Daniela Danna - Fondazione Elvira Badaracco

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Daniela Danna - Fondazione Elvira Badaracco
Daniela Danna
Il mio intervento è intitolato “Il paradosso della maternità delle lesbiche” e mi permetto di parlare
non legittimata da un’esperienza personale, come invece veniva richiesto da interventi precedenti.
La mia esperienza personale è di non-maternità consapevole, senza ripensamenti (per
considerazioni che non è il momento di affrontare). Però posso partire da un dato biografico: sono
qui a parlare della maternità delle lesbiche, in quanto in un paio di momenti della mia vita ho fatto
ricerca su questo, inizialmente, negli anni ’90, sul perché le donne lesbiche avessero figli – e poi
più recentemente, cinque anni fa, in uno studio di aggiornamento con un focus su una tematica
sociale: come le donne lesbiche che hanno figli interagiscono con l’ambiente circostante, che tipo di
dinamiche registrano, a partire dal loro coming out o tenersi nascoste o sottintese, in un panorama
politico che si ostina evocare come eccezionale e nuova la loro presenza, ancora nonostante le
numerose trasmissioni televisive sulle madri lesbiche e con la loro partecipazione, la loro presenza
nei blog, la presenza pubblica nelle manifestazioni. Invece dal punto di vista dall’alto, dai vertici
della nostra società, quella della lesbica che è anche madre è una posizione che ancora non deve
essere occupata. Mi riferisco in particolare alla legge 40 che obbliga le donne lesbiche (in realtà
tutte le donne che non hanno un partner maschio convivente da almeno due anni e quindi non
possono esibirlo alle autorità) a dedicarsi al turismo procreativo all’estero, ma anche e soprattutto al
fatto che i figli di due madri non sono giuridicamente riconosciuti come tali. Per questo mancato
riconoscimento della filiazione queste famiglie hanno molti problemi pratici, e patiscono
un’ingiustizia di base, perché se non viene riconosciuta un’unità famigliare laddove nascono questi
figli, se lo Stato si ostina a ignorare una comunità affettiva di sostegno e di riferimento, c’è qualcosa
che non va, nel nostro Stato, sicuramente.
La maternità è comunque un paradosso nella comunità delle lesbiche, così come lo è sempre stato
nella cultura, da cui proviene senz’altro anche tale imperativo giuridico di non-esistenza, che le
nostre autorità e i vertici del clero cattolico vorrebbero continuare, perché il corpo delle lesbiche è
sempre stato visto come un corpo sterile. Già nei romanzi di fine ‘800 (con i quali non voglio
tediarvi)1 appare chiara questa impossibilità di essere lesbica e madre, riprendendo una tradizione
culturale antecedente.
La costituzione dell’immaginario – perché questo è uno degli obiettivi del convegno: parlare
dell’immaginario della maternità – vede nel corpo lesbico un corpo che è l’antitesi del materno. È
un corpo che ha rifiutato gli uomini, perciò è visto come totalmente o parzialmente mostruoso, e
nella ricerca del godimento proibito con un’altra donna, che ha come implicazione il rifiuto della
maternità, esso incarna un egoismo di base, profondo. Questo perdura ancora nella nostra cultura: la
scelta di esprimere la propria sessualità con altre donne, scelta guidata da un desiderio e non da un
imperativo sociale rappresenta una defezione rispetto all’imperativo sociale che indica anche e
soprattutto nella procreazione il destino delle donne. Ecco perché, come abbiamo visto,
nell’immaginario (anche delle alte sfere della politica) il corpo lesbico è assolutamente sterile.
Questo immaginario è stato rotto ancora una volta grazie al femminismo, perché all’ombra del
femminismo sono cresciute le prime aggregazioni di lesbismo politico, che consapevolmente ha
scelto questa etichetta (“lesbica”) per non isolarsi dalle altre donne come “omosessuali”
accomunandosi invece ai gay, e rivendicando quindi una specificità della propria esistenza ed
esperienza, ed anche oppressione rispetto alla condivisa oppressione femminile. Nella cultura le
1
Vedi :“The Beauty and the Beast. Lesbian characters in the turn-of-the-century Italian literature”, in Queer
Italy, a cura di Gary Cestaro (Università Depaul, Chicago), New York, Palgrave, 2004 pp. 117-132.
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lesbiche affrontano un problema di doppia invisibilità: messe a tacere come donne ma anche come
lesbiche nel momento in cui parlare di omosessualità significa parlare di uomini gay. Nella cultura
soprattutto giuridica questa doppia invisibilità è molto evidente quando parliamo di maternità delle
lesbiche: per molti anni si è discusso prevalentemente di “bambini ai gay”, a partire dalla famosa
Risoluzione di Strasburgo del 1994, che indicava (come suggerimento, ovviamente, perché il
Parlamento Europeo tuttora non ha capacità legislativa nei confronti degli Stati) il riconoscimento
del matrimonio, o di un istituto giuridico equivalente, per coppie formate da persone dello stesso
sesso, e la possibilità di adottare. Non è stata l’unica risoluzione sui diritti di omosessuali e lesbiche,
ma lo diventò per antonomasia, ed è stata recepita dalla cultura italiana, evidentemente,
principalmente come l’apertura del matrimonio e dell’istituto dell’adozione per i gay. I gay non
possono aver figli con i loro corpi, e quindi l’adozione è per loro una priorità. Le donne lesbiche,
che invece ovviamente hanno una certa facilità ad avere figli propri e diventare madri, sono rimaste
completamente invisibili nel linguaggio della Risoluzione e nel dibattito politico e culturale che
essa ha generato2. La filiazione delle persone che hanno relazioni affettive con persone dello stesso
sesso nella cultura italiana è stata a lungo declinata semplicemente come ‘l’adozione dei gay’.
Quindi ancora una volta l’invisibilità, l’obliterazione totale della maternità possibile delle lesbiche.
E non solo della maternità possibile, ma anche di quella reale: torno alle ricerche che ho svolto. La
maggior parte delle donne che ho intervistato erano donne che a un certo punto ho cominciato a
chiamare “M to L”, cioè “da madri a lesbiche”. Donne che si erano sposate, avevano avuto relazioni
eterosessuali da cui avevano avuto dei figli, e successivamente avevano fatto la scelta di amare le
donne e di vivere con un’altra donna. E pochissime, negli anni ’90, erano le esperienze di “L to M”,
cioè da lesbica a madre, donne lesbiche consapevoli che fanno una scelta di maternità. Interessante
vedere come si siano quasi capovolte le situazioni: mentre negli anni Novanta le LtM erano poche
eccezioni, autentiche pioniere, nella seconda ricerca, di pochi anni fa 3, ho trovato un campione
praticamente diviso a metà tra MtL e LtM. Si è trattato ovviamente di partecipazioni alla ricerca su
base volontaria, così come le prime interviste, quindi la cosa non ha valore statistico e così via –
però il dato non è trascurabile. Qualcosa è successo. Le donne che erano madri e sono diventate
lesbiche intervistate nella mia prima ondata mi raccontavano molto del cambiamento legato anche
alla nascita dei figli. La loro consapevolezza di essere interessate ad altre donne era sorta nel
trovarsi tra donne nel femminismo, al di là degli stereotipi di genere, alla forte creatività che c’è in
questi gruppi che davano la possibilità di trovare uno spazio sociale dove esistere, anche come
lesbiche o comunque come donne che amano anche le donne. Sono stata molto colpita dal fatto che
molte delle mie intervistate mi dicessero che a volte avevano avvertito che una volta diventate
madri, solo a quel punto avevano sentito che potevano dedicarsi a loro stesse, e quindi esplorare una
parte di sé che in realtà non era socialmente prevista. Vivevano da donne pre-femministe nel
rispetto degli obblighi sociali, perché naturalmente ti devi sposare e naturalmente devi avere dei
figli. La rottura nell’incontro che il femminismo ha contribuito a creare un cambiamento personale
che veniva espresso come: ‘ormai ho assolto a quello che ci si aspettava da me, e adesso posso
capire chi sono’. Questa dinamica psicologica è molto meno presente nella realtà di oggi, anche
grazie a Internet: non c’è più il porsi il problema di essere l’unica lesbica al mondo, non avere dei
contatti, un ambiente sociale, e quindi rinunciare a questa parte di sé (sempre che si abbia la
connessione…). La rete, prima ancora del contatto dei corpi, riesce a mettere in contatto persone
che vogliono esplorare questo tipo di desiderio. Oggi quindi abbiamo in misura molto maggiore il
desiderio di maternità vissuto consapevolmente da parte di donne lesbiche. È cambiata quindi anche
2
D. Danna, 1998 "Io ho una bella figlia..." Le madri lesbiche raccontano, Zoe Edizioni, Forlì.
Danna Daniela: “Madri lesbiche in Italia: il mito della discriminazione”, in Crescere in famiglie
omogenitoriali. A cura di Chiara Cavina e Daniela Danna. Milano, Franco Angeli, pp. 103-116. vedi anche
“Homoparentality in Italy: the Myth of Stigmatisation?”, in Doing families: Gay and lesbian family
practices, a cura di Roman Kuhar and Judit Takacs, Peace Institute, Ljubljana, 2012, pp. 95-116.
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un’altra cosa molto importante: sempre meno le donne che hanno una relazione con altre donne
decidono di ritornare in una relazione eterosessuale solo per avere dei figli. Anche questo è un dato
molto presente. E per fortuna è tramontata l’idea, l’immaginario, di non poter avere un’esistenza
lesbica perché si vogliono dei figli. Nonostante gli ostacoli istituzionali che ci sono, nonostante la
legge 40, con il fatto di non poter ricorrere all’inseminazione assistita che in realtà è la preferita tra
le donne lesbiche che vogliono avere dei figli. Infatti le lesbiche per diventare madri potrebbero
avere delle relazioni sessuali occasionali con uomini, potrebbero fare un percorso di
autoinseminazione, quindi andare a cercare o far cercare un donatore più o meno anonimo … ci
sono stati in altri Paesi (Danimarca, Regno Unito) dei modi molti interessanti di realizzare questa
pratica, in cui all’interno del movimento femminista e del movimento gay e lesbico sono state
costituite delle catene per mantenere l’anonimato del donatore; ciò fino a quando comunque è stato
criminalizzato l’atto di disporre di seme maschile senza la necessaria autorizzazione medica… Che
io sappia non c’è stato in Italia uno sviluppo così forte del desiderio delle donne lesbiche di avere
dei figli al di fuori della medicalizzazione, da portare a questa impressionante autoorganizzazione.
Nel frattempo però era scoppiata la questione dell’AIDS, oltre alle altre malattie sessualmente
trasmissibili, per cui si fa conto più sulle procedure mediche per avere delle garanzie dal punto di
vista della salute, garanzie che nell’autogestione dell’inseminazioni sarebbero non impossibili, però
molto difficili da ottenere.
Posso a questo punto dire qualcosa su come le donne lesbiche con cui ho parlato nella mia ultima
ricerca hanno definito la relazione con l’esterno della loro famiglia, un punto importante perché nel
dibattito politico la famiglia costituita dalle donne lesbiche è vista come una fonte infinita di mali
per i figli che crescono in questa realtà: saranno stigmatizzati, isolati, la famiglia lesbica non ha
possibilità reale di radicarsi nella vita sociale e cioè il tabù sul lesbismo andrebbe a scaricarsi sulle
famiglie lesbiche e in particolare i figli ne porterebbero la pesante croce. In questa retorica non
interessa il destino delle donne lesbiche in sé – se ad esempio tale supposta discriminazione sociale
sia giusta, sia un atteggiamento da sostenere o meno – ma solo dei loro figli, perche dobbiamo
proteggere i bambini eccetera. La mostruosità, che ritorna sempre nei discorsi sul corpo lesbico,
sulle donne lesbiche, nel dibattito politico attuale è stata così riformulata: se consentiamo l’orrore
della maternità lesbica (attribuendo per esempio alle donne anche singole la facoltà di fare ricorso
all’inseminazione assistita, come la giusta legge spagnola), si impedisce il corretto sviluppo dei
figli, destinati appunto a vivere nell’orrore con cui la società stessa punirebbe questa scelta di
maternità contro natura. Le interessate hanno risposto raccontando la loro vita di lesbiche madri –
non è un campione grande: ho intervistato una ventina di donne, molte con storie parzialmente
sovrapponibili in quanto coppia – ed è interessante come la drastica affermazione per cui i figli
delle lesbiche non devono esistere perché vengono ostracizzati, può essere invalidata anche solo con
un caso favorevole di non discriminazione/stigmatizzazione, e rispondere: guarda che non è così, ci
sono altre possibilità. Io comunque non ho trovato neanche un caso di famiglie che venissero
ostracizzate nel loro intorno sociale. Questo è il dato importante, per cui ho chiamato il mio
contributo “Il mito della stigmatizzazione delle madri lesbiche”. È successo invece esattamente il
contrario, la maternità di queste donne lesbiche ha scavato ulteriori canali di relazione sociale, ha
aperto delle strade di contatto con i vicini di casa, ad esempio, i parenti, con altre donne e uomini
che avevano la stessa esperienza di genitorialità. C’è l’ingresso nella scuola, nelle varie forme di
scuola da quella dell’infanzia alle medie (i figli delle LtM sono ancora piccoli), che rappresenta lo
stringersi di legami sociali e non l’impatto con una realtà rifiutante. Quindi quello è emerso è che
c’è curiosità nei confronti di questa esperienza, un po’ anche perché, con il tanto parlare che se ne fa
sui mass media, diventa quasi un privilegio essere a contatto diretto con le persone che hanno avuto
concretamente questa esperienza di maternità lesbica, che in Italia non sono tantissime. Il dibattito
politico è quanto di più distante dalla conoscenza delle relazioni concrete di queste madri.
Pochissime sono state le esperienze di un incontro negativo con le istituzioni. Su questo punto ci
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sono solo due casi, e si tratta di psicologi. Non vorrei generalizzare a partire da questo, ma non
posso non commentare che quegli psicologi – che agivano nelle scuole – vogliono essere i custodi
della normalità, in entrambi i casi hanno attribuito alla diversità della famiglia di origine dei
problemi individuali dei ragazzi che sono stati a contatto con loro, in un caso addirittura cercandone
l’aiuto. Invece dal punto di vista delle relazioni interpersonali il passaggio alla maternità delle
donne lesbiche è stato accolto dal loro ambiente in modo assolutamente positivo. C’è ovviamente
un’autoselezione del campione, nel senso che ho parlato con donne che hanno fatto questa scelta di
maternità con la consapevolezza che la cosa avrebbe potuto reggere. Ci sono molte altre situazioni
in cui le donne lesbiche decidono di non aver figli perché ritengono che l’esistenza dei loro figli, nel
particolare contesto in cui vivono, non sarebbe particolarmente felice. A volte comunque le
intervistate mi hanno detto di esser state stupite dall’accoglienza positiva del loro ambiente perché
contavano invece su un’accoglienza molto più negativa, interiorizzando i messaggi provenienti dai
mass media, dalla politica e dalla religione. Comunque buona parte del campione era costituito da
donne divorziate o che comunque avevano avuto i figli in relazioni stabili con degli uomini. Erano
una minoranza, quella delle donne che avevano fatto la scelta dell’inseminazione o che avevano
avuto dei figli con uomini che non partecipavano alla gestione familiare. C’è nel dibattito pubblico
e nell’immaginario anche questa mitologia dell’assenza di un padre per i figli delle lesbiche: nella
maggioranza delle famiglie intervistate si aveva la presenza (certo, esterna) del padre. E comunque
un corpus di ricerche svolte soprattutto all’estero, in luoghi dove sono molto più numerose le madri
lesbiche, seguite da ricercatrici e ricercatori 4, dimostra che non c’è differenza tra un ambiente
omosessuale e un ambiente eterosessuale per la crescita dei figli. I dati raccolti dagli psicologi su
competenze sociali, problemi relazionali, resa a scuola, eccetera, non mostrano differenza. Non c’è
uno svantaggio né da una parte, né dall’altra. I risultati sono l’equivalenza di un ambiente
famigliare lesbico o eterosessuale per lo sviluppo dei figli. Alcune differenze sono state trovate
ovviamente rispetto al giudizio sulla possibile propria omosessualità o bisessualità, più accettata dai
figli delle lesbiche – una differenza che mi sembra indifferente. D’altra parte, se andiamo a vedere
la letteratura qualitativa, ci sono al contrario delle testimonianze di ragazze figlie di madri lesbiche
che, nel momento in cui hanno provato desiderio per un’altra donna, si sono trovate stupite da
questo, perché non era qualcosa che avevano pensato possibile per sé, nonostante l’esempio
materno. Ci sarebbero ancora tantissime cose da dire, ma mi premeva dare un quadro generale della
situazione nel nostro paese per come è emersa nelle mie ricerche. La questione della maternità
lesbica, di questo paradosso, rimane comunque politicamente aperta: il referendum sulla legge 40 è
fallito perché la gente non ha partecipato, è stato loro detto sostanzialmente dai vertici del
cattolicesimo di non andare al voto, e lo considero non tanto una sconfitta, ma una rinuncia degli
italiani a confrontarsi sul merito delle questioni. La filiazione delle lesbiche in realtà rimane un
nodo legislativo che non è stato sciolto, e che spesso anche le proposte di riconoscimento delle
coppie dello stesso sesso lasciano fuori. Adesso abbiamo un governo tecnico che sicuramente non si
occuperà di queste faccenduole, però inviterei le femministe presenti a mantenere vivo l’interesse,
e la richiesta, sul riconoscimento di una doppia maternità, oltre a una forma di riconoscimento delle
coppie, perché anche se la cifra che circola sui media di 100.000 figli in Italia è palesemente
esagerata, ci sono molte centinaia di ragazzini in crescita in questa situazione di doppia maternità
(originale o successiva a un divorzio), ed è una questione importante non solo dal punto di vista
pratico della vita di queste ragazze e ragazzi: tornando alla questione dell’immaginario, è
importantissimo per la libertà femminile che avvenga questo riconoscimento sociale dell’esistenza
Vedi ad esempio Patterson, Charlotte J., Fucher, Megan e Wainright Jennifer: “Children of Lesbian and
Gay Parents: Research, Law and Policy” (University of Virginia, 2000), consultabile all’url:
people.virginia.edu/~cjp/articles/pfw02.pdf
Vedi anche “Bambini ai gay” di Daniela Danna e Margherita Bottino (www.danieladanna.it), basato
su La gaia famiglia. Omogenitorialità: il dibattito e la ricerca. Trieste, Asterios 2005.
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di famiglie fondate o portate avanti da due donne. È una realtà in espansione, non grande, ma di cui
vanno riconosciute dignità e legittimità.
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