ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei

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ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei
ALLEGATO N.1 – Cenni storici sulla figura e opere di Filippo Mazzei
1. Cenni storici
Il toscano Filippo Mazzei, medico, commerciante, saggista, filosofo nato a Poggio a Caiano nel 1730
e morto a Pisa nel 1816 è stato un concittadino che ha vissuto in prima persona le vicende legate
all’indipendenza degli Stati Uniti d’America, promotore e sostenitore in Europa ed America della
cultura liberale, illuminista e repubblicana prima e delle ragioni autonomiste delle colonie
statunitensi in Europa poi (di seguito una breve biografia).
In contatto con i primi quattro presidenti americani fu legato da un vera e prolungata amicizia con
Thomas Jefferson, accanto alla proprietà del quale nel 1773 si era trasferito (in Charlottesville,
Virginia, cittadina attualmente gemellata con il Comune di Poggio a Caiano).
Filippo Mazzei può essere considerato il primo e più importante “ponte culturale” fra Toscana e Stati
Uniti nella Toscana del ’700 per il suo contributo nel dibattito sulle ragioni dell’indipendenza delle
colonie americane e sulla stesura della Costituzione americana. Oltre a questo vi sono altri aspetti
più direttamente legati al suo impegno imprenditoriale in terra americana, quali la promozione delle
eccellenze agricole toscana (a lui ad esempio, si deve l’impianto del primo vigneto nella Contea di
Albermarle in Virginia, con vitigni toscani), dell’enogastronomia (es. biscotti di Prato, fichi secchi e
vino di Carmignano) e dell’arte italiana in generale in terra statunitense (ad esempio, nel 1788 fece
realizzare per conto di Thomas Jefferson le copie dei ritratti di Colombo, Vespucci, Magellano e
Cortez destinate alle più importanti sedi governative e per conto del Soprintendente ai lavori
pubblici del governo americano individuò ed inviò negli U.S.A. due scultori fiorentini per
l’abbellimento della camera dei rappresentanti a Washington).
Il contributo determinante di Filippo Mazzei è ormai da decenni riconosciuto anche negli Stati Uniti:
a Mazzei ad esempio viene comunemente attribuita la frase della Dichiarazione d’indipendenza
«Tutti gli uomini sono per natura liberi ed indipendenti» come riconosciuto dalla Joint Resolution
175 del 103esimo Congresso e da John F. Kennedy in “A Nation of Immigrants” ed è considerato un
vero e proprio patriota (come testimoniato dall’emissione del francobollo celebrativo dei 250 anni
dalla nascita).
Come noto, Filippo Mazzei, partecipò altresì all’inizio della rivoluzione francese come
rappresentante presso la Corona di Francia del re di Polonia Stanislao Poniatowski
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DISPENSA
FILIPPO MAZZEI
(1730-1816)
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CRONOLOGIA
della vita di Filippo Mazzei
1730: Nasce al Poggio a Caiano, ultimo di quattro figli, da Domenico e Maria Elisabetta del Conte, all’alba di lunedì
25 dicembre.
1748: Dopo aver fatto i suoi primi studi a Prato, frequenta come studente interno presso l’Ospedale di
Santa Maria Nova a Firenze il corso di chirurgia tenuto da Antonio Cocchi.
1750: Si reca a Livorno con l’intenzione di imbarcarsi per le colonie spagnole d’America. Si trattiene a Livorno per
circa due anni, gradito ospite presso alcuni suoi parenti, esercitando con un discreto successo la professione di
chirurgo.
1752: Con un medico ebreo di nome Salinas, parte alla volta di Smirne dove giunge nella tarda primavera dell’anno
successivo, dopo un avventuroso viaggio via terra per: Venezia, Vienna, Costantinopoli.
1755: Nel dicembre si imbarca, come medico di bordo, su un vascello inglese che lo porterà a Londra, dove si
dedica interamente e con fortuna al commercio.
1760: Compie un breve viaggio in Italia per motivi di eredità.
1765: Ritorna in Italia dove, per noie con il tribunale della Santa Inquisizione, è costretto a trattenersi per circa due
anni.
1767: Nella primavera di quell’anno, ritorna a Londra dove conosce e stringe amicizia con diversi “cittadini degli
Stati d’America”, fra i quali: Benjamin Franklin e Thomas Adams.
1773: Parte da Livorno, ormai definitivamente liquidati i suoi interessi a Londra, alla volta della Virginia, dove si
stabilisce in una località chiamata “Colle” confinante con la tenuta di Jefferson detta “Monticello” nella contea di
Albemarle, vicino alla cittadina di Charlottesville. Sposa una vedova francese di nome: Marie Petronille Hautefeuille.
1774: Diviene cittadino della Virginia.
1776: Scrive le: Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates in convention.
1779: Come agente della Virginia parte per una delicata missione diplomatica per l’Europa, con lo scopo segreto di
raccogliere fondi ed armi per l’esercito e lo Stato della Virginia. Si imbarca con la moglie e la figliastra, ma il 20
giugno viene catturato da una nave corsara inglese e ricondotto a New York dove viene trattenuto per tre mesi
1780-‘83: Malgrado la perdita delle credenziali diplomatiche, gettate a mare prima della cattura da parte degli inglesi
(20 giugno 1779), si adopera presso i governi di Francia, Olanda e Toscana a favore delle “Colonie ribelli”
d’America.
1784: Ritornato in Virginia si stabilisce a Richmond. Malgrado la missione diplomatica affidatagli non abbia sortito
alcun esito, per l’attaccamento e la dedizione alla causa degli indipendentisti, gli viene riconfermato il titolo di
Agente della Virginia.
1785: Si reca in Francia e si stabilisce a Parigi, dove si trova anche Thomas Jefferson, come rappresentante degli
Stati Uniti d’America presso la Corte di Francia.
1788: Gli muore la moglie dalla quale viveva separato da diversi anni. Pubblica anonime le: Recherches Historiques et
politiques sur les Étas-Unis de l’Amerique septentrionale …….
1789: Stanislao Augusto Poniatowski, re di Polonia, lo nomina suo rappresentante presso la corona di Francia.
1790: Il 12 maggio viene creata a Parigi la: “Società del 1789” un club moderato fondato da Sieyès, che contava fra i
suoi membri personaggi come: l’astronomo Bailly, sindaco di Parigi; il comandante della guardia Nazionale, La
Fayette; e come segretario, per i rapporti con l’estero, il Mazzei.
1791: Visto il prevalere delle frange estreme e vedendo inascoltati, nel Club 1789, i suoi appelli a reagire
concretamente, lascia la Francia e si reca a Varsavia, ove gli viene accordata la cittadinanza polacca.
1792: Lascia Varsavia e si stabilisce a Pisa.
1796: Alla non fresca età di 67 anni impalma la serva di casa: Antonia Antoni, detta Tonina.
Prima la stampa italiana, poi i giornali francesi, e in seguito anche la stampa americana, pubblicano una lettera di
Thomas Jefferson, in data 24aprile, ed indirizzata al Mazzei, la quale conteneva aspre critiche alla politica del
governo americano, al presidente George Washington e al partito federalista, accusato di nostalgie monarchiche. La
lettera divenne famosa e fece il giro del Nuovo e del Vecchio Mondo, con il nome di: “ Mazzei’s Letter e mise in
seria difficoltà politica l’amico Jefferson. Lo scandalo non incrinò l’amicizia fra i due , né provocò guasti irreparabili
tant’è vero che Thomas Jefferson divenne presidente degli USA nel 1801.
1798: Dal matrimonio con Antonia Antoni, nasce la sua unica figlia, Elisabetta.
.
1799: Partecipa attivamente alla vita politica Pisana. Viene processato per “giacobinismo” dal governo reazionario
nato dopo il passaggio dell’esercito francese.
1802: Costretto da impellenti necessità finanziarie, alla ormai avanzata età di 72 anni, parte per Pietroburgo. Con
l’aiuto dell’amico polacco Adamo Czartorywski che opera in quella corte, riesce ad ottenere dallo Zar Alessandro I,
il pagamento della pensione dovutagli per i servigi resi, a suo tempo, al re di Polonia.
1803: Pubblica un opuscolo dal titolo: Riflessioni sulla Natura della Moneta e del Cambio.
1810: Inizia a lavorare alle “Memorie”.
1813: Termina la stesura delle memorie, che appariranno postume, nel 1845/46 a cura di Gino Capponi, con il
titolo di Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei.
1816: Muore a Pisa il 19 marzo. E’ sepolto nel cimitero suburbano di Pisa..
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Dalle Memorie della vita e delle
AQUARONE , Milano, 1970, pp. 5-15.)
peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei,
(Introduzione di ALBERTO
Alla vita di Filippo Mazzei si può veramente attribuire un valore emblematico: testimone e partecipe dei
due maggiori rivolgimenti politici del XVIII secolo, la rivoluzione americana prima, quella francese poi;
corrispondente e al servizio di due principi tipicamente rappresentativi della nuova concezione della
sovranità fiorita nell’età dei lumi, quali furono il granduca Pietro Leopoldo di Toscana e il re Stanislao Il
Augusto (Poniatowski) di Polonia; medico, commerciante, agricoltore, pubblicista, quasi che non volesse
la- scarsi sfuggire l’occasione di una conoscenza di prima mano dell’ampio arco di attività in cui si andava
temprando la borghesia in ascesa; egli sembra compendiare in sé gli aspetti pi caratterizzanti del suo
tempo, quella seconda metà del Settecento — che vide non solo le rivoluzioni politiche d’America e di
Francia, ma pure la prima rivoluzione industriale in Inghilterra — in cui affonda le sue radici la moderna
società occidentale.
Filippo Mazzei nacque a Poggio a Caiano, presso Firenze, il 25 dicembre 1730, in una famiglia della
borghesia agiata. A diciassette anni, avendo deciso di abbracciare la carriera medica, iniziò il suo tirocinio
professionale all’ospedale di Santa Maria Novella a Firenze, senza peraltro portare a termine un regolare
corso di studi. Nel 1750, messosi in urto con il fratello maggiore Jacopo per questioni ereditarie seguite
alla morte del padre Domenico, avvenuta due anni prima, ma spinto senza dubbio anche da quello spirito
di avventura che doveva accompagnarlo costantemente nel corso della sua lunga esistenza, lasciò la casa
avita diretto a Livorno, vagheggiando il proposito di cercar fortuna nelle colonie spagnole o portoghesi
d’America. Una volta giunto nel porto toscano, però, fu distolto dal suo programma originario sia
dall’affettuosa accoglienza ed ospitalità di alcuni parenti che vi risiedevano, che dai consigli del console di
Spagna, marchese Silva, vecchio amico di suo padre. Ed a Livorno si trattenne un paio d’anni,
cominciando ad esercitare, non senza qualche successo, la professione medica.[….]
Filippo Mazzei è stato definito, da Raffaele Ciampini, un « fratello spirituale », sotto certi rispetti, di
Casanova e Da Ponte. In realtà, questa fratellanza è più esteriore che altro. Con essi, come pure con altri
spiriti irrequieti del Settecento italiano, Mazzei ebbe in comune il gusto dell’avventura e il nomadismo; ma
mentre da un lato egli non poteva vantare la loro disinvoltura salottiera o il loro talento letterario,
dall’altro né Casanova né Da Ponte seppero unire alla propria sete di sempre nuove esperienze
quell’impegno politico, quell’interesse per le istituzioni sociali, che caratterizzarono la turbolenta vita del
toscano e che diedero un profondo contenuto alle sue vicissitudini. Certo, Mazzei, non fu né un politico
originale, né un pensatore eminente. Il suo ruolo non fu quello di creatore, ma di propagatore; egli
appartiene non alla storia delle idee, ma alla storia della circolazione delle idee. E se non fu un intelletto di
grande levatura, dimostrò peraltro, in più occasioni, di possedere un fiuto inconsueto nel valutare
situazioni e processi storici nella loro effettiva importanza, quando ancora sembravano ai più irrilevanti o
quasi. [….]
Ha scritto ancora Dante Visconti, che «tra gli Italiani chi più contribuì col pensiero, ed anche coll’azione,
alla creazione degli Stati Uniti, fu Filippo Mazzei ». Il che è verissimo. Ma storicamente, più importante
del contributo dato alla causa della lotta delle colonie americane per la conquista della loro indipendenza,
fu il ruolo da lui svolto come tramite tra la cultura politica americana e quella europea, come propagatore
di un nuovo clima intellettuale dal Nuovo al Vecchio Mondo.
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Nacqui la mattina del 25 dicembre 1730, verso l’alba, al Poggio a Caiano, borgo situato sopra e al pié d’un colle, sulla sommità del quale vi è una
villa fabbricata dai Medici, 10 miglia ponente di Firenze, 10 a levante di Pistoia, quasi 5 a mezzogiorno di Prato, e 3 a tramontana d’Artimino,
collina molto elevata sulla sommità della quale vi è un’altra villa fabbricata parimente dai Medici.
Il borgo conteneva circa 100 famiglie, 5 delle quali possidenti, circa 20 tra meccanici e bottegai, una del chirurgo ch faceva anche da medico, e il resto
di gente che viveva coll’opera giornaliera. Vi era inoltre il cappellano della villa Medicea, i quale vi ufiziava quasi ogni giorno per comodo degli
abitanti del borgo, essendo alquanto lontane le due parrocchie delle qual erano popolani. La cappella era nel recinto della villa, isolata, grande quanto
una chiesa mediocre.
Io sono l’ultimo della famiglia, e quando nacqui la componevano Giuseppe mio nonno paterno, che aveva 70 anni, Maddalena mia nonna 68,
Domenico mio padre 35, Elisabetta mia madre 29, Caterina sorella di mio padre 30, Jacopo mio fratel maggiore 10, Giuseppe altro fratello 6,
Vittoria mia sorella 2 Un fratello di mio padre, 2 anni più giovane di lui, era ecclesiastico, prior di Paperino, parrocchia distante circa 2 miglia e
1/2 dal Poggio a Caiano, e altrettanto da Prato.
Vi era fuor di casa Pietro, fratello del nonno, molto più giovane di lui, caduto in povertà, con moglie e molti figli, 2 soli dei quali maschi, Domenico e
Vincenzo.
Il nonno possedeva molto in contante, come pure in terreni, poiché, oltre un gran consumo che si faceva in casa dei prodotti, ne vendeva in gran
quantità, ed aveva molte case che appigionava, oltre quella che abitavamo, e un’altra più grande ancora, non conveniente per abitarvi, che serviva per
tenervi una gran quantità di materiali, tra i quali quei che bisognano per far l’acquavite, del che il nonno aveva la privativa per un vasto circondano.
Aveva inoltre 2 gran botteghe di fabbro e di carradore,’ dove mio padre faceva lavorare per suo proprio conto; e siccome faceva per suo conto anche un
gran traffico in legname (una gran parte del quale faceva venir per Arno dalla macchia di san Rossore), e manteneva intieramente i figli quando erano
agli studi fuor di casa, e di vestiario sempre, come pure sé stesso e la moglie, m’immagino che il nonno gli avesse dato una buona somma di denaro,
probabilmente all’epoca del suo matrimonio, per farla valere a suo profitto particolare. Mio padre fece anche fabbricare 6 casette, che appigionava, e
demolire quella degli stillatori, che occupava molto spazio, sul quale ne fece fabbricare una più conveniente per abitarvi, stante che quella che
abitavamo era stata fabbricata prima che si conoscessero i comodi e la regolarità; ma non vi potemmo abitare mentre visse il nonno, che voleva morire
(diceva) dov’era nato. [….]
All’età di 6 anni mio padre mi condusse a scuola in Prato, mi messe in casa d’una Bartoli, vecchia e amorosa, dove aveva
messo i miei fratelli, un dopo l’altro. Ambidue avevano gran talento, ed erano di carattere diametralmente opposto. Giuseppe
fu sempre, e dovunque universalmente amato, e Jacopo non ha mai avuto in verun luogo (per quanto seppi di lui) un vero
amico. gli aveva già fatto tanto progresso negli studi, che presto poté andare all’università di Pisa, dove all’età di 22 anni
ottenne una cattedra. Quanto a Giuseppe, il maestro Rosati, reputato eguale a qualunque altro in Toscana, parlava di lui
come del più ingegnoso e più buono scolare che avesse mai avuto. Disgraziatamente per lui, come per altri, gli avevan messo il
collare nell’infanzia, on intenzione di farlo prete, a insinuazione (per quanto intesi) ei zio priore. Niuno dei fratelli sapea,
che io aveva un piccol tesoro in mano alla zia; ma Jacopo aveva saputo dalla madre, che e avevo lasciato in serbo 106 mezzi
pavoli nuovi. Alcuni giorni rima di partire per andar a Pisa, mi sfidò al giuoco della palla, del quale non era punto adatto, e
io passavo per bravo tra i ragazzetti della mia età, per il che accettai la disfida con piacere. ‘la egli ebbe la malizia di
condurmi sul prato d’una chiesa di porta Santa Trinità, bastantemente lungo per ragazzetti della mia età, e corto per lui che
aveva 10 anni più di me.
In principio mi lasciò vincere, non mi ricordo, se 2, o 3 partite. Poi cominciò a far’uso della sua forza, e dalla battuta
andava ogni palla in guadagnata. Io, acciecato dal dispiacere di perdere, non riflettei alla causa, per cui non potevo vincere.
Mi vinse i 106 mezzi pavoli, e cosi terminò il giuoco. [….]
Partiti ambidue i fratelli, mio padre mi ricondusse a casa, per farmi continovar lo studio della lingua latina, mi mandò
scuola da un prete, che l’insegnava li nel paese. Io non ero molto avanzato; ma non ostante conobbi, ch’egli aveva più bisogno
d’andar a scuola, che abilità per insegnare. Lasciava correr degli errori, e spesso correggeva senza causa. Una mattina mi
dette una nerbata, perché aveva scritto diligere in vece d’amare. Corsi fuor della scuola che era a terreno, e raccolto nella
strada un sasso per tirarglielo nella testa, colsi nell’uscio mentre lo serrava.’ Allora andai a casa, e contando il successo a mio
padre, colla speranza che non mi ci avrebbe più mandato, si preparava a frustarmi, quando veddi lo zio priore, che di tanto
in tanto veniva a casa per veder il nonno.
Gli andai subito incontro correndo, e gli narrai il fatto. Le zio tirò a parte mio padre, per parlargli ch’io non sentissi; ma
intesi che disse: « Quello è una bestia, il ragazzo ha ragione ». Allora mio padre mi ricondusse a Prato, e mi messe in casa
del padre del maestro Cima, degno sacerdote, molto dotto, e che aveva (oltre la grand’erudizione) una maniera ottima per
insegnare. Era morto il maestro Rosati, e dopo lui non vi era in tutte le scuole del comune un maestro neppur di mediocre
abilità, onde, quantunque a quelle non si spendesse, non vi erano tanti scolari quanti ne aveva il maestro Cima.
La mia sensibilità era grande, ed aveva il diritto ed il rovescio come le medaglie. Qualche giorno prima dell’inutile sassata,
escendo dalla cappella, veddi una ragazza grande, che piangeva, e diceva ad una donna, che sua madre era ammalata, e non
aveva neppur’un quattrino per comprar da fare un poco di brodo. Avevo una crazia,’ e un soldo. Le andai dietro senza che
se ne accorgesse, e subito che fu entrata in casa, corsi, le ne messi in mano senza guardarla, e me n’andai correndo per non
esser conosciuto. [….]
Ve n’eran dopo lui 4 classi, in una delle quali un Bettazzi, cittadino pratese, che aveva un fratello minore, gobbo, colle
gambe storte, di brutta fisionomia, ed esoso, che non ne aveva punto, il che obbligava il maestro a far l’istesso che a Orlando
per la ragione opposta. Io ebbi l’onore d’esser’accoppiato col Bettazzi storto. Non mi ci potevo vedere; in meno di un mese il
maestro mi messe nell’infima delle 4 classi. Non son certo, se io debba al Bettazzi la propensione che ho poi sempre avuto per
imparare, ma credo li dovergliene una gran parte.
Aveva il mio lettino nella camera dove dormiva il padre del maestro, che mi voleva molto bene. Siccome vedevo, che la
mattina di buon’ora mi riesciva di far più e meglio in mezz’ora, che in 2 ore in ogni altra parte del giorno, lo pregai di
chiamarmi quando si levava; ma dopo qualche tempo mi svegliavo senza essere chiamato. Ho poi sempre tenuto l’istesso
metodo, e ne ho sperimentato un gran vantaggio, tanto per lo studio, che per gli affari, e per la salute.
L’emulazione facea sì che studiavo quasi continovamente, per che il maestro (temendo ch’io m’ammalassi) mi faceva sortir eco
il dopo pranzo, cioè dopo la scuola; ma subito che mi aveva asciato a veder giocare al pallone, o alla pillotta, o a qualche
altro divertimento, e che l’avevo perduto di vista, ritornavo al tavolino.
Dopo 14 mesi era salito alla prima classe, e cominciavo a servir di sprone a Orlandino, il quale (per mancanza
d’emulazione) aveva lasciato il galoppo, e andava di passo, quando un contadino di casa venne a prendermi, perché il nonno
aveva avuto un accidente apopletico. Non poté più parlare, n’ebbe degli altri, e l’ottavo giorno morì.[….]
Dopo d’aver procurato la felicità di quelle 2 buone famiglie (che sarà maggiore ancora per i loro posteri) e d’essere stato di tanto in tanto, a rivedere gli
amici a Firenze, Prato, Pistoia, Livorno, e Lucca, non mi pare d’aver fatto altro che l’Ortolano; ma se credete che ci manchi qualche cosa,
aggiungetela voi.
Io per altro son d’opinione, che in vece di aggiungere, ci troverete abbastanza da levare.
Pisa, 3 marzo 1813.
SUPPLEMENTO
La notte passata, riflettendo su quel che ho detto riguardo all’aggiungere, o levare, ho cambiato idea. Son d’opinione, che potreste aggiungere la data
della mia morte, e la copia del mio testamento.
24 settembre, 1813
FILIPPO MAZZEI.
Gli anni londinesi (1756-1760) ( da MASSIMO BECATTINI, Filippo Mazzei mercante italiano a Londra.
(1756-1772), Poggio a Caiano,1997, pp. 10-14)
[….] Mazzei abitò dunque per circa un anno in un appartamento, prima di decidersi a prendere una casa
tutta per sé; non aveva ancora deciso di fermarsi stabilmente in Inghilterra; il suo spirito irrequieto lo
spingeva a pensare ancora una volta all’ America Meridionale, dove da tempo meditava di trasferirsi, o a
un ritorno in Turchia, a Smirne.
Comunque, alla fine Mazzei prese casa e da una lettera di Pietro Paolo Celesia a Ferdinando Galiani, del
29 novembre 1759, sappiamo che a quella data Mazzei abitava in Greek Street, Soho Square. la porta
accanto a quella di Lord Bentinck.
Per mezzo di Maty e Hunter, il fiorentino acquista l’amicizia di altri famosi chirurghi di Londra, come
Middleton o William Bromfield, che lo incoraggiano a riprendere gli studi di chirurgia, abbandonati a
Firenze cinque anni prima; ma Filippo, per ragioni a noi ignote, decide di abbandonare definitivamente la
professione medica.
Non sappiamo quanto veritiero sia l’episodio raccontato dallo scrittore e librettista italiano Carlo
Francesco Badini in un velenoso libello pubblicato a Londra nel 1770’, in cui si parla di “un giovane
parrucchiere veneziano, che fidandosi nella virtù mercuriale di Filippo fece immaturo passaggio alle sponde del torbido Lete,
nè se la sua decisione sia da collegarsi con questo spiacevole evento.
Piuttosto, attraverso le sue conoscenze, Mazzei inizia ad esercitare una qualche attività commerciale,
anche se in maniera sporadica e occasionale. Egli stesso ci dà scarne notizie in merito:
“(...) Io abitavo al principio di Westminster (in Greek Street, Soho Square, n.d.r.) più di due miglia distante dal
cambio (The Royal Exchange”, n.d.r.); ma vi andavo spesso, perchè principiai quasi subito a negoziare. (...)
Appena giunto a Londra, e divenuto amico intimo di Mr Chamier (...) scrissi per suo consiglio ai miei parenti, che mi
mandassero certi generi di mercanzia per far valere il mio denaro.’’
E’ probabile che la posizione mercantile di Chamier favorisse l’avviamento di un’attività commerciale da
parte del Mazzei, che qua e là nelle sue “Memorie” inizia a far cenno a rapporti con la pittoresca colonia
italiana di Londra, impegnata soprattutto nel commercio.
In proposito, Mazzei ci dà una colorita descrizione della Londra di quegli anni:
I re, i gran signori, e i ricchi possidenti abitavano, come abitano ancora, in Westminster, dove erano e sono le camere del
parlamento, i tribunali, la tesoreria, l’ammiragliato, e tutto ciò che riguarda l’amministrazion pubblica; e i negozianti in
Londra, dov’erano, e von tuttavia la dogana e la gran fabbrica, detta il cambio, nel cui recinto è una gran piazza quadra,
lastricata, e contornata da larghi loggiati, ove si ritrovano quasi tutti i negozianti come pure i sensati, dal mezzo giorno alle 2
pomeridiane. A misura che si estendeva il dominio e la ricchezza della Gran Brettagna, e conseguentemente la popolazione
(soprattutto nella capitale) si fabbricava tra le 2 città, onde ben presto lo spazio che le separava fu coperto da fabbriche,
strade e piazze, e il tutto insieme formò quel che fu poi chiamato Londra (non solo dai forestieri) ma dagl’Inglesi ancora,
senza eccettuare quelli che vi abitano, poiché anch‘essi (essendo nei paesi esteri) parlano del loro ritorno a Londra, e non a
Westminster, quantunque vi abitano; e se sono alla campagna, parlano del ritorno alla città: ma quelli che son nel recinto di
Londra (volendo andar dall ‘altra parte) dicono “voglio andare in Westminster”, e quei che di Westminster vogliono andar
dall’altra parte, dicono “voglio andar nella città”. [….]
In quel tempo, a Londra, molti erano gli esercizi che trattavano merci “italiane”, tenuti sia da italiani che
da inglesi.
Del resto, nella seconda metà del ‘700, la moda a Londra per le cose italiane era assai diffusa. Scrive la
rivista “Italian Tracts” nel 1796: “Il gusto per la letteratura italiana, e la stima per i nativi di quel paese non accennano
a diminuire nell’Inghilterra di oggi. Lo studio di quella squisita ed elegante lingua è parte dell’educazione della gioventù di
ambo i sessi. I maestri di musica e i maestri delle arti del disegno, vengono generalmente scelti tra gli Italiani. Il Teatro
Italiano nella Metropoli rivaleggia in bellezza e magnificenza con i più superbi teatri nazionali, ed è incoraggiato dalla
presenza di tutta l‘eleganza e la moda del regno.
Anche il colto Matthew Maty è attratto dalla letteratura italiana, e Mazzei lo introduce alla lettura dei
classici, dandogli nello stesso tempo vere e proprie lezioni di italiano, anche se da una lettera del 12
febbraio 1756 risulta che Maty era già in grado di leggere l’italiano e contava di imparare a parlarlo “entro
pochi mesi”.
Sappiamo dallo stesso Mazzei che Maty gli aveva procurato “(...) bastante occupazione. Avendo conosciuto, che
aborrivo l’ozio, che la mercatura non mi occupava sufficientemente, e che non volevo a qualunque costo esercitar la chirurgia,
(Maty) mi consigliò d’insegnar la lingua toscana. L’avevo insegnata con piacere a lui, e ad un’altro amico, ma non potevo
adottarmi ad insegnarla per denaro.”
Tra i primi allievi del Mazzei, c’è anche il giovane Edward Gibbon che nel novembre del 1759 inizia a
studiare l’italiano sui testi del Machiavelli.
«Ei (Maty) conosceva i pregiudizi regnanti nel nostro paese; mi assicurò che in Inghilterra non era stimato l’uomo ozioso; che
si rispettava ogni occupazione onesta; che si onoravano quei che vi erano più emminenti, e si pagavano a proporzion del
merito. Una ghinea per 12 lezioni era il prezzo infimo, 2 il medio, 3 il maggiore. Mi assicurò, che avrei potuto aver quanti
scolari avessi voluto a 3 ghinee, e per quel mezzo far molte conoscenze. Mi lasciai persuadere, e ben presto conobbi che non
potevo
insegnare
a
tanti,
e
dovei
limitarmi
agli
amici
dei
miei
amici.»
Così, Filippo inizia a dare lezioni d’italiano alla buona società londinese, e ben presto viene accolto nei
salotti della capitale. Tra questi, di particolare prestigio era il salotto del poeta e drammaturgo scozzese
David Mallet, fecondo pubblicista politico d’idee “tory” ed editore delle opere del visconte di Bolingbroke,
grande statista inviso alla parte “whig” come principale artefice del trattato di Utrecht del 1713.
Intorno al 1758, in casa del Mallet, Mazzei conobbe Pietropaolo Celesia, diplomatico genovese,
ambasciatore della Repubblica a Londra in due riprese.
Con lui ebbe una lunga e solida amicizia, intrattenendo un vastissimo carteggio che si concluderà solo nel
1806 con la morte di Celesia.
In particolare sappiamo che a quella data (29 novembre 1759), il Mazzei era stato incaricato dal Celesia di
smerciare a Londra copie del libro Della Moneta di Ferdinando Galiani e del libro “Della perfetta
conservazione dei grani di Bartolomeo Intieri.
Nella lettera recante la stessa data, P.P.Celesia avverte Ferdinando Galiani che Mazzei non è ricco e che perciò
dovreste tenerle conto del porto delle lettere, ma lo conosco onesto, obbligante, e infaticabile .
Ma per il momento non sembra che Mazzei si interessi molto di politica; piuttosto lo dobbiamo
immaginare impegnato a coltivare una serie sempre crescente di relazioni, sullo sfondo delle attività
commerciali
della
variopinta
e
popolosa
comunità
italiana
a
Londra.
Mentre nelle Memorie sono frequenti i ricordi dell’amicizia del Mazzei con uomini di notevole peso
pubblico, appartenenti al mondo politico e culturale londinese, scarsi sono i riferimenti alla sua attività
commerciale. Sappiamo che tra i suoi allievi d’ italiano c’era Richard Neave, socio del la ditta Truman,
Douglas & Neave, la più importante per il commercio dei generi dalle Indie Occidentali. Da Neave,
Mazzei ottenne sulla fiducia un prestito di 500 sterline, necessarie ‘ far fronte ad un pagamento in
scadenza il giorno successivo. A parte ciò, Mazzei non fa riferimento ai rapporti con gli altri italiani che
commerciavano a Londra, spesso tra notevoli difficoltà ed in spietata concorrenza fra loro.
è probabile che anche il Mazzei avesse investito il suo denaro in generi ‘‘italiani”, allora assai in voga,
iniziando a stabilire una corrispondenza commerciale con la Toscana.
Punto di ritrovo della comunità italiana era a quel tempo il Teatro dell’Opera Italiana (o King’s Theatre),
in Haymarket, ove era anche il “Prince of Orange ‘s Coffee-House “, frequentato da artisti (molti dei quali
italiani), “ballerini d’opera e castrati”. Intorno al Teatro ruotava anche la comunità dei letterati e dei musicisti
italiani, impiegati a vario titolo come librettisti o autori di testi e musiche per opere. Motivi di gelosia e
d’interesse, come vedremo, dividevano in partiti e fazioni la comunità artistica italiana, non diversamente
da coloro che esercitavano il commercio.
Ma come un novello Machiavelli, Filippo Mazzei, accanto alla cura di un commercio che doveva
inevitabilmente metterlo in contatto anche con persone di pochi scrupoli, continua a frequentare I’élite
politico-culturale della città.
Tra gli altri abbiamo notizia della sua lunga amicizia con Giuseppe Baretti, il più famoso tra i letterati
italiani emigrati a Londra. [….]
Ma la decisione del Mazzei di stabilirsi a Londra non è da considerarsi definitiva fino al 1760, quando un
evento
di
grande
risonanza
pubblica
lo
fece
decidere
a
restare.
Nel 1760 un Pari del Regno, Lawrence Shirley, conte di Ferrers, fu condannato a morte e impiccato per
aver
ucciso
con
un
colpo
di
pistola
un
dipendente.
Per
Mazzei,
come per gran parte dell’opinione pubblica in Europa, questa fu la prova che il principio di uguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge era in Inghilterra applicato in maniera esemplare.
Anche se a Firenze i nobili si rifiutarono di accettare il principio che un crimine potesse rendere un “uomo”
eguale a un plebeo, la condanna di Lord Ferrers fu generalmente accolta come una prova della sovranità
della legge che faceva onore all’Inghilterra.
Si disse anche che la corda con cui fu impiccato Lord Ferrers fosse di seta invece che di comune canapa;
comunque
la
condanna
confermò
il
Mazzei
nella
sua
“anglofilia”:
“Vi ero andato (in Inghilterra, n.d.r.) colla prevenzione che vi esistesse una perfetta libertà, perchè tale era l’opinione che
se ne aveva in Firenze, al che contribuivano i molti viaggiatori inglesi”.
Rassicurato dunque nei suoi principi e nella loro corretta applicazione nella sua nuova “patria” adottiva,
Mazzei decise di stabilirsi definitivamente a Londra e di porre più solide basi al suo commercio di generi
italiani.[….]
******
TRA DIPLOMAZIA E COMMERCI ( da Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle
Indie Orientali, a cura di S. Gelli, Quaderni di Ricerche Storiche 6, Signa, 2001, pp. 11-22)
Negli ultimi venti anni molto è stato scritto attorno alla figura di Filippo Mazzei e al ruolo da questi svolto
al di là dell’Atlantico ed in Europa nel corso degli avvenimenti storici più importanti della seconda metà
del XVIII secolo.
Molto meno conosciuto, anche a causa della limitata documentazione, è invece il periodo
immediatamente precedente il trasferimento di Mazzei in Virginia - avvenuto nel 1773 - durante il quale si
consolidò la sua preparazione culturale e politica. Sul finire degli anni ‘60 Mazzei è a Londra dove - come
raccontato nelle “Memorie” - ha un commercio di vino, olio ed altri prodotti della Toscana. L’attività,
benché redditizia, non offre le soddisfazioni economiche sperate, e non essendo a suo agio nei panni del
“bottegaio”2, Mazzei preferisce frequentare i salotti alla moda e i circoli illuministi della capitale inglese,
dove si possono incontrare le menti più brillanti e le personalità di maggiore autorevolezza e prestigio.
Non si tratta però di frequentazioni mondane: la fitta rete di conoscenze che Mazzei riesce a tessere,
oltre ad offrirgli sempre nuove e occasioni per realizzare buoni affari, lo introducono nel mondo della
politica e della diplomazia dove si discutono e si progettano le applicazioni concrete degli ideali di libertà,
giustizia e democrazia che Mazzei aveva abbracciato fin dagli anni dell’Università. Le innegabili qualità
umane ed intellettuali, unite alle credenziali fornitegli da influenti amici massoni, gli aprono molte porte
ma, nel contempo, gli procurarono molte invidie cd opposizioni.
Sul finire del 1765, una denuncia anonima inoltrata al Tribunale dell’inquisizione lo indica quale
importatore e diffusore in Italia di libri blasfemi e proibiti. L’accusa è del tutto infondata6 ma gli procura
comunque un decreto di espulsione dal Granducato. Mazzei è costretto a riparare a Lucca e poi a Napoli
dove può contare sulla benevolenza e protezione del toscano Bernardo Tanucci7 ministro di quel regno.
Nei mesi successivi arrivano a Firenze all’attenzione del Granduca numerosi attestati di solidarietà e stima
in favore di Mazzei così che, nella primavera del 1766, il Nostro può rientrare in Toscana, sistemare i
propri affari e raggiungere di nuovo l’Inghilterra.
Sebbene Mazzei nelle “Memorie” enfatizzi il felice esito della vicenda e si attribuisca addirittura il merito
di avere determinato la successiva abolizione del terribile Tribunale’, più realisticamente si può ritenere
che la sua disavventura avesse suscitato vibrate reazioni perché veniva a collocarsi in una fase molto
delicata che vedeva, da una parte, l’accendersi di uno scontro acuto tra lo stato lorenese e il potere
ecclesiastico e, dall’altra, il tentativo dei riformatori toscani - riuniti attorno al giovane Pietro Leopoldo - di
svincolarsi dalla tutela politica della corte viennese.
L’imperatrice Maria Teresa, preoccupata in fatti per l’inesperienza del Granduca suo figlio, e per le
innovazioni in campo economico e istituzionale caldeggiate dai suoi consiglieri, nonché per le nascenti
tensioni tra la Corte vaticana e la Toscana, si affidava al Maresciallo Botta Adorno che aveva il compito di
controllare e sovrintendere agli atti di governo del giovane Leopoldo.
Nel braccio di ferro giocato tra Vienna e Firenze diveniva importante qualunque fatto in grado di
riaffermare l’autonomia toscana rispetto alla corte d’Austria. Ciò può spiegare perché il ministro
Rosemberg-Orsini - succeduto al Botta e figura di spicco del cosiddetto “partito riformatore”
- propose a Pietro Leopoldo la nomina di Mazzei ad Agente toscano a Londra appena un anno dopo il
grave “infortunio” nel quale questi era incappato e che lo aveva visto scontrarsi pesantemente proprio con
il maresciallo austriaco’7. La contromossa da parte di Vienna fu immediata: il conte di Seilern -
ambasciatore a Londra dell’impero austriaco - pose un veto assoluto a quella nomina, motivandolo Con il
fatto che Mazzei, in più di un’occasione, si sarebbe dimostrato poco zelante per la religione cattolica e che
la sua onorabilità non era delle più specchiate. A niente valsero le rimostranze dei Mazzei e dei suoi amici:
la vicenda, a quel punto, sembrava essersi definitivamente conclusa con la vittoria dell’ imperatrice e la
sconfitta del Granducato. [….]
Come sappiamo, Mazzei non riuscì ad ottenere incarichi ufficiali né in quell’anno, né negli anni
successivi; tuttavia egli continuò ad inviare a Firenze rapporti riservati corredati
spesso da un’ampia documentazione accuratamente tradotta.
Giova ricordare, seppure marginalmente, che alcuni studiosi, come lo Zimmermann e il Francovich,
sono stati concordi nel ritenere che le continue relazioni del Mazzei in merito ai principi inseriti nella
Costituzione della Virginia, passati poi nella Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio, hanno influito sul
progetto di Costituzione abbozzato da Pietro Leopoldo nel 1779. Il lavoro svolto al servizio della Toscana
fu, seppur tardivamente, riconosciuto: quando Mazzei decise di lasciare l’Inghilterra e di trasferirsi in
America, Pietro Leopoldo gli concesse la speciale autorizzazione ad esportare nelle terre
Iella Virginia ogni sorta di semi e piante, e a portare con sé i contadini che lo avrebbero aiutato) a
ricostruire in quella lontana regione una parte della sua Toscana.
IL TRASFERIMENTO IN AMERICA ( Da Un bastimento carico di … Roba bestie e uomini in un
manoscritto inedito di Filippo Mazzei, a cura di Renzo Gradi, Prato, 1991)
Alcuni Autori hanno erroneamente presentato Filippo Mazzei come un avventuriero; altri, molto più
correttamente, lo hanno descritto come un abile diplomatico o come un esperto uomo politico. In effetti
Mazzei, per una fortunata concatenazione di eventi, si trovò a svolgere il ruolo di osservatore partecipe
dei
principali
accadimenti
sociali
e
politici
del
suo
tempo.
Scorrendo la biografia di Mazzei vi troviamo tuttavia delle parentesi di vita «normale», dove il Nostro
svolse la meno nobile, ma non per questo meno interessante, attività di commerciante che gli permise di
venire in contatto con importanti personaggi, ad alcuni dei quali si legò con sincera amicizia mentre di altri
seppe mettere a frutto l’autorità ed il prestigio. Sebbene siano poche le pagine che Mazzei nelle Memorie
dedica alla descrizione dei suoi commerci, risulta chiaro che, già nella prima esperienza a Londra, egli
riuscì a realizzare buoni affari facendosi apprezzare per la correttezza ed una certa competenza riguardo ai
prodotti che trattava. Non ci è dato di sapere se fu per il disappunto creatogli da alcune ingiuste sentenze
di magistrati inglesi o se per quell’indomabile spirito di avventura, riacceso dal richiamo di una «nuova
frontiera» presentatagli da alcuni cittadini americani, stadi fatto che Filippo Mazzei, già nel 1771, preparò un
progetto per «introdurre seta, viti e ulivi nell’America del Nord» e nel 1773, con l’approvazione di quel progetto
da parte dell’amico virginiano Thomas Adams, liquidò i propri affari a Londra e iniziò i preparativi per
trasferirsi al di là dell’Atlantico. Mazzei partì da Livorno nel settembre del 1773 in compagnia della vedova
Martin (che, sfortunatamente per lui, diverrà in seguito sua moglie), di alcuni contadini lucchesi, di un
sarto piemontese e di una buona scorta di semi, piante, attrezzi e quant’altro gli era necessario ad avviare
l’attività di agricoltore. In Virginia, nella sua tenuta di Colle, confinante con quella di Jefferson, le nuove
coltivazioni sembrarono adattarsi in modo ottimale tanto che Mazzei reputò necessarie nuove
attrezzature, altre piante e animali per il lavoro nella fattoria (in realtà la coltivazione di viti e ulivi si
dimostrò in seguito fallimentare). Le pagine che qui pubblichiamo rappresentano, quasi sicuramente, i
primi appunti che Mazzei mette su carta per poter poi, con maggior precisione e concisione, stilare le sue
lettere ufficiali. Infatti molti oggetti di questo elenco li ritroviamo nelle lettere del 6 settembre 1774 e del 7
gennaio 1775 indirizzate a Giovanni Fabbroni (questi, sebbene giovanissimo, lo avrebbe dovuto seguire in
America, se non fosse stato chiamato al servizio del Granduca Leopoldo). In queste carte non troviamo
fatti e annotazioni di rilievo e può apparire perfino scontato che Mazzei, dovendo far crescere la propria
azienda, si affidi a piante e a vitigni ampiamente conosciuti in Toscana, così come è naturale che scelga
arnesi affidabili e ben collaudati dai contadini che dovranno lavorare le sue terre. Pur tuttavia questo
manoscritto appare interessante perché ci permette di intravedere lo spirito e le aspettative di un «pioniere»
fiorentino che, ancor prima della fine del ‘700, si insedia nel Nuovo Mondo. Attraverso questo lungo
elenco di cose vediamo che Mazzei è rimasto, nonostante il suo continuo peregrinare, profondamente
legato agli usi e ai costumi della natia Toscana.[….]
Fra le tante cose che gli abbisognavano, Mazzei non dimenticò di chiedere quei libri che
rappresentavano le sue radici culturali: egli sapeva che i classici (Virgilio, Dante, Boccaccio, Ariosto,
Tasso) così come le opere più moderne del suo tempo («Dei delitti e delle pene» del marchese Beccaria e
«L’Enciclopedia» di Diderot) sarebbero state indispensabili in un Paese che, ricco di materie prime ma con
poca storia alle spalle, stava avviandosi a costruire la propria Indipendenza (non è casuale a questo
riguardo che Mazzei proponga nel 1774, all’indomani del suo arrivo in America, una collezione di
documenti pubblici americani). È soprattutto questa intelligente sensibilità che abbiamo ritenuto
importante far conoscere ai poggesi, a testimonianza che Mazzei è stato veramente — come ricordava
Aquarone nell’introduzione delle Memorie — «un’infaticabile propagatore di idee ed un attivo protagonista del clima
intellettuale che si venne creando tra il nuovo ed il vecchio mondo sul finire del XVIII secolo».
LISTA DEI MATERIALI CHE FILIPPO MAZZEI HA TRASPORTATO
IN AMERICA
[ ….]
2 cani corsi maschio e femmina dei più grossi. [….]
Qualche dozzina di guanti bianchi di pelle da donna, di Francia; e dei più grandi.
Un barile di farina pieno di polvere di Ciprio di Francia.
Una cassa coi soliti rosolj, e le 12. boccette d’orzata e 12 di capelvenere33 e le 6. scatole di canditi
dell’istess’uomo.
Qualche sacco, e balia, di diverse grandezze, di diversa qualità di roba, onde poter eseminare (sic) se mi
convenga di farne venire per uso di qua, e per mandar tutto il carico in sacchi.
6. cappelli di pelo dei più fini, di giro stretto, senza tignere e senza montare, che potranno aversi a buon
mercato a Empoli. [….]
Un caratello, o 2. di ottima malvagia di Siracusa in quartini
Una dozzina o 2. di ottimo e vecchio vin di Cipro38.
Un poco di vino di ogni Isola dell’Arcipelago, quando vi sia opportunità di farlo venire, essendo in tutte
bonissimo e a bonissimo mercato.
Ricetta per conservar le noci tutto l’anno, e i marroni e castagne fino a Maggio, per far le castagne secche [
….]
Un poca d’acquavite spiritosissima essendo per quanto dicono a buon prezzo a motivo d’aver levato
l’Appalto.
4. paia di forbici per uso dei cavalli, 6. raspe, e 6. forconi da stalla.
Fune di ogni qualità per vedere se convenga di farne venire.
2. catene per il cammino (sic) da cucina.
Refe bianco da sarti di Brescia’molto.
Una pezza per sorta di nastro di seta forte a 4. larghezze, cioè bianco, celeste, e color di rosa;
e una nero a 2 larghezze.
Un Paniere, o corbello di cantucci di Prato, o almeno di Campi. Tela batista per manichini, colletti, e
fazzoletti da donna [….]
Vasari; Le Vite de Pittori colle note del Bottari’. (2)
Cecco da Varlungo
Un Libro scritto da un certo Sig.r Carlo Denina Professore di Eloquenza e Belle Lettere nell’Università di
Torino, intorno alla Storia Letteraria, progressi e decadenza della med.a; cause etc. dai Greci fino a noi.
Ariosto di corretta edizione. (2)
Guicciardini Istoria d’Italia, ultima edizione (2)
Davila Guerre Civili’ (2)
Boccaccio Decamerone (2)
Marchese Beccheria (sic) Dei delitti e delle pene’ (3)
D.° sul commercio (3)
Virgilio del Padre Ambrogi’ (2)
Tasso Gerusalemme liberata (2)
Redi opere (2)
Dante col commento (sic) del Venturi (3)
Cocchi Bagni di Pisa. (2) [….]
*******
(da Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, Firenze, 2012, pp.5-7)
Virginia, 6 Settembre 1774
Car.mo
Amico,
In fretta vi scrivo per via di Londra, non essendoci che pochi minuti alla partenza della nave. Gran piacere
avrei della vostra venuta qua, che sarebbe vantaggiosa a voi, e arricchirebbe prodigiosamente il giardino
botanico e il museo di S.A.R.. Non ebbi i vostri semi, bisognerebbe farne ricerca dal navicellaio a cui gli
consegnaste, ed essendo smarriti procurarne una partita eguale, giacché ò le vostre istruzioni sulla cultura
dei med.[esim]i. La mia nave sarà a Livorno in Xbre, e deve far vela a questa volta ai primi di Gennaio,
affinché le piante e i magliuoli arrivino qua in stagion propria e in buona condizione, non fuor di stagione
e senza vita com’è seguito adesso. Vi prego di dire al cav:r Fiaschi che se gli faceva imbrattar nella bovina,
conforme promesse, si sarebbero probabilmente conservati4. Ditegli dunque che gli faccia preparare in
tempo con questa diligenza, che le casse sien di legno rozzissimo ma grosso, con le maniglie di fune o
simile alle testate, e di grandezza tale che 2. uomini possano maneggiarle quando sien piene di terra, e non
come quelle già mandatemi, che a muoverle ci voleva 8 uomini colle manovelle. Inoltre le qualità dei
magliuoli devono esser separate, e fattane una lista numerata ed esatta con contrassegni che riscontrino,
onde io sappia trovare quelle qualità che di mano in mano mi bisognino. Bisogna poi che facciate un
viaggetto per me, e a mie spese. Il Sig:r Antonio Trinci figlio del famoso Agricoltore Cosimo 5 deve
provvedermi 35000 magliuoli in circa, oltre diverse piante, innesti, semi &c. Vi prego di andare a trovarlo,
e sollecitarlo, per evitare il trattenimento della Nave, che sarebbe di gran detrimento. Con Lui, che è
intendentissimo e pratico, potrete digerir molte cose, che vi abiliteranno a giovar molto alla nostra Patria
quando venghiate qua. Se gli bisogneranno 30. o 40. ruspi anticipatamente, il Sig.r Bettoia glie ne sborserà.
L’istesso farà con voi ad ogni vostra richiesta di quella somma che sarà necessaria per abilitarvi a
provvedermi quel che nomino qui sotto, cioè: 20. Vanghe; 20. Marre; 12. Marretti da orto tra piccoli e
grandi; 20. Pennati; 24. Scure grosse; 40. Falci; 4. Cramole; 4. Rastrelli di Ferro; 6. Paia di Morse da Manzi;
3. Aratri da seme e 3 (la rompere (questi nel pian di Prato si chiaman Vangheggiole; 1 sol ceppo di legno per
i 3 da rompere, e 1 per i 3 da seme; 12. Beccastrini e 12. Zapponi come usano nel Lucchese e forse nel
Pistoiese. (Usando solo nel Lucchese se ne faccia venire uno per sorta per mostra, e si facciano fare in
Paese affinché il guadagno tanto del ferro che del lavoro resti in Patria, e non vada fuor di Stato. Molte
piccole cose fanno un’assai, e questa in oltre può crescer moltissimo). Se ci sieno altri istrumenti rustici si
consulti col Trinci, e si mandi anche di quelli. 3. Vagli a mano da grano; 3. Coli da d.o [detto]; 2. Coli da
fave; un’abbondante servito di rame da cucina per me con 2 bricchi da Caffè e 2 da cioccolata, dei quali
uno da 6 e l’altro da 12 chicchere; tutto ciò che è necessario di rame per 30 famiglie di contadini; 40 paia
di scarpe grosse e forti da contadini di diverse grandezze, piuttosto grandi che piccole, impuntite e
imbullettate, e una discreta quantità di bullotte per rimettervele quando se ne perde; 40 paia di calze di
lana per d.i[detti]; 40 paia d.e per [e]state, per d.i; 40 camice e 40 lenzuola per d.i di pannolino, o di
canapa, o d’altro, purché sieno a buon mercato forti e di durata; 20 cappelli di pelo per d.i, che a
Carmignano o a Prato mi par che vagliano i lira o 14 crazie l’uno; 40 d.i di paglia ordinarj per d.i e di testa
grande da parare il sole; 20 berretti per d.i; 20 vestiti da state e 20 da Inverno per d.i, cioè carniera
camiciola e calzoni, i quali possono essere di mezza lana e mezzalanina o d’altro, purché sia roba di durata
a buon mercato e manifatture di Toscana, e le camiciole da Inverno da entrar nei calzoni; 2 vestiti e 2 paia
di calze da state e 2 da Inverno, 2 cappelli, 3 paia di scarpe e 4 camice da donna contadina di mediocre
statura; 1 vestito da state e 1 da Inverno, 1 cappello, 2 paia di calze, 2 di scarpe e 2 camicie da bambina
contadina di 4 anni, e altrettanto per una di 6; 20 dozzine di paia di calze di refe da uomo ben fatte, belle
e di durata di diversi prezzi da 20 crazie fino a 5 pavoli il paio; 10 dozzine di cappelli di Paglia da uomo da
i lira fino a 3 pavoli l’uno. Chiedo queste cose adesso perché richiedon tempo a prepararle, riserbandomi a
mandar la lista dell’altre colla mia Nave che si tratterrà a Livorno 2 o 3 settimane. Vi prego di andare da
M[monsieur]. Sauboin, presentargli i miei ossequi, e pregarlo di mandarvi, a nome suo, da chi maneggia
nella Congregazione dei Poveri per le calze, e per tutt’altro che possa aversi di lì, tanto di quelle cose che
ordino adesso, come di quelle che ordinerà; e pregatelo di mettere in vista a S.A.R., che per facilitare e far
crescere l’estrazione delle manifatture d’ogni genere (dal che solo può sperar ricchezza il Paese)
bisognerebbe che tutto fosse lasciato escire senza inciampi e senza spesa. La mia sorella, che fa la
mercantessa, forse potrà darvi dei lumi e forse anche guadagnar qualcosa su certi articoli che vorrà
provvedere a far fare ella med.[esim]a. Per il rame il miglior luogo credo che sia Prato. Per gl’istrumenti
d’agricoltura e per i vestiti al Poggio a Cajano, dove io son nato, vi è un certo Giovacchino del Poggio
Sarto e anche Fornaio e un certo Pietro Mazzei, mio antico Parente Carradore e Fabbro, che potranno
provvedere a fare molte cose con loro profitto e mia soddisfazione. Potete andare a nome mio dal Sig:r
Giuseppe Sgrilli, che vi riceverà volentieri; mostrategli la mia Lettera, ed ei vi darà diversi lumi,
specialmente se è guarito dalla sua malattia immaginaria; ditegli che gli scriverò colla mia nave. Procurate
intanto 4. o 6. paia di piccioni per fare razza dei più belli e più grossi possibili, e 3. o 4. Paia di guanti di
Lepre. Se la mia sorella volesse cedermi la sua serva, ed ella volesse venire, vi prego di fare il memoriale in
mio nome a S.A.R. per il passaporto. Ne ò molto bisogno. Salutate l’Abate Fontana e ditegli che ò
preparato qualcosa per il Museo di S.A.R., ma che senza voi mi manca tempo e intelligenza per fare quel
che vorrei.
Tutto Vostro,
Filippo Mazzei
******
In America da protagonista
(Da EDOARDO TORTAROLO, Filippo Mazzei e la nuova libertà americana, in Fra Toscana e Stati Uniti. Il discorso politico nell’età della
Costituzione americana, a cura di A. M. Martellone, E. Vezzosi, Firenze, 1989, pp. 111-128)
Per tutta la giornata del 3 luglio 1776 i delegati delle 13 colonie riuniti a Filadelfia avevano discusso la
Dichiarazione d’Indipendenza redatta dal giovane avvocato virginiano Thomas Jefferson. Com’è noto, la
versione che fu accolta per proclamare l’indipendenza americana il giorno seguente, il 4 luglio, non
coincideva con il testo presentato da Jefferson. Questi e con lui la delegazione virginiana avevano
l’impressione vivissima che il testo fosse stato indebolito, che qualcosa fosse stato sacrificato.
La sera stessa di quel decisivo 3 luglio Jefferson, nella solitudine della sua modesta camera d’affitto a
Filadelfia, ricopiò alcune volte la sua dichiarazione d’indipendenza e inviò questa sua versione, quella
originale, ad alcuni degli amici più stretti in Virginia, perché non pensassero che egli fosse l’autore della
dichiarazione ufficiale. I nomi dei destinatari sono quelli dei leaders che erano emersi nella
contrapposizione con il governatore inglese Lord Dunmore: Richard Henry Lee, George Wythe, Edmund
Pendleton, John Page. Erano gli uomini con cui Jefferson condivideva la collocazione nella società
coloniale virginiana e l’esperienza più che decennale di quello che era stato allora decifrato come un
sistematico attacco del potere ministeriale di Londra contro le libertà britanniche godute anche dalle
colonie. Era naturale che a loro si rivolgesse Jefferson come per rendere conto del suo operato a
Filadelfia e per far comunque presente che quell’insoddisfacente dichiarazione d’indipendenza non era
tutta responsabilità propria, per prevenire in qualche modo l’inquietudine che prevedeva si sarebbe
manifestata tra i suoi amici. Ma la lista dei destinatari della versione originale non si chiudeva lì:
comprendeva anche un personaggio molto diverso dagli altri amici di Jefferson, un uomo estraneo per
nascita, cultura ed educazione alla società coloniale dei piantatori di tabacco, da questi accolto neppure tre
anni prima sul loro territorio.
Quest’uomo era il toscano Filippo Mazzei, nato nel 1730 a Poggio a Caiano e giunto in Virginia nel
1773. Era nel 1776 quindi un immigrato recente. Perché allora Jefferson gli dimostrò tanta fiducia,
manifestò tanta familiarità da metterlo a parte della sua insoddisfazione per quanto gli altri delegati
avevano realizzato, proprio in un momento così drammatico come la dichiarazione d’indipendenza? Su
quali basi si poggiava lo stretto rapporto che legò a lungo due uomini così diversi come Mazzei e Jefferson
e che si palesò, in quest’occasione come in altre, con grande vivacità? E, più in generale, come fu possibile
questo incontro tra culture politiche di tradizioni certamente diverse; su quali presupposti si fondava, quali
erano i valori ultimi che rendevano possibile il dialogo politico tra le due sponde dell’Oceano Atlantico
all’epoca della rivoluzione? Sono quesiti legittimi per orientarsi non solo nelle vicende biografiche di chi,
come Mazzei, tentò questo dialogo, ma e contrario, anche per tentare di cogliere nel concreto delle
rielaborazioni di pensiero politico il punto dove la cultura politica americana assunse un profilo politico
proprio, per provare insomma a cercare la preistoria dell’analisi di Tocqueville, tanto incisiva e influente
sulla cultura europea.
Filippo Mazzei è inevitabilmente uno dei personaggi centrali in questo contesto. La sua vicenda
biografica mostra come l’interesse per il Continente americano passasse necessariamente attraverso un
interesse per il continente passasse necessariamente attraverso un interesse per la cultura britannica, come
la simpatia negli anni Settanta per gli insorgenti poggiasse su un favore spiccato per la cultura politica whig.
È questo certamente il caso di Mazzei, il quale si trasferì a Londra perché richiamato dall’idea che in
Inghilterra regnassero l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e la libertà religiosa. Da Londra si allontanò
perché sentì come minaccia per se stesso l’attacco del ministero contro Wilkes e contro i coloni del Nord
America dallo Stamp Act in poi. Mazzei si identificò nei valori di supremazia del legislativo sull’esecutivo e
dei deleganti del potere sui suoi rappresentanti: questa identificazione era realizzata però con il linguaggio
dell’illuminismo europeo. Questo era già evidente in un pamphlet di Mazzei, in cui nel 1768 Mazzei
interpretò l’assalto della folla londinese a un magistrato che non aveva voluto applicare alla lettera la legge,
come la tutela da parte dei detentori ultimi del potere della esatta applicazione della legge e non quindi
come cieca ribellione all’autorità: era la parafrasi di un passo tratto da Dei delitti e delle pene di Beccaria il
perno
su
cui
ruotava
l’apologia
della
folla londinese offerta da Mazzei e in una rousseauiana sottomissione alla legge da parte di tutti era
indicata la radice della libertà inglese.
L’ideologia whig radicale interpretata ed espressa con le categorie e il vocabolario di un lettore
appassionato di Rousseau, Helvétius, Beccaria: questo era il patrimonio di cultura politici che Mazzei
utilizzò per far comprendere in Toscana e più tardi a tutta l’Europa colta le vicende della rivoluzione
americana. Fu questo coniugare radicalismo whig e lumi europei a permettergli di entrare in fruttuoso
contatto con Jefferson, Madison e John Adams, ma anche a condizionare la sua valutazione degli
avvenimenti e degli sviluppi di pensiero costituzionale che dal 1776 al 1787 portarono dalle costituzioni
statali e dagli Articles of Confederation alla costituzione che ancora oggi governa gli Stati Uniti
d’America.[….]
Tutto il concetto di riforma che Mazzei sottendeva alla sua discussione apparteneva infatti alla cultura
dell’illuminismo europeo, come volontà di dare nuove regole che fossero in grado di conciliare il rispetto
per un canone razionalità autoevidente e la loro capacità di essere attuati nel concreto. [….]
I progetti di costituzione avanzati erano legati al principio della bicameralità, della diversificata
funzionalità degli organi rappresentativi, della loro supremazia sull’esecutivo e il ripetersi del dispotismo
monarchico, ma anche per garantire che i provvedimenti legislativi avessero tutta la loro efficacia
disciplinante e coercitiva. [….]
Il riorientamento che Mazzei proponeva era radicale: si fondava essenzialmente sui nuovi criteri di
rappresentanza. Il progetto di Mazzei era d’altronde nato con una forte valenza polemica contro il modo
in cui l’élite virginiana aveva rifiutato di avviare una profonda revisione del rapporto tra governanti e
governati. Presentava queste sue proposte come Instructions of the Freeholders of Albermarle County to their
Delegates in Convention, la cui formalizzazione come volontà di una regolare assemblea era stata impedita da
un piccolo gruppo che voleva imporre le sue «tiranniche e aristocratiche massime». [….] L’istanza di
controllo sui governanti era fortemente sottolineata, anche se certo non c’era volontà di instaurare una
forma di democrazia diretta.«Il nostro dovere è sottometterci alle leggi fatte dai nostri rappresentanti, ma
anche allora abbiamo il diritto di inviare istruzioni contro quelle e di fare tutto quanto è in nostro potere
per farle revocare se dovessero apparirci contraddittorie con l’onore e l’interesse della comunità». [….]
Mazzei traeva la conclusione che la forma democratica adottata in America non avrebbe potuto, per il
momento almeno, essere trasferita meccanicamente in Europa. Le speranze europee, vivamente condivise
da Mazzei, nella diffusione dei lumi, nelle riforme e nel superamento della struttura aristocratica,
dovevano essere affidate a un monarca illuminato. [….]
A fianco della Patria adottiva contro scettici e denigratori
(Da Ricerche sugli Stati Uniti dell’America Settentrionale, traduzione italiana delle Recherches historiques et
politiques sur les Etats-Unis de l’Amérique Septentrionale ……. Dall’ Introduzione di Ennio di Nolfo, Firenze,
1991, pp. 27-31)
[….] Le Recherches historiques et politiques sur les Etats- Unis de l’Amérique septentrionale, che Filippo Mazzei
volle dedicare ai suoi « concittadini», cioè «au peuple des Etats-Unis d’Amérique» confutavano le
interpretazioni che il Mably e il Raynal avevano dato della Rivoluzione e delle istituzioni americane e che
avevano fatto sorgere nell’italiano una crescente esasperazione contro «i pregiudizi» che esse diffondevano
sugli Stati Uniti, fornendo un quadro distorto, come di un paese tutto immaginario o tutto in preda al
disordine e all’anarchia.
L’opera del Mazzei si inseriva infatti in un dibattito che aveva radici lontane, quel dibattito che
Antonello Gerbi ha definito «la disputa sul Nuovo Mondo» e che vedeva contrapposte descrizioni mirabili
del continente americano, come terra di ogni eccezionale meraviglia, a descrizioni altrettanto fantastiche
ma che calcavano la mano sull’incivile arretratezza degli indigeni rispetto all’Europa. Nel momento in cui
la vita politica delle colonie d’America si faceva sentire come un problema prossimo agli interessi e alle
concezioni degli europei, appariva necessario superare il guado della fantasia e stabilire conoscenze meno
arbitrarie, comunque tali da rendere possibile una mutua relazione di esperienze, che si sovrapponesse allo
sfruttamento originario e unilaterale.
Fra i protagonisti di questo sforzo di conoscenza occupa un posto di grande rilievo GuillaumeThomas Raynal, autore di una Histoire philosophique et politique des Etablissements et du Commerce des Euro- péens
dans les deux Indes, apparsa clandestinamente fra il 1770 e il 1772 e ripubblicata poi in numerose altre
edizioni dopo il 1774. L’opera di Raynal, ricorda Piero Del Negro, fu «forse il più fortunato dei bestsellers
apparsi sul mercato librario internazionale degli anni Settanta e Ottanta del secolo diciottesimo». Basta
questo aspetto, per così dire tecnico-commerciale, per mostrare quale e quanta fosse la curiosità
intellettuale verso le vicende d’America e quanto diffusa la fiducia che in esse potesse scorgersi un frutto
del pensiero europeo, che esprimeva, in una terra nuova, il meglio delle proprie risorse nella conquista di
libere istituzioni. Adattata, nelle successive edizioni, dal suo autore, l’Histoire des deux Indes divenne una
lunga e composita apologia di come i coloni inglesi in America portassero sino alle loro logiche
conseguenze gli insegnamenti impliciti nella britannica nozione di libertà e di diritto a determinare
autonomamente e democraticamente il regime fiscale in cui vivere. Responsabilità inglese era di avere
violato questi diritti, provocando una giusta ribellione; tuttavia il diritto a separarsi dalla madrepatria non
era solo il risultato dello scontro poiché derivava da un bisogno di libertà che le idee, nate in Europa e
soprattutto in Inghilterra nell’età dei lumi, e trapiantate in America dai «filosofi», rendevano incoercibile.
La causa degli americani diventava in tal modo paradigma della causa di tutti i popoli. La loro libertà era
quella cui avevano diritto tutti i popoli. «Al rumore delle catene che si rompono», scriveva Raynal, «ci
sembra che le nostre stiano per diventare più leggere... Queste grandi rivoluzioni della libertà sono lezioni
per i despoti. Li avvertono di non contare sulla pazienza troppo lunga dei popoli e su una eterna
impunità». In Europa, e in Italia (come hanno mostrato gli scritti di Venturi, Del Negro, Tortarolo,
Borghero), l’opera del Raynal suscitò entusiasmo poiché apparve come un contributo alla lotta contro il
dispotismo.
L’opera dell’abate Gabriel Bonnot de Mably, pubblicata nel 1774 con il titolo Observations sur les lois et le
gouvernement des Etats Unis d’Amérique, si colloca su un versante diverso. Nella forma di quattro lettere che
analizzavano il testo delle costituzioni di alcuni degli Stati americani, il Mably cercava di dare un giudizio
complessivo sull’esperimento costituzionale americano. Al centro della sua riflessione era il modo
secondo cui il concetto di democrazia fosse stato variamente temperato, nelle costituzioni americane, da
quello di rappresentanza. Egli considerava in modo positivo la rinuncia a cedere ai princìpi di democrazia
diretta suggeriti dalle democrazie dell’antichità, poiché la rappresentanza era uno scudo contro i «capricci
della folla». Tuttavia riteneva che nelle soluzioni adottate dai vari Stati americani fossero presenti tendenze
inevitabilmente oligarchiche che lo portavano a prevedere che la confederazione tutta sarebbe stata
trascinata, dalla diseguaglianza della ricchezza, dal commercio e dai costumi verso l’aristocrazia. Sarebbe
stato un «governo dei ricchi» che tuttavia avrebbe protetto i diritti dei popoli, tutelandoli con la legge, così
da rendere tollerabile ai popoli la loro condizione. «I poveri, non essendo vessati, s’abitueranno alla loro
sorte; la subordinazione non scandalizzerà più gli spiriti e il popolo a suo agio penserà che le distinzioni di
cui i ricchi godono sono legittime. L’aristocrazia, godendo pacificamente delle sue prerogative, non avrà in
America, come in Svizzera, nessuno dei vizi che le sono naturali». Il Mably accreditava così una visione
dell’America come «non eccezionale» rispetto all’Europa e come legata a questa da una previsione di
evoluzione in senso temperato, come probabilmente alcuni esponenti del mondo politico americano (in
particolare John Adams) desideravano, in tal senso ispirando direttamente il Mably con le loro esplicite
informazioni.
Entrambe le concezioni, e per ragioni ovviamente diverse, suscitavano una reazione profonda nel Mazzei.
Di qui il bisogno di contrapporre a speculazioni o fantasie un solido lavoro, costruito sulla base
dell’esperienza personale ma anche, come nota Greene, sulla base di una vasta serie di letture e su
un’ampia conoscenza «degli scritti politici inglesi come di quelli americani, di molte tra le maggiori opere
scientifiche e storiche americane, nonché della letteratura contemporanea riguardante descrizioni degli
Stati Uniti», con una scrupolosa ricerca di equilibrio grazie alla quale l’accuratezza critica accompagnò
sempre il pregiudizio filo-americano del Mazzei e fece matura la sua riflessione anche in rapporto
all’esperienza direttamente vissuta.
I primi due volumi dell’edizione originaria delle Recherches sono dedicati alla confutazione delle tesi del
Mably; il terzo alla confutazione delle tesi del Raynal; il quarto a una serie di riflessioni generali e a un
quadro informativo analitico sui problemi americani.[….]
Così Mazzei smentisce una serie di luoghi comuni, allora correnti, sulla realtà americana; confuta la tesi
di coloro che descrivono gli Stati Uniti come in preda all’anarchia, alla discordia civile o alla bancarotta;
giustifica, o spiega, sin l’affiorare di quelle tendenze oligarchiche la cui esistenza era circoscritta dallo
spirito di eguaglianza radicato in ogni cittadino americano. Non tace nemmeno della schiavitù, che giudica
contraria agli stessi principi costituzionali, ma rispetto alla quale assume un atteggiamento moderato,
ammettendo
la
necessità
di
differire
e
risolvere
gradualmente
il
problema.
La polemica non impediva dunque al Mazzei di scorgere le contraddizioni. La democrazia americana, che
appariva a taluni il modello da importare in Europa per instaurarvi un sistema perfetto, non era a sua volta
immune da rischi. La costituzione del 1787 lo stava dimostrando e Mazzei non mancava di indicare i
pericoli interni a alcune sue clausole e alla mancanza di un Bill of rights. Si poneva dunque l’esigenza di
prendere le distanze dal modello, per giudicarne l’esportabilità verso l’Europa. L’analisi del Mazzei
concentrava tuttavia nella realtà americana tutta una serie di circostanze irripetibili che difficilmente si
sarebbero potute riprodurre altrove. Un tema, questo, tale da appassionare allora e nei secoli successivi
storici e politici di tutto il mondo. Ma ciò che importa qui denotare è in quale misura la voce del Mazzei,
per quanto poco conosciuta nei decenni seguiti alle grandi Rivoluzioni di fine Settecento, risonasse nei
dibattiti del suo tempo e resti ora come testimonianza fondamentale per chiunque voglia attingere alla
conoscenza del passato i temi posti dalla progettazione del presente e del futuro.
*****
(dalle Recherches historiques et politiques …… di Filippo Mazzei, 1788)
La rivoluzione del 1776 ha attirato sull’America l’attenzione dell’Europa e molti scrittori si sono
premurati di trattare un argomento così interessante; nel timore di arrivare dopo, ciascuno di loro si è
affrettato a pubblicare la sua opera prima che gli fosse possibile acquisire informazioni sufficienti e senza
nemmeno avere il tempo e la preoccupazione di procurarsi i dati reperibili.
Alcuni, pur annunciando la loro intenzione di scrivere la storia della rivoluzione, non ne hanno scritto che
il romanzo. [….]
Ultimamente è apparsa un’opera in tre volumi con questo pomposo titolo: Storia imparziale degli
avvenimenti militari e politici dell’ultima guerra nelle quattro parti del mondo. Si tratta di un insieme di relazioni non
attendibili e di errori di geografia. Avrei troppo da dire se dovessi menzionare tutti coloro che hanno
scritto con una analoga leggerezza. Mi limiterò dunque a parlare degli scrittori la cui celebrità può far
accreditare come verità quelli che invece sono errori.
L’abate Raynal non sembra aver mostrato a nostro riguardo quel rigore del quale si vanta. E da
presumere che abbia creduto troppo facilmente a tutto ciò che gli avrebbe fornito l’occasione per far
brillare la sua eloquenza, e il lettore accorto, mentre ammira il tono caldo ed energico con cui l’abate
Raynal ripete così frequentemente le sue invocazioni alla verità, si rammarica che egli non abbia avuto la
possibilità di conoscerla meglio.
L’abate de Mably, animato, come egli stesso dice, dallo zelo e dal desiderio di essere utile, ha avanzato
le sue osservazioni sui governo e le leggi degli Stati Uniti in un periodo della sua vita poco idoneo alla
scrupolosa ricerca di nuovi oggetti di studio. Non bisogna quindi stupirsi che le osservazioni di questo
scrittore siano in generale fondate su basi sbagliate.
Se è preferibile l’ignoranza all’errore, occorre convenire che lo stato attuale dell’opinione dell’Europa
sull’America è peggiore di quanto lo fosse prima della rivoluzione e le osservazioni dell’abate de Mably
hanno singolarmente contribuito a consacrare le innumerevoli fantasticherie che non hanno cessato di
prodursi in questo continente a svantaggio degli Stati Uniti. [….]
Al mio secondo viaggio in Francia, mi capitò fra le mani il libro dell’abate de Mably. Notai che, dopo
aver dichiarato di aver letto «con tutta l’attenzione possibile le diverse costituzioni che gli Stati Uniti
d’America si erano date», egli ne parlava in modo confuso e non fedele al loro testo.
I suoi princìpi di governo, spesso opposti ai veri princìpi repubblicani, hanno attirato su di noi la sua
critica sui punti nei quali abbiamo dato alla libertà la migliore base possibile e talvolta abbiamo ricevuto la
sua approvazione su altri punti in cui quella base non era sicura come avrebbe dovuto essere.
Poiché nella sua prima lettera ci loda in diversi punti con trasporto e ci attribuisce meriti che non abbiamo
e dappertutto professa per la nostra gloria e prosperità uno zelo che scivola nell’entusiasmo, ne è risultato
che lo si è creduto favorevolmente prevenuto nei nostri riguardi: ciò che non ha mancato di aggiungere
attendibilità alle asserzioni che tendono a dare un’idea sfavorevole dei nostri affari, sia per quanto
concerne quelli attuali che per ciò che riguarda il loro futuro.
Se il suo libro non fosse apparso, è probabile che il preteso disordine, la pretesa anarchia degli Stati
Uniti e tante altre invenzioni e esagerazioni ripetute nei giornali inglesi, non avrebbero ottenuto alcun
credito, in quanto provenienti da un paese dove si poteva dire e scrivere tutto il male immaginabile contro
gli Stati Uniti. Ma come dubitarne quando uno scrittore che ha l’aria di avere a cuore la nostra sorte’, ci
dipinge come un paese in cui la classe politica è nella posizione peggiore? E per questo che gli errori
dell’abate de Mably hanno avuto conseguenze maggiori di quelli dell’abate Raynal e richiedono una
confutazione più formale e più estesa.
Passerò sotto silenzio quello che hanno detto scrittori meno noti e in particolare quelli la cui penna è
guidata dalla politica o dalla vendetta. Il mio obiettivo principale è di dare l’idea più precisa e più chiara
della situazione politica nei tredici Stati Uniti, e soprattutto dei loro governi, ricorrendo ai fatti storici che
mi sembrano necessari a gettare luce sui soggetto che tratterò. [….]
Si spera che le riflessioni sui governi degli Stati Uniti inserite in questa opera non dispiacciano a
nessuno. Ogni uomo deve interessarsi dell’esistenza di un buon governo, in qualsiasi parte del globo esso
sia situato, e contribuire al suo insediamento per quanto è nelle sue possibilità.
Il lettore non deve stupirsi della lunghezza delle due confutazioni, considerando che non ci si è voluti
accontentare di provare la scarsa attendibilità che meritano i due autori contro i quali esse sono dirette, ma
che invece si è approfittato dell’occasione per iniziare il dibattito, per dare chiarimenti, ed entrare nei
dettagli destinati a rendere contemporaneamente il soggetto più interessante e le confutazioni meno aride.
D’altronde queste discussioni possono servire a confutare le disattenzioni di altri scrittori.[….]
Chiunque esamini con occhio attento e imparziale la natura e lo spirito dei nostri governi comprenderà
senza difficoltà che anche quello più imperfetto è meno lontano dai princìpi di libertà di qualsivoglia
repubblica passata o presente, sebbene il migliore non arrivi ancora al punto di essere pienamente
soddisfacente agli occhi del filosofo e del legislatore. Del resto, non c’è motivo per noi di
autocompiacimento nell’aver fatto meno male degli altri dato che, malgrado i problemi della guerra, ci
siamo trovati in una situazione più propizia di quelle con cui le altre nazioni (almeno seguendo le
indicazioni offerte dalla storia) dovettero fare i conti quando si presentò loro il problema di istituire i
propri governi.
I fondamenti alla base della libertà delle nostre repubbliche sono più o meno quelli che andremo ad
analizzare. La sovranità risiede nell’insieme degli abitanti che ne affidano l’esercizio ad agenti il cui
numero non è né tanto elevato da impedire una discussione approfondita delle materie prese in esame, né
tanto esiguo da consentire ad alcuni di loro di esercitare un’eccessiva influenza. In tutti gli Stati il numero
di coloro ai quali è affidato il potere legislativo si inserisce in tale proporzione che, sebbene non sia
risultata dappertutto uguale come potrebbe e dovrebbe essere, ha consentito di avere una garanzia contro
i rischi di una pericolosa preponderanza. Il loro incarico dura per un periodo breve; la loro retribuzione
non eccede l’importo necessario per coprire le indennità delle spese affrontate. Il loro potere consiste nel
fare le leggi, dalle quali non sono esenti come qualsiasi altro cittadino, e a nominare le persone che
dovranno ricoprire incarichi particolarmente importanti. Nessuno di loro può accettare una di queste
cariche mantenendo lo status di membro dell’organismo legislativo. Il loro potere non può mai costituire
un pericolo per la libertà: garanzie contro questo pericolo sono sia la brevità della durata del loro incarico,
sia il diritto del popolo di sospenderli dalle loro funzioni, eleggendo altri e autorizzandoli a rivedere,
riformare o ristabilire la costituzione, nel caso che questa fosse stata oggetto di attentati.
Questo potere non può comunque permettersi di dare prova di inefficienza. Ogni membro del potere
legislativo vota secondo la propria coscienza, senza aver bisogno del consenso dei suoi elettori, sebbene
tutti i rappresentanti siano tenuti a seguire le indicazioni dell’elettorato, quando esse fossero date
precedentemente, e su alcuni casi particolari, cosa che avviene comunque molto di rado. [….]
Tutti gli incarichi che possono influire sul governo sono di breve durata. Le retribuzioni non sono così
elevate da indurre in tentazione l’avarizia; in fatto di potere, c’è giustamente tutto quel che occorre per
mantenere l’ordine. La libertà di stampa non conosce altri limiti che l’esclusione dei libelli.
L’esercizio di qualsiasi religione è perfettamente libero e non è sottoposto a alcuna odiosa e puerile
distinzione. Nessuno è obbligato a contribuire al mantenimento dei ministri di una religione che egli non
professa; nessuno Stato ha una religione dominante; nessuno può essere privato del diritto di voto a causa
delle sue opinioni religiose. Tuttavia in alcuni Stati è necessario essere cristiani e in altri protestanti per
essere membri degli organi legislativi e per occupare altre precise cariche; in alcuni, per esempio in
Virginia, i contributi alle chiese, anche per il sostentamento della religione che si professa, sono volontari
e la sola cosa che bisogna fare per poter ricoprire qualche carica pubblica è giurare fedeltà alla
repubblica.[….]
L’autore ha paragonato il nostro popolo al volgo delle altre nazioni e sicuramente ha avuto torto.
Quand’anche avesse voluto parlare solo di quella parte della popolazione che le circostanze obbligano a
vivere in uno stato inferiore all’altra, egli avrebbe avuto ugualmente torto, perché non si può dire per
questo che essa costituisca una classe distinta; ed è sempre vero che questa parte del nostro popolo non
assomiglia in alcun modo al popolo delle altre nazioni antiche e moderne
Non pretendo che il popolo americano sia diverso da qualunque altro a causa del clima o del suolo.
Sono invece persuaso che ogni altro popolo farebbe lo stesso nelle stesse circostanze. La differenza sta nel
morale, non nel fisico. Non è mai esistita repubblica in cui l’insieme della popolazione abbia influito
altrettanto profondamente sul governo e alla quale le strade siano state così aperte a tutti gli onori e
vantaggi della patria come negli Stati Uniti. Prima della rivoluzione, la distanza tra i cittadini era anche
molto inferiore di quanto non sia stata e di quanto non sia oggi negli altri paesi.
Perciò è così naturale che accadano disordini popolari nelle altre repubbliche e che non ne accadano
affatto nelle nostre. Non ci si deve stupire di più, per il fatto che il popolo americano, molto meno ricco e
che vive del lavoro delle sue mani, sia passabilmente istruito. Un popolo abbrutito non prova alcuna
disposizione a informarsi di cose che non lo riguardano ed è naturalmente portato, quando si presenta
l’occasione, a esternare il proprio risentimento per tutti i torti che gli sono stati fatti. Ma là dove il popolo
gode
di
tutti
i
diritti,
quale
motivo
di
scontento
potrebbe
mai
avere?
In questo caso allora cerca di prendere conoscenza degli affari pubblici, perché vi vede il suo interesse.
I progressi del popolo americano, dall’inizio della rivoluzione fino al momento attuale, nel modo di
ragionare su questa sorta di affari sono veramente stupefacenti.
La mancanza di vane onorificenze, quali titoli nobiliari, croci, cordoni ecc., e le scarse differenze nei
beni di fortuna tendono ancora a diffondere fortemente le scienze utili. Ovunque si trovino una grande
diseguaglianza di ricchezze e una classe sociale superiore alle altre, deve necessariamente esistere un gran
numero di miserabili e la scienza risiederà quasi esclusivamente a livelli medi. La ragione ne risente: gli uni
non hanno la possibilità di acquisirla, agli altri manca l’emulazione, e così deve essere, perché l’oro, un
titolo, un’onorificenza, procurano a chi li possiede molta più considerazione di quanto non facciano la
scienza e persino la virtù. Da ciò deriva che, anche se un gran signore senza virtù né scienza sia un essere
estremamente spregevole, si deve, quando riunisce l’una e l’altra, stimano molto di più di coloro che ne
hanno un bisogno assoluto per farsi strada nel mondo.[….]
*****
Ritorno in Europa. Inviato del re Augusto II Poniatowski di Polonia a Parigi
(Da Lettere di Filippo Mazzei alla corte di Polonia (1788-1792), a cura di Raffaele Ciampini, vol. I (luglio 1788—marzo 1790),
Bologna , 1937, pp. XIX-XXVII.
[….] Intanto a Parigi era arrivato Scipione Piattoli, al seguito della principessa marescialla Lubomirska,
sorella del principe Czartoryski, e cugina di Stanislao Augusto Poniatowski, re di Polonia; essa aveva con
sé il proprio nipote Enrico, figlio di un suo cognato, ragazzo di circa tredici anni, al quale faceva appunto
da istitutore l’abate Piattoli.1 Non sappiamo se il Mazzei avesse conosciuto il Piattoli anche prima, o se lo
abbia visto allora per la prima volta : non risulta da quanto egli dice di lui nelle sue Memorie. « Fiorentino,
di gran talento, — così ce lo descrive — eruditissimo e versato in tutte le scienze, troppo buono ed
eccessivamente modesto ». Comunque, furono presto amici: e fu proprio per mezzo del Piattoli che il
Mazzei ottenne di diventare agente a Parigi del Re di Polonia. Infatti, nei primi mesi dell’ ‘88 arrivò nella
capitale da Losanna, sua patria, uno svizzero, Maurizio Glayre, che era stato per ventidue anni segretario
del re di Polonia; il Glayre cercava per Stanislao Augusto un agente presso la corte di Francia, poiché il re
non era contento di quello che aveva, il quale non sappiamo chi fosse. L’abate Piattoli era amico da molto
tempo del Glayre e gli presentò il Mazzei ; questi non avrà mancato di far valere presso lo svizzero i
servigi diplomatici resi allo Stato di Virginia. Il Glayre voleva un uomo intelligente e infaticabile, al quale
nulla sfuggisse, e non si risparmiasse per tenere al corrente il proprio sovrano. Il Mazzei gli parve la
persona adatta, ed ecco come il Toscano poté diventare agente politico a Parigi del re di Polonia [….]
Il Mazzei restò a Parigi fino al dicembre del 1791; le ragioni per cui volle allora lasciare la capitale non
risultano chiare né dalle lettere al Re né dalle Memorie. In queste, sembra che attribuisca la sua risoluzione a
quello che succedeva in Francia, alla piega che prendevano gli avvenimenti, al non poter egli approvare la
politica della Legislativa, che gli sembrava tendere verso i partiti estremi per la viltà di quasi tutti i suoi
membri. Dice che avendo saputo di una riunione che a lui parve illegale, per lo scopo che si proponeva, ai
Giacobini, corse da La Fayette e gli diede il consiglio di scioglierla con la forza facendo arrestare i capi:
((andai dal Marchese, lo ragguagliai di tutto, e conclusi che avrebbe dovuto andare con tre o quattro
compagnie di guardie nazionali a quel Club.... fare sprangar la porta, e poi disfarsi dei capi che gli nominai,
mancati
i
quali
non
vi
sarebbe
stato
chi
avesse potuto riunire gli anelli della catena.... ». E gli fece i nomi, fra gli altri, dei Lameth, di Barnave, di
Barras, Robespierre, Danton, Desmoulins e Marat. Il Marchese rifiutò; e allora il Mazzei corse dal maire
Bailly (uomo d’ infinito mérito, ma troppo buono e anche timido », e non ne ottenne nulla. Corse infine a
cercare il duca della Rochefoucauld, il quale gli rispose, in sostanza» di occuparsi dei fatti suoi. « Mc
n’andai mortificato all’estremo, e non pensai più che a partire di Francia il più presto possibile ».
Io penso che le cose devono essere andate un po’ diversamente.
Mazzei aveva avuto una discussione violenta con i Condorcet, per motivi non chiari (nelle lettere e
nelle Memorie adduce a pretesto alcuni scritti antimonarchici del Marchese) e aveva rotto la lunga amicizia.
A Parigi e nell’ambiente che aveva frequentato finora, non doveva più tirare buon vento per lui. Aveva
avuto discussioni violente e rotture con personaggi polacchi importanti che risiedevano a Parigi; Stanislao
Augusto gli aveva scritto che avrebbe desiderato conoscerlo. Aspirava a cariche e guadagni maggiori di
quelli che poteva avere come incaricato d’affari del Re di Polonia (e questo risulta da molti passi delle
lettere) ; aveva l’esempio del Piattoli, che a Varsavia sembrava dirigere la politica interna del Regno.
Scontentezza e ambizione gli resero impossibile la permanenza a Parigi; e a metà di dicembre del ‘91 si
mise in viaggio per la Polonia.
La partenza da Parigi segnò la fine della sua carriera politica: gli affari polacchi andavano di male in
peggio, la fine della Polonia era imminente, il Re sempre irresoluto, la confusione all’ interno deplorevole;
la Prussia stava per tradire, la pressione straniera si faceva più gravosa e più minacciosa ogni giorno. Il
Mazzei dice di aver tentato fin dal suo arrivo di aprire gli occhi a Stanislao e ai ministri, ma inutilmente; di
avere avuto discussioni assai vive con l’abate Piattoli e col maresciallo Potocki, parti- tanti della Prussia; di
aver consigliato al Re l’abdicazione. Non avendo ottenuto nulla, partì da Varsavia il 6 o 7 di luglio, diretto
in Toscana, avendo in tasca la nomina alla vana carica di ciambellano e consigliere intimo del Re.[….]
Favorevole ai tempi nuovi (non era egli un democratico che aveva temuto, anche per la rivoluzione
americana, la tirannia e il dispotismo ?), diffida del clero, dei nobili, dcl ParhLn1eItO. A quella che egli
chiama la « hidra aristocratica » attribuisce tutti i torbidi e le resistenze; secondo lui, sono i nobili e il clero
che soffiano nel fuoco della discordia, perché hanno tutto da guadagnare dal disordine. La sua fiducia in
Luigi XVI è incrollabile: sogna un re costituzionale, bonario e democratico, solo interprete della volontà
nazionale, l’unico che possa ricondurre la pace e l’armonia. Per questo tanta parte della sua ammirazione
va al marchese de La Fayette. Gli errori della Monarchia devono tutti essere attribuiti a Maria Antonietta,
che è il cattivo genio della Francia. La fuga di Varennes dipende da inganni e da raggiri che hanno
condotto il povero Monarca « ad un passo che può esser funesto a tutta la sua famiglia ». E per questo,
quando con la Legislativa la lotta politica si mette in Francia su strade del tutto diverse da quelle che egli
aveva sognate, e perfino Condorcet pensa e scrive cose contrarie al Monarca, il Mazzei si sente un pesce
fuor d’acqua, e non capisce più quello che succede. Parte, e fa bene a partire: l’ardente clima
rivoluzionario non è più fatto per lui
Ma in compenso, quanta vita vissuta, quanta osservazione diretta, quanti particolari precisi Il Mazzei
può chiamarsi il fedele cronista della vita che si svolgeva in certi salotti francesi dal 1788 al 1791 : raccoglie
tutti i «si dice », tutti i pettegolezzi, tutte le voci, buone o cattive, che circolano là dentro. Osserva quelli
che ci càpitano, ne ascolta i colloqui, le confidenze e i motti di spirito, traccia un quadro animato dell’alta
società francese alla vigilia del crollo fatale. E siccome Stanislao Augusto conosceva assai bene quei
personaggi, e desiderava essere informato di tutto, così riferisce tutto al Sovrano. Ne nasce un
documento, nel suo genere, di importanza più che notevole. Anche sui rapporti della Francia con la
Polonia e con le altre potenze europee, e della Polonia con la Francia, il carteggio di Filippo Mazzei
contiene particolari pieni di interesse, e, se non erro, poco noti finora. Si ha talora un quadro assai vasto e
complesso della politica internazionale di quegli anni, nella quale l’Inghilterra occupa un posto di primo
piano, e si può dire che diriga tutte le file, con una condotta abile e ambigua, con ondeggiamenti continui,
senza mai impegnarsi a fondo, senza tradire il proprio pensiero. Tutto questo mi pare si rispecchi bene nei
rapidi accenni che ne fa il Mazzei. [….]
*****
Testimone della presa della Bastiglia.
(Da Filippo Mazzei Scelta di scritti e lettere. 1788-1791, vol. II, a cura di Margherita Marchione, Prato 1984,
pp. 169-171.
Lettera di Mazzei al Re di Polonia, N.° 108
Parigi, 17 luglio 1789
[….] Mi bisognerebbe ora la penna di Tacito o di Sallustio per descrivere gli avvenimenti grandi e stupendi di pochi giorni.
Ma né l’uno né l’altro potrebbe racchiudere la vasta materia in un piccol volume e difficilmente gli riescirebbe di far credere ai
posteri che sia seguito in pochi giorni quel che gli spettatori medesimi appena si persuadono poter succedere in altrettanti anni.
La gente aveva cominciato ad andare a’ teatri domenica 7 dopo pranzo quando seppesi pubblicamente in Parigi l’esilio di
Necker e l’allontanamento de’ conti di Montmorin e di St. Priest, i soli che si erano costantemente opposti all’indegno progetto
di far venire le truppe annunziate nella prima lettera di mano straniera spedita col n.° 105. La prima cosa che fece il popolo fu
di correre a’ teatri e d’impedire gli spettacoli. Non vi bisognò violenza poiché tutti, uditori, attori e soldati, tutti abbandonarono
volentieri i luoghi di divertimento. La costernazione, lo sdegno, il mormorio, il sussurro erano universali. Ognun correva chi
per
una
parte,
chi
per
l’altra,
senza
oggetto
visibile.
I busti del duca d’Orleans’ e di m.r Necker furono portati processionalmente per la città. L’apparenza era lugubre; si fremeva, si
urlava, si minacciava. Le truppe intanto si avvicinavano da varie parti alla città. Il principe di Lambesc alla testa de suo
reggimento di cavalleria tedesca venne con apparenza ostile sulla piazza di Luigi XV, penetrò furiosamente fino dentro il
giardino delle Tulleries per il ponte a levatoio, come se avesse dovuto attaccare il nemico, e fece fare intorno al primo bacino
delle evoluzioni che gl’intendenti non comprendono. In mezzo a una folla di gente che nel dopopranzo de’ giorni festivi
cuopre quasi affatto il giardino, la piazza e i campi elisi era impossibile che non seguisse del male. Uomini, donne e ragazzi
furono arrovesciati da’ cavalli.
Alcuni soldati fecero fuoco sopra due guardie francesi’5 disarmate, una delle quali mori sul colpo. Dicesi che il principe di
Lambesc medesimo tagliò un braccio a un uomo di circa 70 anni. Fu tirato qualche sasso alle truppe; ma è difficile di sapere chi
sia stato l’aggressore, se i soldati o il popolo. Certo è che l’apparenza sola delle truppe, e particolarmente di truppe forestiere,
bastava per irritare; e tale par che sia stata l’intenzione della cabala aristocratica. All’imbrunir della sera una compagnia del detto
reggimento tedesco fu messa in fuga dal boulevard vicino alla Chaussée d’Antin da una scarica di 30040 guardie francesi uscite
in furia dal loro quartiere, subito che intesero l’assassinio di due de’ loro compagni. Quattro tedeschi furono morti, altri feriti; il
reggimento si allontanò e in tutta la notte niuna altra truppa entrò in Parigi, dove pochi, dove pochi andarono a letto e
pochissimi dormirono.
Il popolo corse alle botteghe degli archibusieri e ne prese tutte l’armi, senza doglianza de’ proprietarii, poiché l’armarsi
come ognun poteva parve a tutti un dover sacro, e a poco altro si pensava. Qualunque istrumento offensivo serviva d’arme. Le
strade eran piene di popolo, col quale si unirono in varie parti i soldati del (3uet’6 e circa 1000 guardie francesi; ma niuno
comandava, e tutto era in disordine. Sapevasi che il numero de’ ladri e vagabondi era cresciuto prodigiosamente in questi ultimi
tempi, e tutte le notizie concorrevano a confermar l’opinione, ragionevolmente concepita, che non mancavano persone
vendute alla cabala aristocratica, la cui scellerata politica era di non risparmiare gli eccessi onde ridurre la parte più sana della
nazione a sottomettersi al giogo per evitare gli orribili effetti dell’anarchia.
Lunedì mattina, subito spedito il mio dispaccio, men’andai fuori per esaminar da me stesso quel che passava. Triste cosa era
il vedere tutto serrato, case, palazzi, e botteghe, e gli uomini (un buon numero de’ quali di brutto aspetto) correre armati per le
strade con fucili di varie specie, spade e sciabole rugginose, innumerevoli altri ferri atti a diversi usi, aste, bastoni, alabarde ecc.
Non si vedevano ragazzi né donne e non si capiva quali fossero più da temere, se i furfanti di dentro o i nemici di fuori.
Ora si passa ad un’altra scena, su di che non posso dire presentemente se non i resultati, e con massima brevità.
I cittadini come risvegliati da un sogno funesto, si adunarono in tutti i 60 distretti; stabilirono una milizia di 200 uomini per
distretto la quale, prima della notte (compresovi il Guet, molte guardie francesi e qualche guardia svizzera) formava circa 17 mila
uomini armati che facevano la ronda con ordine ammirabile per tutta la città.
Disarmarono chiunque non rendeva buon conto di sé parecchj ladri furono impiccati o gettati nella Senna. Mai aveva
regnato in Parigi maggior sicurezza che in quella notte; maraviglioso e incredibile contrasto colla notte precedente! La mattina
dopo le milizie furono aumentate fino a 48 mila; Cu preso l’hôtel degl’Invalidi’, ove si acquistarono molte armi e cannoni: il
dopo pranzo fu presa la Bastiglia: la testa del governatore (m.r de Launay) e del sottogovernatore di quell’orrida fortezza
furono portate in processione su due aste per tutta la città con soddisfazione universale poiché avevan fatto perire
proditoriamente molti cittadini; e il Prévôst des marchands (m.r de Flesselles), che tradiva la città mentre n’esercitava le funzioni di
primo magistrato, fu strascinato dal suo seggio e fatto in pezzi sulla piazza di Grêve. L’istessa sera, prima della mezzanotte, la
cabala aristocratica era spaventata e sbigottita a segno che non ebbe neppure il coraggio di cambiar di sistema; e il povero,
ingannato monarca non seppe che imperfettamente una parte di quanto era seguito. Finalmente ad un’ora e mezza dopo
mezzanotte il duca di Liancourt , valendosi del diritto di entrare in camera del re a tutte le ore come Grand-maître de la guarderobe, andò a trovano al suo letto e lo indusse (non senza difficoltà) a lasciarsi informare della verità pura dei fatti
La terza scena è da vedersi ne’ fogli stampati. Quel che ò detto basta probabilmente per far meglio comprendere gl’inclusi
tre interessantissimi numeri del Point du jour. Vi mancano le seguenti notizie, cioè che lunedì sera il marchese de la Fayette fu
eletto vice-presidente dell’Assemblea Nazionale che mercoledì (dopo che la deputazione dell’Assemblea ebbe recitato nel
palazzo pretorio il discorso del re e dichiarato la pace a nome del medesimo) la città fece il detto marchese colonnel-generale di
tutte le milizie di Parigi e m.r Bailly (l’istesso che è stato presidente dell’Assemblea nazionale) fu creato Maire carica nuova che
indica l’abolizione di quella occupata finora dal Prévôst des marchands.
La massima differenza che si osserva nelle parlate del Re fatte dentro lo spazio di 36 ore dimostra bastantemente l’abuso
fatto da pessima gente alla credulità di quel monarca.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Filippo Mazzei Recherches historiques et politiques sur les États-Unis de l’Amérique septentrionale…, A Colle
et se truve a Paris, chez Froullé, libraire, quai des Augustins au coin de la rue Pavée, 1788, voll. 4. Traduzione
italiana edizioni Ponte alle Grazie, 1991.
Filippo Mazzei, Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei...., a cura di Gino
Capponi, Lugano, Tip. della Svizzera Italiana, 1845/46, voll. 2
Benedetto Croce, Aneddoti di storia civile e letteraria, III: appunti da libri rari del Settecento, «La Critica»,
Bari, settembre 1927.
Lettere di Filippo Mazzei alla corte di Polonia (1788-1792),a cura di Raffaele Ciampini, Bologna, Nicola
Zanichelli Editore, 1937 vol. I. (Unico volume pubblicato).
Antonello Gerbi, La disputa del nuovo mondo. Storia di una polemica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955.
Sara Tognetti Burigana, Tra riformismo illuminato e dispotico Napoleonico. Esperienze del “cittadino
americano” Filippo Mazzei, con appendice di documenti e testi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1965
Guelfo Guelfi Camajanni, Un illustre toscano del Settecento. Filippo Mazzei. Medico, Agricoltore, Scrittore,
Giornalista, Diplomtico, Firenze, Associazione Internazionale Toscani nel Mondo, 1976.
Filippo Mazzei, Scelta di scritti e lettere, a cura di Margherita Marchione, Prato, Cassa di Risparmio di Prato,
1984, voll. 3.
Edoardo Tortarolo, Illuminismo e rivoluzioni. Biografia politica di Filippo Mazzei, Milano, Franco Angeli,
1986.
Renzo Gradi. Un bastimento carico di…. Roba bestie e uomini in un manoscritto inedito di Filippo Mazzei,
Comune di Poggio a Caiano, 1991.
Bibliografia su Filippo Mazzei avventuriero di libertà, a cura di Luigi Corsetti e Renzo Gradi, Poggio a Caiano,
C.I.C “F. Mazzei”, 1993.
Filippo Mazzei. Mostra di cimeli e scritti, a cura di Andrea Bolognesi, Luigi Corsetti e Luca Di Stadio,
catalogo della mostra di Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, 1996.
Massimo Becattini, Filippo Mazzei mercante italiano a Londra (1756-1772), Caiano, Comune di Poggio a
Caiano, 1997.
Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie Orientali, a cura di Silvano Gelli,
Comune di Poggio a Caiano, 1991. (Manoscritto inedito di Filippo Mazzei - 1796).
Filippo Mazzei, Le istruzioni per i delegati alla Convenzione. Maggio-Settembre 1776, a cura di Giovanni.
Cipriani., testo bilingue (italiano e inglese) contenente anche Le istruzioni dei possidenti della Contea di
Albemarle ai loro delegati alla Convenzione, Firenze, Morgana, 2001.
AA.VV., Dalla Toscana all’America: il contributo di Filippo Mazzei, Giornata di studi, Poggio a Caiano,
Scuderie Medicee, 22 novembre 2003, Comune di Poggio a Caiano, 2004.
Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816) a cura di Silvano Gelli, Firenze, Società Editrice
Fiorentina, 2011.
Luca Benesperi, Filippo Mazzei nel processo di formazione degli Stati Uniti d’America, Comune di Poggio a
Caiano, 2013
2. Obiettivi del progetto intercomunale
Il progetto presentato per le celebrazione del bicentenario della morte di Filippo Mazzei (18162016), muove dalla necessità di riconsiderare oggi quelle che sono le radici culturali della Toscana
moderna, di cui Filippo Mazzei è stato precursore – in ambito giuridico (tutela costituzionale dei
diritti di libertà), istituzionale (indipendenza degli Stati), filosofico (tradizione illuministica declinata
in termini di uguaglianza naturale degli individui, libertà religiosa, libertà di stampa, tutela della
dignità umana) ed economico (libera circolazione delle merci, primo esportatore negli U.S.A. di
prodotti di eccellenza dell’enogastronomia Toscana) – per compiere un passo avanti, sul piano
storico e storiografico, sulla codificazione del ruolo della Toscana come “ponte” tra Europa e Stati
Uniti, entro le coordinate delle grandi trasformazioni politiche scaturite dalla rivoluzione francese e
dalla Dichiarazione di indipendenza americana.
Una rivalutazione della figura di Filippo Mazzei di indiscusso valore, non solo per l’unicità del suo
operato (unico italiano ad avere contribuito attivamente al dibattito sulla stesura della Costituzione
americana), ma anche per la sua valenza di “cittadino moderno”, che potrà essere approfondita
anche sulla base di importanti fondi archivistici – solo in parte indagati – a livello internazionale
(Library of Congress) ed europeo (Archivi polacchi, inglesi e francesi).
Come comuni promotori riteniamo che la sintonia con la Regione Toscana su questo progetto sia di
fondamentale importanza per la piena riuscita dello stesso e possa rappresentare un’occasione per
tutta la nostra regione; è doveroso infatti tener conto che Filippo Mazzei, può essere considerato un
ambasciatore ante litteram del “made in Tuscany” in Inghilterra prima e negli Stati Uniti poi; un
personaggio che rappresenta dunque un “ponte” fra la Toscana ed il mondo anglosassone.
2. Obiettivi del concorso
Il concorso è finalizzato alla progettazione del materiale grafico delle Celebrazioni per il 200°
anniversario della morte di Filipo Mazzei
4. Scheda tecnica
Le grafiche dovranno essere coordinate tra loro.
La proposta progettuale dovrà comprendere:
un logo delle Celebrazioni, in formato vettoriale, da utilizzare su tutti i materiali prodotti
(biglietti della lotteria, targhe di riconoscimento, etc).
Il logo potrà essere costituito da un parte testuale accostata ad un marchio o essere solo un
logotipo.
un manifesto 70x100 cm (sono accettati formati vettoriali o a risoluzione minima di 150 dpi
1:1)
l’impianto grafico di un pieghevole, formato steso 21x29,7 cm, con piegatura a discrezione del
progettista (sono accettati formati vettoriali o a risoluzione minima 300 dpi 1:1).