ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei
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ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei
ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei 1. Cenni storici Il toscano Filippo Mazzei, medico, commerciante, saggista, filosofo nato a Poggio a Caiano nel 1730 e morto a Pisa nel 1816 è stato un concittadino che ha vissuto in prima persona le vicende legate all’indipendenza degli Stati Uniti d’America, promotore e sostenitore in Europa ed America della cultura liberale, illuminista e repubblicana prima e delle ragioni autonomiste delle colonie statunitensi in Europa poi (di seguito una breve biografia). In contatto con i primi quattro presidenti americani fu legato da un vera e prolungata amicizia con Thomas Jefferson, accanto alla proprietà del quale nel 1773 si era trasferito (in Charlottesville, Virginia, cittadina attualmente gemellata con il Comune di Poggio a Caiano). Filippo Mazzei può essere considerato il primo e più importante “ponte culturale” fra Toscana e Stati Uniti nella Toscana del ’700 per il suo contributo nel dibattito sulle ragioni dell’indipendenza delle colonie americane e sulla stesura della Costituzione americana. Oltre a questo vi sono altri aspetti più direttamente legati al suo impegno imprenditoriale in terra americana, quali la promozione delle eccellenze agricole toscana (a lui ad esempio, si deve l’impianto del primo vigneto nella Contea di Albermarle in Virginia, con vitigni toscani), dell’enogastronomia (es. biscotti di Prato, fichi secchi e vino di Carmignano) e dell’arte italiana in generale in terra statunitense (ad esempio, nel 1788 fece realizzare per conto di Thomas Jefferson le copie dei ritratti di Colombo, Vespucci, Magellano e Cortez destinate alle più importanti sedi governative e per conto del Soprintendente ai lavori pubblici del governo americano individuò ed inviò negli U.S.A. due scultori fiorentini per l’abbellimento della camera dei rappresentanti a Washington). Il contributo determinante di Filippo Mazzei è ormai da decenni riconosciuto anche negli Stati Uniti: a Mazzei ad esempio viene comunemente attribuita la frase della Dichiarazione d’indipendenza «Tutti gli uomini sono per natura liberi ed indipendenti» come riconosciuto dalla Joint Resolution 175 del 103esimo Congresso e da John F. Kennedy in “A Nation of Immigrants” ed è considerato un vero e proprio patriota (come testimoniato dall’emissione del francobollo celebrativo dei 250 anni dalla nascita). Come noto, Filippo Mazzei, partecipò altresì all’inizio della rivoluzione francese come rappresentante presso la Corona di Francia del re di Polonia Stanislao Poniatowski ********** DISPENSA FILIPPO MAZZEI (1730-1816) ******************* CRONOLOGIA della vita di Filippo Mazzei 1730: Nasce al Poggio a Caiano, ultimo di quattro figli, da Domenico e Maria Elisabetta del Conte, all’alba di lunedì 25 dicembre. 1748: Dopo aver fatto i suoi primi studi a Prato, frequenta come studente interno presso l’Ospedale di Santa Maria Nova a Firenze il corso di chirurgia tenuto da Antonio Cocchi. 1750: Si reca a Livorno con l’intenzione di imbarcarsi per le colonie spagnole d’America. Si trattiene a Livorno per circa due anni, gradito ospite presso alcuni suoi parenti, esercitando con un discreto successo la professione di chirurgo. 1752: Con un medico ebreo di nome Salinas, parte alla volta di Smirne dove giunge nella tarda primavera dell’anno successivo, dopo un avventuroso viaggio via terra per: Venezia, Vienna, Costantinopoli. 1755: Nel dicembre si imbarca, come medico di bordo, su un vascello inglese che lo porterà a Londra, dove si dedica interamente e con fortuna al commercio. 1760: Compie un breve viaggio in Italia per motivi di eredità. 1765: Ritorna in Italia dove, per noie con il tribunale della Santa Inquisizione, è costretto a trattenersi per circa due anni. 1767: Nella primavera di quell’anno, ritorna a Londra dove conosce e stringe amicizia con diversi “cittadini degli Stati d’America”, fra i quali: Benjamin Franklin e Thomas Adams. 1773: Parte da Livorno, ormai definitivamente liquidati i suoi interessi a Londra, alla volta della Virginia, dove si stabilisce in una località chiamata “Colle” confinante con la tenuta di Jefferson detta “Monticello” nella contea di Albemarle, vicino alla cittadina di Charlottesville. Sposa una vedova francese di nome: Marie Petronille Hautefeuille. 1774: Diviene cittadino della Virginia. 1776: Scrive le: Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates in convention. 1779: Come agente della Virginia parte per una delicata missione diplomatica per l’Europa, con lo scopo segreto di raccogliere fondi ed armi per l’esercito e lo Stato della Virginia. Si imbarca con la moglie e la figliastra, ma il 20 giugno viene catturato da una nave corsara inglese e ricondotto a New York dove viene trattenuto per tre mesi 1780-‘83: Malgrado la perdita delle credenziali diplomatiche, gettate a mare prima della cattura da parte degli inglesi (20 giugno 1779), si adopera presso i governi di Francia, Olanda e Toscana a favore delle “Colonie ribelli” d’America. 1784: Ritornato in Virginia si stabilisce a Richmond. Malgrado la missione diplomatica affidatagli non abbia sortito alcun esito, per l’attaccamento e la dedizione alla causa degli indipendentisti, gli viene riconfermato il titolo di Agente della Virginia. 1785: Si reca in Francia e si stabilisce a Parigi, dove si trova anche Thomas Jefferson, come rappresentante degli Stati Uniti d’America presso la Corte di Francia. 1788: Gli muore la moglie dalla quale viveva separato da diversi anni. Pubblica anonime le: Recherches Historiques et politiques sur les Étas-Unis de l’Amerique septentrionale ……. 1789: Stanislao Augusto Poniatowski, re di Polonia, lo nomina suo rappresentante presso la corona di Francia. 1790: Il 12 maggio viene creata a Parigi la: “Società del 1789” un club moderato fondato da Sieyès, che contava fra i suoi membri personaggi come: l’astronomo Bailly, sindaco di Parigi; il comandante della guardia Nazionale, La Fayette; e come segretario, per i rapporti con l’estero, il Mazzei. 1791: Visto il prevalere delle frange estreme e vedendo inascoltati, nel Club 1789, i suoi appelli a reagire concretamente, lascia la Francia e si reca a Varsavia, ove gli viene accordata la cittadinanza polacca. 1792: Lascia Varsavia e si stabilisce a Pisa. 1796: Alla non fresca età di 67 anni impalma la serva di casa: Antonia Antoni, detta Tonina. Prima la stampa italiana, poi i giornali francesi, e in seguito anche la stampa americana, pubblicano una lettera di Thomas Jefferson, in data 24aprile, ed indirizzata al Mazzei, la quale conteneva aspre critiche alla politica del governo americano, al presidente George Washington e al partito federalista, accusato di nostalgie monarchiche. La lettera divenne famosa e fece il giro del Nuovo e del Vecchio Mondo, con il nome di: “ Mazzei’s Letter e mise in seria difficoltà politica l’amico Jefferson. Lo scandalo non incrinò l’amicizia fra i due , né provocò guasti irreparabili tant’è vero che Thomas Jefferson divenne presidente degli USA nel 1801. 1798: Dal matrimonio con Antonia Antoni, nasce la sua unica figlia, Elisabetta. . 1799: Partecipa attivamente alla vita politica Pisana. Viene processato per “giacobinismo” dal governo reazionario nato dopo il passaggio dell’esercito francese. 1802: Costretto da impellenti necessità finanziarie, alla ormai avanzata età di 72 anni, parte per Pietroburgo. Con l’aiuto dell’amico polacco Adamo Czartorywski che opera in quella corte, riesce ad ottenere dallo Zar Alessandro I, il pagamento della pensione dovutagli per i servigi resi, a suo tempo, al re di Polonia. 1803: Pubblica un opuscolo dal titolo: Riflessioni sulla Natura della Moneta e del Cambio. 1810: Inizia a lavorare alle “Memorie”. 1813: Termina la stesura delle memorie, che appariranno postume, nel 1845/46 a cura di Gino Capponi, con il titolo di Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei. 1816: Muore a Pisa il 19 marzo. E’ sepolto nel cimitero suburbano di Pisa.. ********** Dalle Memorie della vita e delle AQUARONE , Milano, 1970, pp. 5-15.) peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei, (Introduzione di ALBERTO Alla vita di Filippo Mazzei si può veramente attribuire un valore emblematico: testimone e partecipe dei due maggiori rivolgimenti politici del XVIII secolo, la rivoluzione americana prima, quella francese poi; corrispondente e al servizio di due principi tipicamente rappresentativi della nuova concezione della sovranità fiorita nell’età dei lumi, quali furono il granduca Pietro Leopoldo di Toscana e il re Stanislao Il Augusto (Poniatowski) di Polonia; medico, commerciante, agricoltore, pubblicista, quasi che non volesse la- scarsi sfuggire l’occasione di una conoscenza di prima mano dell’ampio arco di attività in cui si andava temprando la borghesia in ascesa; egli sembra compendiare in sé gli aspetti pi caratterizzanti del suo tempo, quella seconda metà del Settecento — che vide non solo le rivoluzioni politiche d’America e di Francia, ma pure la prima rivoluzione industriale in Inghilterra — in cui affonda le sue radici la moderna società occidentale. Filippo Mazzei nacque a Poggio a Caiano, presso Firenze, il 25 dicembre 1730, in una famiglia della borghesia agiata. A diciassette anni, avendo deciso di abbracciare la carriera medica, iniziò il suo tirocinio professionale all’ospedale di Santa Maria Novella a Firenze, senza peraltro portare a termine un regolare corso di studi. Nel 1750, messosi in urto con il fratello maggiore Jacopo per questioni ereditarie seguite alla morte del padre Domenico, avvenuta due anni prima, ma spinto senza dubbio anche da quello spirito di avventura che doveva accompagnarlo costantemente nel corso della sua lunga esistenza, lasciò la casa avita diretto a Livorno, vagheggiando il proposito di cercar fortuna nelle colonie spagnole o portoghesi d’America. Una volta giunto nel porto toscano, però, fu distolto dal suo programma originario sia dall’affettuosa accoglienza ed ospitalità di alcuni parenti che vi risiedevano, che dai consigli del console di Spagna, marchese Silva, vecchio amico di suo padre. Ed a Livorno si trattenne un paio d’anni, cominciando ad esercitare, non senza qualche successo, la professione medica.[….] Filippo Mazzei è stato definito, da Raffaele Ciampini, un « fratello spirituale », sotto certi rispetti, di Casanova e Da Ponte. In realtà, questa fratellanza è più esteriore che altro. Con essi, come pure con altri spiriti irrequieti del Settecento italiano, Mazzei ebbe in comune il gusto dell’avventura e il nomadismo; ma mentre da un lato egli non poteva vantare la loro disinvoltura salottiera o il loro talento letterario, dall’altro né Casanova né Da Ponte seppero unire alla propria sete di sempre nuove esperienze quell’impegno politico, quell’interesse per le istituzioni sociali, che caratterizzarono la turbolenta vita del toscano e che diedero un profondo contenuto alle sue vicissitudini. Certo, Mazzei, non fu né un politico originale, né un pensatore eminente. Il suo ruolo non fu quello di creatore, ma di propagatore; egli appartiene non alla storia delle idee, ma alla storia della circolazione delle idee. E se non fu un intelletto di grande levatura, dimostrò peraltro, in più occasioni, di possedere un fiuto inconsueto nel valutare situazioni e processi storici nella loro effettiva importanza, quando ancora sembravano ai più irrilevanti o quasi. [….] Ha scritto ancora Dante Visconti, che «tra gli Italiani chi più contribuì col pensiero, ed anche coll’azione, alla creazione degli Stati Uniti, fu Filippo Mazzei ». Il che è verissimo. Ma storicamente, più importante del contributo dato alla causa della lotta delle colonie americane per la conquista della loro indipendenza, fu il ruolo da lui svolto come tramite tra la cultura politica americana e quella europea, come propagatore di un nuovo clima intellettuale dal Nuovo al Vecchio Mondo. **** Nacqui la mattina del 25 dicembre 1730, verso l’alba, al Poggio a Caiano, borgo situato sopra e al pié d’un colle, sulla sommità del quale vi è una villa fabbricata dai Medici, 10 miglia ponente di Firenze, 10 a levante di Pistoia, quasi 5 a mezzogiorno di Prato, e 3 a tramontana d’Artimino, collina molto elevata sulla sommità della quale vi è un’altra villa fabbricata parimente dai Medici. Il borgo conteneva circa 100 famiglie, 5 delle quali possidenti, circa 20 tra meccanici e bottegai, una del chirurgo ch faceva anche da medico, e il resto di gente che viveva coll’opera giornaliera. Vi era inoltre il cappellano della villa Medicea, i quale vi ufiziava quasi ogni giorno per comodo degli abitanti del borgo, essendo alquanto lontane le due parrocchie delle qual erano popolani. La cappella era nel recinto della villa, isolata, grande quanto una chiesa mediocre. Io sono l’ultimo della famiglia, e quando nacqui la componevano Giuseppe mio nonno paterno, che aveva 70 anni, Maddalena mia nonna 68, Domenico mio padre 35, Elisabetta mia madre 29, Caterina sorella di mio padre 30, Jacopo mio fratel maggiore 10, Giuseppe altro fratello 6, Vittoria mia sorella 2 Un fratello di mio padre, 2 anni più giovane di lui, era ecclesiastico, prior di Paperino, parrocchia distante circa 2 miglia e 1/2 dal Poggio a Caiano, e altrettanto da Prato. Vi era fuor di casa Pietro, fratello del nonno, molto più giovane di lui, caduto in povertà, con moglie e molti figli, 2 soli dei quali maschi, Domenico e Vincenzo. Il nonno possedeva molto in contante, come pure in terreni, poiché, oltre un gran consumo che si faceva in casa dei prodotti, ne vendeva in gran quantità, ed aveva molte case che appigionava, oltre quella che abitavamo, e un’altra più grande ancora, non conveniente per abitarvi, che serviva per tenervi una gran quantità di materiali, tra i quali quei che bisognano per far l’acquavite, del che il nonno aveva la privativa per un vasto circondano. Aveva inoltre 2 gran botteghe di fabbro e di carradore,’ dove mio padre faceva lavorare per suo proprio conto; e siccome faceva per suo conto anche un gran traffico in legname (una gran parte del quale faceva venir per Arno dalla macchia di san Rossore), e manteneva intieramente i figli quando erano agli studi fuor di casa, e di vestiario sempre, come pure sé stesso e la moglie, m’immagino che il nonno gli avesse dato una buona somma di denaro, probabilmente all’epoca del suo matrimonio, per farla valere a suo profitto particolare. Mio padre fece anche fabbricare 6 casette, che appigionava, e demolire quella degli stillatori, che occupava molto spazio, sul quale ne fece fabbricare una più conveniente per abitarvi, stante che quella che abitavamo era stata fabbricata prima che si conoscessero i comodi e la regolarità; ma non vi potemmo abitare mentre visse il nonno, che voleva morire (diceva) dov’era nato. [….] All’età di 6 anni mio padre mi condusse a scuola in Prato, mi messe in casa d’una Bartoli, vecchia e amorosa, dove aveva messo i miei fratelli, un dopo l’altro. Ambidue avevano gran talento, ed erano di carattere diametralmente opposto. Giuseppe fu sempre, e dovunque universalmente amato, e Jacopo non ha mai avuto in verun luogo (per quanto seppi di lui) un vero amico. gli aveva già fatto tanto progresso negli studi, che presto poté andare all’università di Pisa, dove all’età di 22 anni ottenne una cattedra. Quanto a Giuseppe, il maestro Rosati, reputato eguale a qualunque altro in Toscana, parlava di lui come del più ingegnoso e più buono scolare che avesse mai avuto. Disgraziatamente per lui, come per altri, gli avevan messo il collare nell’infanzia, on intenzione di farlo prete, a insinuazione (per quanto intesi) ei zio priore. Niuno dei fratelli sapea, che io aveva un piccol tesoro in mano alla zia; ma Jacopo aveva saputo dalla madre, che e avevo lasciato in serbo 106 mezzi pavoli nuovi. Alcuni giorni rima di partire per andar a Pisa, mi sfidò al giuoco della palla, del quale non era punto adatto, e io passavo per bravo tra i ragazzetti della mia età, per il che accettai la disfida con piacere. ‘la egli ebbe la malizia di condurmi sul prato d’una chiesa di porta Santa Trinità, bastantemente lungo per ragazzetti della mia età, e corto per lui che aveva 10 anni più di me. In principio mi lasciò vincere, non mi ricordo, se 2, o 3 partite. Poi cominciò a far’uso della sua forza, e dalla battuta andava ogni palla in guadagnata. Io, acciecato dal dispiacere di perdere, non riflettei alla causa, per cui non potevo vincere. Mi vinse i 106 mezzi pavoli, e cosi terminò il giuoco. [….] Partiti ambidue i fratelli, mio padre mi ricondusse a casa, per farmi continovar lo studio della lingua latina, mi mandò scuola da un prete, che l’insegnava li nel paese. Io non ero molto avanzato; ma non ostante conobbi, ch’egli aveva più bisogno d’andar a scuola, che abilità per insegnare. Lasciava correr degli errori, e spesso correggeva senza causa. Una mattina mi dette una nerbata, perché aveva scritto diligere in vece d’amare. Corsi fuor della scuola che era a terreno, e raccolto nella strada un sasso per tirarglielo nella testa, colsi nell’uscio mentre lo serrava.’ Allora andai a casa, e contando il successo a mio padre, colla speranza che non mi ci avrebbe più mandato, si preparava a frustarmi, quando veddi lo zio priore, che di tanto in tanto veniva a casa per veder il nonno. Gli andai subito incontro correndo, e gli narrai il fatto. Le zio tirò a parte mio padre, per parlargli ch’io non sentissi; ma intesi che disse: « Quello è una bestia, il ragazzo ha ragione ». Allora mio padre mi ricondusse a Prato, e mi messe in casa del padre del maestro Cima, degno sacerdote, molto dotto, e che aveva (oltre la grand’erudizione) una maniera ottima per insegnare. Era morto il maestro Rosati, e dopo lui non vi era in tutte le scuole del comune un maestro neppur di mediocre abilità, onde, quantunque a quelle non si spendesse, non vi erano tanti scolari quanti ne aveva il maestro Cima. La mia sensibilità era grande, ed aveva il diritto ed il rovescio come le medaglie. Qualche giorno prima dell’inutile sassata, escendo dalla cappella, veddi una ragazza grande, che piangeva, e diceva ad una donna, che sua madre era ammalata, e non aveva neppur’un quattrino per comprar da fare un poco di brodo. Avevo una crazia,’ e un soldo. Le andai dietro senza che se ne accorgesse, e subito che fu entrata in casa, corsi, le ne messi in mano senza guardarla, e me n’andai correndo per non esser conosciuto. [….] Ve n’eran dopo lui 4 classi, in una delle quali un Bettazzi, cittadino pratese, che aveva un fratello minore, gobbo, colle gambe storte, di brutta fisionomia, ed esoso, che non ne aveva punto, il che obbligava il maestro a far l’istesso che a Orlando per la ragione opposta. Io ebbi l’onore d’esser’accoppiato col Bettazzi storto. Non mi ci potevo vedere; in meno di un mese il maestro mi messe nell’infima delle 4 classi. Non son certo, se io debba al Bettazzi la propensione che ho poi sempre avuto per imparare, ma credo li dovergliene una gran parte. Aveva il mio lettino nella camera dove dormiva il padre del maestro, che mi voleva molto bene. Siccome vedevo, che la mattina di buon’ora mi riesciva di far più e meglio in mezz’ora, che in 2 ore in ogni altra parte del giorno, lo pregai di chiamarmi quando si levava; ma dopo qualche tempo mi svegliavo senza essere chiamato. Ho poi sempre tenuto l’istesso metodo, e ne ho sperimentato un gran vantaggio, tanto per lo studio, che per gli affari, e per la salute. L’emulazione facea sì che studiavo quasi continovamente, per che il maestro (temendo ch’io m’ammalassi) mi faceva sortir eco il dopo pranzo, cioè dopo la scuola; ma subito che mi aveva asciato a veder giocare al pallone, o alla pillotta, o a qualche altro divertimento, e che l’avevo perduto di vista, ritornavo al tavolino. Dopo 14 mesi era salito alla prima classe, e cominciavo a servir di sprone a Orlandino, il quale (per mancanza d’emulazione) aveva lasciato il galoppo, e andava di passo, quando un contadino di casa venne a prendermi, perché il nonno aveva avuto un accidente apopletico. Non poté più parlare, n’ebbe degli altri, e l’ottavo giorno morì.[….] Dopo d’aver procurato la felicità di quelle 2 buone famiglie (che sarà maggiore ancora per i loro posteri) e d’essere stato di tanto in tanto, a rivedere gli amici a Firenze, Prato, Pistoia, Livorno, e Lucca, non mi pare d’aver fatto altro che l’Ortolano; ma se credete che ci manchi qualche cosa, aggiungetela voi. Io per altro son d’opinione, che in vece di aggiungere, ci troverete abbastanza da levare. Pisa, 3 marzo 1813. SUPPLEMENTO La notte passata, riflettendo su quel che ho detto riguardo all’aggiungere, o levare, ho cambiato idea. Son d’opinione, che potreste aggiungere la data della mia morte, e la copia del mio testamento. 24 settembre, 1813 FILIPPO MAZZEI. Gli anni londinesi (1756-1760) ( da MASSIMO BECATTINI, Filippo Mazzei mercante italiano a Londra. (1756-1772), Poggio a Caiano,1997, pp. 10-14) [….] Mazzei abitò dunque per circa un anno in un appartamento, prima di decidersi a prendere una casa tutta per sé; non aveva ancora deciso di fermarsi stabilmente in Inghilterra; il suo spirito irrequieto lo spingeva a pensare ancora una volta all’ America Meridionale, dove da tempo meditava di trasferirsi, o a un ritorno in Turchia, a Smirne. Comunque, alla fine Mazzei prese casa e da una lettera di Pietro Paolo Celesia a Ferdinando Galiani, del 29 novembre 1759, sappiamo che a quella data Mazzei abitava in Greek Street, Soho Square. la porta accanto a quella di Lord Bentinck. Per mezzo di Maty e Hunter, il fiorentino acquista l’amicizia di altri famosi chirurghi di Londra, come Middleton o William Bromfield, che lo incoraggiano a riprendere gli studi di chirurgia, abbandonati a Firenze cinque anni prima; ma Filippo, per ragioni a noi ignote, decide di abbandonare definitivamente la professione medica. Non sappiamo quanto veritiero sia l’episodio raccontato dallo scrittore e librettista italiano Carlo Francesco Badini in un velenoso libello pubblicato a Londra nel 1770’, in cui si parla di “un giovane parrucchiere veneziano, che fidandosi nella virtù mercuriale di Filippo fece immaturo passaggio alle sponde del torbido Lete, nè se la sua decisione sia da collegarsi con questo spiacevole evento. Piuttosto, attraverso le sue conoscenze, Mazzei inizia ad esercitare una qualche attività commerciale, anche se in maniera sporadica e occasionale. Egli stesso ci dà scarne notizie in merito: “(...) Io abitavo al principio di Westminster (in Greek Street, Soho Square, n.d.r.) più di due miglia distante dal cambio (The Royal Exchange”, n.d.r.); ma vi andavo spesso, perchè principiai quasi subito a negoziare. (...) Appena giunto a Londra, e divenuto amico intimo di Mr Chamier (...) scrissi per suo consiglio ai miei parenti, che mi mandassero certi generi di mercanzia per far valere il mio denaro.’’ E’ probabile che la posizione mercantile di Chamier favorisse l’avviamento di un’attività commerciale da parte del Mazzei, che qua e là nelle sue “Memorie” inizia a far cenno a rapporti con la pittoresca colonia italiana di Londra, impegnata soprattutto nel commercio. In proposito, Mazzei ci dà una colorita descrizione della Londra di quegli anni: I re, i gran signori, e i ricchi possidenti abitavano, come abitano ancora, in Westminster, dove erano e sono le camere del parlamento, i tribunali, la tesoreria, l’ammiragliato, e tutto ciò che riguarda l’amministrazion pubblica; e i negozianti in Londra, dov’erano, e von tuttavia la dogana e la gran fabbrica, detta il cambio, nel cui recinto è una gran piazza quadra, lastricata, e contornata da larghi loggiati, ove si ritrovano quasi tutti i negozianti come pure i sensati, dal mezzo giorno alle 2 pomeridiane. A misura che si estendeva il dominio e la ricchezza della Gran Brettagna, e conseguentemente la popolazione (soprattutto nella capitale) si fabbricava tra le 2 città, onde ben presto lo spazio che le separava fu coperto da fabbriche, strade e piazze, e il tutto insieme formò quel che fu poi chiamato Londra (non solo dai forestieri) ma dagl’Inglesi ancora, senza eccettuare quelli che vi abitano, poiché anch‘essi (essendo nei paesi esteri) parlano del loro ritorno a Londra, e non a Westminster, quantunque vi abitano; e se sono alla campagna, parlano del ritorno alla città: ma quelli che son nel recinto di Londra (volendo andar dall ‘altra parte) dicono “voglio andare in Westminster”, e quei che di Westminster vogliono andar dall’altra parte, dicono “voglio andar nella città”. [….] In quel tempo, a Londra, molti erano gli esercizi che trattavano merci “italiane”, tenuti sia da italiani che da inglesi. Del resto, nella seconda metà del ‘700, la moda a Londra per le cose italiane era assai diffusa. Scrive la rivista “Italian Tracts” nel 1796: “Il gusto per la letteratura italiana, e la stima per i nativi di quel paese non accennano a diminuire nell’Inghilterra di oggi. Lo studio di quella squisita ed elegante lingua è parte dell’educazione della gioventù di ambo i sessi. I maestri di musica e i maestri delle arti del disegno, vengono generalmente scelti tra gli Italiani. Il Teatro Italiano nella Metropoli rivaleggia in bellezza e magnificenza con i più superbi teatri nazionali, ed è incoraggiato dalla presenza di tutta l‘eleganza e la moda del regno. Anche il colto Matthew Maty è attratto dalla letteratura italiana, e Mazzei lo introduce alla lettura dei classici, dandogli nello stesso tempo vere e proprie lezioni di italiano, anche se da una lettera del 12 febbraio 1756 risulta che Maty era già in grado di leggere l’italiano e contava di imparare a parlarlo “entro pochi mesi”. Sappiamo dallo stesso Mazzei che Maty gli aveva procurato “(...) bastante occupazione. Avendo conosciuto, che aborrivo l’ozio, che la mercatura non mi occupava sufficientemente, e che non volevo a qualunque costo esercitar la chirurgia, (Maty) mi consigliò d’insegnar la lingua toscana. L’avevo insegnata con piacere a lui, e ad un’altro amico, ma non potevo adottarmi ad insegnarla per denaro.” Tra i primi allievi del Mazzei, c’è anche il giovane Edward Gibbon che nel novembre del 1759 inizia a studiare l’italiano sui testi del Machiavelli. «Ei (Maty) conosceva i pregiudizi regnanti nel nostro paese; mi assicurò che in Inghilterra non era stimato l’uomo ozioso; che si rispettava ogni occupazione onesta; che si onoravano quei che vi erano più emminenti, e si pagavano a proporzion del merito. Una ghinea per 12 lezioni era il prezzo infimo, 2 il medio, 3 il maggiore. Mi assicurò, che avrei potuto aver quanti scolari avessi voluto a 3 ghinee, e per quel mezzo far molte conoscenze. Mi lasciai persuadere, e ben presto conobbi che non potevo insegnare a tanti, e dovei limitarmi agli amici dei miei amici.» Così, Filippo inizia a dare lezioni d’italiano alla buona società londinese, e ben presto viene accolto nei salotti della capitale. Tra questi, di particolare prestigio era il salotto del poeta e drammaturgo scozzese David Mallet, fecondo pubblicista politico d’idee “tory” ed editore delle opere del visconte di Bolingbroke, grande statista inviso alla parte “whig” come principale artefice del trattato di Utrecht del 1713. Intorno al 1758, in casa del Mallet, Mazzei conobbe Pietropaolo Celesia, diplomatico genovese, ambasciatore della Repubblica a Londra in due riprese. Con lui ebbe una lunga e solida amicizia, intrattenendo un vastissimo carteggio che si concluderà solo nel 1806 con la morte di Celesia. In particolare sappiamo che a quella data (29 novembre 1759), il Mazzei era stato incaricato dal Celesia di smerciare a Londra copie del libro Della Moneta di Ferdinando Galiani e del libro “Della perfetta conservazione dei grani di Bartolomeo Intieri. Nella lettera recante la stessa data, P.P.Celesia avverte Ferdinando Galiani che Mazzei non è ricco e che perciò dovreste tenerle conto del porto delle lettere, ma lo conosco onesto, obbligante, e infaticabile . Ma per il momento non sembra che Mazzei si interessi molto di politica; piuttosto lo dobbiamo immaginare impegnato a coltivare una serie sempre crescente di relazioni, sullo sfondo delle attività commerciali della variopinta e popolosa comunità italiana a Londra. Mentre nelle Memorie sono frequenti i ricordi dell’amicizia del Mazzei con uomini di notevole peso pubblico, appartenenti al mondo politico e culturale londinese, scarsi sono i riferimenti alla sua attività commerciale. Sappiamo che tra i suoi allievi d’ italiano c’era Richard Neave, socio del la ditta Truman, Douglas & Neave, la più importante per il commercio dei generi dalle Indie Occidentali. Da Neave, Mazzei ottenne sulla fiducia un prestito di 500 sterline, necessarie ‘ far fronte ad un pagamento in scadenza il giorno successivo. A parte ciò, Mazzei non fa riferimento ai rapporti con gli altri italiani che commerciavano a Londra, spesso tra notevoli difficoltà ed in spietata concorrenza fra loro. è probabile che anche il Mazzei avesse investito il suo denaro in generi ‘‘italiani”, allora assai in voga, iniziando a stabilire una corrispondenza commerciale con la Toscana. Punto di ritrovo della comunità italiana era a quel tempo il Teatro dell’Opera Italiana (o King’s Theatre), in Haymarket, ove era anche il “Prince of Orange ‘s Coffee-House “, frequentato da artisti (molti dei quali italiani), “ballerini d’opera e castrati”. Intorno al Teatro ruotava anche la comunità dei letterati e dei musicisti italiani, impiegati a vario titolo come librettisti o autori di testi e musiche per opere. Motivi di gelosia e d’interesse, come vedremo, dividevano in partiti e fazioni la comunità artistica italiana, non diversamente da coloro che esercitavano il commercio. Ma come un novello Machiavelli, Filippo Mazzei, accanto alla cura di un commercio che doveva inevitabilmente metterlo in contatto anche con persone di pochi scrupoli, continua a frequentare I’élite politico-culturale della città. Tra gli altri abbiamo notizia della sua lunga amicizia con Giuseppe Baretti, il più famoso tra i letterati italiani emigrati a Londra. [….] Ma la decisione del Mazzei di stabilirsi a Londra non è da considerarsi definitiva fino al 1760, quando un evento di grande risonanza pubblica lo fece decidere a restare. Nel 1760 un Pari del Regno, Lawrence Shirley, conte di Ferrers, fu condannato a morte e impiccato per aver ucciso con un colpo di pistola un dipendente. Per Mazzei, come per gran parte dell’opinione pubblica in Europa, questa fu la prova che il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge era in Inghilterra applicato in maniera esemplare. Anche se a Firenze i nobili si rifiutarono di accettare il principio che un crimine potesse rendere un “uomo” eguale a un plebeo, la condanna di Lord Ferrers fu generalmente accolta come una prova della sovranità della legge che faceva onore all’Inghilterra. Si disse anche che la corda con cui fu impiccato Lord Ferrers fosse di seta invece che di comune canapa; comunque la condanna confermò il Mazzei nella sua “anglofilia”: “Vi ero andato (in Inghilterra, n.d.r.) colla prevenzione che vi esistesse una perfetta libertà, perchè tale era l’opinione che se ne aveva in Firenze, al che contribuivano i molti viaggiatori inglesi”. Rassicurato dunque nei suoi principi e nella loro corretta applicazione nella sua nuova “patria” adottiva, Mazzei decise di stabilirsi definitivamente a Londra e di porre più solide basi al suo commercio di generi italiani.[….] ****** TRA DIPLOMAZIA E COMMERCI ( da Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie Orientali, a cura di S. Gelli, Quaderni di Ricerche Storiche 6, Signa, 2001, pp. 11-22) Negli ultimi venti anni molto è stato scritto attorno alla figura di Filippo Mazzei e al ruolo da questi svolto al di là dell’Atlantico ed in Europa nel corso degli avvenimenti storici più importanti della seconda metà del XVIII secolo. Molto meno conosciuto, anche a causa della limitata documentazione, è invece il periodo immediatamente precedente il trasferimento di Mazzei in Virginia - avvenuto nel 1773 - durante il quale si consolidò la sua preparazione culturale e politica. Sul finire degli anni ‘60 Mazzei è a Londra dove - come raccontato nelle “Memorie” - ha un commercio di vino, olio ed altri prodotti della Toscana. L’attività, benché redditizia, non offre le soddisfazioni economiche sperate, e non essendo a suo agio nei panni del “bottegaio”2, Mazzei preferisce frequentare i salotti alla moda e i circoli illuministi della capitale inglese, dove si possono incontrare le menti più brillanti e le personalità di maggiore autorevolezza e prestigio. Non si tratta però di frequentazioni mondane: la fitta rete di conoscenze che Mazzei riesce a tessere, oltre ad offrirgli sempre nuove e occasioni per realizzare buoni affari, lo introducono nel mondo della politica e della diplomazia dove si discutono e si progettano le applicazioni concrete degli ideali di libertà, giustizia e democrazia che Mazzei aveva abbracciato fin dagli anni dell’Università. Le innegabili qualità umane ed intellettuali, unite alle credenziali fornitegli da influenti amici massoni, gli aprono molte porte ma, nel contempo, gli procurarono molte invidie cd opposizioni. Sul finire del 1765, una denuncia anonima inoltrata al Tribunale dell’inquisizione lo indica quale importatore e diffusore in Italia di libri blasfemi e proibiti. L’accusa è del tutto infondata6 ma gli procura comunque un decreto di espulsione dal Granducato. Mazzei è costretto a riparare a Lucca e poi a Napoli dove può contare sulla benevolenza e protezione del toscano Bernardo Tanucci7 ministro di quel regno. Nei mesi successivi arrivano a Firenze all’attenzione del Granduca numerosi attestati di solidarietà e stima in favore di Mazzei così che, nella primavera del 1766, il Nostro può rientrare in Toscana, sistemare i propri affari e raggiungere di nuovo l’Inghilterra. Sebbene Mazzei nelle “Memorie” enfatizzi il felice esito della vicenda e si attribuisca addirittura il merito di avere determinato la successiva abolizione del terribile Tribunale’, più realisticamente si può ritenere che la sua disavventura avesse suscitato vibrate reazioni perché veniva a collocarsi in una fase molto delicata che vedeva, da una parte, l’accendersi di uno scontro acuto tra lo stato lorenese e il potere ecclesiastico e, dall’altra, il tentativo dei riformatori toscani - riuniti attorno al giovane Pietro Leopoldo - di svincolarsi dalla tutela politica della corte viennese. L’imperatrice Maria Teresa, preoccupata in fatti per l’inesperienza del Granduca suo figlio, e per le innovazioni in campo economico e istituzionale caldeggiate dai suoi consiglieri, nonché per le nascenti tensioni tra la Corte vaticana e la Toscana, si affidava al Maresciallo Botta Adorno che aveva il compito di controllare e sovrintendere agli atti di governo del giovane Leopoldo. Nel braccio di ferro giocato tra Vienna e Firenze diveniva importante qualunque fatto in grado di riaffermare l’autonomia toscana rispetto alla corte d’Austria. Ciò può spiegare perché il ministro Rosemberg-Orsini - succeduto al Botta e figura di spicco del cosiddetto “partito riformatore” - propose a Pietro Leopoldo la nomina di Mazzei ad Agente toscano a Londra appena un anno dopo il grave “infortunio” nel quale questi era incappato e che lo aveva visto scontrarsi pesantemente proprio con il maresciallo austriaco’7. La contromossa da parte di Vienna fu immediata: il conte di Seilern - ambasciatore a Londra dell’impero austriaco - pose un veto assoluto a quella nomina, motivandolo Con il fatto che Mazzei, in più di un’occasione, si sarebbe dimostrato poco zelante per la religione cattolica e che la sua onorabilità non era delle più specchiate. A niente valsero le rimostranze dei Mazzei e dei suoi amici: la vicenda, a quel punto, sembrava essersi definitivamente conclusa con la vittoria dell’ imperatrice e la sconfitta del Granducato. [….] Come sappiamo, Mazzei non riuscì ad ottenere incarichi ufficiali né in quell’anno, né negli anni successivi; tuttavia egli continuò ad inviare a Firenze rapporti riservati corredati spesso da un’ampia documentazione accuratamente tradotta. Giova ricordare, seppure marginalmente, che alcuni studiosi, come lo Zimmermann e il Francovich, sono stati concordi nel ritenere che le continue relazioni del Mazzei in merito ai principi inseriti nella Costituzione della Virginia, passati poi nella Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio, hanno influito sul progetto di Costituzione abbozzato da Pietro Leopoldo nel 1779. Il lavoro svolto al servizio della Toscana fu, seppur tardivamente, riconosciuto: quando Mazzei decise di lasciare l’Inghilterra e di trasferirsi in America, Pietro Leopoldo gli concesse la speciale autorizzazione ad esportare nelle terre Iella Virginia ogni sorta di semi e piante, e a portare con sé i contadini che lo avrebbero aiutato) a ricostruire in quella lontana regione una parte della sua Toscana. IL TRASFERIMENTO IN AMERICA ( Da Un bastimento carico di … Roba bestie e uomini in un manoscritto inedito di Filippo Mazzei, a cura di Renzo Gradi, Prato, 1991) Alcuni Autori hanno erroneamente presentato Filippo Mazzei come un avventuriero; altri, molto più correttamente, lo hanno descritto come un abile diplomatico o come un esperto uomo politico. In effetti Mazzei, per una fortunata concatenazione di eventi, si trovò a svolgere il ruolo di osservatore partecipe dei principali accadimenti sociali e politici del suo tempo. Scorrendo la biografia di Mazzei vi troviamo tuttavia delle parentesi di vita «normale», dove il Nostro svolse la meno nobile, ma non per questo meno interessante, attività di commerciante che gli permise di venire in contatto con importanti personaggi, ad alcuni dei quali si legò con sincera amicizia mentre di altri seppe mettere a frutto l’autorità ed il prestigio. Sebbene siano poche le pagine che Mazzei nelle Memorie dedica alla descrizione dei suoi commerci, risulta chiaro che, già nella prima esperienza a Londra, egli riuscì a realizzare buoni affari facendosi apprezzare per la correttezza ed una certa competenza riguardo ai prodotti che trattava. Non ci è dato di sapere se fu per il disappunto creatogli da alcune ingiuste sentenze di magistrati inglesi o se per quell’indomabile spirito di avventura, riacceso dal richiamo di una «nuova frontiera» presentatagli da alcuni cittadini americani, stadi fatto che Filippo Mazzei, già nel 1771, preparò un progetto per «introdurre seta, viti e ulivi nell’America del Nord» e nel 1773, con l’approvazione di quel progetto da parte dell’amico virginiano Thomas Adams, liquidò i propri affari a Londra e iniziò i preparativi per trasferirsi al di là dell’Atlantico. Mazzei partì da Livorno nel settembre del 1773 in compagnia della vedova Martin (che, sfortunatamente per lui, diverrà in seguito sua moglie), di alcuni contadini lucchesi, di un sarto piemontese e di una buona scorta di semi, piante, attrezzi e quant’altro gli era necessario ad avviare l’attività di agricoltore. In Virginia, nella sua tenuta di Colle, confinante con quella di Jefferson, le nuove coltivazioni sembrarono adattarsi in modo ottimale tanto che Mazzei reputò necessarie nuove attrezzature, altre piante e animali per il lavoro nella fattoria (in realtà la coltivazione di viti e ulivi si dimostrò in seguito fallimentare). Le pagine che qui pubblichiamo rappresentano, quasi sicuramente, i primi appunti che Mazzei mette su carta per poter poi, con maggior precisione e concisione, stilare le sue lettere ufficiali. Infatti molti oggetti di questo elenco li ritroviamo nelle lettere del 6 settembre 1774 e del 7 gennaio 1775 indirizzate a Giovanni Fabbroni (questi, sebbene giovanissimo, lo avrebbe dovuto seguire in America, se non fosse stato chiamato al servizio del Granduca Leopoldo). In queste carte non troviamo fatti e annotazioni di rilievo e può apparire perfino scontato che Mazzei, dovendo far crescere la propria azienda, si affidi a piante e a vitigni ampiamente conosciuti in Toscana, così come è naturale che scelga arnesi affidabili e ben collaudati dai contadini che dovranno lavorare le sue terre. Pur tuttavia questo manoscritto appare interessante perché ci permette di intravedere lo spirito e le aspettative di un «pioniere» fiorentino che, ancor prima della fine del ‘700, si insedia nel Nuovo Mondo. Attraverso questo lungo elenco di cose vediamo che Mazzei è rimasto, nonostante il suo continuo peregrinare, profondamente legato agli usi e ai costumi della natia Toscana.[….] Fra le tante cose che gli abbisognavano, Mazzei non dimenticò di chiedere quei libri che rappresentavano le sue radici culturali: egli sapeva che i classici (Virgilio, Dante, Boccaccio, Ariosto, Tasso) così come le opere più moderne del suo tempo («Dei delitti e delle pene» del marchese Beccaria e «L’Enciclopedia» di Diderot) sarebbero state indispensabili in un Paese che, ricco di materie prime ma con poca storia alle spalle, stava avviandosi a costruire la propria Indipendenza (non è casuale a questo riguardo che Mazzei proponga nel 1774, all’indomani del suo arrivo in America, una collezione di documenti pubblici americani). È soprattutto questa intelligente sensibilità che abbiamo ritenuto importante far conoscere ai poggesi, a testimonianza che Mazzei è stato veramente — come ricordava Aquarone nell’introduzione delle Memorie — «un’infaticabile propagatore di idee ed un attivo protagonista del clima intellettuale che si venne creando tra il nuovo ed il vecchio mondo sul finire del XVIII secolo». LISTA DEI MATERIALI CHE FILIPPO MAZZEI HA TRASPORTATO IN AMERICA [ ….] 2 cani corsi maschio e femmina dei più grossi. [….] Qualche dozzina di guanti bianchi di pelle da donna, di Francia; e dei più grandi. Un barile di farina pieno di polvere di Ciprio di Francia. Una cassa coi soliti rosolj, e le 12. boccette d’orzata e 12 di capelvenere33 e le 6. scatole di canditi dell’istess’uomo. Qualche sacco, e balia, di diverse grandezze, di diversa qualità di roba, onde poter eseminare (sic) se mi convenga di farne venire per uso di qua, e per mandar tutto il carico in sacchi. 6. cappelli di pelo dei più fini, di giro stretto, senza tignere e senza montare, che potranno aversi a buon mercato a Empoli. [….] Un caratello, o 2. di ottima malvagia di Siracusa in quartini Una dozzina o 2. di ottimo e vecchio vin di Cipro38. Un poco di vino di ogni Isola dell’Arcipelago, quando vi sia opportunità di farlo venire, essendo in tutte bonissimo e a bonissimo mercato. Ricetta per conservar le noci tutto l’anno, e i marroni e castagne fino a Maggio, per far le castagne secche [ ….] Un poca d’acquavite spiritosissima essendo per quanto dicono a buon prezzo a motivo d’aver levato l’Appalto. 4. paia di forbici per uso dei cavalli, 6. raspe, e 6. forconi da stalla. Fune di ogni qualità per vedere se convenga di farne venire. 2. catene per il cammino (sic) da cucina. Refe bianco da sarti di Brescia’molto. Una pezza per sorta di nastro di seta forte a 4. larghezze, cioè bianco, celeste, e color di rosa; e una nero a 2 larghezze. Un Paniere, o corbello di cantucci di Prato, o almeno di Campi. Tela batista per manichini, colletti, e fazzoletti da donna [….] Vasari; Le Vite de Pittori colle note del Bottari’. (2) Cecco da Varlungo Un Libro scritto da un certo Sig.r Carlo Denina Professore di Eloquenza e Belle Lettere nell’Università di Torino, intorno alla Storia Letteraria, progressi e decadenza della med.a; cause etc. dai Greci fino a noi. Ariosto di corretta edizione. (2) Guicciardini Istoria d’Italia, ultima edizione (2) Davila Guerre Civili’ (2) Boccaccio Decamerone (2) Marchese Beccheria (sic) Dei delitti e delle pene’ (3) D.° sul commercio (3) Virgilio del Padre Ambrogi’ (2) Tasso Gerusalemme liberata (2) Redi opere (2) Dante col commento (sic) del Venturi (3) Cocchi Bagni di Pisa. (2) [….] ******* (da Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, Firenze, 2012, pp.5-7) Virginia, 6 Settembre 1774 Car.mo Amico, In fretta vi scrivo per via di Londra, non essendoci che pochi minuti alla partenza della nave. Gran piacere avrei della vostra venuta qua, che sarebbe vantaggiosa a voi, e arricchirebbe prodigiosamente il giardino botanico e il museo di S.A.R.. Non ebbi i vostri semi, bisognerebbe farne ricerca dal navicellaio a cui gli consegnaste, ed essendo smarriti procurarne una partita eguale, giacché ò le vostre istruzioni sulla cultura dei med.[esim]i. La mia nave sarà a Livorno in Xbre, e deve far vela a questa volta ai primi di Gennaio, affinché le piante e i magliuoli arrivino qua in stagion propria e in buona condizione, non fuor di stagione e senza vita com’è seguito adesso. Vi prego di dire al cav:r Fiaschi che se gli faceva imbrattar nella bovina, conforme promesse, si sarebbero probabilmente conservati4. Ditegli dunque che gli faccia preparare in tempo con questa diligenza, che le casse sien di legno rozzissimo ma grosso, con le maniglie di fune o simile alle testate, e di grandezza tale che 2. uomini possano maneggiarle quando sien piene di terra, e non come quelle già mandatemi, che a muoverle ci voleva 8 uomini colle manovelle. Inoltre le qualità dei magliuoli devono esser separate, e fattane una lista numerata ed esatta con contrassegni che riscontrino, onde io sappia trovare quelle qualità che di mano in mano mi bisognino. Bisogna poi che facciate un viaggetto per me, e a mie spese. Il Sig:r Antonio Trinci figlio del famoso Agricoltore Cosimo 5 deve provvedermi 35000 magliuoli in circa, oltre diverse piante, innesti, semi &c. Vi prego di andare a trovarlo, e sollecitarlo, per evitare il trattenimento della Nave, che sarebbe di gran detrimento. Con Lui, che è intendentissimo e pratico, potrete digerir molte cose, che vi abiliteranno a giovar molto alla nostra Patria quando venghiate qua. Se gli bisogneranno 30. o 40. ruspi anticipatamente, il Sig.r Bettoia glie ne sborserà. L’istesso farà con voi ad ogni vostra richiesta di quella somma che sarà necessaria per abilitarvi a provvedermi quel che nomino qui sotto, cioè: 20. Vanghe; 20. Marre; 12. Marretti da orto tra piccoli e grandi; 20. Pennati; 24. Scure grosse; 40. Falci; 4. Cramole; 4. Rastrelli di Ferro; 6. Paia di Morse da Manzi; 3. Aratri da seme e 3 (la rompere (questi nel pian di Prato si chiaman Vangheggiole; 1 sol ceppo di legno per i 3 da rompere, e 1 per i 3 da seme; 12. Beccastrini e 12. Zapponi come usano nel Lucchese e forse nel Pistoiese. (Usando solo nel Lucchese se ne faccia venire uno per sorta per mostra, e si facciano fare in Paese affinché il guadagno tanto del ferro che del lavoro resti in Patria, e non vada fuor di Stato. Molte piccole cose fanno un’assai, e questa in oltre può crescer moltissimo). Se ci sieno altri istrumenti rustici si consulti col Trinci, e si mandi anche di quelli. 3. Vagli a mano da grano; 3. Coli da d.o [detto]; 2. Coli da fave; un’abbondante servito di rame da cucina per me con 2 bricchi da Caffè e 2 da cioccolata, dei quali uno da 6 e l’altro da 12 chicchere; tutto ciò che è necessario di rame per 30 famiglie di contadini; 40 paia di scarpe grosse e forti da contadini di diverse grandezze, piuttosto grandi che piccole, impuntite e imbullettate, e una discreta quantità di bullotte per rimettervele quando se ne perde; 40 paia di calze di lana per d.i[detti]; 40 paia d.e per [e]state, per d.i; 40 camice e 40 lenzuola per d.i di pannolino, o di canapa, o d’altro, purché sieno a buon mercato forti e di durata; 20 cappelli di pelo per d.i, che a Carmignano o a Prato mi par che vagliano i lira o 14 crazie l’uno; 40 d.i di paglia ordinarj per d.i e di testa grande da parare il sole; 20 berretti per d.i; 20 vestiti da state e 20 da Inverno per d.i, cioè carniera camiciola e calzoni, i quali possono essere di mezza lana e mezzalanina o d’altro, purché sia roba di durata a buon mercato e manifatture di Toscana, e le camiciole da Inverno da entrar nei calzoni; 2 vestiti e 2 paia di calze da state e 2 da Inverno, 2 cappelli, 3 paia di scarpe e 4 camice da donna contadina di mediocre statura; 1 vestito da state e 1 da Inverno, 1 cappello, 2 paia di calze, 2 di scarpe e 2 camicie da bambina contadina di 4 anni, e altrettanto per una di 6; 20 dozzine di paia di calze di refe da uomo ben fatte, belle e di durata di diversi prezzi da 20 crazie fino a 5 pavoli il paio; 10 dozzine di cappelli di Paglia da uomo da i lira fino a 3 pavoli l’uno. Chiedo queste cose adesso perché richiedon tempo a prepararle, riserbandomi a mandar la lista dell’altre colla mia Nave che si tratterrà a Livorno 2 o 3 settimane. Vi prego di andare da M[monsieur]. Sauboin, presentargli i miei ossequi, e pregarlo di mandarvi, a nome suo, da chi maneggia nella Congregazione dei Poveri per le calze, e per tutt’altro che possa aversi di lì, tanto di quelle cose che ordino adesso, come di quelle che ordinerà; e pregatelo di mettere in vista a S.A.R., che per facilitare e far crescere l’estrazione delle manifatture d’ogni genere (dal che solo può sperar ricchezza il Paese) bisognerebbe che tutto fosse lasciato escire senza inciampi e senza spesa. La mia sorella, che fa la mercantessa, forse potrà darvi dei lumi e forse anche guadagnar qualcosa su certi articoli che vorrà provvedere a far fare ella med.[esim]a. Per il rame il miglior luogo credo che sia Prato. Per gl’istrumenti d’agricoltura e per i vestiti al Poggio a Cajano, dove io son nato, vi è un certo Giovacchino del Poggio Sarto e anche Fornaio e un certo Pietro Mazzei, mio antico Parente Carradore e Fabbro, che potranno provvedere a fare molte cose con loro profitto e mia soddisfazione. Potete andare a nome mio dal Sig:r Giuseppe Sgrilli, che vi riceverà volentieri; mostrategli la mia Lettera, ed ei vi darà diversi lumi, specialmente se è guarito dalla sua malattia immaginaria; ditegli che gli scriverò colla mia nave. Procurate intanto 4. o 6. paia di piccioni per fare razza dei più belli e più grossi possibili, e 3. o 4. Paia di guanti di Lepre. Se la mia sorella volesse cedermi la sua serva, ed ella volesse venire, vi prego di fare il memoriale in mio nome a S.A.R. per il passaporto. Ne ò molto bisogno. Salutate l’Abate Fontana e ditegli che ò preparato qualcosa per il Museo di S.A.R., ma che senza voi mi manca tempo e intelligenza per fare quel che vorrei. Tutto Vostro, Filippo Mazzei ****** In America da protagonista (Da EDOARDO TORTAROLO, Filippo Mazzei e la nuova libertà americana, in Fra Toscana e Stati Uniti. Il discorso politico nell’età della Costituzione americana, a cura di A. M. Martellone, E. Vezzosi, Firenze, 1989, pp. 111-128) Per tutta la giornata del 3 luglio 1776 i delegati delle 13 colonie riuniti a Filadelfia avevano discusso la Dichiarazione d’Indipendenza redatta dal giovane avvocato virginiano Thomas Jefferson. Com’è noto, la versione che fu accolta per proclamare l’indipendenza americana il giorno seguente, il 4 luglio, non coincideva con il testo presentato da Jefferson. Questi e con lui la delegazione virginiana avevano l’impressione vivissima che il testo fosse stato indebolito, che qualcosa fosse stato sacrificato. La sera stessa di quel decisivo 3 luglio Jefferson, nella solitudine della sua modesta camera d’affitto a Filadelfia, ricopiò alcune volte la sua dichiarazione d’indipendenza e inviò questa sua versione, quella originale, ad alcuni degli amici più stretti in Virginia, perché non pensassero che egli fosse l’autore della dichiarazione ufficiale. I nomi dei destinatari sono quelli dei leaders che erano emersi nella contrapposizione con il governatore inglese Lord Dunmore: Richard Henry Lee, George Wythe, Edmund Pendleton, John Page. Erano gli uomini con cui Jefferson condivideva la collocazione nella società coloniale virginiana e l’esperienza più che decennale di quello che era stato allora decifrato come un sistematico attacco del potere ministeriale di Londra contro le libertà britanniche godute anche dalle colonie. Era naturale che a loro si rivolgesse Jefferson come per rendere conto del suo operato a Filadelfia e per far comunque presente che quell’insoddisfacente dichiarazione d’indipendenza non era tutta responsabilità propria, per prevenire in qualche modo l’inquietudine che prevedeva si sarebbe manifestata tra i suoi amici. Ma la lista dei destinatari della versione originale non si chiudeva lì: comprendeva anche un personaggio molto diverso dagli altri amici di Jefferson, un uomo estraneo per nascita, cultura ed educazione alla società coloniale dei piantatori di tabacco, da questi accolto neppure tre anni prima sul loro territorio. Quest’uomo era il toscano Filippo Mazzei, nato nel 1730 a Poggio a Caiano e giunto in Virginia nel 1773. Era nel 1776 quindi un immigrato recente. Perché allora Jefferson gli dimostrò tanta fiducia, manifestò tanta familiarità da metterlo a parte della sua insoddisfazione per quanto gli altri delegati avevano realizzato, proprio in un momento così drammatico come la dichiarazione d’indipendenza? Su quali basi si poggiava lo stretto rapporto che legò a lungo due uomini così diversi come Mazzei e Jefferson e che si palesò, in quest’occasione come in altre, con grande vivacità? E, più in generale, come fu possibile questo incontro tra culture politiche di tradizioni certamente diverse; su quali presupposti si fondava, quali erano i valori ultimi che rendevano possibile il dialogo politico tra le due sponde dell’Oceano Atlantico all’epoca della rivoluzione? Sono quesiti legittimi per orientarsi non solo nelle vicende biografiche di chi, come Mazzei, tentò questo dialogo, ma e contrario, anche per tentare di cogliere nel concreto delle rielaborazioni di pensiero politico il punto dove la cultura politica americana assunse un profilo politico proprio, per provare insomma a cercare la preistoria dell’analisi di Tocqueville, tanto incisiva e influente sulla cultura europea. Filippo Mazzei è inevitabilmente uno dei personaggi centrali in questo contesto. La sua vicenda biografica mostra come l’interesse per il Continente americano passasse necessariamente attraverso un interesse per il continente passasse necessariamente attraverso un interesse per la cultura britannica, come la simpatia negli anni Settanta per gli insorgenti poggiasse su un favore spiccato per la cultura politica whig. È questo certamente il caso di Mazzei, il quale si trasferì a Londra perché richiamato dall’idea che in Inghilterra regnassero l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e la libertà religiosa. Da Londra si allontanò perché sentì come minaccia per se stesso l’attacco del ministero contro Wilkes e contro i coloni del Nord America dallo Stamp Act in poi. Mazzei si identificò nei valori di supremazia del legislativo sull’esecutivo e dei deleganti del potere sui suoi rappresentanti: questa identificazione era realizzata però con il linguaggio dell’illuminismo europeo. Questo era già evidente in un pamphlet di Mazzei, in cui nel 1768 Mazzei interpretò l’assalto della folla londinese a un magistrato che non aveva voluto applicare alla lettera la legge, come la tutela da parte dei detentori ultimi del potere della esatta applicazione della legge e non quindi come cieca ribellione all’autorità: era la parafrasi di un passo tratto da Dei delitti e delle pene di Beccaria il perno su cui ruotava l’apologia della folla londinese offerta da Mazzei e in una rousseauiana sottomissione alla legge da parte di tutti era indicata la radice della libertà inglese. L’ideologia whig radicale interpretata ed espressa con le categorie e il vocabolario di un lettore appassionato di Rousseau, Helvétius, Beccaria: questo era il patrimonio di cultura politici che Mazzei utilizzò per far comprendere in Toscana e più tardi a tutta l’Europa colta le vicende della rivoluzione americana. Fu questo coniugare radicalismo whig e lumi europei a permettergli di entrare in fruttuoso contatto con Jefferson, Madison e John Adams, ma anche a condizionare la sua valutazione degli avvenimenti e degli sviluppi di pensiero costituzionale che dal 1776 al 1787 portarono dalle costituzioni statali e dagli Articles of Confederation alla costituzione che ancora oggi governa gli Stati Uniti d’America.[….] Tutto il concetto di riforma che Mazzei sottendeva alla sua discussione apparteneva infatti alla cultura dell’illuminismo europeo, come volontà di dare nuove regole che fossero in grado di conciliare il rispetto per un canone razionalità autoevidente e la loro capacità di essere attuati nel concreto. [….] I progetti di costituzione avanzati erano legati al principio della bicameralità, della diversificata funzionalità degli organi rappresentativi, della loro supremazia sull’esecutivo e il ripetersi del dispotismo monarchico, ma anche per garantire che i provvedimenti legislativi avessero tutta la loro efficacia disciplinante e coercitiva. [….] Il riorientamento che Mazzei proponeva era radicale: si fondava essenzialmente sui nuovi criteri di rappresentanza. Il progetto di Mazzei era d’altronde nato con una forte valenza polemica contro il modo in cui l’élite virginiana aveva rifiutato di avviare una profonda revisione del rapporto tra governanti e governati. Presentava queste sue proposte come Instructions of the Freeholders of Albermarle County to their Delegates in Convention, la cui formalizzazione come volontà di una regolare assemblea era stata impedita da un piccolo gruppo che voleva imporre le sue «tiranniche e aristocratiche massime». [….] L’istanza di controllo sui governanti era fortemente sottolineata, anche se certo non c’era volontà di instaurare una forma di democrazia diretta.«Il nostro dovere è sottometterci alle leggi fatte dai nostri rappresentanti, ma anche allora abbiamo il diritto di inviare istruzioni contro quelle e di fare tutto quanto è in nostro potere per farle revocare se dovessero apparirci contraddittorie con l’onore e l’interesse della comunità». [….] Mazzei traeva la conclusione che la forma democratica adottata in America non avrebbe potuto, per il momento almeno, essere trasferita meccanicamente in Europa. Le speranze europee, vivamente condivise da Mazzei, nella diffusione dei lumi, nelle riforme e nel superamento della struttura aristocratica, dovevano essere affidate a un monarca illuminato. [….] A fianco della Patria adottiva contro scettici e denigratori (Da Ricerche sugli Stati Uniti dell’America Settentrionale, traduzione italiana delle Recherches historiques et politiques sur les Etats-Unis de l’Amérique Septentrionale ……. Dall’ Introduzione di Ennio di Nolfo, Firenze, 1991, pp. 27-31) [….] Le Recherches historiques et politiques sur les Etats- Unis de l’Amérique septentrionale, che Filippo Mazzei volle dedicare ai suoi « concittadini», cioè «au peuple des Etats-Unis d’Amérique» confutavano le interpretazioni che il Mably e il Raynal avevano dato della Rivoluzione e delle istituzioni americane e che avevano fatto sorgere nell’italiano una crescente esasperazione contro «i pregiudizi» che esse diffondevano sugli Stati Uniti, fornendo un quadro distorto, come di un paese tutto immaginario o tutto in preda al disordine e all’anarchia. L’opera del Mazzei si inseriva infatti in un dibattito che aveva radici lontane, quel dibattito che Antonello Gerbi ha definito «la disputa sul Nuovo Mondo» e che vedeva contrapposte descrizioni mirabili del continente americano, come terra di ogni eccezionale meraviglia, a descrizioni altrettanto fantastiche ma che calcavano la mano sull’incivile arretratezza degli indigeni rispetto all’Europa. Nel momento in cui la vita politica delle colonie d’America si faceva sentire come un problema prossimo agli interessi e alle concezioni degli europei, appariva necessario superare il guado della fantasia e stabilire conoscenze meno arbitrarie, comunque tali da rendere possibile una mutua relazione di esperienze, che si sovrapponesse allo sfruttamento originario e unilaterale. Fra i protagonisti di questo sforzo di conoscenza occupa un posto di grande rilievo GuillaumeThomas Raynal, autore di una Histoire philosophique et politique des Etablissements et du Commerce des Euro- péens dans les deux Indes, apparsa clandestinamente fra il 1770 e il 1772 e ripubblicata poi in numerose altre edizioni dopo il 1774. L’opera di Raynal, ricorda Piero Del Negro, fu «forse il più fortunato dei bestsellers apparsi sul mercato librario internazionale degli anni Settanta e Ottanta del secolo diciottesimo». Basta questo aspetto, per così dire tecnico-commerciale, per mostrare quale e quanta fosse la curiosità intellettuale verso le vicende d’America e quanto diffusa la fiducia che in esse potesse scorgersi un frutto del pensiero europeo, che esprimeva, in una terra nuova, il meglio delle proprie risorse nella conquista di libere istituzioni. Adattata, nelle successive edizioni, dal suo autore, l’Histoire des deux Indes divenne una lunga e composita apologia di come i coloni inglesi in America portassero sino alle loro logiche conseguenze gli insegnamenti impliciti nella britannica nozione di libertà e di diritto a determinare autonomamente e democraticamente il regime fiscale in cui vivere. Responsabilità inglese era di avere violato questi diritti, provocando una giusta ribellione; tuttavia il diritto a separarsi dalla madrepatria non era solo il risultato dello scontro poiché derivava da un bisogno di libertà che le idee, nate in Europa e soprattutto in Inghilterra nell’età dei lumi, e trapiantate in America dai «filosofi», rendevano incoercibile. La causa degli americani diventava in tal modo paradigma della causa di tutti i popoli. La loro libertà era quella cui avevano diritto tutti i popoli. «Al rumore delle catene che si rompono», scriveva Raynal, «ci sembra che le nostre stiano per diventare più leggere... Queste grandi rivoluzioni della libertà sono lezioni per i despoti. Li avvertono di non contare sulla pazienza troppo lunga dei popoli e su una eterna impunità». In Europa, e in Italia (come hanno mostrato gli scritti di Venturi, Del Negro, Tortarolo, Borghero), l’opera del Raynal suscitò entusiasmo poiché apparve come un contributo alla lotta contro il dispotismo. L’opera dell’abate Gabriel Bonnot de Mably, pubblicata nel 1774 con il titolo Observations sur les lois et le gouvernement des Etats Unis d’Amérique, si colloca su un versante diverso. Nella forma di quattro lettere che analizzavano il testo delle costituzioni di alcuni degli Stati americani, il Mably cercava di dare un giudizio complessivo sull’esperimento costituzionale americano. Al centro della sua riflessione era il modo secondo cui il concetto di democrazia fosse stato variamente temperato, nelle costituzioni americane, da quello di rappresentanza. Egli considerava in modo positivo la rinuncia a cedere ai princìpi di democrazia diretta suggeriti dalle democrazie dell’antichità, poiché la rappresentanza era uno scudo contro i «capricci della folla». Tuttavia riteneva che nelle soluzioni adottate dai vari Stati americani fossero presenti tendenze inevitabilmente oligarchiche che lo portavano a prevedere che la confederazione tutta sarebbe stata trascinata, dalla diseguaglianza della ricchezza, dal commercio e dai costumi verso l’aristocrazia. Sarebbe stato un «governo dei ricchi» che tuttavia avrebbe protetto i diritti dei popoli, tutelandoli con la legge, così da rendere tollerabile ai popoli la loro condizione. «I poveri, non essendo vessati, s’abitueranno alla loro sorte; la subordinazione non scandalizzerà più gli spiriti e il popolo a suo agio penserà che le distinzioni di cui i ricchi godono sono legittime. L’aristocrazia, godendo pacificamente delle sue prerogative, non avrà in America, come in Svizzera, nessuno dei vizi che le sono naturali». Il Mably accreditava così una visione dell’America come «non eccezionale» rispetto all’Europa e come legata a questa da una previsione di evoluzione in senso temperato, come probabilmente alcuni esponenti del mondo politico americano (in particolare John Adams) desideravano, in tal senso ispirando direttamente il Mably con le loro esplicite informazioni. Entrambe le concezioni, e per ragioni ovviamente diverse, suscitavano una reazione profonda nel Mazzei. Di qui il bisogno di contrapporre a speculazioni o fantasie un solido lavoro, costruito sulla base dell’esperienza personale ma anche, come nota Greene, sulla base di una vasta serie di letture e su un’ampia conoscenza «degli scritti politici inglesi come di quelli americani, di molte tra le maggiori opere scientifiche e storiche americane, nonché della letteratura contemporanea riguardante descrizioni degli Stati Uniti», con una scrupolosa ricerca di equilibrio grazie alla quale l’accuratezza critica accompagnò sempre il pregiudizio filo-americano del Mazzei e fece matura la sua riflessione anche in rapporto all’esperienza direttamente vissuta. I primi due volumi dell’edizione originaria delle Recherches sono dedicati alla confutazione delle tesi del Mably; il terzo alla confutazione delle tesi del Raynal; il quarto a una serie di riflessioni generali e a un quadro informativo analitico sui problemi americani.[….] Così Mazzei smentisce una serie di luoghi comuni, allora correnti, sulla realtà americana; confuta la tesi di coloro che descrivono gli Stati Uniti come in preda all’anarchia, alla discordia civile o alla bancarotta; giustifica, o spiega, sin l’affiorare di quelle tendenze oligarchiche la cui esistenza era circoscritta dallo spirito di eguaglianza radicato in ogni cittadino americano. Non tace nemmeno della schiavitù, che giudica contraria agli stessi principi costituzionali, ma rispetto alla quale assume un atteggiamento moderato, ammettendo la necessità di differire e risolvere gradualmente il problema. La polemica non impediva dunque al Mazzei di scorgere le contraddizioni. La democrazia americana, che appariva a taluni il modello da importare in Europa per instaurarvi un sistema perfetto, non era a sua volta immune da rischi. La costituzione del 1787 lo stava dimostrando e Mazzei non mancava di indicare i pericoli interni a alcune sue clausole e alla mancanza di un Bill of rights. Si poneva dunque l’esigenza di prendere le distanze dal modello, per giudicarne l’esportabilità verso l’Europa. L’analisi del Mazzei concentrava tuttavia nella realtà americana tutta una serie di circostanze irripetibili che difficilmente si sarebbero potute riprodurre altrove. Un tema, questo, tale da appassionare allora e nei secoli successivi storici e politici di tutto il mondo. Ma ciò che importa qui denotare è in quale misura la voce del Mazzei, per quanto poco conosciuta nei decenni seguiti alle grandi Rivoluzioni di fine Settecento, risonasse nei dibattiti del suo tempo e resti ora come testimonianza fondamentale per chiunque voglia attingere alla conoscenza del passato i temi posti dalla progettazione del presente e del futuro. ***** (dalle Recherches historiques et politiques …… di Filippo Mazzei, 1788) La rivoluzione del 1776 ha attirato sull’America l’attenzione dell’Europa e molti scrittori si sono premurati di trattare un argomento così interessante; nel timore di arrivare dopo, ciascuno di loro si è affrettato a pubblicare la sua opera prima che gli fosse possibile acquisire informazioni sufficienti e senza nemmeno avere il tempo e la preoccupazione di procurarsi i dati reperibili. Alcuni, pur annunciando la loro intenzione di scrivere la storia della rivoluzione, non ne hanno scritto che il romanzo. [….] Ultimamente è apparsa un’opera in tre volumi con questo pomposo titolo: Storia imparziale degli avvenimenti militari e politici dell’ultima guerra nelle quattro parti del mondo. Si tratta di un insieme di relazioni non attendibili e di errori di geografia. Avrei troppo da dire se dovessi menzionare tutti coloro che hanno scritto con una analoga leggerezza. Mi limiterò dunque a parlare degli scrittori la cui celebrità può far accreditare come verità quelli che invece sono errori. L’abate Raynal non sembra aver mostrato a nostro riguardo quel rigore del quale si vanta. E da presumere che abbia creduto troppo facilmente a tutto ciò che gli avrebbe fornito l’occasione per far brillare la sua eloquenza, e il lettore accorto, mentre ammira il tono caldo ed energico con cui l’abate Raynal ripete così frequentemente le sue invocazioni alla verità, si rammarica che egli non abbia avuto la possibilità di conoscerla meglio. L’abate de Mably, animato, come egli stesso dice, dallo zelo e dal desiderio di essere utile, ha avanzato le sue osservazioni sui governo e le leggi degli Stati Uniti in un periodo della sua vita poco idoneo alla scrupolosa ricerca di nuovi oggetti di studio. Non bisogna quindi stupirsi che le osservazioni di questo scrittore siano in generale fondate su basi sbagliate. Se è preferibile l’ignoranza all’errore, occorre convenire che lo stato attuale dell’opinione dell’Europa sull’America è peggiore di quanto lo fosse prima della rivoluzione e le osservazioni dell’abate de Mably hanno singolarmente contribuito a consacrare le innumerevoli fantasticherie che non hanno cessato di prodursi in questo continente a svantaggio degli Stati Uniti. [….] Al mio secondo viaggio in Francia, mi capitò fra le mani il libro dell’abate de Mably. Notai che, dopo aver dichiarato di aver letto «con tutta l’attenzione possibile le diverse costituzioni che gli Stati Uniti d’America si erano date», egli ne parlava in modo confuso e non fedele al loro testo. I suoi princìpi di governo, spesso opposti ai veri princìpi repubblicani, hanno attirato su di noi la sua critica sui punti nei quali abbiamo dato alla libertà la migliore base possibile e talvolta abbiamo ricevuto la sua approvazione su altri punti in cui quella base non era sicura come avrebbe dovuto essere. Poiché nella sua prima lettera ci loda in diversi punti con trasporto e ci attribuisce meriti che non abbiamo e dappertutto professa per la nostra gloria e prosperità uno zelo che scivola nell’entusiasmo, ne è risultato che lo si è creduto favorevolmente prevenuto nei nostri riguardi: ciò che non ha mancato di aggiungere attendibilità alle asserzioni che tendono a dare un’idea sfavorevole dei nostri affari, sia per quanto concerne quelli attuali che per ciò che riguarda il loro futuro. Se il suo libro non fosse apparso, è probabile che il preteso disordine, la pretesa anarchia degli Stati Uniti e tante altre invenzioni e esagerazioni ripetute nei giornali inglesi, non avrebbero ottenuto alcun credito, in quanto provenienti da un paese dove si poteva dire e scrivere tutto il male immaginabile contro gli Stati Uniti. Ma come dubitarne quando uno scrittore che ha l’aria di avere a cuore la nostra sorte’, ci dipinge come un paese in cui la classe politica è nella posizione peggiore? E per questo che gli errori dell’abate de Mably hanno avuto conseguenze maggiori di quelli dell’abate Raynal e richiedono una confutazione più formale e più estesa. Passerò sotto silenzio quello che hanno detto scrittori meno noti e in particolare quelli la cui penna è guidata dalla politica o dalla vendetta. Il mio obiettivo principale è di dare l’idea più precisa e più chiara della situazione politica nei tredici Stati Uniti, e soprattutto dei loro governi, ricorrendo ai fatti storici che mi sembrano necessari a gettare luce sui soggetto che tratterò. [….] Si spera che le riflessioni sui governi degli Stati Uniti inserite in questa opera non dispiacciano a nessuno. Ogni uomo deve interessarsi dell’esistenza di un buon governo, in qualsiasi parte del globo esso sia situato, e contribuire al suo insediamento per quanto è nelle sue possibilità. Il lettore non deve stupirsi della lunghezza delle due confutazioni, considerando che non ci si è voluti accontentare di provare la scarsa attendibilità che meritano i due autori contro i quali esse sono dirette, ma che invece si è approfittato dell’occasione per iniziare il dibattito, per dare chiarimenti, ed entrare nei dettagli destinati a rendere contemporaneamente il soggetto più interessante e le confutazioni meno aride. D’altronde queste discussioni possono servire a confutare le disattenzioni di altri scrittori.[….] Chiunque esamini con occhio attento e imparziale la natura e lo spirito dei nostri governi comprenderà senza difficoltà che anche quello più imperfetto è meno lontano dai princìpi di libertà di qualsivoglia repubblica passata o presente, sebbene il migliore non arrivi ancora al punto di essere pienamente soddisfacente agli occhi del filosofo e del legislatore. Del resto, non c’è motivo per noi di autocompiacimento nell’aver fatto meno male degli altri dato che, malgrado i problemi della guerra, ci siamo trovati in una situazione più propizia di quelle con cui le altre nazioni (almeno seguendo le indicazioni offerte dalla storia) dovettero fare i conti quando si presentò loro il problema di istituire i propri governi. I fondamenti alla base della libertà delle nostre repubbliche sono più o meno quelli che andremo ad analizzare. La sovranità risiede nell’insieme degli abitanti che ne affidano l’esercizio ad agenti il cui numero non è né tanto elevato da impedire una discussione approfondita delle materie prese in esame, né tanto esiguo da consentire ad alcuni di loro di esercitare un’eccessiva influenza. In tutti gli Stati il numero di coloro ai quali è affidato il potere legislativo si inserisce in tale proporzione che, sebbene non sia risultata dappertutto uguale come potrebbe e dovrebbe essere, ha consentito di avere una garanzia contro i rischi di una pericolosa preponderanza. Il loro incarico dura per un periodo breve; la loro retribuzione non eccede l’importo necessario per coprire le indennità delle spese affrontate. Il loro potere consiste nel fare le leggi, dalle quali non sono esenti come qualsiasi altro cittadino, e a nominare le persone che dovranno ricoprire incarichi particolarmente importanti. Nessuno di loro può accettare una di queste cariche mantenendo lo status di membro dell’organismo legislativo. Il loro potere non può mai costituire un pericolo per la libertà: garanzie contro questo pericolo sono sia la brevità della durata del loro incarico, sia il diritto del popolo di sospenderli dalle loro funzioni, eleggendo altri e autorizzandoli a rivedere, riformare o ristabilire la costituzione, nel caso che questa fosse stata oggetto di attentati. Questo potere non può comunque permettersi di dare prova di inefficienza. Ogni membro del potere legislativo vota secondo la propria coscienza, senza aver bisogno del consenso dei suoi elettori, sebbene tutti i rappresentanti siano tenuti a seguire le indicazioni dell’elettorato, quando esse fossero date precedentemente, e su alcuni casi particolari, cosa che avviene comunque molto di rado. [….] Tutti gli incarichi che possono influire sul governo sono di breve durata. Le retribuzioni non sono così elevate da indurre in tentazione l’avarizia; in fatto di potere, c’è giustamente tutto quel che occorre per mantenere l’ordine. La libertà di stampa non conosce altri limiti che l’esclusione dei libelli. L’esercizio di qualsiasi religione è perfettamente libero e non è sottoposto a alcuna odiosa e puerile distinzione. Nessuno è obbligato a contribuire al mantenimento dei ministri di una religione che egli non professa; nessuno Stato ha una religione dominante; nessuno può essere privato del diritto di voto a causa delle sue opinioni religiose. Tuttavia in alcuni Stati è necessario essere cristiani e in altri protestanti per essere membri degli organi legislativi e per occupare altre precise cariche; in alcuni, per esempio in Virginia, i contributi alle chiese, anche per il sostentamento della religione che si professa, sono volontari e la sola cosa che bisogna fare per poter ricoprire qualche carica pubblica è giurare fedeltà alla repubblica.[….] L’autore ha paragonato il nostro popolo al volgo delle altre nazioni e sicuramente ha avuto torto. Quand’anche avesse voluto parlare solo di quella parte della popolazione che le circostanze obbligano a vivere in uno stato inferiore all’altra, egli avrebbe avuto ugualmente torto, perché non si può dire per questo che essa costituisca una classe distinta; ed è sempre vero che questa parte del nostro popolo non assomiglia in alcun modo al popolo delle altre nazioni antiche e moderne Non pretendo che il popolo americano sia diverso da qualunque altro a causa del clima o del suolo. Sono invece persuaso che ogni altro popolo farebbe lo stesso nelle stesse circostanze. La differenza sta nel morale, non nel fisico. Non è mai esistita repubblica in cui l’insieme della popolazione abbia influito altrettanto profondamente sul governo e alla quale le strade siano state così aperte a tutti gli onori e vantaggi della patria come negli Stati Uniti. Prima della rivoluzione, la distanza tra i cittadini era anche molto inferiore di quanto non sia stata e di quanto non sia oggi negli altri paesi. Perciò è così naturale che accadano disordini popolari nelle altre repubbliche e che non ne accadano affatto nelle nostre. Non ci si deve stupire di più, per il fatto che il popolo americano, molto meno ricco e che vive del lavoro delle sue mani, sia passabilmente istruito. Un popolo abbrutito non prova alcuna disposizione a informarsi di cose che non lo riguardano ed è naturalmente portato, quando si presenta l’occasione, a esternare il proprio risentimento per tutti i torti che gli sono stati fatti. Ma là dove il popolo gode di tutti i diritti, quale motivo di scontento potrebbe mai avere? In questo caso allora cerca di prendere conoscenza degli affari pubblici, perché vi vede il suo interesse. I progressi del popolo americano, dall’inizio della rivoluzione fino al momento attuale, nel modo di ragionare su questa sorta di affari sono veramente stupefacenti. La mancanza di vane onorificenze, quali titoli nobiliari, croci, cordoni ecc., e le scarse differenze nei beni di fortuna tendono ancora a diffondere fortemente le scienze utili. Ovunque si trovino una grande diseguaglianza di ricchezze e una classe sociale superiore alle altre, deve necessariamente esistere un gran numero di miserabili e la scienza risiederà quasi esclusivamente a livelli medi. La ragione ne risente: gli uni non hanno la possibilità di acquisirla, agli altri manca l’emulazione, e così deve essere, perché l’oro, un titolo, un’onorificenza, procurano a chi li possiede molta più considerazione di quanto non facciano la scienza e persino la virtù. Da ciò deriva che, anche se un gran signore senza virtù né scienza sia un essere estremamente spregevole, si deve, quando riunisce l’una e l’altra, stimano molto di più di coloro che ne hanno un bisogno assoluto per farsi strada nel mondo.[….] ***** Ritorno in Europa. Inviato del re Augusto II Poniatowski di Polonia a Parigi (Da Lettere di Filippo Mazzei alla corte di Polonia (1788-1792), a cura di Raffaele Ciampini, vol. I (luglio 1788—marzo 1790), Bologna , 1937, pp. XIX-XXVII. [….] Intanto a Parigi era arrivato Scipione Piattoli, al seguito della principessa marescialla Lubomirska, sorella del principe Czartoryski, e cugina di Stanislao Augusto Poniatowski, re di Polonia; essa aveva con sé il proprio nipote Enrico, figlio di un suo cognato, ragazzo di circa tredici anni, al quale faceva appunto da istitutore l’abate Piattoli.1 Non sappiamo se il Mazzei avesse conosciuto il Piattoli anche prima, o se lo abbia visto allora per la prima volta : non risulta da quanto egli dice di lui nelle sue Memorie. « Fiorentino, di gran talento, — così ce lo descrive — eruditissimo e versato in tutte le scienze, troppo buono ed eccessivamente modesto ». Comunque, furono presto amici: e fu proprio per mezzo del Piattoli che il Mazzei ottenne di diventare agente a Parigi del Re di Polonia. Infatti, nei primi mesi dell’ ‘88 arrivò nella capitale da Losanna, sua patria, uno svizzero, Maurizio Glayre, che era stato per ventidue anni segretario del re di Polonia; il Glayre cercava per Stanislao Augusto un agente presso la corte di Francia, poiché il re non era contento di quello che aveva, il quale non sappiamo chi fosse. L’abate Piattoli era amico da molto tempo del Glayre e gli presentò il Mazzei ; questi non avrà mancato di far valere presso lo svizzero i servigi diplomatici resi allo Stato di Virginia. Il Glayre voleva un uomo intelligente e infaticabile, al quale nulla sfuggisse, e non si risparmiasse per tenere al corrente il proprio sovrano. Il Mazzei gli parve la persona adatta, ed ecco come il Toscano poté diventare agente politico a Parigi del re di Polonia [….] Il Mazzei restò a Parigi fino al dicembre del 1791; le ragioni per cui volle allora lasciare la capitale non risultano chiare né dalle lettere al Re né dalle Memorie. In queste, sembra che attribuisca la sua risoluzione a quello che succedeva in Francia, alla piega che prendevano gli avvenimenti, al non poter egli approvare la politica della Legislativa, che gli sembrava tendere verso i partiti estremi per la viltà di quasi tutti i suoi membri. Dice che avendo saputo di una riunione che a lui parve illegale, per lo scopo che si proponeva, ai Giacobini, corse da La Fayette e gli diede il consiglio di scioglierla con la forza facendo arrestare i capi: ((andai dal Marchese, lo ragguagliai di tutto, e conclusi che avrebbe dovuto andare con tre o quattro compagnie di guardie nazionali a quel Club.... fare sprangar la porta, e poi disfarsi dei capi che gli nominai, mancati i quali non vi sarebbe stato chi avesse potuto riunire gli anelli della catena.... ». E gli fece i nomi, fra gli altri, dei Lameth, di Barnave, di Barras, Robespierre, Danton, Desmoulins e Marat. Il Marchese rifiutò; e allora il Mazzei corse dal maire Bailly (uomo d’ infinito mérito, ma troppo buono e anche timido », e non ne ottenne nulla. Corse infine a cercare il duca della Rochefoucauld, il quale gli rispose, in sostanza» di occuparsi dei fatti suoi. « Mc n’andai mortificato all’estremo, e non pensai più che a partire di Francia il più presto possibile ». Io penso che le cose devono essere andate un po’ diversamente. Mazzei aveva avuto una discussione violenta con i Condorcet, per motivi non chiari (nelle lettere e nelle Memorie adduce a pretesto alcuni scritti antimonarchici del Marchese) e aveva rotto la lunga amicizia. A Parigi e nell’ambiente che aveva frequentato finora, non doveva più tirare buon vento per lui. Aveva avuto discussioni violente e rotture con personaggi polacchi importanti che risiedevano a Parigi; Stanislao Augusto gli aveva scritto che avrebbe desiderato conoscerlo. Aspirava a cariche e guadagni maggiori di quelli che poteva avere come incaricato d’affari del Re di Polonia (e questo risulta da molti passi delle lettere) ; aveva l’esempio del Piattoli, che a Varsavia sembrava dirigere la politica interna del Regno. Scontentezza e ambizione gli resero impossibile la permanenza a Parigi; e a metà di dicembre del ‘91 si mise in viaggio per la Polonia. La partenza da Parigi segnò la fine della sua carriera politica: gli affari polacchi andavano di male in peggio, la fine della Polonia era imminente, il Re sempre irresoluto, la confusione all’ interno deplorevole; la Prussia stava per tradire, la pressione straniera si faceva più gravosa e più minacciosa ogni giorno. Il Mazzei dice di aver tentato fin dal suo arrivo di aprire gli occhi a Stanislao e ai ministri, ma inutilmente; di avere avuto discussioni assai vive con l’abate Piattoli e col maresciallo Potocki, parti- tanti della Prussia; di aver consigliato al Re l’abdicazione. Non avendo ottenuto nulla, partì da Varsavia il 6 o 7 di luglio, diretto in Toscana, avendo in tasca la nomina alla vana carica di ciambellano e consigliere intimo del Re.[….] Favorevole ai tempi nuovi (non era egli un democratico che aveva temuto, anche per la rivoluzione americana, la tirannia e il dispotismo ?), diffida del clero, dei nobili, dcl ParhLn1eItO. A quella che egli chiama la « hidra aristocratica » attribuisce tutti i torbidi e le resistenze; secondo lui, sono i nobili e il clero che soffiano nel fuoco della discordia, perché hanno tutto da guadagnare dal disordine. La sua fiducia in Luigi XVI è incrollabile: sogna un re costituzionale, bonario e democratico, solo interprete della volontà nazionale, l’unico che possa ricondurre la pace e l’armonia. Per questo tanta parte della sua ammirazione va al marchese de La Fayette. Gli errori della Monarchia devono tutti essere attribuiti a Maria Antonietta, che è il cattivo genio della Francia. La fuga di Varennes dipende da inganni e da raggiri che hanno condotto il povero Monarca « ad un passo che può esser funesto a tutta la sua famiglia ». E per questo, quando con la Legislativa la lotta politica si mette in Francia su strade del tutto diverse da quelle che egli aveva sognate, e perfino Condorcet pensa e scrive cose contrarie al Monarca, il Mazzei si sente un pesce fuor d’acqua, e non capisce più quello che succede. Parte, e fa bene a partire: l’ardente clima rivoluzionario non è più fatto per lui Ma in compenso, quanta vita vissuta, quanta osservazione diretta, quanti particolari precisi Il Mazzei può chiamarsi il fedele cronista della vita che si svolgeva in certi salotti francesi dal 1788 al 1791 : raccoglie tutti i «si dice », tutti i pettegolezzi, tutte le voci, buone o cattive, che circolano là dentro. Osserva quelli che ci càpitano, ne ascolta i colloqui, le confidenze e i motti di spirito, traccia un quadro animato dell’alta società francese alla vigilia del crollo fatale. E siccome Stanislao Augusto conosceva assai bene quei personaggi, e desiderava essere informato di tutto, così riferisce tutto al Sovrano. Ne nasce un documento, nel suo genere, di importanza più che notevole. Anche sui rapporti della Francia con la Polonia e con le altre potenze europee, e della Polonia con la Francia, il carteggio di Filippo Mazzei contiene particolari pieni di interesse, e, se non erro, poco noti finora. Si ha talora un quadro assai vasto e complesso della politica internazionale di quegli anni, nella quale l’Inghilterra occupa un posto di primo piano, e si può dire che diriga tutte le file, con una condotta abile e ambigua, con ondeggiamenti continui, senza mai impegnarsi a fondo, senza tradire il proprio pensiero. Tutto questo mi pare si rispecchi bene nei rapidi accenni che ne fa il Mazzei. [….] ***** Testimone della presa della Bastiglia. (Da Filippo Mazzei Scelta di scritti e lettere. 1788-1791, vol. II, a cura di Margherita Marchione, Prato 1984, pp. 169-171. Lettera di Mazzei al Re di Polonia, N.° 108 Parigi, 17 luglio 1789 [….] Mi bisognerebbe ora la penna di Tacito o di Sallustio per descrivere gli avvenimenti grandi e stupendi di pochi giorni. Ma né l’uno né l’altro potrebbe racchiudere la vasta materia in un piccol volume e difficilmente gli riescirebbe di far credere ai posteri che sia seguito in pochi giorni quel che gli spettatori medesimi appena si persuadono poter succedere in altrettanti anni. La gente aveva cominciato ad andare a’ teatri domenica 7 dopo pranzo quando seppesi pubblicamente in Parigi l’esilio di Necker e l’allontanamento de’ conti di Montmorin e di St. Priest, i soli che si erano costantemente opposti all’indegno progetto di far venire le truppe annunziate nella prima lettera di mano straniera spedita col n.° 105. La prima cosa che fece il popolo fu di correre a’ teatri e d’impedire gli spettacoli. Non vi bisognò violenza poiché tutti, uditori, attori e soldati, tutti abbandonarono volentieri i luoghi di divertimento. La costernazione, lo sdegno, il mormorio, il sussurro erano universali. Ognun correva chi per una parte, chi per l’altra, senza oggetto visibile. I busti del duca d’Orleans’ e di m.r Necker furono portati processionalmente per la città. L’apparenza era lugubre; si fremeva, si urlava, si minacciava. Le truppe intanto si avvicinavano da varie parti alla città. Il principe di Lambesc alla testa de suo reggimento di cavalleria tedesca venne con apparenza ostile sulla piazza di Luigi XV, penetrò furiosamente fino dentro il giardino delle Tulleries per il ponte a levatoio, come se avesse dovuto attaccare il nemico, e fece fare intorno al primo bacino delle evoluzioni che gl’intendenti non comprendono. In mezzo a una folla di gente che nel dopopranzo de’ giorni festivi cuopre quasi affatto il giardino, la piazza e i campi elisi era impossibile che non seguisse del male. Uomini, donne e ragazzi furono arrovesciati da’ cavalli. Alcuni soldati fecero fuoco sopra due guardie francesi’5 disarmate, una delle quali mori sul colpo. Dicesi che il principe di Lambesc medesimo tagliò un braccio a un uomo di circa 70 anni. Fu tirato qualche sasso alle truppe; ma è difficile di sapere chi sia stato l’aggressore, se i soldati o il popolo. Certo è che l’apparenza sola delle truppe, e particolarmente di truppe forestiere, bastava per irritare; e tale par che sia stata l’intenzione della cabala aristocratica. All’imbrunir della sera una compagnia del detto reggimento tedesco fu messa in fuga dal boulevard vicino alla Chaussée d’Antin da una scarica di 30040 guardie francesi uscite in furia dal loro quartiere, subito che intesero l’assassinio di due de’ loro compagni. Quattro tedeschi furono morti, altri feriti; il reggimento si allontanò e in tutta la notte niuna altra truppa entrò in Parigi, dove pochi, dove pochi andarono a letto e pochissimi dormirono. Il popolo corse alle botteghe degli archibusieri e ne prese tutte l’armi, senza doglianza de’ proprietarii, poiché l’armarsi come ognun poteva parve a tutti un dover sacro, e a poco altro si pensava. Qualunque istrumento offensivo serviva d’arme. Le strade eran piene di popolo, col quale si unirono in varie parti i soldati del (3uet’6 e circa 1000 guardie francesi; ma niuno comandava, e tutto era in disordine. Sapevasi che il numero de’ ladri e vagabondi era cresciuto prodigiosamente in questi ultimi tempi, e tutte le notizie concorrevano a confermar l’opinione, ragionevolmente concepita, che non mancavano persone vendute alla cabala aristocratica, la cui scellerata politica era di non risparmiare gli eccessi onde ridurre la parte più sana della nazione a sottomettersi al giogo per evitare gli orribili effetti dell’anarchia. Lunedì mattina, subito spedito il mio dispaccio, men’andai fuori per esaminar da me stesso quel che passava. Triste cosa era il vedere tutto serrato, case, palazzi, e botteghe, e gli uomini (un buon numero de’ quali di brutto aspetto) correre armati per le strade con fucili di varie specie, spade e sciabole rugginose, innumerevoli altri ferri atti a diversi usi, aste, bastoni, alabarde ecc. Non si vedevano ragazzi né donne e non si capiva quali fossero più da temere, se i furfanti di dentro o i nemici di fuori. Ora si passa ad un’altra scena, su di che non posso dire presentemente se non i resultati, e con massima brevità. I cittadini come risvegliati da un sogno funesto, si adunarono in tutti i 60 distretti; stabilirono una milizia di 200 uomini per distretto la quale, prima della notte (compresovi il Guet, molte guardie francesi e qualche guardia svizzera) formava circa 17 mila uomini armati che facevano la ronda con ordine ammirabile per tutta la città. Disarmarono chiunque non rendeva buon conto di sé parecchj ladri furono impiccati o gettati nella Senna. Mai aveva regnato in Parigi maggior sicurezza che in quella notte; maraviglioso e incredibile contrasto colla notte precedente! La mattina dopo le milizie furono aumentate fino a 48 mila; Cu preso l’hôtel degl’Invalidi’, ove si acquistarono molte armi e cannoni: il dopo pranzo fu presa la Bastiglia: la testa del governatore (m.r de Launay) e del sottogovernatore di quell’orrida fortezza furono portate in processione su due aste per tutta la città con soddisfazione universale poiché avevan fatto perire proditoriamente molti cittadini; e il Prévôst des marchands (m.r de Flesselles), che tradiva la città mentre n’esercitava le funzioni di primo magistrato, fu strascinato dal suo seggio e fatto in pezzi sulla piazza di Grêve. L’istessa sera, prima della mezzanotte, la cabala aristocratica era spaventata e sbigottita a segno che non ebbe neppure il coraggio di cambiar di sistema; e il povero, ingannato monarca non seppe che imperfettamente una parte di quanto era seguito. Finalmente ad un’ora e mezza dopo mezzanotte il duca di Liancourt , valendosi del diritto di entrare in camera del re a tutte le ore come Grand-maître de la guarderobe, andò a trovano al suo letto e lo indusse (non senza difficoltà) a lasciarsi informare della verità pura dei fatti La terza scena è da vedersi ne’ fogli stampati. Quel che ò detto basta probabilmente per far meglio comprendere gl’inclusi tre interessantissimi numeri del Point du jour. Vi mancano le seguenti notizie, cioè che lunedì sera il marchese de la Fayette fu eletto vice-presidente dell’Assemblea Nazionale che mercoledì (dopo che la deputazione dell’Assemblea ebbe recitato nel palazzo pretorio il discorso del re e dichiarato la pace a nome del medesimo) la città fece il detto marchese colonnel-generale di tutte le milizie di Parigi e m.r Bailly (l’istesso che è stato presidente dell’Assemblea nazionale) fu creato Maire carica nuova che indica l’abolizione di quella occupata finora dal Prévôst des marchands. La massima differenza che si osserva nelle parlate del Re fatte dentro lo spazio di 36 ore dimostra bastantemente l’abuso fatto da pessima gente alla credulità di quel monarca. **** BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Filippo Mazzei Recherches historiques et politiques sur les États-Unis de l’Amérique septentrionale…, A Colle et se truve a Paris, chez Froullé, libraire, quai des Augustins au coin de la rue Pavée, 1788, voll. 4. Traduzione italiana edizioni Ponte alle Grazie, 1991. Filippo Mazzei, Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei...., a cura di Gino Capponi, Lugano, Tip. della Svizzera Italiana, 1845/46, voll. 2 Benedetto Croce, Aneddoti di storia civile e letteraria, III: appunti da libri rari del Settecento, «La Critica», Bari, settembre 1927. Lettere di Filippo Mazzei alla corte di Polonia (1788-1792),a cura di Raffaele Ciampini, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1937 vol. I. (Unico volume pubblicato). Antonello Gerbi, La disputa del nuovo mondo. Storia di una polemica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955. Sara Tognetti Burigana, Tra riformismo illuminato e dispotico Napoleonico. Esperienze del “cittadino americano” Filippo Mazzei, con appendice di documenti e testi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1965 Guelfo Guelfi Camajanni, Un illustre toscano del Settecento. Filippo Mazzei. Medico, Agricoltore, Scrittore, Giornalista, Diplomtico, Firenze, Associazione Internazionale Toscani nel Mondo, 1976. Filippo Mazzei, Scelta di scritti e lettere, a cura di Margherita Marchione, Prato, Cassa di Risparmio di Prato, 1984, voll. 3. Edoardo Tortarolo, Illuminismo e rivoluzioni. Biografia politica di Filippo Mazzei, Milano, Franco Angeli, 1986. Renzo Gradi. Un bastimento carico di…. Roba bestie e uomini in un manoscritto inedito di Filippo Mazzei, Comune di Poggio a Caiano, 1991. Bibliografia su Filippo Mazzei avventuriero di libertà, a cura di Luigi Corsetti e Renzo Gradi, Poggio a Caiano, C.I.C “F. Mazzei”, 1993. Filippo Mazzei. Mostra di cimeli e scritti, a cura di Andrea Bolognesi, Luigi Corsetti e Luca Di Stadio, catalogo della mostra di Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, 1996. Massimo Becattini, Filippo Mazzei mercante italiano a Londra (1756-1772), Caiano, Comune di Poggio a Caiano, 1997. Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie Orientali, a cura di Silvano Gelli, Comune di Poggio a Caiano, 1991. (Manoscritto inedito di Filippo Mazzei - 1796). Filippo Mazzei, Le istruzioni per i delegati alla Convenzione. Maggio-Settembre 1776, a cura di Giovanni. Cipriani., testo bilingue (italiano e inglese) contenente anche Le istruzioni dei possidenti della Contea di Albemarle ai loro delegati alla Convenzione, Firenze, Morgana, 2001. AA.VV., Dalla Toscana all’America: il contributo di Filippo Mazzei, Giornata di studi, Poggio a Caiano, Scuderie Medicee, 22 novembre 2003, Comune di Poggio a Caiano, 2004. Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816) a cura di Silvano Gelli, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011. Luca Benesperi, Filippo Mazzei nel processo di formazione degli Stati Uniti d’America, Comune di Poggio a Caiano, 2013 2. Obiettivi del progetto intercomunale Il progetto presentato per le celebrazione del bicentenario della morte di Filippo Mazzei (18162016), muove dalla necessità di riconsiderare oggi quelle che sono le radici culturali della Toscana moderna, di cui Filippo Mazzei è stato precursore – in ambito giuridico (tutela costituzionale dei diritti di libertà), istituzionale (indipendenza degli Stati), filosofico (tradizione illuministica declinata in termini di uguaglianza naturale degli individui, libertà religiosa, libertà di stampa, tutela della dignità umana) ed economico (libera circolazione delle merci, primo esportatore negli U.S.A. di prodotti di eccellenza dell’enogastronomia Toscana) – per compiere un passo avanti, sul piano storico e storiografico, sulla codificazione del ruolo della Toscana come “ponte” tra Europa e Stati Uniti, entro le coordinate delle grandi trasformazioni politiche scaturite dalla rivoluzione francese e dalla Dichiarazione di indipendenza americana. Una rivalutazione della figura di Filippo Mazzei di indiscusso valore, non solo per l’unicità del suo operato (unico italiano ad avere contribuito attivamente al dibattito sulla stesura della Costituzione americana), ma anche per la sua valenza di “cittadino moderno”, che potrà essere approfondita anche sulla base di importanti fondi archivistici – solo in parte indagati – a livello internazionale (Library of Congress) ed europeo (Archivi polacchi, inglesi e francesi). Come comuni promotori riteniamo che la sintonia con la Regione Toscana su questo progetto sia di fondamentale importanza per la piena riuscita dello stesso e possa rappresentare un’occasione per tutta la nostra regione; è doveroso infatti tener conto che Filippo Mazzei, può essere considerato un ambasciatore ante litteram del “made in Tuscany” in Inghilterra prima e negli Stati Uniti poi; un personaggio che rappresenta dunque un “ponte” fra la Toscana ed il mondo anglosassone. 2. Obiettivi del concorso Il concorso è finalizzato alla progettazione del materiale grafico delle Celebrazioni per il 200° anniversario della morte di Filipo Mazzei 4. Scheda tecnica Le grafiche dovranno essere coordinate tra loro. La proposta progettuale dovrà comprendere: un logo delle Celebrazioni, in formato vettoriale, da utilizzare su tutti i materiali prodotti (biglietti della lotteria, targhe di riconoscimento, etc). Il logo potrà essere costituito da un parte testuale accostata ad un marchio o essere solo un logotipo. un manifesto 70x100 cm (sono accettati formati vettoriali o a risoluzione minima di 150 dpi 1:1) l’impianto grafico di un pieghevole, formato steso 21x29,7 cm, con piegatura a discrezione del progettista (sono accettati formati vettoriali o a risoluzione minima 300 dpi 1:1).