
When new-appearing wrinkles of declining,
Wrought with the hand of yeeres, seem’d to detaine
My graces light, as now but dimly shining.
Euen in the confines of mine age, when I
Fayling of what I was, and was but thus:
When such as wee, doe deeme in iealosie
That men loue for them-selues, and not for us.
Then, and but thus, thou didst loue most sincerely,
(O Antony,) that best deseru’dst it better.
(I, 155-164)
230
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Il ritratto che Cleopatra fa di se stessa la dipinge come una
donna avanti negli anni, ma con la stessa bellezza sofisticata dei
tempi andati. Con queste parole la donna vuole dare ancora
maggior enfasi all’amore di Antonio per lei: quando i due si erano incontrati, ella non era più bella come quando aveva conquistato il cuore di Giulio Cesare, ma lo era evidentemente ancora
abbastanza per colpire l’attenzione di Antonio. Le rughe apparse
sulla sua fronte, offuscandone la bellezza, sono il segno del tempo che passa: è l’autunno della sua grazia, il che vuol dire che
l’età di Cleopatra si colloca in quella fascia di tempo che, compreso tra il fiore degli anni (estate) e la vecchiaia (inverno), corrisponde all’età adulta. La Regina d’Egitto è, perciò, una donna
matura, che si avvia verso la fase conclusiva della propria esistenza.
Il riferimento all’autunno in relazione all’età di un essere umano colloca il discorso di Cleopatra in una dimensione culturale diversa da quella del mondo classico. La metafora delle stagioni, per indicare l’età di un essere umano, era piuttosto diffusa
all’epoca di Shakespeare, il quale se ne avvale anche per ricordare al fair youth dei sonetti che solo la sua progenie provvederà a
contrastare gli effetti del tempo e lo consegnerà immutato
all’eternità25.
25
Il sonetto in questione è il numero 12, parte integrante della cosiddetta
sequenza matrimoniale, in cui il poeta avverte il suo giovane amico che il
tempo scorre ed egli deve correre ai ripari, per far sì che la sua bellezza
rimanga immutata. Shakespeare qui allude alle stagioni proprio per indicare
non solo il tempo che passa, ma le tappe della vita di un uomo che, come
tutto il genere umano, si avvia, superata la primavera e l’estate, verso
l’autunno e l’inverno della propria esistenza. I due estremi della vita sono
presenti nel testo mediante il ricorso ad immagini naturali: la giovinezza ormai
svanita è paragonabile alla violetta che ha superato il momento della propria
fioritura (“When I behold the violet past prime”, v. 3), mentre la vecchiaia è
rivelata dai capelli bianchi che inargentano la testa dell’amico (“And sable
curls all silvered o’er with white”, v. 4). E ancora, lo spauracchio della morte è
rappresentato dalle immagini dell’albero, che ormai senza foglie, non può più
offrire riparo dal sole e dalla calura, e delle messi che, ormai mietute, vengono
231
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
Detto tutto ciò, Cleopatra termina il suo lungo monologo, che
coincide con il Primo atto del dramma, ribadendo che ormai la
sua unica via d’uscita è la morte. Metterà, dunque, a punto un
piano che impedirà ad Ottaviano di trascinarla incatenata nel suo
trionfo romano.
Il Primo atto si conclude con una lunga battuta del Coro,
proprio come succedeva nella tragedia tradotta dalla Contessa di
Pembroke: esso si rivolge direttamente al pubblico, ricordando
come il destino di Cleopatra debba essere un monito per tutti
coloro che vivono un’esistenza dissoluta come quella della Regina d’Egitto.
Con il Secondo atto la scena si apre sull’avversario: Ottaviano
è sul palcoscenico con Proculeio, uno dei suoi uomini, e spiega
come il dominio di Roma sia vasto, quali e quante terre siano
state sottomesse nel nome di questa città, ma poi precisa con tono amaro che la mente umana è l’unica cosa impossibile da conquistare:
Kingdoms I see we winne, we conquere Climates,
Yet cannot vanquish harts, nor force obedience,
Affections kept in close-concealed limits,
Stand farre without the reach of sword or violence.
(II, 1-4)
Le sue parole alludono alla potenza di Roma, che si estende
anche su terre lontane (i diversi climi indicano questo), una potenza che allo stesso tempo non dimentica la debolezza che ne
mina le fondamenta: la forza di Roma non è sufficiente a piegare
il cuore, sede della mente, come egli stesso afferma un paio di
versi dopo,
raccolte in covoni e portate su un bier (v. 8), che è il tipico carro da morto,
verso il loro destino. La conclusione è contenuta nel distico finale, dove il
poeta dichiara apertamente che solo un figlio potrebbe sconfiggere la falce del
Tempo distruttore. (W. SHAKESPEARE, Sonetti, a cura di A. SERPIERI, pp.
407-409).
232
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Free is the hart, the temple of the minde,
The Sanctuarie sacred from aboue,
Where nature keepes the keyes that loose and bind.
(II, 6-8)
La mente dell’uomo è e resta libera da ogni giogo, rispondendo solo a Colui che l’ha creata. Il discorso acquista una sfumatura particolare di privazione, di limite nel momento in cui viene
applicato a Cleopatra:
Onely this Queene, that hath lost all this all,
To whom is nothing left except a minde:
Cannot into a thought of yeelding fall,
To be dispos’d as chaunce hath her assign’d.
(II, 17-20)
La Regina è rimasta senza nulla, non ha nulla su cui contare
se non la propria mente che, come fa notare Ottaviano, deluso
per non poterla piegare al suo volere, la rende libera. Egli non la
può privare della sua dignità, le deve lasciare la possibilità di decidere cosa fare della sua vita. A questo punto, per la prima volta
il pubblico ascolta una descrizione di Cleopatra da parte di coloro che hanno avuto la meglio su di lei, e sono estranei alla sua vita e ai suoi amori; per la prima volta, ella è vista contesa tra maestà e miseria, contegno e tristezza, è divisa tra il suo ruolo pubblico di Regina e la sua dimensione privata di donna:
Twixt maiestie confus’d and miserie,
Her proud gieu’d eyes, held sorrow and disdaine,
State and distresse warring within her soule:
Dying ambition dispossest her raigne,
So base affliction seemed to controule.
(II, 54-58)
L’immagine che Proculeio propone di lei coincide con la sofferenza che ella sta provando e con il travaglio interiore che la
porterà alla decisione del suicidio. Cleopatra, continua l’uomo di
Ottaviano, è “Like a burning Lamp” (II, 59) che sta per consu233
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
marsi e spegnersi: gli ultimi bagliori della sua vita nascondono un
patto con il destino che, di certo, non la potrà privare delle sue
ultime richieste. E, così, le viene concesso di recarsi sulla tomba
di Antonio, per porgergli un estremo saluto, e le viene promesso
che i suoi figli, discendenti da un padre romano, non dovranno
temere il peggio dalla città che ha dato i natali al genitore.
L’atto si avvia alla conclusione con una battuta di Cesare Ottaviano che, unico, condivide la reazione di Cleopatra a quello
che potrebbe succederle a Roma. Egli afferma che la vita di un
regnante è diversa da quella dell’uomo comune:
To be a Prince, is more then be a man.
[…]
Princes (like Lyons) neuer will be tam’d.
A priuate man may yeeld, and care not how,
But greater harts will breake before they bow.
(II, 130 / 134-136)
E con questa affermazione, Ottaviano, e Daniel con lui, richiamano l’attenzione su un aspetto ben preciso della natura del
monarca: dal punto di vista rinascimentale, questi era una creatura unta dal Signore e poteva essere tale solo per diritto divino,
come veniva detto e mostrato anche durante la cerimonia di incoronazione: infatti, il sacerdote celebrante la cerimonia, ungeva
la fronte del futuro sovrano con l’olio santo e, così facendo, lo
rendeva una creatura prescelta da Dio alla guida del suo popolo.
Questo era quanto gli Elisabettiani avevano visto succedere anche durante l’incoronazione della loro Regina: discendente da
Enrico VIII, Elisabetta è proclamata sovrana d’Inghilterra per diritto divino e siede sul trono ben consapevole del significato di
questa espressione. Le parole di Ottaviano, dunque, sottolineano
un aspetto della monarchia, che gli Elisabettiani riconoscevano e
rispettavano sotto tutti i punti di vista.
Si chiude così il Secondo atto, che ha fatto conoscere al pubblico la posizione dell’erede di Cesare. Nel Terzo atto si assiste
234
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
all’interazione tra i due personaggi, introdotti negli atti precedenti
del dramma: Ottaviano e Cleopatra si incontrano e discutono sulle
richieste che la Regina d’Egitto ha avanzato per amore dei suoi figli e per la propria dignità di regina privata del regno. A differenza
di quanto era successo precedentemente, questa volta l’atto è suddiviso in due scene. Nella prima l’Autore descrive attraverso le parole di Filostrato e Ario, quale sia la situazione dell’Egitto, come si
sia passati dalla gioia alla tristezza, dalla ricchezza alla miseria, dal
trionfo glorioso alla sconfitta umiliante. Quello che è successo è
stato sicuramente voluto dagli dei e viene inserito in una visione
della Storia caratterizzata da fasi cicliche:
Thus doth the euer-changing course of things,
Runne a perpetuall circle, euer turning:
And that same day that highest glory brings,
Brings unto the poynt of back-returning.
(III, i, 81-84)
Quello della ciclicità della Storia è un fattore importante e ricorrente in buona parte dei testi scritti all’epoca di Daniel, e viene qui associato al fatto che spesso l’uomo è causa del propri errori. Di conseguenza, in un mondo in cui gli dei tutto decidono e
determinano, l’Autore richiama il concetto di libero arbitrio che,
come è stato già detto riguardo al testo della Pembroke, è una
novità introdotta dalla Riforma protestante.
La conclusione cui Filostrato e il suo interlocutore giungono è
che al mondo non ci possono essere troppi Cesari: Daniel allude
qui al pensiero che si può dedurre nel De Monarchia di Dante e
che Machiavelli affronta ne Il principe. Infatti, era convinzione
diffusa nel Rinascimento che il tipo di governo migliore per uno
stato fosse quello monarchico, con il potere nelle mani di un solo
uomo, proprio come l’universo è retto da un unico Dio.
L’Impero di Roma doveva, dunque, essere governato da un unico monarca, proprio come, ai tempi di Daniel, l’Impero britannico doveva essere contenuto nelle mani di un’unica Regina, co-
235
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
lei che aveva sconfitto tutti i suoi nemici ed aveva saputo imporsi
sullo scacchiere delle potenze europee. La Storia antica, magistra
vitae, insegna ai nuovi regnanti che essi devono ispirarsi ai grandi
personaggi del passato; solo in questo modo, errori fatali, inutili
sofferenze e dispendiose guerre possono essere evitati: l’Impero
britannico vuole emulare il grande Impero romano, ma, per farlo, è necessario che impari a conoscere e, soprattutto, ad evitare
gli errori che ne hanno segnato la tragica fine.
Torniamo, però, al dramma. Ciò che succede nella scena successiva è la dimostrazione di quanto sia difficile vivere in un
mondo guidato da una sola persona, poiché il vincitore vuole vedere rispettati i propri diritti e il vinto non vuole cedere alle richieste di chi lo ha sconfitto. La Seconda scena di questo atto
centrale, quindi, porta sulla scena i due personaggi principali del
dramma, impegnati a discutere, Ottaviano, sul futuro del proprio
Impero, Cleopatra, su quello dei propri figli. La Regina d’Egitto
si rivela una donna schietta e diretta, consapevole di aver perduto tutto e di poter contare solo sulla magnanimità del vincitore;
ella sola è la causa della sua rovina, avendo approfittato di Antonio, per poter realizzare i propri obiettivi ed avendolo distrutto
come uomo e come soldato. Ma per Cleopatra la battaglia non è
ancora chiusa; sa di poter ancora contare sulla sua seduzione e
cerca di conquistare Ottaviano con le parole, proprio come aveva
fatto prima con Giulio Cesare e poi con Antonio. Ella si rivolge
al suo interlocutore, riservandogli tutti gli onori che la sua posizione e il suo ruolo richiedono: sa quali corde toccare e sa anche
che il vero vincitore è colui che mostra magnanimità verso la
propria vittima. La scena è simile ad una partita a scacchi, dove
ognuno dei giocatori vuole sorprendere l’avversario con uno
scacco matto: Cleopatra cerca di impietosire Ottaviano, facendo
appello alla propria situazione disperata, mentre Ottaviano, avendo intuito il gioco dell’avversaria, le promette di accontentare
le sue richieste. Ognuno ha una partita difficile da vincere, poiché la posta in gioco è piuttosto alta per entrambi: la Regina
236
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
d’Egitto non vuole essere schiava di Roma e pensa al suicidio, il
vincitore di Azio vuole godersi il proprio trionfo, guardando la
prigioniera sfilare nel corteo trionfale. Il caso vuole, però, che il
gioco di Cleopatra venga scoperto, forse volutamente e sulla base
di un accordo stretto tra la Regina e il suo servo, attraverso le parole di Seleuco, che rivela come la Sovrana abbia tenuto conservato per sé dei gioielli. Nemmeno questa scena, sul cui effetto
Cleopatra contava per poter conquistare definitivamente Ottaviano alla propria causa, è servita a qualcosa: egli accetta di accontentarla e, se per un momento sembra cedere al fascino della
scaltra Regina, mette subito a punto il suo piano, per far sì che
Cleopatra non si tolga la vita e non rovini il suo trionfo.
L’atto si conclude, dunque, con la partita ancora aperta e con
una Cleopatra che dà prova, nonostante gli anni e la bellezza
sfiorita, di quanto incisivo sia il suo fascino:
If still, euen in the midst of death and horror,
Such beauty shines, thorow clowds of age & sorow,
If euen those sweet decayes seeme to plead for her,
Which from affliction, mouing graces borrow;
If in calamity shee could thus moue,
What could she do adorn’d with youth & loue?
(III, ii, 103-108)
Le parole di Dolabella richiamano il discorso tenuto da Cleopatra nel Primo atto, quando ella ricordava come Antonio fosse
rimasto colpito dalla sua bellezza di donna ormai non più giovane e stregato dal suo fascino.
Con il Quarto atto, e la prima delle due scene che lo compongono, l’Autore lascia sul palcoscenico Seleuco che, rimproverato
da Cleopatra per aver confidato ad Ottaviano di non avergli consegnato tutti i gioielli, si rammarica per quello che ha fatto e
piange per il destino toccato in sorte alla sua Regina.
Se in un passo dell’Atto precedente Daniel ha alluso all’idea
della monarchia quale unica forma di governo a garanzia e tutela
dello Stato, qui egli ritorna sull’argomento, parlando di Cesario237
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
ne, il figlio nato dalla relazione di Cleopatra con Giulio Cesare.
Inutile dire che il ragazzo per lei rappresenta il futuro suo e
dell’Egitto, motivo per cui non vorrebbe mai vederlo prigioniero
di Roma: essendo figlio di un grande condottiero ed uomo politico romano, Cesarione non merita di essere punito per la dissolutezza della madre. Cleopatra vuole mandarlo lontano e metterlo
in salvo dagli occhi indiscreti delle spie di Ottaviano, che circolano nel palazzo di Alessandria; così facendo, vuole garantire un
futuro al suo Paese. Secondo le parole dell’interlocutore di Seleuco, infatti, Cesarione sarebbe l’unica speranza dell’Egitto,
For this is hee that may our hopes bring back,
(The rysing Sunne of our declyning state).
(IV, i, 67-68),
il Sole che potrebbe risollevare lo Stato dalle sue stesse ceneri.
Ancora una volta, però, le parole che Daniel mette in bocca ad
uno dei suoi personaggi riportano ad una visione della monarchia in voga ai suoi tempi e che identificava nel Sole la figura del
sovrano. Come si è già avuto modo di ricordare, il Sole era considerato il corpo celeste più importante per il suo legame con la
terra, proprio come il monarca lo era all’interno di uno Stato ed
in relazione al suo popolo.
Ma torniamo a Cesarione, che, “Great Iulius of-spring”, potrebbe “come to guide / The Empire of the world, as his by
right” (IV, i, 73-74): il personaggio che parla dice chiaramente
che egli, in quanto discendente di Giulio Cesare, potrebbe governare da solo il vasto Impero romano. Un tale concetto è da
intendersi in due modi: il primo riguarda esclusivamente la trama del dramma di cui ci si sta occupando; essendo figlio di chi
pensava di fondare l’Impero, Cesarione potrebbe ambire a governare le terre sottomesse a Roma; ne avrebbe, oltre che il diritto, anche le capacità e le qualità. Ma se questa frase è tolta dal
suo contesto originale, si nota anche un suo secondo significato:
colui che discende dal grande Giulio Cesare può diventare il pa-
238
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
drone del mondo. Questo è il concetto principale, su cui si fonda
buona parte della politica estera ed espansionistica dei Tudor, i
quali, discendendo da Brut e, quindi, dalla stessa stirpe che ha
dato i natali a Caio Giulio Cesare, vantano la stessa possibilità. Il
caso più significativo è rappresentato da Elisabetta I, l’ultima dei
Tudor, che finanziò i viaggi di scoperta di Drake, Raleigh ed altri
famosi navigatori del suo tempo, e che vide la nascita della Virginia come prima colonia inglese nel Nuovo Mondo.
Cesarione, comunque, è l’unica speranza rimasta a Cleopatra
per non dire di aver vissuto in vano la propria vita; egli allora è
affidato dalla madre ad un amico fidato, che lo deve portare segretamente fuori dall’Egitto, ma il piano viene scoperto e Cesarione è costretto a fare ritorno. Con il racconto di questo episodio, Daniel propone al suo pubblico il rovescio della medaglia rispetto a quanto Ottaviano aveva detto sulla natura dei regnanti:
And is this all the good of being borne great?
Then wretched greatnes, proud ritch misery,
Pompous distresse, glittering calamity.
(IV, i, 185-187)
Una serie di ossimori per spiegare che non è tutto oro quello
che luccica: una misera grandezza e una ricca miseria sono le vere prerogative di coloro che nascono ‘grandi’: avviati ad una vita
di responsabilità, circondati da schiere di uomini importanti e
capaci, sono soli nelle decisioni cruciali della vita.
Is it for this th’ambitious Fathers sweat,
To purchase blood and death for them and theirs?
Is this the issue that theyr glories get,
To leaue a sure destruction to theyr heyres’
O how farre better had it beene for mee,
From low discent, deriu’d of humble birth,
To ’haue eate the sweet-sowre bread of pouerty,
And drunk of Nilus streame in Nilus earth.
(IV, i, 188-195)
239
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
I padri soffrono per far sì che i loro figli non debbano soffrire
nella loro vita, e lavorano per guadagnare ai loro figli la gloria eterna: ma nell’Egitto, caduto in disgrazia per volontà degli dei
dopo la battaglia di Azio, tutto è capovolto ed anche le più semplici leggi di natura sono sovvertite.
In vaine doth man contende against the starrs,
For what hee seekes to make, his wisdom marrs.
[…]
The iustice of the heauens reuenging thus,
Doth onely sacrifice it selfe, not us.
(IV, i, 230-231 / 236-237)
Ancora una volta la menzione della disfatta riporta il discorso
sull’impossibilità per l’uomo di contrastare il proprio destino e di
raddrizzare le storture, che altri hanno posto sul suo cammino. Il
tradimento messo a punto contro Cleopatra e i suoi figli dai due
personaggi presenti sulla scena si ritorcerà contro di loro e la coscienza rimorderà loro fino alla fine della vita.
La seconda parte dell’atto si apre, invece, sulla Regina che,
meditando sulla conversazione con Ottaviano alla fine del Terzo
atto, riporta l’attenzione su se stessa, sulla sua bellezza, “What,
hath my face yet powre to win a Louer?” (IV, ii, 1), e su come
quest’ultima “hast done thy last, / and best good seruice thou
could’st doe unto mee” (IV, ii, 5-6): anche Dolabella è caduto
nella rete del suo fascino, ha confessato di essere innamorato di
lei; ne è prova la lettera che le ha scritto, in cui apre il suo cuore,
promettendole eterno amore ed incondizionata fedeltà.
A questo punto del dramma, però, il tempo stringe e il pubblico, ormai abituato a sentir parlare di morte e di piani di morte, si aspetta che qualcosa di concreto accada sul palcoscenico.
È, dunque, necessario che la storia volga al suo epilogo e che i
personaggi siano lasciati al loro destino. Cleopatra si prepara a
morire e per prima cosa porta l’estremo saluto al suo Antonio:
Whose deerely honour’d Tombe must heere receaue
240
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
This sacrifice, the last before I dye.
O sacred euer-memorable Stone,
That hast without my teares, within my flame,
Receiue th’oblation of the wofull’st mone
That euer yet from sad affliction came.
And you deere reliques of my Lord and Loue,
(The sweetest parcells of the faithfull’st liuer,)
O let no impious hand dare to remoue
You out from hence, but rest you here for euer.
Let Egypt now giue peace unto you dead,
That lyuing, gaue you trouble and turmoyle:
Sleepe quiet in this euer-lasting bed,
In forraine land preferr’d before your soyle.
(IV, ii, 19-32)
E questo trasforma Antonio nell’oggetto della sua idolatria,
nel destinatario del sacrificio d’amore di se stessa, vittima sacrificale al suo altare. Cleopatra definisce la sua tomba come teca
delle preziose reliquie del corpo di colui che era stato Signore ed
Amore nella sua vita, proprio come voleva il codice petrarchesco;
ma qui i ruoli di uomo e donna sono invertiti. Infine, gli augura
di poter godere della pace del riposo eterno nel Paese che egli
aveva preferito al suo Paese d’origine. In pochi versi Cleopatra
ricorda al pubblico la parabola della vita di Antonio, valoroso
soldato che aveva abbandonato Roma per un amore incontrato
in terra straniera, e ne invoca l’aiuto anche in questo ultimo atto
della propria vita: il suicidio.
La scena, e quindi anche l’atto, si conclude con Cleopatra che
lascia intendere di avere già messo a punto il suo piano e di essere pronta a morire: congedate le sua ancelle, ella invoca la morte.
Con il Quinto26 ed ultimo atto il sipario torna ad alzarsi tra gli
uomini di Ottaviano che, come è facile aspettarsi, parlano di lei e
della sua bellezza. Dolabella racconta di essersi perdutamente
26
Si precisa che nell’edizione consultata, il Quinto è l’unico atto diviso in
due scene. Tutti gli altri atti sono costituiti da una unica scena.
241
Cesare, Marc’Antonio, Cleopatra e i testi elisabettiani
innamorato di lei e di come ella abbia, però, rifiutato di ricambiare i suoi sentimenti: Cleopatra è ormai proiettata verso la
morte e niente, nemmeno l’ennesimo successo della sua bellezza
e del suo fascino, la farà tornare sui suoi passi.
La Regina non è sulla scena, ma è indubbiamente la protagonista assoluta di quello che sta per succedere: la descrizione della
sua ultima cena la ritrae nelle veste migliori e con i gioielli più
preziosi, impegnata a scrivere lettere e a concentrarsi sull’ultimo
atto della sua vita:
Yet this hee told, how Cleopatra late
Was come from sacrifice. How ritchly clad
Was seru’d to dinner in most sumptuous state,
With all the brauest ornaments shee had.
How hauing dyn’d, shee writes, and sends away
Him straight to Caesar, and commaunded than
All should depart the Tombe, and none to stay
But her two maides, and one poore Countryman.
(V, i, 81-88)
Alla fine di questa scena il pubblico conosce già coloro che saranno i protagonisti della conclusione del dramma: Cleopatra,
due dame del suo seguito e un contadino. Le due giovani donne,
scelte tra le più fedeli e fidate dame del suo seguito, assisteranno
alla sua morte, dopo averla abbigliata nelle vesti migliori e prima
di uccidersi a loro volta; il contadino, invece, porterà con sé
l’arma del delitto, poiché nel suo cestino c’è l’aspide che avvelenerà Cleopatra.
E tutto ciò viene raccontato al pubblico nella Seconda ed ultima scena di questo atto, dove un messaggero porta a Ottaviano
e ai suoi uomini la notizia di quello che è successo. A differenza
di Shakespeare, che mette in scena la morte di Cleopatra, Daniel
sceglie di non rappresentarla davanti agli occhi del pubblico, ma
di riportarla nei minimi particolari: egli mostra come questa
donna, grande nella vita così come nella morte, abbia scelto il
suicidio quale unica strada possibile per non essere privata della
242
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
propria dignità: atto tipico di quegli uomini che, nonostante le
imprese valorose compiute durante la vita, si rivelano deboli e
miseri di fronte al loro ineluttabile destino di sconfitta e morte.
Una volta morta, Cleopatra verrà sepolta nella stessa tomba
del suo Antonio e, così, ciò che la vita su questa terra non ha saputo mantenere unito, rimarrà unito per sempre nella vita eterna.
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www.sundown.pair.com/Sharp/Fair%2520Woman/Photo10.jpg&imgr
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250
finito di stampare
nel mese di aprile 2011
su materiali e inchiostri ecocompatibili
e con tecnologia digitale
presso la LITOGRAFIA SOLARI
Peschiera Borromeo (MI)
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
cover_Layout 1 21/05/2010 19.22 Pagina 1
CRISTINA VALLARO
EDUCatt
Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica
Largo Gemelli 1, 20123 Milano - tel. 02.72342235 - fax 02.80.53.215
e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)
web: www.educatt.it/librario
ISBN: 978-88-8311-757-2
Euro 13,00
CRISTINA VALLARO
Julius Caesar e Antony and Cleopatra
Momenti di storia romana
in William Shakespeare